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Siria: la diplomazia Obama-Putin e gli affari tra Assad e l’ISIS

FILE - In this Sunday, July 26, 2015, file photo, provided by the Syrian official news agency SANA, Syrian President Bashar Assad delivers a speech in Damascus, Syria. Assad's presidency looks likely to outlast Barack Obama's. As the United States has turned its attention to defeating the Islamic State group, it has softened its stance about the urgent need to push out the Syrian leader. (SANA via AP, File)

Di quanto sia complicata la guerra siriana e come sia difficile connettere i fili, le alleanze, le collaborazioni tra gruppi e Paesi apparentemente in guerra tra loro sono pieni i media di tutto il pianeta.

Oggi sappiamo che – al netto della controversia furibonda tra Russia e Turchia – i Paesi occidentali e gli Stati Uniti stanno lavorando con Mosca per individuare una via di uscita allo stallo politico-diplomatico attorno al Paese devastato dalla guerra. L’ipotesi di fondo è quella per la quale per combattere lo Stato islamico ci sarebbe bisogno anche dell’esercito regolare siriano – che è poi la versione russo-siriana. Per questo e per riportare uno straccio di pace in Siria, servirebbe un accordo tra la guerriglia che combatte Assad e il regime stesso che metta anche d’accordo tutti i vari sponsor regionali dei gruppi coinvolti nella guerra (Iran, Arabia Saudita, Turchia sono i più difficili da mettere assieme).

Obama e Putin si sono visti a Parigi e l’incontro, dicono, è stato positivo. Che poi le versioni di cosa si sono detti i due presidenti divergano non è una novità. Il presidente Usa ha detto che la Russia «Comincia ad avere chiaro che il suo intervento non sta ottenendo i risultati sperati» e che contribuirà con più lena al lavoro della coalizione occidentale. Diplomatici russi hanno detto che l’incontro è andato bene e che la direzione nella quale occorre muoversi è chiara. Loro colleghi americani giurano che Washington insiste sulla necessità che Assad lasci. Obama ha anche chiesto a Russia e Turchia di mettere da parte le loro animosità per cooperare nella lotta contro l’ISIS.

E’ in questo contesto confuso che il governo tedesco oggi annuncia il suo piano di intervento in Siria – aerei da ricognizione, una nave, 1200 uomini con regole di ingaggio che non prevedono il combattimento – e la Camera dei Comuni, domani, vota sulla partecipazione britannica ai raid a sostegno della richiesta francese.

Per capire quanto il tentativo di far funzionare le cose sia complicato, occorre guardare anche a quanto succede sul terreno: chi e come combatte l’IS e quanti sono gli intrecci economici e militari? 

Il Financial Times sta pubblicando una serie di inchieste dal titolo Inside Isis Inc. nelle quali si raccontano le modalità di finanziamento dello Stati islamico (un lavoro che abbiamo tentato anche noi sul numero 45). Nelle sue inchieste il quotidiano ricostruisce il traffico di petrolio e quello di armi e munizioni. In entrambi i casi, quel che salta agli occhi, è la connessione, qui e la, con il regime di Assad: «E’ un po’ come i negoziati tra clan mafiosi nella Chicago degli anni ’20: ci si combatte per alzare la posta e influenzare gli accordi che si prendono, ma il fatto di combattersi non li fa saltare» ha detto una delle persone coinvolte nei traffici al quotidiano londinese.

I combattenti di Isis si basano sul triplo conflitto nel quale sono coinvolti ed è in questo intreccio che si inseriscono i trafficanti di armi. «Potevamo comprare dal regime, dagli iracheni, dai ribelli – e se potessimo acquistare dagli israeliani, non sarebbe un problema l’importante è avere armi da vendere» ha detto Abu Omar, uno dei commercianti che hanno parlato con il Financial Times. Quanto al petrolio, lo scorso giugno il ministro degli Esteri francese Fabius, disse mesi fa durante una conferenza stampa a New Delhi, di avere le prove che «ISIS venda petrolio al regime di Damasco».
Una delle conferme di queste transazioni è l’inclusione in un lista di persone con le quali è vietato fare affari del Dipartimento del Tesoro di George Haswani, uomo d’affari cristiano ortodosso siriano padrone della HESCO, Engineering and Construction Company con doppia cittadinanza – ha anche un passaporto russo. La sua società lavora anche per la Stroytransgaz, già sussidiaria di Gazprom, che dal 2006 è una controllata di Rosneftegaz, la compagnia pubblica di estrazione. Haswani è sposato con una alawita che sarebbe uno dei collegamenti con il regime di Damasco.

Il suo nome circolò nel 2014 quando si fece mediatore con al Nusra, ottenendo la liberazione di 13 suore rapite. Haswani è accusato di essere il tramite negli scambi tra petrolio e soldi in contanti tra ISIS e Damasco. Con Daesh, Haswani gestirebbe congiuntamente una raffineria a Taqba, dove nel 2014 si è svolta una battaglia furibonda tra ISIS e forze armate siriane attorno a una base aerea. La sua inclusione nella lista del Dipartimento del Tesoro – dopo che già l’Europa lo aveva incluso in una lista simile – è una delle ennesime prove di come la partita siriana sia complicata.

Sono decine le fonti di intelligence citate dai media occidentali e dell’opposizione siriana – e che quindi, certo, vanno presi con le molle, essendo parte in causa – che segnalano come il legame economico tra IS e Assad sia stretto e come la strategia siriana sia stata quella di mostrare un volto pubblico anti Daesh mentre di fatto ne incoraggia la crescita in maniera da presentarsi come unica alternativa sicura e al contempo ridiventare interlocutore dell’Occidente. A questa partita partecipa in maniera indiretta anche la Russia, accusata dagli Usa e non solo di usare la propria forza aerea per sostenere le truppe di Damasco contro i ribelli – e di non dirigere gli attacchi contro l’IS.

 

Tra i personaggi del 2015 c’è anche Gianni Morandi, che dispensa buonsenso nel web dei tifosi

È oggettivamente il personaggio web dell’anno. Non è un rapper che stimola istinti tali da far rivalutare il vaccino antirabbica per gli esseri umani; non è un trasgressivo gruppo internazionale di hacker ambientalisti-pacifisti-animalisti-anticonsumisti (fuorché di cannabis); non è la pagina facebook del vuoto cosmico che alberga in una qualche soubrette e nei suoi movimenti pubico-sentimentali; non è un comico al quale affidiamo lo sfogo delle nostre frustrazioni; e non è un movimento che ha creato un trend virale, né una moda, né un marchio che fa status. Anche perché il suo stile, dall’impronta volutamente e inevitabilmente personale, è inimitabile.

Classe 1944, vive dov’è nato: a Monghidoro, in un bellissimo paesino incastonato nell’Appennino, bolognese che conta poco più di 3mila anime.

Il primo palco cavalcato è, nemmeno a dirlo, quello delle feste dell’Unità, e anche i primi soldi guadagnati (mille lire) sono di quella pasta lì: genuina.

Questo figlio di papà ciabattino da cui impara l’umiltà, Karl Marx e a misurare la dignità politica al metro, oggi ha una pagina facebook che conta 2.164.080 di ammiratori. Si chiama Gianni Morandi, e i suoi “follower” non sono fan, non sono seguaci, non sono leoni da tastiera bisognosi di scaricare la loro violenza nel web. Tutt’altro. Sono persone che hanno trovato e apprezzano la gentilezza, vero segreto del suo boom in rete.

Non strategie da social media manager, non studio delle parole chiave e degli argomenti “trending topics”. L’unica tendenza che questo signore segue, è quella dell’amabilità. Della costante e pervicace ricerca della semplicità in ogni cosa o persona che incontra. E che quasi pedina: clamoroso – ma sempre accolto con simpatia – fu l’autoscatto fatto in una stazione del treno locale assieme a un ragazzo a malapena liceale, che probabilmente, come si intuì dai commenti sottostanti, stava facendo il fughino a scuola. E Gianni lo fa beccare.
Ma troppo è l’amore per rifiutare una foto con questo personaggio che resta sempre persona, in ogni risposta che da. E risponde a tutti. Tranne a chi scrive (che gli ha scritto su qualsiasi supporto comunicativo) e in generale ai giornalisti ai quali non concede interviste. Perché quello che ha da dire, lo dice di cuore e di suo pugno sulla sua bacheca. Affronta temi politici in tono umano, non si schiera ma è ben posizionato su valori “antichi”, come il rispetto. Ed è a colpi di questa innovativa arma “mediatica” che ogni suo post si conquista decine di migliaia di like.

Il contenuto?

Una tazzina di caffè servito con una risata dalla signora Deborah

29 dicembre. Sono in viaggio. Sosta per un caffè servito dalla simpatica Deborah! Foto di Anna

Posted by Gianni Morandi on Martedì 29 dicembre 2015

un semplice “Benvenuti al sud” davanti alla più spartana e casalinga delle tavole, ci fa respirare ospitalità:

18 dicembre. Benvenuto al sud…

Posted by Gianni Morandi on Venerdì 18 dicembre 2015

48mila like, migliaia di condivisioni. E la domanda sorge spontanea: perché qualcuno dovrebbe condividere la foto di qualcun altro con uno sconosciuto? È il mistero del contagio salubre di Gianni Morandi.

Un bacio per augurare Buon Natale assieme alla first lady, Anna, sua compagna da 20 anni e moglie da 10? Novantamila like.

25 dicembre.Auguri a tutti!Foto di Pietro.

Posted by Gianni Morandi on Venerdì 25 dicembre 2015

Nemmeno un recente polverone mediatico sollevato da una sedicente giornalista, che lo accusava di non essere l’autore dei propri post, ne ha scalfito successo né tantomeno affetto. «Ogni tanto mi aiuta Anna», ha tranquillamente risposto. Lezioni di educazione, questa sconosciuta.

 

Lui, che nemmeno 18enne, debutta nel mondo discografico “a cento all’ora”, con l’omonima canzone, oggi continua con quel ritmo a dispensare risposte affabili, abbracci e serenità da un palco, quello della rete, che solitamente va in direzione opposta, ovvero dell’accanimento rabbioso e indistinto verso chiunque e genericamente privo di contenuti nonché forma grammaticale.
Il suo primo 45 giri uscirà nel 1962 inciso con l’orchestra di un giovane musicista, tale Ennio Morricone. Ma è da Fatti mandare dalla mamma che inizia il successo. Cantagiro, Canzonissima, Sanremo. Oggi, Gianni ha sulle spalle 50 milioni di copie vendute in tutto il mondo.
Su ben altra scena, quella del web, il popolo della rete che lo adora, ha perfino creato una pagina per proporlo come Presidente della Repubblica.

Su Facebook debutta invece il 16 aprile del 2009, e per un po’ seguirà toni un po’ incerti, quasi da ufficio stampa. I suoi comunicati saranno di tipo esclusivamente musicale e riguardanti sue partecipazioni a eventi – come la memorabile conduzione del Festival di Sanremo del 2012 – o pubblicazioni musicali. Ed è proprio in quest’anno che inizia a farsi vedere per quello che è, con i primi post sulle sue famose e salutari corse:

8 novembre…. e domani 10-11 km di corsa…

Posted by Gianni Morandi on Giovedì 8 novembre 2012

o nella versione aggiornata con video in cui dispensa benevoli consigli:

Sabato, 21 dicembre. Anche oggi un po’ di movimento… buon fine settimana!

Posted by Gianni Morandi on Sabato 21 dicembre 2013

Allo stadio o davanti a un falò. Nessun ritocco, nessun photoshop, nessuna intenzione di colpire per simulare imitazione o distanza dalla persona normale. A volte sudato, altre malaticcio, altre spettinato: non si cura dell’espressione, nella maggior parte dei casi comunque impostata su una risata dalla dirompente allegria.

Con il garbo e la semplicità che lo hanno sempre caratterizzato – nel tono e nel modo di pronunciare sempre, anche quando malinconico, la fine dei versi con un sorriso, nella melodia e anche nelle esibizioni – non manca di avvicinarsi anche a temi sociali. Sebbene la sua non sia mai stata una canzone di “protesta”, cosa che pagherà durante gli anni impegnati delle lotte operaie e studentesche che videro in colleghi più schierati di lui i loro baluardi, nel 1967 incide C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones, di Mauro Lusini, o Al bar si muore, che gli varrà vere e proprie contestazioni violente nella Torino del 1970. “Stampo” che riprende identico per i suoi commenti online.

Ieri come oggi, davanti alla violenza, Gianni non si scompone. L’abbiamo visto alcuni mesi fa, in occasione della pioggia di insulti che gli ha riservato il vigliacco “popolo del web” in risposta al suo intervento in favore dell’ennesima strage di migranti nei nostri mari, per nostra responsabilità. Il 21 aprile, giorno della Liberazione del capoluogo emiliano, Morandi si permette di picchiettare delicatamente sulla spalla della memoria, domandando «vi ricordate come eravamo?». Sollecitata, l’ignoranza si scatena in tutta la sua violenza. Ma il cantante bolognese, con una pazienza oggi rara quanto più preziosa, risponde volta per volta, offrendo garbo contro rozzezza, stupore e perseveranza a ignoranza e razzismo, buonsenso ed equilibrio al delirio dei leoni da tastiera.

Per quanto ci riguarda, cogliamo l’occasione di invitarlo in redazione, perché non nascondiamo l’invidia provata per i colleghi dell’amato Resto del Carlino di Bologna quando lo hanno avuto “direttore per un giorno”.

Lo aspettiamo! E come direbbe lui «un abbraccio, caro Gianni».

La superiorità del presepe occidentale

Ierisuperiori occidentali hanno voluto lasciare un segno tangibile della propria intelligenza mettendo in mostra tutta la civiltà di cui sono capaci e che manca a quei cattivoni islamici (che prima si chiamavano Isis e poi di colpo sono Daesh). Hanno pensato, i superiori occidentali di stirpe italiana, di affrontare l’integralismo sotto l’ala di Allah con una costumata manifestazione che ha messo insieme tutte le menti migliori del Paese.

Non riesco a non pensare, con ammirata affezione, alla riunione preparatoria in cui si è convenuto giustamente di celebrare il rito pagano davanti ad una scuola: non c’è niente di meglio della lungimiranza di chi, al contrario dell’Islam, decide di star bene lontano dai giovani per evitare pericolose derive di emulazione. Avranno sicuramente scelto il cortile di una scuola per essere certi che fossero tutti dentro. Nessun punto d’osservazione migliore, si saranno detti:«se dobbiamo stare lontani da qualcuno basta tenere d’occhio la porta da cui potrebbe uscire», avranno pensato.

Ed è estremamente elegante difendere una religione con i suoi iperbolici simboli pagani, come i modellini del dio bambino e della nascita e della grotta. «Siamo superiori? Bene: stacchiamoci dalle cose terrene e buttiamoci tutti nel muschio!»: devono essersi detti così, più o meno. E poiché è giusto avere un approccio laico lontano dai fondamentalismi la genialiata è stata quella di piazzarci un’ex Ministro all’Istruzione ad intonare il “Tu scendi dalle stelle” impugnato come un peana d’attacco. «Vedi te che imbarazzante lezione di superiorità» avranno bisbigliato tutto il giorno quelli del Daesh.

Quando poi alla sera si è scoperto che la causa dell’esibizione cristiana era probabilmente falsa (un preside che non ha mai pensato di cancellare nessun Natale) i saggi occidentali (con venature padane) hanno risposto che non è mica la causa che conta, no, mica la causa ma piuttosto l’effetto. Sta scritto nel Vangelo secondo Bush. E il califfato tutto schiacciato a prendere appunti fitti fitti. Gran cosa, l’Occidente.

Dopo l’accordo con l’Ue, la Turchia blocca 1300 rifugiati ed è pronta a rispedirli alla guerra

epa05047884 Children's toys hang on the wired fence at the borderline between Greece and The Former Yugoslav Republic of Macedonia, near Idomeni village, northern Greece, 29 November 2015. The Macedonian Army had on 16 November begun clearing terrain as it prepared the ground for a possible fence along the Greek border that would slow the flow of refugees crossing its terrain. The Macedonian army's engineering units started putting up the fence expected to be finished within 24 hours and to be over four kilometers long. Macedonian official state that the border will stay open and all the refugees that are from the regions overrun with military conflicts will be let through. Macedonia, Serbia and Croatia had started restricting access to migrants on the Balkan route to Syrians, Iraqis and Afghans. It is a part of a joint effort to reduce the number of asylum seekers streaming into the European Union. EPA/SOTIRIS BARBAROUSIS

Sono passate poche ore dal “nuovo inizio” delle relazioni tra Europa e Turchia e i risultati si palesano immediatamente. Lo scambio vi diamo tre miliardi, riapriamo i colloqui sulla vostra membership europea e voi vi occupate dei rifugiati e migranti in fuga era un pessimo scambio e chi pensa che i diritti umani siano un tema importante lo ha scoperto subito.

Ieri la Turchia ha fermato 1300 tra migranti e rifugiati nascosti tra i boschi dietro le spiagge dell’Egeo, dalle quali sarebbero partiti verso le isole greche.
I gendarmi turchi hanno arrestato centinaia di siriani, iracheni, iraniani e afghani e tre probabili trafficanti di esseri umani, nei pressi di Ayvacik nella provincia di Canakkale.

Si tratta della più grande operazione di questo tipo negli ultimi mesi: i migranti sono stati inviati a un centro di rimpatrio dove alcuni potrebbero essere rispediti a casa. Che ce ne sia una in piedi dal posto da dove vengono, che siano oppositori di Assad o in fuga dall’Isis in Iraq o Siria, che siano gente che scappa dai talebani, non conta molto. Non lo sapremo probabilmente: i 3 miliardi di euro che l’Europa ha promesso alla Turchia servono a non sapere cosa succede loro e a rallentare il flusso. E’ così anche se fosse vero, come ha detto l’Alto rappresentante per la politica estera europea Federica Mogherini, che quei soldi «non sono per la Turchia ma per i rifugiati», che nel Paese sono circa due milioni e vivono in condizioni pessime.

Dopo l’accordo sarà più difficile, pericoloso e caro per le persone in fuga dalla guerra passare i confini per entrare in Europa e trovare rifugio.

A questo punto Erdogan potrà usare i siriani e gli altri come merce di scambio. E’ già avvenuto nei giorni scorsi, quando Erdogan ha costretto un’Europa molle e in difficoltà politica a invitare Ankara a un vertice, riammetterla a negoziati che erano sepolti, dimenticare le violazioni dei diritti umani e offrire soldi. Tutto in cambio di una mano nel gestire i flussi, che tradotto vuol dire quello che la Turchia ha fatto nel primo giorno: fermarli, metterli in un centro e magari espellerli. Con il Trattato sulla libera circolazione di Schengen a rischio e le forze populiste di destra che soffiano sul fuoco ovunque, la scelta dei governi è quella di barricarsi e cedere alle richieste turche – è Ankara che ha chiesto vertice, soldi e riavvio dei colloqui.

Amesty International, che nei giorni scorsi aveva denunciato il rimpatrio verso la Siria di decine di persone, ha definito il fatto «illegale e inconcepibile».

Ankara era in difficoltà su tuti i fronti: Putin la accusa di aer abbattuto il jet russo per coprire i propri traffici di petrolio con l’Isis, nei giorni scorsi ha fatto arrestare un giornalista che aveva denunciato traffici di armi verso gli jihadisti in Siria, mentre a Dyarbakyr 100mila persone partecipavano al funerale di Tahir Elçi, avvocato dei diritti umani e tra i fondatori della sezione locale di Amnesty – per non parlare della guerra sotto traccia in Kurdistan. E’ a questa Turchia che l’Europa decide di tendere una mano. Ritraendola di fronte alla richiesta di aiuto dei rifugiati.

 [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

Senatore Pd spaventa i ciclisti. Targa e bollo?

Marco Filippi #labicinonsitocca

Il disegno di legge 1638 modifica il Codice della strada. Approvato l’anno scorso dalla Camera dei deputati è ora all’esame della commissione Lavori pubblici del Senato.
Qui il senatore del Marco Filippi ha innescato una polemica con il suo emendamento, il 2.13.
Chiedendone il ritiro, ciclisti e attivisti si sono mobilitati online, con un hashtag di successo #labicinonsitocca.

Secondo i ciclisti l’emendamento di Filippi porterebbe con se una targa e una tassa sulle biciclette, una sorta di bollo. Filippi si smarca e cerca di precisare che il suo testo è rivolto ai mezzi commerciali. Il testo, complice il tipico lessico da legislatore, presta però il fianco a più interpretazioni. Testuale si propone «la definizione, nella classificazione dei veicoli, senza oneri a carico dello Stato e attraverso un’idonea tariffa per i proprietari (…) delle biciclette e dei veicoli a pedali adibiti al trasporto, pubblico e privato, di merci e di persone, individuando criteri e modalità d’identificazione delle biciclette stesse nel sistema informativo del Dipartimento per i trasporti, la navigazione, gli affari generali ed il personale»

E chi pedala vede così il rischio di un disincentivo all’uso della bici, già reso “eroico” dalla scarsa attenzione delle amministrazioni locali, dalle poche ciclabili, dalla poca manutenzione stradale.

Le associazioni dei ciclisti chiedono il ritiro. Più probabile che lo stesso relatore riscriva l’emendamento. Nello stesso Pd – ad esempio il deputato Paolo Gandolfi, relatore della riforma alla Camera – sperano in un chiarimento: «Anche se si poteva lasciar fare ai comuni, che avrebbero potuto rilasciare singole autorizzazioni, se l’obiettivo erano i risciò e le cargo bike».

Perché quello, invece, pare esser l’obiettivo di Filippi. Che su twitter mentre ha assicurato che l’obbligo non toccherebbe a chi usa la bici per andare a lavoro, ha confermato che anche chi usa le bici per piccole consegne, dovrebbe esser registrato.

A Parigi parte la Cop 21 sul clima. Ban Ki-moon: «Serve un accordo robusto»

COP21 Climate Change Conference - Arrivals
epa05048255 French President Francois Hollande (C)greets Mahamat Kamoun (R), Prime Minister of the Central African Republic, as he arrives for the COP21, United Nations Climate Change Conference, in Le Bourget, outside Paris, 30 November 2015. Others are not identified. The 21st Conference of the Parties (COP21) is held in Paris from 30 November to 11 December, despite the terrorist attacks of 13 November. US President Barack Obama, German Chancellor Angela Merkel as well as leaders from India, South Africa and China are among the leaders planning to come. The aim is to reach an international agreement to limit greenhouse gas emissions and curtail climate change. EPA/CHRISTOPHE ENA / POOL MAXPPP OUT

Ieri le manifestazioni di piazza in tutto il mondo, con 20mila persone “in marcia per il clima” soltanto a Roma. Oggi tocca agli oltre 130 capo di Stato e di governo presenti, mentre domani è la palla passa ai 1.300 delegati della Cop21. Se non fosse già troppo usata come espressione (la stessa enfasi, ad esempio, si pose sul vertice sul clima di Copenhagen del 2009), si potrebbe dire che quella di Parigi è l’ultima chiamata per trovare una risposta efficacia all’allarme legato al surriscaldamento del Pianeta.
Il ministro degli Affari esteri francese Laurent Fabius, che presiede la Conferenza delle parti sul clima appena partita sotto l’egida dell’Onu, ha spiegato che per «raggiungere un compromesso ambizioso» farà di tutto perché le trattative siano condotte con un «processo trasparente e aperto a tutti».
Dopo il raccoglimento per le vittime degli attentati del 13 novembre e dopo gli scontri di ieri tra forze dell’ordine e un gruppo di manifestati, i capi di Stato e di governo hanno inaugurato oggi la sessione dei colloqui, che si concluderanno con la definizione di un accordo pronto per la firma l’11 dicembre. Ciascuno aveva a disposizione tre minuti per sintetizzare la posizione del proprio Paese. Barack Obama ha utilizzato il suo tempo per evidenziare la matrice umana del surriscaldamento del Pianeta e sottolineare che che quello che si conclude tra un mese è «l’anno più caldo mai registrato». Questo, ha detto il presidente degli Stati Uniti, richiama ciascuno alla propria «responsabilità di fare qualcosa al riguardo».
Non è parso altrettanto entusiasta il presidente cinese Xi Jinping, per il quale la lotta al global warming non deve compromettere la capacità di crescita dei Paesi e a farla non devono essere soltanto quelli in via di sviluppo. Il richiamo è chiaro: gli Stati più ricchi che finora hanno prodotto la gran parte delle emissioni di gas serra sono quelli che devono fare di più. Non un traguardo ma un nuovo punto di partenza ha detto il leader cinese a proposito della conferenza appena inaugurata nella capitale francese. suscitando l’ironia di Naomi Klein, la quale in un tweet ha commentato: «Solo alle Nazioni Unite ci vogliono 21 anni per arrivare al “punto di partenza”»

Vladimir Putin, invece, rivendica gli sforzi della Russia: 40 miliardi di CO2 equivalente in meno emesse in atmosfera tra il 1991 1 il 2012, nello stesso arco di tempo in cui il Paese raddoppiava il suo Pil.
Appelli a concludere le trattative con un esito positivo sono giunti dagli altri leader, da François Holland a David Cameron, mentre il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon ha rivolto un’esortazione a tutti i governanti presenti: «Il futuro del nostro popolo e del nostro pianeta è nelle vostre mani. Abbiamo bisogno di un accordo universale, robusto e significativo».

Il calendario del vertice

1-4 dicembre: i rappresentanti delle 196 “parti negoziali” avvieranno le consultazioni per il futuro accordo nell’ambito del Gruppo ad hoc sul cosiddetto Adp, Il gruppo di lavoro ad hoc sulla Piattaforma di Durban per un’azione rafforzata stato istituito durante Cop17, nel 2011, e responsabile, di produrre un nuovo protocollo, un altro strumento legale o un risultato concordato con valore legale entro 2015 con entrata in vigore nel 2020.

Parallelamente, gli organi ausiliari di attuazione (Sbi) e quelli di consulenza scientifica e tecnologica (Sbsta) continueranno il loro lavoro sugli aspetti più tecnici

5 dicembre: chiusura dei lavori della Adp, che presenta un nuovo testo, risultante dai negoziati di questa prima settimana, alla Presidenza francese.

6-11 dicembre: i ministri dell’Ambiente o degli Esteri (o i negoziatori) delle 196 parti si incontrano per definire il nuovo testo. La presidenza francese propone i termini per la continuazione dei lavori, previa consultazione con loro e tenendo conto dei risultati della prima settimana.

7 e 8 dicembre: i ministri esprimeranno le loro valutazioni, mentre in parallelo le 196 parti continueranno il loro lavoro sul progetto di accordo.

9 dicembre: conclusione dei negoziati, al fine di procedere a verifiche legali e linguistiche del testo dell’accordo nelle sei lingue dell’Onu (arabo, cinese, inglese, francese, russo e spagnolo).

10 dicembre: adozione delle decisioni.

11 dicembre: adozione dell’accordo di Parigi. La firma di questo accordo non è prevista per lo stesso giorno, ma per l’inizio del 2016, nel corso di una cerimonia organizzata dal segretario generale delle Nazioni Unite.

 

Il profilo delle nuvole. Nell’obiettivo di Luigi Ghirri

“Condividere e mettere a disposizione”. Con questa idea e intento Roberto  Lombardi  ha deciso di affidare alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia un nucleo di opere di Luigi Ghirri di sua proprietà. Sono opere perlopiù appartenenti a Il profilo delle nuvole, forografie realizzate fa 1985 e il 1990, in tutto una trentina, scattate nella pianura padana, in Emilia, in Veneto e in Lombardia. Il materiale sarà inventariato, catalogato e farà da spunto a una serie di attività di ricerca che saranno curate da Chiara Bertola, accompagnate da una nuova collana editoriale.

Nell’89 e nel ’96 ci sono già state già due importanti mostre di Luigi Ghirri alla Fondazione Querini Stampalia, ma ora si può  per la prima volta vedere qui una serie di opere del forografo emiliano appartenenti a una collezione privata e,  grazie al neonato Fondo Ghirri, finalmente è disposizione del pubblico e degli studiosi.

“Il patrimonio artistico è qualcosa di vivente, non è solo un’eredità da tutelare – dice la curatrice Chiara Bertola -. Per questo abbiamo pensato in occasione di questa prima iniziativa di far dialogare opere di  Luigi Ghirri con  quella realizzata da Yona Friedman  e da Jean-Baptiste Decavèle”. Ovvero il Vigne museum, un libero museo del paesaggio.

“Gli scatti di questo maestro della fotografia – continua Bertola – offrono sguardi imprevisti sul paesaggio ,  ne colgono l’aura attraverso l’obiettivo e in qualche modo hanno assonanze con quello speciale modo di costruire di Friedman facendo archtettura con l’aria, con la gente, con molto poco”.  La mostra, aperta dal 20 novembre al 21 febbraio 2016 è, come accennavamo, il primo atto di un programma di ricerca legato al Fondo Ghirri.  In queste foto in particolare  sviluppò il progetto con Gianni Celati, che accompagnò con un testo lo sguardo di narratore dell’amico fotografo.
E da un incontro ideale tra Ghirri e il duo Friedman/Decavèle nasce questa iniziativa veneziana “cresciuta su un terreno comune a molte ricerche artistiche del secondo dopoguerra – approfondisce la curatrice – , l’esigenza di scardinare una percezione strutturata di opere e luoghi attraverso la cornice, la teca, il piedistallo e l’architettura e sovvertire la distinzione tra l’oggetto e il suo contenitore, l’edificio e l’ambiente”.  L’aspetto romantico delle foto di Ghirri, la sua attenzione per l’architettura, la sua capacità di cogliere e cristallizzare degli scorci che ormai non ci sono più, il suo modo di costruire un sistema di scatole cinesi, di strutturare la visione attraverso una serie di quinte sono il baricentro della mostra  ma anche il filo rosso che unisce Il profilo delle nuvole al visionario progetto museale di Friedman e Decavèle.
Davanti agli occhi scorrono immagini come inquadrature che cercano un punto di equilibro e un modo per far incontrare visione ad occhi aperti e memorie più profonde. Come ben racconta Germano Celant  nel volume Fotografia maledetta e non (Feltrinelli, 2015), Ghirri  non ha alcun interesse a riprodurre la realtà così com’è, cerca un momento di distacco e di sospensione; il paesaggio appare così come riflesso in uno specchio,  tra reale e irreale come se la fotografia che abbiamo davanti fosse un frame cinematografico”. Ghirri ricerca il vero attraverso una semplice inquadratura. E per quanto  ciò che vediamo sia in piena luce e senza deformazioni oniriche ci appare come una visione che appare e che potrebbe scomparire l’istante dopo, oppure restate così in quell’incanto per sempre. C’è qualcosa della pittura metafisica qualcosa della pittura di Giorgio Morandi e della visionarietà scientifica di Italo Calvino nelle opere di Ghirri. Così come vi potremmo scorgere assonanze con la scultura, i quadri e le installazioni del più classico degli artisti italiani contemporanei, Giulio Paolini.  @simonamaggiorel

 

 L’immagine pubblicata in evidenza è di Luigi Ghirri, Paesaggi d’aria
Fontanellato, (1985)Fondo Ghirri, Fondazione Querini Stampalia

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L’abbuffata felice dei media sulla festa di Natale vietata. Peccato che non è andata così…

Ma quanto è facile sui giornali “sparare” su un preside che “avrebbe vietato” addirittura la festa di Natale a scuola. Così facile che si esercitano un po’ tutti: a destra ci vanno a nozze, naturalmente, visti i tempi. È il Giorno a dare il la alla vicenda.  Lo racconta molto bene Valigia Blu che mette in fila la sequela dei fatti mediatici e tutte le reazioni. Matteo Salvini si scatena: si farebbe un favore ai terroristi. Matteo Renzi in persona scende in campo: «L’Italia intera, laici e cristiani, non rinuncerà mai al Natale». Ma anche in altre testate non si scherza. Il Fatto ci sguazza. Ancora oggi titola sul sito si legge: “Rozzano, festa di Natale vietata”. Michele Serra, che non è certo di destra, nella sua rubrica L’Amaca su Repubblica di ieri scriveva così: «Quando in una scuola pubblica si sceglie di non fare il presepe o di rinunciare ai canti di Natale per non urtare la suscettibilità dei non cristiani, non si fa torto solamente alle “nostre tradizioni”, come lamentano gli ultras dell’identità tradita. Si fa torto all’idea stessa della convivenza tra culture». E anche Concita De Gregorio questa mattina a Prima pagina su Radio Tre si è lasciata andare all’esaltazione della musica e dell’arte che superano tutte le culture e che non si possono vietare. Per carità, tutto giusto. Peccato che la notizia non era proprio questa. Si è “sparato” mediaticamente, ma la mira era sbagliata. Anzi, proprio il bersaglio non esisteva. Lo ha precisato un’ascoltatrice dello stesso programma condotto da Concita. Il preside Marco Parma dell’Istituto Comprensivo Garofani di Rozzano (Milano) non ha vietato nulla. Ed ecco che emerge la verità di un dirigente scolastico di un istituto di un centro abitato da moltissime famiglie di origine straniera, con cui, ha detto l’ascoltatrice, la convivenza è perfetta. Il preside sabato 28 novembre aveva pubblicato una lettera dal titolo “Natale e dintorni” sul sito della scuola in cui ripercorreva tutta la vicenda (qui). «In primo luogo, non ho mai fatto rimuovere crocefissi né dalle aule del Comprensivo Garofani né da quelle delle altre scuole che ho gestito e diretto nel corso di più di vent’anni di modesta carriera, per un motivo molto semplice: non c’erano». Non ha nemmeno «rimandato né cancellato nessun concerto natalizio né altre iniziative programmate dal collegio docenti e dal consiglio di istituto; mi sono, viceversa, adoperato per sostenerle: tanto il concerto del 17 dicembre dei ragazzi della secondaria quanto quello dei bimbi della primaria, in programma per il 21 gennaio, oltre ai momenti di festa prenatalizia che si svolgeranno, come di consueto, in tutte le classi». Qual è dunque il problema? Da dove nasce la “bufera mediatica”? Semplicemente da un “unico diniego” che «riguarda la richiesta di due mamme che avrebbero voluto entrare a scuola nell’intervallo mensa per insegnare canti religiosi ai bambini cristiani: cosa che continuo a considerare inopportuna». Una richiesta che cozza, confermano altri colleghi di Parma, con il fatto che la pausa dell’intervallo è fuori dalla didattica e che si tratta proprio di uno spazio dedicato alla socializzazione. Di tutti i bambini, al di là della fede religiosa.

Nella stessa lettera il preside chiedeva alla Direzione dell’Ufficio regionale scolastico di valutare «l’opportunità di attribuire ad altro collega la reggenza dell’istituto». Naturalmente questa notizia, “Il preside lascia”, ha trovato ampio spazio, il resto no.

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Elezioni in Spagna. Albert Rivera oscura Pablo Iglesias, la stella di Podemos

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Mancano solo tre settimane alle elezioni politiche  e in Spagna, a quanto sembra da un sondaggio diffuso ieri dal quotidiano El Pais, prevale l’incertezza. In testa, anche se solo con un piccolo distacco rispetto agli altri,  popolari guidati da Rajoy con il 22,7%, seguiti da Ciudadanos di Albert Rivera, astro nascente della politica iberica che sembra aver, in tutto e per tutto, oscurato la stella di Pablo Iglesias leader di Podemos, non pervenuto sul podio dei primi tre partiti in testa ai sondaggi. Al terzo posto infatti nelle intenzioni di voto si piazzano i socialisti del Psoe di Pedro Sanchez con un 22,5%. Su Left n. 42 avevamo presentato un ritratto proprio di Rivera che vi riproponiamo qui.

 

Pablo Iglesias? Más corazón. Albert Rivera? Más calculadora. La sentenza arriva da Jordi Évole, giornalista della Sexta e moderatore del faccia a faccia tra i due leader emergenti. Quasi sei milioni di spagnoli sono rimasti davanti al televisore a seguire il confronto. Podemos contro Ciudadanos. «Rivera se está comiendo a Iglesias», se lo sta mangiando, è il commento più gettonato sui social network. Camicia bianca, jeans, faccia pulita, volto rassicurante, parla chiaro e diretto. Un animale mediatico. Sicuro di sé, va sempre a braccio, anche ai comizi. Albert Rivera è il politico del momento in Spagna. Onnipresente in tv. «Abbiamo proposte per migliorare e riformare il Paese, senza urla e promesse irrealizzabili. Ciudadanos è un partito capace di governare, senza il sostegno dei poteri forti e senza privilegi», va ripetendo da una trasmissione all’altra.
Avvocato, nato a Barcellona 36 anni fa, figlio di commercianti, ottimo inglese, nel suo profilo Linkedin ammette di “non essere perfetto” ma di voler “cambiare le cose e lasciare il segno”. Vuole aprire una nuova epoca «dove la distinzione tradizionale fra le due Spagne, la rossa e la blu, scompaia» così come «le posizioni conflittuali associate a questa idea». Un «cambio sensato» – come da titolo del suo recente libro – contro l’immobilismo di Pp e Psoe, ma anche contro l’estremismo di Podemos. Laureato col massimo dei voti nel prestigioso ateneo privato di Esade, nel 2001 Rivera ha vinto il Campionato interuniversitario di dibattito – contro 62 squadre dalle università di tutto il Paese – con le sue oggi proverbiali doti di retorica. Erasmus in Finlandia e master in marketing politico a Washington, dal 2002 al 2006 ha lavorato quattro anni alla Caixa, il colosso bancario catalano.
Rivera incarna l’immagine di un movimento di giovani con un curriculum brillante. Lo dipingono come una persona auto esigente e disciplinata, doti che avrebbe appreso da adolescente durante i ferrei allenamenti in piscina. Sì, perché Rivera a 16 anni è stato anche campione nazionale di nuoto e ha giocato a livello agonistico a waterpolo. Magro, spalle larghe, ha sfoggiato il suo fisico, di cui certo non si vergogna, nel suo esordio in politica nel 2006, alle prime elezioni catalane a cui il partito Ciutadanos si presentò: un manifesto elettorale lo ritraeva completamente nudo per trasmettere “trasparenza e la semplicità”, sotto lo slogan «è nato il tuo partito, ci importi solo tu».
Fino al 2006, gli elettori catalani erano abituati allo scontro essenzialmente fra due partiti: Convèrgencia i Unió, di centrodestra, e i socialisti di centrosinistra. Al vecchio bipartitismo si contrappose Ciutadans de Catalunya (Cittadini catalani) che della terzietà fra i contendenti faceva bandiera, e che riuscì a ottenere quasi 90mila voti, e tre seggi nel Parlamento di Barcellona, con le sue posizioni anti indipendentiste e filo-centraliste. L’arancione, il colore del partito. Albert Rivera, allora 27enne, intraprese l’intera campagna elettorale tuonando contro la “casta”.
Da allora Ciutadans (nella sua versione in spagnolo “Ciudadanos, partido de la ciudadanía”) non ha fatto che crescere: all’inizio del 2013 aveva appena 2mila iscritti, oggi dispone di un numero di militanti 14 volte superiore (quasi 28mila, dichiarano). Alle ultime europee col 3,2 per cento, ha ottenuto 2 europarlamentari che siedono a Bruxelles tra le fila dell’Alde, il gruppo dei Liberal-Riformisti. Nelle amministrative di maggio il grande salto su scala nazionale sparigliando le carte di Pp, Psoe e Podemos.
Ciudadanos è Albert Rivera. E lui è terribilmente bravo: il messaggio che vende sul partito arancione (Pantone 1585C, per la precisione) è solido e credibile, qualsiasi proposta o posizione appare come ragionevole e sensata, mai ideologica: «Le ideologie ci sono – dichiara in un’intervista – ma le etichette sono state diluite. Mi considero liberale, credo nell’economia di mercato, ma ho una sensibilità sociale perché difendo l’istruzione pubblica e voglio che gli anziani abbiano pensioni più alte». Le sue posizioni, le definisce, «moderate». Il suo libro preferito? Il fattore umano di John Carlin.
Piace il suo stile di vita, umile e austero. Gira principalmente coi mezzi pubblici, senza scorta, patito di moto a volte raggiunge il Parlamento con la sua Yamaha 1000, tifosissimo del Barcellona ma crede nella filosofia di Diego Simeone, carismatico allenatore dell’Atletico Madrid: «Si deve lottare, partita dopo partita». Piedi per terra, sempre concentrati e determinati. Anima e corpo alla politica. Albert vive in affitto a 800 euro al mese, divorziato, vede la figlia Daniela, 4 anni, una volta alla settimana. «So di rappresentare il nuovo – dice di sé con spavalderia – ma ciò non mi incute timore. Sono il garante di una rigenerazione e sono qui per migliorare la condizione della gente contro un capitalismo clientelare e corrotto». Nel suo programma si dichiara di “centro-sinistra”, il che è già quanto meno curioso, dato che Rivera, dal 2002 fino al 2006, ha militato fra i giovani del Partito Popolare. Lui stesso ha affermato di voler ricalcare le orme di altri grandi leader conservatori: «Mi piace ciò che ha fatto Suárez, durante il periodo della Transizione, González negli anni 80 o Aznar nel ’90», dichiara nel suo classico stile cerchiobottista.


Rivera si dichiara di “centro-sinistra”, il che è quanto meno curioso, dato che dal 2002 fino al 2006 ha militato fra i giovani del Partito Popolare


Il giovane Albert ha in mente un programma economico liberista nel quale non disdegna le privatizzazioni, è contro le impopolari (per i ricchi) tasse patrimoniali o sulle eredità, difende le banche (ma critica gli strumenti finanziari meno trasparenti), considera sbagliato il reddito minino e propone sgravi fiscali per le imprese. Non a caso, a sinistra, Rivera viene definito «il principe azzurro della Borsa» e viene accusato di avere il sostegno dei poteri forti e dei grandi industriali del Paese. In campo sociale, a parole, è moderatamente progressista. Contrario alla legge sull’aborto, si è schierato contro la sanità agli immigrati senza permesso di soggiorno: «Così si fa in tutta Europa».
Sufficientemente malleabile e intelligente da saper cambiare posizione per evitare quelle più controverse, come platealmente ha fatto sul matrimonio gay, dapprima moderatamente avversato, e poi accettato. Considera la prostituzione una professione come le altre, ma dato che questa sortita ha suscitato un forte dibattito, l’idea è stata prontamente accantonata. Stessa sorte toccata all’idea di legalizzare le droghe leggere. Di nessuna delle due c’è traccia nel programma del partito.
Rivera utilizza molto, e bene, il suo profilo twitter, pare ci tenga a gestirlo personalmente. Pochi giorni fa, ha lanciato l’hashtag #somoselnuevocentro: «Siamo il nuovo centro perché sono più i cittadini con voglia di cambiamento che quelli con paura», ha scritto.
Nel febbraio 2014 è uscito il suo libro Juntos Podemos, subito dopo il debutto di Iglesias. Lo hanno accusato di copiare nome e idee. Si è difeso dicendo che il testo era precedente alla fondazione del partito. Alcuni punti programmatici sono effettivamente identici: maggiore trasparenza e lotta alla “casta”, ai costi della politica e alla corruzione del sistema. Anche Rivera è per una «transizione democratica» che deve passare, in primis, per una nuova legge elettorale, un piano nazionale sull’istruzione e la riforma della giustizia.


 

Ecco il “Podemos di centro” auspicato dagli imprenditori spagnoli già nel 2014. Con il 18 per cento alle elezioni catalane, dopo le politiche potrebbe governare con i popolari


 

Cita costantemente una frase di Victor Hugo: «Non c’è niente di più meraviglioso di un’idea che giunge al momento giusto». Nei suoi discorsi, a volte, è spiazzante riuscendo a passare dalla difesa di quest’Europa e dell’austerity all’elogio di Pepe Mujica, ex presidente-guerrigliero dell’Uruguay. È scaltro, un populista con toni moderni e certo non scomodo all’establishment che lo sta pompando oltre modo.
Ecco il “Podemos di centro”, il partito auspicato dagli imprenditori spagnoli nel 2014 quando l’auge della creatura di Iglesias si faceva minacciosa. Nei sondaggi Ciudadanos non si ferma più. E dopo essere arrivato secondo alle elezioni catalane di settembre con il 18 per cento, sarà l’ago della bilancia a Madrid dopo le elezioni del 20 dicembre. Qualcuno ipotizza possa arrivare come seconda forza, sopra il Psoe, e allearsi con il Partito popolare per un nuovo governo di destra in Spagna. Perché votare gli arancioni alle prossime elezioni? Lui, forte della grande ascesa, risponde: «Innanzitutto perché non abbiamo mai governato e non siamo i responsabili di questa situazione, secondo perché ci sono partiti che si presentano come il nuovo ma promettono cose irrealizzabili». Agli spagnoli scegliere il volto del cambiamento: Iglesias o Rivera?

 

Salvare il capitalismo da se stesso, la ricetta di Robert Reich

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Sugli scaffali delle librerie americane (e online) chiunque voglia può comprare Saving Capitalism, ultimo lavoro di Robert Reich, professore di economia a Berkeley, già Segretario del lavoro per due anni con Clinton (che poi svoltò a destra) e oggi figura di punta della critica radicale ma istituzionale al sistema in cui viviamo. Reich oggi scrive, lavora con campagne importanti ed è una delle voci autorevoli e non convenzionali della sinistra liberal americana. Ha scritto libri importanti che mischiano accademia e divulgazione e proposta e aiutano a capire bene come e quanto sia cambiato il modello americano. Reich è molto america-centrico, ma la sua lettura dei fenomeni aiuta almeno in parte a capire anche come stiamo noi. In fondo quello degli anni tra il New Deal e il 1980 è stato un compromesso sociale tra capitale e lavoro, per quanto sui generis e con meno Stato, come quello che scricchiola e traballa da decenni in Europa e che oggi sembra – a meno di non essere ripensato, atualizzato e reinventato – destinato a essere lasciato da parte.

Sulla New York Review of Books, Paul Krugman scrive una recensione di Saving Capitalism che naturalmente ci dice anche cose su cosa pensi il premio Nobel e professore a Princeton della fase attuale.

«Work of Nations era in qualche modo un lavoro innovativo, perché si concentrava sulla questione della disuguaglianza crescente -un problema che alcuni economisti, me compreso, stavano già prendendo sul serio – scrive Krugman – ma che non era ancora centrale nel discorso politico. Il libro di Reich guardava alla disuguaglianza in gran parte come un problema tecnico che aveva una soluzione tecnocratica dalla quale tutti avevano da guadagnare. Tempi andati. Nel suo nuovo libro Reich offre una visione molto più oscura della realtà, e fa ciò che è a tutti gli effetti un invito alla lotta di classe, o, se preferite, a una rivolta dei lavoratori contro la guerra di classe silenziosa che l’oligarchia americana sta conducendo da decenni».

Cosa succede tra la scrittura del primo e del secondo libro di Reich, si chiede Krugman? Da un lato cambia il discorso generale della politica americana, dall’altro si osserva un fenomeno che è quello della crescente distanza tra i salari di chi ha frequentato l’università e chi no. Come si spiega questo distacco? Si è detto che la colpa fosse della globalizzazione che portava le fabbriche all’estero (ergo i pochi operai non specializzati che rimanevano erano destinati a competere con i cinesi sul salario per lavorare), ma scrive ancora Krugman, quando il fenomeno è cominciato la quantità di stabilimenti in fuga era ancora minima. Poi si è data la colpa alla tecnologia: le macchine fanno più lavoro che prima facevano umani senza laurea, il lavoro si concettualizza e chi non ha studiato resta indietro. La risposta possibile, contenuta in The Work of Nations, era: dotiamo di strumenti più persone e l’economia aprirà nuove opportunità. Si trattava, insomma, di aumentare il bagaglio del lavoratore medio. Teoria molto anni 90, opportunità e se vogliamo, molto terza via clintonian-blairiana. Non funzionò: dopo il 2000 anche i salari di alcune categorie istruite cominciarono a perdere terreno, quelli dei manager a salire a dismisura e le imprese smisero di investire in innovazione e cominciarono a mettere i loro soldi in Borsa o in altre attività.

Che spiegazione nuova troviamo nel libro di Reich? La prima si chiama un crescente aumento del potere di mercato di attori monopolistici od oligopolistici di fissare il prezzo a cui comprano o vendono merci e lavoro. Krugman ricorda come ci sia stata una lunga fase in cui nella teoria economica e in politica, l’idea che il potere dei monopoli fosse tutto sommato ininfluente sia stata prevalente per qualche decennio grazie a un saggio di Milton Friedman, che con i suoi colleghi di Chiacago ha influenzato la politica economica degli ultimi 30 anni.

Reich, ci racconta Krugman, fa buoni esempi di come il monopolio sia in realtà un danno per la competizione, oltre che per i consumatori. L’esempio scelto tra gli altri è quello delle connessioni internet, che negli Usa (a differenza di come si potrebbe immaginare) non sono particolarmente veloci e sono piuttosto care – come anche la telefonia cellulare. Il motivo? La scarsa concorrenza. Citando una serie di studi recenti – tra cui quello di Peter Orszag, ex direttore del Congressional Budget Office – che mostrano come il crescente potere dei monopoli si manifesti anche nei profitti di un numero crescente di imprese, che non scendono, proprio perché non incalzati da concorrenti.

Del resto, spiega Reich, se io guadagno molto vendendo un servizio internet scadente e non sono incalzato da un avversario che ne vende uno migliore, perché dovrei spendere soldi per piazzare fibra, antenne o perdere profitti abbasando i prezzi al consumo? Nella sua recensione Krugman sottolinea come

«concentrandosi sul potere di mercato aiuti a spiegare perché la grande svolta nella disuguaglianza dei redditi coincida con i cambiamenti politici, in particolare la brusca svolta a destra nella politica americana. Che il livello di potere di mercato delle imprese è, in gran parte, determinato da decisioni politiche».

E così, nella politica americana (e non solo) il potere politico può a volte essere funzione del monopolio, che ringrazia e lo alimenta. E così deregolamentazione, attacco alle leggi sindacali, riduzione dei controlli e limiti ai monopoli sono frutto di scelte politiche che hanno contribuito a ridisegnare il campo da gioco nel quale imprese e lavoratori giocano.

Cambiare le regole e tornare a un mercato che somigli di più a quello in cui c’è concorrenza, e lo Stato regole per il bene di tutti è la scelta da fare per “salvare il capitalismo”, sostiene Reich. Krugman, che concorda con le ricette politiche proposte in Saving Capitalism, è meno convinto. Reich propone di aumentare i salari minimi – cosa che molti Stati Usa hanno fatto senza conseguenze negative per il merato del lavoro, anche in anni come questi non stupefacenti dal punto di vista della crescita – restituire ruolo ai sindacati, aumentare il potere di lavoratori e consumatori in materia di contratti (impedire insomma, alle imprese che ti raggirano come lavoratore o consumatore dei loro beni, di farlo….pensate ai vostri litigi disperati con le compagnie telefoniche). Infine occorre fare in modo che le corporations la smettano di rispondere soli agli azionisti – che chiedono risultati finanziari a breve termine.

Può funzionare? Nel New Deal, scrive Krugman, funzionò. E il fatto che le prossime elezioni presidenziali Usa vedano molti candidati, anche quelli di destra, giocare con l’antipolitica e il populismo che se la prende con i potenti e l’1%, secondo Reich è un buon segno. Guardate Hillary Clinton – questo Reich non lo scrive – ha posizioni infinitamente più a sinistra di se stessa 20 anni fa. E Sanders ha un successo inaspettato. Segno che il vento, dopo 30 anni di monetarismo, neoliberismo e deregolamentazione e a otto anni dalla Grande recessione sta cambiando. Può darsi: in fondo anche il New Deal è cominciato ben 4 anni dopo il crollo delle Borse. Gli Usa e l’Europa contemporanei ci stanno mettendo di più (e a dire il vero l’Europa presenta altre analogie inquietanti con gli anni ’30), ma dovremmo augurarci che Reich abbia ragione.

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