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Legge 107, via libera alla battaglia dei referendum dal mondo della scuola

scuola referendum

“Abbiamo approvato il documento all’unanimità. Adesso iniziamo la battaglia per i referendum!”. Marina Boscaino, conclude così, con un sorriso, nonostante la stanchezza per la lunga giornata, l’assemblea nazionale promossa dai Comitati Lip (legge di iniziativa popolare) che si è tenuta ieri a Roma. Spetta a questo combattivo gruppo (qui tutti i partecipanti e il documento conclusivo) di associazioni, movimenti, reti di docenti e studenti  il compito di portare avanti una mobilitazione contro la legge 107 che, secondo i promotori, dovrà sfociare nella prossima primavera in una campagna referendaria. All’assemblea erano presenti rappresentanti di Flc Cgil, Cobas, Unicobas, Usb e come movimenti politici, Sinistra italiana, Prc, M5s, Altra Europa per Tsipras, Possibile e Azione civile. Ma soprattutto erano presenti rappresentanti dei Comitati dei referendum per l’acqua pubblica e del Coordinamento per la Democrazia costituzionale che ha già presentato due quesiti in Cassazione per l’abrogazione dell’Italicum.

I referendum contro la legge 107

Così, a pochi mesi dall’inizio dell’anno scolastico, nel caos normativo tra deleghe ancora in bianco, polemiche sui comitati di valutazione e assunzioni della fase C  allarmanti (il caso di Genova qui), i referendum cominciano a prendere forma. Libertà d’insegnamento minacciata dal preside manager, privilegi alle private e diritti degli studenti (alternanza scuola-lavoro e curriculum on line), i temi dei quesiti.

Archiviato il tentativo di Possibile di Civati che non è riuscito a raccogliere le firme necessarie – tentativo peraltro contestato fin da subito dal mondo della scuola -, adesso si tratta di preparare la campagna con molta calma e determinazione. E’ quanto è emerso ieri durante l’assemblea, introdotta dalla relazione del costituzionalista Massimo Villone che insieme ai colleghi Bruno De Maria e Andrea Morrone fa parte del comitato tecnico scientifico (anche con rappresentanti Lip). Il giurista ha ipotizzato i quesiti referendari che mirano all’abrogazione di alcuni punti-chiave della 107 e che in sostanza la svuotano dei suoi contenuti più “pesanti”.

Obiettivo: coinvolgere tutti gli italiani

Ma i quesiti devono arrivare al maggior numero di persone possibile, questa la parola d’ordine sottolineata in molti interventi. “Dobbiamo riuscire a parlare a 50 milioni di persone e convincerne a votare almeno 25”, ha detto Giovanni Cocchi, del comitato Lip di Bologna, un professore noto per aver ingaggiato a metà maggio un “duello” virtuale con Matteo Renzi (qui), rispondendo punto per punto allo spot della Buona scuola con il presidente del Consiglio.

Ebbene, ieri Cocchi ha detto che se dovesse scegliere, sceglierebbe il quesito sulla libertà d’insegnamento essendo il più “comunicabile” all’esterno. I temi della 107 che potrebbero finire nei quesiti, come riporta il documento conclusivo dell’assemblea sono questi: “libertà di insegnamento contro i poteri del dirigente manager. Diritti degli studenti. Sostegno e difesa per la scuola della Costituzione, gratuità, democratica, laica, pluralista e inclusiva, finalizzata ai principi di uguaglianza e solidarietà di tutte le cittadine e i cittadini; discutendo – in seguito alla relazione del prof. Massimo Villone – quesiti relativi a: chiamata diretta degli insegnanti, ambiti territoriali, abolizione della titolarità; comitato di valutazione e premio di merito; alternanza scuola-lavoro; curriculum dello studente; school bonus”. Più difficile invece l’abrogazione totale della legge, come hanno sottolineato alcuni rappresentanti sindacali.

A gennaio via al comitato promotore

“Un referendum non della scuola, ma per la scuola, come strumento dell’interesse generale”, questo l’appello lanciato dall’assemblea a tutte le forze della scuola invitandole a entrare nel comitato promotore “che deve essere il più ampio possibile”, si legge nel documento. Intanto il prossimo appuntamento è fissato per  gennaio a Napoli. In quell’occasione sarà costituito il comitato promotore che individuerà i quesiti da proporre. E poi via alla raccolta delle firme. Forse la rete referendaria – più estesa, con Fiom e altri soggetti – abbraccerà altri temi, come quelli contro il Jobs act e lo Sblocca Italia.

Così, mentre  il presidente del consiglio “premia” i diciottenni con il bonus da 500 euro simile a quello dei prof – di ruolo, perché ai precari non tocca nulla – come un fiume carsico comincia a scorrere il movimento dei referendum. Un movimento lento, ma fino adesso per niente improvvisato. Anzi, si avverte dietro una grande riflessione e molto studio. Del resto, a promuoverlo sono gli insegnanti stessi che, quanto a studio, ne sanno qualcosa.

Milano, le primarie e la strategia del “tempo perso”

A volte quasi quasi davvero riuscivano a farti venire il dubbio che ci credessero a quello che dicevano: a Milano tutti fitti fitti sul “modello Pisapia” fingendo che potesse esistere anche senza di lui, l’attuale sindaco, come se Milano fosse un “modus vivendi”. E così ogni volta che qualcuno timidamente alzava il ditino per fare notare quanto fossero passate diverse ere geologiche dalla prima elezione del sindaco arancione, se qualcuno con il pastello rosso si incaponiva a sottolineare quanto il PD di oggi fosse tutt’altro PD e quanto la sinistra oggi sia così diversa da quella che sull’onda arancione sembrava quasi capace di portare Vendola in cima alle primarie nazionali, insomma, ogni volta che qualcuno ribadiva quello che è sotto gli occhi di tutti veniva additato come “distruttore”, “mistificatore” o peloso pessimista.

E così finisce che siamo arrivati a dicembre e non solo niente è deciso ma Milano di centrosinistra sembra pronta ad implodere intorno all’incapacità di costruire anche solo un fronte locale comune rispetto alla   volontà nazionale di Renzi e compagnia cantante. Al supermanager Sala (che non si è accorto delle ruberie dei suoi collaboratori più vicini, ma questo sembra un dettaglio insignificante) si è arrivati a contrapporre al massimo la “vice di Pisapia” di cui non sembra nemmeno necessario scrivere il cognome. Pisapia come brand, quindi, contrapposto al marchio del manager come se fosse uno scontro industriale tra multinazionali della gestione amministrativa. E fa niente se è stato proprio il cuore di Milano e della gestione di questi ultimi anni ad essere il valore aggiunto di una città che è riuscita a risorgere dalle ceneri di una disastrosa parentesi morattiana; anche quelle antiche e partecipatissime primarie che innescarono la vittoria del centrosinistra sembrano un feticcio lontano.

Così tutti impauriti di sembrare quelli che “rompono con il PD” a sinistra sono riusciti nella mirabile impresa di avere “rotto con Milano”. E adesso, per l’ennesima volta, ci si ritrova al massimo a recuperare i cocci. Niente di meglio per spianare la strada all’ennesimo superuomo, commissario o manager che va tanto di moda. Altro che antipolitica.

 

Frankie Hi nrg allo Zecchino d’Oro

frankie hi-nrg zecchino d'oro

Tutto quello che nel 1997 cantava in una delle canzoni più azzeccate degli ultimi vent’anni, “Quelli che benpensano”, Frankie Hi-nrg mc, torinese di nascita, siciliano di origine, lo pensa ancora. È una canzone attualissima quella sui “benpensanti” che sono ancora lì, intorno a noi, e non hanno preso a modello la sua canzone, sostiene divertito, e – come cantava allora – «sono rimasti medi come i ceti cui appartengono». Ma il più significativo dei nostri rapper, cantautore attento e preparato, e pure fotografo ormai (una mostra a Newyork e una, prossimamente, a Milano), quest’anno ha una canzone in corsa allo Zecchino d’oro. “Zombie vegetariano”, è il titolo. È strano? No. «È un grande privilegio», ci dice Frankie, perché i bambini sono «il pubblico migliore che si possa avere», e i bambini, anzi, «dovremmo ascoltarli anche noi». Di più.
Perché questa volta hai deciso di scrivere una canzone per i più piccoli?
L’universo infantile, quello dello Zecchino ma anche delle sigle dei cartoni animati, mi appartiene da sempre. Quei dischi sono ancora sui miei scaffali, sono i primi con cui ho provato a fare lo scratcher e sono spesso fonte di buone ispirazioni. L’idea di poter creare qualcosa di nuovo e di finire su quel mio scaffale, mi è piaciuta subito tantissimo.
Come si scrive una canzone per bambini?
Il pubblico infantile è il migliore che si possa sperare di avere, è attento, esigente, ma non ha secondi interessi e fa domande, ti aiuta a comprendere qualcosa della tua stessa arte. Non ho mai amato le canzoni che parlano di concetti astratti, quelle che mi dicono che è bello l’amore o cose così, e mi piacciono invece quelle che declinano i concetti con delle metafore, o con delle storie, e magari che mi fanno ridere. È quello che ho cercato di fare.
Tu che bambino sei stato?
Ho avuto la fortuna di frequentare amici molto stimolanti e di aver imparato fin da subito cosa significa stimolare.
Astronauta, calciatore, pompiere: cosa avresti voluto fare da piccolo?
Il fornaio o il falegname, che sono lavori che mi davano la sensazione di fare qualcosa. La famiglia di mio padre ha una tradizione di falegnameria: gli ebanisti di Monreale erano famosi. Lavorare nel mondo dello spettacolo non è mai stata una mia particolare velleità, anche se non mi sono mai tirato indietro quando c’era da parlare a più persone o mettermi in gioco, dire la mia.


 

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Come facciamo a salvare il pianeta? Lasciamo il petrolio sotto terra

TO GO WITH AFP STORY BY ANTHONY LUCAS (FILES) -- A file picture taken on February 14, 2013 shows smokes rising from stacks of a thermal power station in Sofia. Starting on September 27, 2013, six years after their last diagnosis on global warming, climate experts of the Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) will present their new state of affairs: an increasingly alarming wakeup call in preparation of the 2015 expected climate agreement. AFP PHOTO / DIMITAR DILKOFF

Negli Stati Uniti, dopo decenni in cui la politica negava il cambiamento climatico sembra esserci una nuova consapevolezza. Un momento che ha cambiato la percezione degli americani è stato Sandy: nel 2012 non si parlava di cambiamento del clima fino a quando l’uragano non si è abbattuto su New York e il New Jersey. Dopo, il tema è entrato di prepotenza in campagna elettorale. Molti Stati stanno vivendo le conseguenze del cambiamento climatico in maniera visibile: l’Alaska, dove i villaggi della costa temono di essere sommersi, o la California, che ha vissuto la peggior siccità di sempre. La California è un esempio positivo e negativo allo stesso tempo: gli investimenti in energie rinnovabili hanno funzionato e c’è un clima imprenditoriale che dice «Lavoriamo su questo, è il futuro»; e poi c’è una enorme quantità di siti di fracking, la tecnica di estrazione del gas che utilizza enormi quantità d’acqua. «Alla luce della situazione drammatica dell’acqua in California, chiediamo, assieme a molte altre campagne, di sospendere le trivellazioni che usano il fracking». Parla con entusiasmo e grande precisione, May Boeve, giovane sorridente a cui il Guardian e il Time hanno dedicato profili spiegandoci che è una delle figure chiave dell’ambientalismo globale. a ridosso della Cop21 di Parigi sta lavorando molto. Quando le parliamo è molto felice per la vittoria ottenuta sulla Keystone pipeline, il mega oleodotto che Obama ha deciso di non far costruire.
Siete stati protagonisti di una vittoria notevole: l’oleodotto che dal Canada doveva trasportare il petrolio estratto da sabbie bituminose non si farà…
La bocciatura della Keystone pipeline è un grande successo. Ci sono decine di progetti in giro per il mondo, da terminal petroliferi a nuove ipotesi di trivellazioni, che se messi in moto cancellerebbero la possibilità di mantenere l’aumento della temperatura terrestre sotto la soglia dei 2 gradi centigradi. La decisione segna un precedente che aiuterà i movimenti a mettere pressione su altri capi di governo che si trovano a decidere su progetti simili. Certo, c’è ancora un’enorme quantità di trivellazioni su suolo pubblico e i movimenti che si sono battuti contro la Keystone oggi lavorano per fare in modo che gli idrocarburi rimangano sotto terra: dobbiamo lasciare gas e petrolio dove sono.

A proposito di consapevolezza nuova e mobilitazioni: se avete vinto è anche perché contro la Keystone non c’erano solo ambientalisti liberal e studenti radicali.
Esatto: quel successo non è degli studenti radicali ma dei ranchers del Nebraska, che sono in maggioranza conservatori e votano repubblicano. Loro per primi – e anche molte tribù di nativi – si sono battuti per difendere le terre dove lavorano da generazioni da una multinazionale canadese del petrolio. Sono loro che si sono alleati con noi ambientalisti radicali, aiutandoci a vincere. Credo che ora si sentano parte del movimento ambientalista. Lo stesso può valere per alcune comunità religiose che oggi stanno assumendo l’idea che occorra conservare la Terra. O ancora la Green Tea Coalition in Georgia, che mette assieme ambientalisti e Tea Party per chiedere meno carbone e più solare. Storie così, con alleati che oggi chiamiamo improbabili, stanno diventando normali. Il fatto è che per decenni le compagnie petrolifere che sapevano del cambiamento climatico hanno speso soldi per impedire che si sapesse la verità e hanno mentito sui risultati delle loro ricerche. Oggi vengono sbugiardati (la Exxon è addirittura sotto inchiesta da parte del Dipartimento di Giustizia) e la società americana comincia a capire e informarsi.

Cosa vi aspettate dal vertice di Parigi?
Penso e spero che la Conferenza mondiale sul clima segnerà un passaggio vero: non necessariamente per quel che succederà ma per come ci siamo arrivati. I governi arrivano dove la gente li spinge e la spinta stavolta è stata forte. A Copenaghen si fece di tutto per arrivare a un accordo, uno qualsiasi, ma senza gli occhi della società mondiale aperti. Stavolta ci sono Paesi che hanno preso impegni seri e altri meno: anche in loco si possono fare passi avanti ed è per questo che è importante esserci e mobilitarsi. Il movimento ambientalista è molto più radicato e globale che al tempo di Copenaghen, così la consapevolezza globale. Per questo Parigi può diventare un punto di snodo del passaggio dalla società dei combustibili fossili a quella del 100% rinnovabili. Aspettiamo di vedere quanto i governi siano davvero consapevoli e impegnati. E per questo nei primi giorni della Cop21ci sarà la possibilità per tutti, in ogni angolo del mondo, di far sentire la propria voce. Stiamo anche cercando di premere sulle istituzioni ed enti privati affinché vengano a Parigi ad annunciare il loro disinvestimento dagli idrocarburi. Anche quello sarà un modo per mostrare al Pianeta come e quanto il tema abbia forza e che ci sono parti importanti di capitale privato che decidono di abbandonare i propri investimenti in gas e petrolio a prescindere da quel che a Parigi si firmerà.


 

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Donne, caporalato e sfruttamento nei campi del “Ghetto Italia”

Quando pensiamo al lavoro agricolo andiamo con la mente alla fatica e al sudore di un’occupazione considerata, a torto, prevalentemente maschile. Le cose non stanno così. Nell’immaginario più comune si specchia un pregiudizio, visto che le donne, le braccianti, costituiscono un pezzo importante dell’offerta di lavoro in agricoltura. A dire il vero nella condizione delle braccianti, soprattutto se straniere, troviamo tutti i più terribili ingredienti delle nuove forme di sfruttamento.
Va detto innanzitutto che il lavoro femminile non sostituisce quello maschile, ma gli è complementare, soprattutto quando le donne sono impiegate per immagazzinare i prodotti agricoli dopo averli raccolti. Se si tratta di ortaggi le donne sono preferite agli uomini per via della maggiore delicatezza del lavoro da svolgere. La raccolta degli ortaggi può avvenire in serra, sotto grandi tendoni, al caldo asfissiante, dove all’umidità dobbiamo associare le esalazioni dei fitofarmaci e di altri veleni. Questo avviene in Calabria, nel Lazio, in Puglia, in Emilia…
Le donne, italiane e straniere, vengono condotte nei luoghi della raccolta dai caporali, trasportate per decine di chilometri dai punti di raccolta. Nel caso pugliese, i pulmini dei caporali partono dai comuni della provincia di Brindisi o di Taranto per raggiungere Bari e la Bat, dove c’è la più forte concentrazione di imprese di una certa dimensione: capaci di assorbire manodopera in grande quantità. Ed in queste aziende può capitare che le braccianti siano sottoposte a forme di ricatto, anche sessuale, pur di mantenere il posto, per essere richiamate a lavorare l’indomani.

Il ricatto sessuale non è nuovo. Nella memoria delle braccianti pugliesi e siciliane, per esempio, il racconto degli stupri e dei palpeggiamenti da parte dei caporali e dei capisquadra è sempre stato frequente. Quello che cambia è la nazionalità delle donne ricattate. Sono per lo più rumene o centrafricane. In alcuni casi, come ci hanno raccontato alcune braccianti rumene della provincia di Taranto, le più giovani sono selezionate nude in una specie di turpe sfilata sotto i teloni di imprese non sempre piccole e spesso beneficiarie di lauti finanziamenti pubblici. Questa condizione rivela quanto sia maschilizzato il sistema dello sfruttamento. Le caporali, infatti, sono poche e certamente non assurgono ai vertici del sistema.

La manodopera femminile è un doppio serbatoio di gratificazione per i caporali: pecuniaria e sessuale. Nei ghetti dei braccianti il confine tra lavoro bracciantile e prostituzione è davvero labile. Questo fenomeno è osservabile nel ghetto di Rignano Garganico o in altri più piccoli ghetti della Capitanata. Qui le donne – nigeriane, altre centrafricane e rumene – sono prostituite nei bordelli e condotte nei campi come braccianti. Siamo in un regime di doppia riduzione a merce delle braccia e del sesso di queste immigrate. Le ragazze vengono vendute per i braccianti, ma sono gratuitamente a disposizione dei caporali e dei proprietari dei terreni sui quali lavorano e sono innalzati i ghetti. Ci è capitato di osservare questa situazione soprattutto nel foggiano, dove la già elevata domanda invernale di sesso a pagamento aumenta nella stagione estiva grazie all’arrivo di migliaia di maschi per la raccolta del pomodoro. È un circolo vizioso, un girone infernale che stritola le ragazze in una morsa di stress, affaticamento e malattia.

Le braccianti italiane, quantunque meno soggette al sistema del ricatto sessuale, pagano, soprattutto se madri, l’inesistenza di sistemi di welfare adeguati al mercato del lavoro. È molto raro che un Comune apra un asilo o un nido notturno per i figli delle braccianti, e questo costituisce un impedimento alla continuità lavorativa che si ripercuote sulle garanzie contributive e retributive. D’altra parte, se alle braccianti viene sempre assegnato un numero di giornate agricole dichiarate all’Inps inferiore a quello delle giornate realmente lavorate, ci sarà una spiegazione. E queste giornate, poi, sono molte meno di quelle registrate per gli uomini. Sono certamente la più forte fragilità sociale, la tendenziale esclusione dal mercato del lavoro e una diffusa sottocultura che rendono le braccianti meno tutelate degli omologhi maschili, e meno visibili nel racconto mediatico sul lavoro agricolo.

In un sistema globale – gestito dalle grandi imprese della trasformazione agroindustriale e dalle grandi reti commerciali – per chi fissa il prezzo del prodotto agricolo a prescindere dal costo del lavoro, la manodopera femminile è una risorsa preziosa. Un prodotto può costare tanto ma contenere un dosaggio robusto di sfruttamento e di lavoro femminile (e maschile) nero e sottopagato. In Puglia nel 2014 sono aumentate le donne straniere registrate come braccianti, mentre è diminuito il numero delle tutele ad esse destinate. Il dato rivela una contraddizione interna al mercato del lavoro, mai sanata dalle normative e dalle ispezioni. Il prezzo del prodotto, incidendo sul tendenziale azzeramento del costo del lavoro come mai accaduto in precedenza nella storia contemporanea, gioca come una scommessa epocale contro i salari e contro la salute delle braccianti. Questo spiega, secondo noi, perché la scorsa estate ci sono stati sei morti nelle campagne pugliesi, tra i quali due donne.

Per porre rimedio a questa condizione disumana è necessario centralizzare nel sistema pubblico il collocamento delle/dei braccianti, sottrarlo alle agenzie informali – i caporali – ed a quelle interinali – non di rado in combutta con i caporali – di mediazione tra domanda e offerta di lavoro. Come è necessario che il trasporto e gli altri servizi siano garantiti dalle imprese e dalle istituzioni locali. Infine, gli stessi dispositivi contrattuali devono essere modificati al rialzo dei diritti: il ricorso al voucher, diffuso soprattutto al Nord, è un espediente adoperato dal sistema d’impresa più intelligente ed evoluto per ridurre salari e tutele e per evadere contributi. Perché questo accada, le grandi imprese dovranno ridurre i margini della rendita e del profitto accumulati sulla pelle delle lavoratrici e dei lavoratori agricoli. ( Leonardo Palmisano e Yvan Sagnet sono autori del libro inchiesta Ghetto Italia, edito da Fandango)


 
 
 
 

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Ripensare il modello o Parigi sarà un flop

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Non sono bastate 20 Conferenze sul clima per individuare e applicare misure realmente efficaci nel taglio delle emissioni. E la 21esima, alle porte, non promette nulla di buono. La preoccupazione emerge dalle dichiarazioni di capi di governo, leader politici, negoziatori e intellettuali di America Latina, Africa, Asia e piccoli stati insulari, tutti convinti che le proposte sul tavolo della negoziazione siano timidi correttivi, del tutto insufficienti, mentre servirebbe un ripensamento complessivo del modello economico e, di conseguenza, della perversa relazione nord-sud. Il contributo di queste aree del mondo all’aumento delle emissioni è molto ridotto: il 7% delle emissioni globali proviene da America Latina e Caraibi; appena il 3,8% dal continente africano. In prima linea troviamo gli 11 Paesi dell’Alba, Alleanza bolivariana delle Americhe, tra cui Bolivia, Venezuela, Cuba e Nicaragua, che insistono sulla responsabilità storica dei Paesi sviluppati e criticano i mercati di carbonio e le altre soluzioni di tipo finanziario. Nel 2010, dopo il fallimento di Copenaghen, questi governi assieme a movimenti sociali di tutto il mondo si riunirono a Tiquipaya, vicino Cochabamba, in Bolivia, per la prima Conferenza mondiale dei popoli sul cambiamento climatico e i diritti della Madre Terra. La dichiarazione finale conteneva critiche sferzanti ai meccanismi negoziali e alle cosiddette “false soluzioni” proponendo azioni radicalmente alternative. Nell’ottobre scorso, nello stesso luogo, una seconda Conferenza dei popoli si è celebrata in vista del vertice di Parigi. Il documento finale parla di «crisi strutturale del modello capitalista basato sullo sfruttamento intensivo delle risorse naturali e dell’uomo» e di come sia necessario, per fronteggiare la crisi climatica, transitare verso un sistema economico e sociale basato sull’armonia tra comunità umane e natura. Tra le proposte: fissare il limite di allarme a +1,5 gradi anziché +2, riconoscere i diritti della natura e la loro complementarietà rispetto ai diritti dei popoli, risarcire i danni causati da eventi climatici estremi, istituire un Tribunale internazionale per la giustizia climatica, approvare una Dichiarazione universale dei diritti della Madre Terra, ridurre le emissioni differenziando le responsabilità e non basandosi su meccanismi finanziari speculativi. Pablo Solòn, già ambasciatore per la Bolivia presso l’Onu, negoziatore in seno alla Cop ed ex direttore della ong Focus on the Global South, critica il fatto che nessun punto della bozza di accordo stabilisce un limite all’estrazione di combustibili fossili, principali responsabili delle emissioni, mentre sarebbe necessario lasciare sotto terra l’80% dei giacimenti conosciuti per limitare l’aumento di temperatura entro i 2 gradi. Inoltre, ci si allontana dall’obiettivo “zero deforestazione” entro i prossimi 5 anni, che annullerebbe così il 17% delle emissioni globali. Altro gruppo di pressione è rappresentato dai paesi dell’Ailac, associazione indipendente di America Latina e Caraibi, che si è costituita come gruppo formale di negoziazione durante la Cop nel 2012 ed è composta da Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Perù e Panama. Ailac è favorevole ai mercati di carbonio come misura di riduzione delle emissioni, posizione fortemente criticata dagli altri Paesi del continente, e insiste sulla compatibilità tra impegni di riduzione e politiche di sviluppo.


 

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Food Day, la Roma fa il tifo per la solidarietà

A Roma, la domenica, la popolazione si divide nettamente in due, non se ne abbiano i pochi che comprensibilmente tentano di scampare alla foga calcistica: laziali e romanisti. Questa domenica però, ci sarà una novità: ci dispiace, ma i seguaci giallorossi avranno molti più partecipanti – o almeno lo speriamo.

L’AS Roma, tramite la propria fondazione Roma Cares in collaborazione con Equoevento Onlus (l’organizzazione che si occupa del recupero delle eccedenze alimentari e della loro ridistribuzione presso enti caritatevoli la cui storia abbiamo raccontato nelle pagine di Left), che l’ha organizzato e promosso, lancia il Il Food Day: una intera giornata dedicata alla raccolta e distribuzione del cibo, che sarà poi destinato alle mense della Capitale.

In occasione della gara Roma-Atalanta di oggi, infatti, verranno allestiti presso lo Stadio Olimpico dei punti di raccolta, che potrete trovare in prossimità dell’Obelisco adiacente a Piazza Lauro de Bosis e in Viale dei Gladiatori. Il club chiama così “a raccolta” i propri tifosi: «grazie a loro – fa sapere la Società – proverà a restituire e convertire l’amore che abitualmente riceve, in un gesto di solidarietà nei confronti delle persone meno fortunate».

food day

Che è poi la missione che i quattro ragazzi, tutti giovani e liberi professionisti, si sono dati ormai due anni fa, quando crearono Equoevento: l’enorme quantitativo di cibo, pari solo alla quantità di persone che ne avrebbero bisogno, viene reinserito in una catena di solidarietà che unisce mondi diversi, quello dell’eccedenza a quello della necessità. Com’è scritto sul loro sito, «donare il cibo in eccesso dell’evento è un atto di umiltà e di equità, perché condividere i propri pasti con persone meno fortunate significa esimersi dal giudicare persone disagiate ponendosi sullo stesso piano come esseri umani».

«Per la nostra onlus è un evento unico nel suo genere – spiega a Left la presidente Giulia Proietti – che rappresenta la prima occasione per permettere a tutti di aiutare chi è in difficoltà con un gesto semplice come donare il cibo. Insieme alla As Roma possiamo promuovere un messaggio importante come la lotta all’indifferenza sociale e il rispetto per chi si trova in difficoltà. Una prova ulteriore di come tutto il mondo del calcio, dalle società agli spettatori,  sappia mettersi a servizio dei più deboli».

Qui il video spot dell’iniziativa con la squadra della Roma

 

Da sabato a sabato | Le foto della settimana dal mondo

Birds fly near high tide waves at Alki Beach Park, Tuesday, Nov. 24, 2015, in Seattle. Sunny skies, with highs only into the mid-40's and lows just above freezing, are expected to continue through the weekend. (AP Photo/Elaine Thompson)

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Adriano Farano dall’italia alla Silicon Valley per cambiare il giornalismo

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Ha le idee chiare Adriano Farano, 35 anni, attualmente Ceo & founder di una delle start up più promettenti della New economy. Si tratta niente meno che di Watchup, un’app in grado di fornire contenuti video specifici su un argomento, customizzati in base alle esigenze di ognuno e ordinabili a una determinata ora del giorno o della notte. Una sorta di telegiornale personalizzato a domicilio, direttamente sullo schermo del tuo mobile o tablet. Segno inequivocabile che l’attenzione delle persone si sta spostando sempre di più dallo schermo della televisione a quello del computer e dei vari dispositivi portatili. Della serie: quando non è la montagna che va da Mometto, allora è Maometto che va alla montagna, ossia dagli utenti, cambiando alla radice l’idea stessa di informazione e di video giornalismo. Del resto, lo stesso Farano non è nuovo al mondo dell’informazione, anzi è lì che affondano le sue radici. «Sono stato fulminato dalla passione per le video-news a 9 anni. Era il 1989. Il primo telegiornale che ho visto nella mia vita raccontava il crollo del muro di Berlino. Il giorno dopo, a scuola, mi sono accorto che nessuno dei miei compagni aveva sentito la notizia. Tornato a casa ho preso dei fogli e messo insieme quello che ho chiamato Il giornalino di Berlino. Facevo le fotocopie e lo vendevo per 500 lire. Ho “assunto” 4 bambini che sapevano scrivere e disegnare e prodotto almeno 5 numeri. Quando la maestra si è accorta che a scuola giravano dei soldi, ha vietato la pubblicazione.»
È poi il 2001 quando, giovanissimo, Farano approda a Strasburgo per l’Erasmus e fonda Cafè Babel, un magazine online che ad oggi conta redazioni in ben trentacinque città diverse. «Café Babel nacque con un’idea precisa, oggi attuale più che mai: la volontà di costruire un’opinione pubblica europea – afferma Farano -. Ero uno studente Erasmus a Strasburgo e ho sentito l’esigenza di creare un collante tra tutte le persone con cui mi confrontavo quotidianamente. Café Babel è nato così: ancora oggi è un giornale online, multilingue. Gli Stati Uniti d’Europa sono stati la mia ispirazione. Si dibatte tanto su come creare una coscienza europea: che il primo passo consista proprio nel cominciare a discuterne attraverso un giornale?»
Successivamente all’esperienza di Cafè Babel, Farano decide di partire alla volta degli Usa e mettersi nuovamente in gioco. Nel 2012 vince, infatti, la Knight Fellowships, una borsa di ricerca all’università di Stanford, in California, che offre a 20 giornalisti di tutto il mondo la possibilità di lanciare un progetto sperimentale per rinnovare il giornalismo. «Lì ho iniziato a lavorare a Watchup» conferma Farano.

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Una volta approdato negli Usa, però, Farano non trova di certo vita facile: arriva in California con 600 euro in tasca, una moglie, due figlie, una casa, molti appoggi e tanta voglia di dare seguito alla sua idea. Per quello però servivano i soldi e la ricerca fondi, si sa, è sempre una strada in salita.
«In molti credono che la Silicon Valley sia una sorta di “El Dorado” per chi vuole far crescere la propria startup, in realtà è tra i posti più competitivi al mondo. Parliamo di un ecosistema in cui non esistono muri tra chi fa, chi pensa e chi mette i soldi. Esistono momenti e luoghi in cui inventori, ricercatori ed investitori si incontrano e rendono il processo produttivo molto fluido. È una medaglia a due facce: da una parte è il migliore posto al mondo in termini di accesso al capitale d’investimento, dall’altro lato la competizione è feroce». Il nostro imprenditore amalfitano, infatti, ha dovuto sudare non poco prima di vedere arrivare i primi investimenti, rischiando ogni giorno che il ramo dove aveva deciso di sedersi si spezzasse e fosse costretto a tornare indietro. «Ho raccolto i primi 500mila dollari in 100 appuntamenti. I primi 30 sono andati tutti male. Ma io non mollavo. Ci credevo. Questa è la golden age del giornalismo. Non c’è mai stata cosi tanta produzione di informazioni», ha dichiarato non molto tempo fa in un’intervista.
E racconta: «290 imprenditori su 300 non ce la fanno, ma spesso poi hanno successo con un’altra idea… da cosa nasce cosa, ed è questo il bello della Silicon Valley. Qui si dice “ideas are cheap”: avere un’idea non costa molto. Qui chi ha qualcosa in mente condivide, chiede confronti».


 

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Io, cameraman del terrore per Isis

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Beirut, o da qualche parte in Libano. Metà novembre 2015. Abdallah accetta di raccontare gli ultimi anni della sua vita passati dietro a una videocamera. «Prima per scelta, per parlare al mondo della nostra rivolta piena di sogni di libertà, contro Bashar al-Assad. Poi per sopravvivere, obbligato a documentare l’orrore quotidiano di Isis». La voce del ragazzo siriano arriva da un computer con il monitor spento, fa uno strano effetto parlare al nulla. Adam, l’operatore umanitario che ci ha messo in contatto, mi spiega che per ragioni di sicurezza preferisce non farmi vedere il nome del contatto Skype. «Ha paura di essere raggiunto dagli uomini del Califfo e di essere identificato prima di tentare il grande balzo verso la vostra Europa» mi spiega Adam, infermiere della Ong libanese Beyond, attiva nei campi profughi informali. Per più di un anno, a Raqqa, Abdallah è stato costretto a documentare le esecuzioni capitali e le punizioni corporali inflitte dai tribunali dell’Isis. Poi, pagando un contrabbandiere, è riuscito a fuggire dalla Capitale del Califfato. «Quando la rivolta è iniziata (nel febbraio 2011, ndr) vivevo ad Aleppo e frequentavo l’università. Ho partecipato da subito alle manifestazioni contro Assad, sono un appassionato di video e riprendevo le nostre marce e le prime repressioni per far conoscere al mondo quello che stava accadendo nel mio Paese.

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La situazione è velocemente e drammaticamente deteriorata. Siamo stati travolti dalla repressione militare del governo contro l’Esercito libero siriano, poi sono arrivati gli uomini del Fronte al-Nusra e alla fine abbiamo visto apparire le prime bandiere di Isis. Allora ho deciso di tornare a Raqqa, a casa dai miei genitori». Abdallah è tornato nella sua città alla fine del 2013. Raqqa allora era nelle mani dei miliziani del Fronte al-Nusra. Lì ha continuato a documentare quello che accade in Siria. Pochi mesi dopo, l’intera regione è stata conquistata dagli uomini di Isis e Raqqa è diventata la capitale dell’autoproclamato Stato Islamico. Abdallah e altri video operatori non hanno avuto scelta: dovevano lavorare per il nuovo padrone della città. Con una decina di suoi colleghi , il giovane è stato costretto a filmare le decapitazioni, gli uomini gettati dai tetti dei palazzi, le lapidazioni, le fustigazioni e le battaglie vittoriose, vere o riprodotte ad hoc, delle milizie di Abu Bakr al-Baghdadi. «Sono l’autore di molti di quei video che, diffusi su internet, hanno fatto conoscere al mondo di cosa sono capaci gli uomini del Califfo» racconta la voce senza volto. «Sono stato obbligato a vedere scene che non potrò mai dimenticare. Come posso scordare Fatima, la vittima della prima lapidazione delle tante che ho dovuto documentare? Aveva poco più di venti anni e l’avevano accusata di adulterio. La gente era stata costretta ad andare in piazza per vedere l’esecuzione, e i bambini dovevano essere in prima fila». (continua in edicola)


 

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