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La procura vaticana indaga Fittipaldi e Nuzzi, che hanno fatto il loro lavoro

La copertina del prossimo numero di Left, in edicola da sabato 14 novembre, è dedicata agli scandali vaticani e alle dinamiche interne alla Santa Sede, che nonostante le riforme promesse da Francesco, appare immutabile, nei meccanismi di funzionamento, come nei vizi. Scrivono Raffaele Carcano, Federico Tulli, Adriano Prosperi, Giulio Cavalli, con interviste a Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. 

Contrariamente a quanto il portavoce della Santa Sede, mons. Lombardi, aveva dichiarato dopo gli arresti di mons. Vallejo Balda e della lobbista Francesca Chaouqui, ci sono dei nuovi indagati nell’ambito dell’indagine sulla fuga di notizie denominata Vatileaks 2. Si tratta di Emiliano Fittipaldi, autore del libro Avarizia (Feltrinelli) e di Gianluigi Nuzzi che ha firmato Via crucis (Chiarelettere). Entrambi sono finiti nel mirino della magistratura del papa. «La Gendarmeria vaticana – ha spiegato Lombardi – aveva segnalato l’attività svolta dai due giornalisti, a titolo di possibile concorso nel reato di divulgazione di notizie e documenti riservati. A questo titolo sono ora indagati». Detto in parole povere, svolgere inchieste che riguardano possibili affari illeciti che si realizzano all’ombra della monarchia assoluta guidata da papa Francesco è un potenziale reato.

«C’è chi se la prende con lo specchio e non con l’immagine che viene riflessa, disse una volta quel gigante del giornalismo che era Enzo Biagi. Da allora direi che abbiamo fatto veramente pochi passi avanti» ha detto Nuzzi a Left poche ore prima che fosse divulgata la notizia dell’inchiesta nei suoi confronti. E anche Fittipaldi, interpellato dal nostro giornale, quasi se lo aspettava: «Quando svolgi un’inchiesta che riguarda un potere forte, questo reagisce con tutte la armi a sua disposizione. Screditando, minacciando, intimidendo».

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Dopo la pubblicazione dei due libri, tra le tante reazioni giunte da oltretevere, tutte durissime, ha fatto scalpore senza dubbio quella del pontefice: «Rubare quei documenti è un reato. È un atto deplorevole che non aiuta», ha tuonato Bergoglio confermando la linea dura della Santa Sede in questa vicenda, in pratica annunciando gli sviluppi di queste ore. Una reazione durissima e un atto d’indagine nei confronti del giornalista di Mediaset e del collega de L’Espresso, che mal si combinano con quanto si era affrettato a dire il portavoce Lombardi poche ore prima dell’uscita di Avarizia e di Via crucis, quando già circolavano alcuni contenuti: «Si può dire che in buona parte si tratta di informazioni già note, anche se spesso con minore ampiezza e dettaglio, ma soprattutto va notato che la documentazione pubblicata è per lo più relativa a un notevole impegno di raccolta di dati e di informazioni messa in moto dal Santo Padre stesso per svolgere uno studio e una riflessione di riforma e miglioramento della situazione amministrativa del Vaticano e della Santa Sede».

«La realtà è che nessuno ha trafugato i documenti che ho utilizzato per la mia inchiesta. Questi erano tutti nelle disponibilità di chi me li ha dati» precisa Nuzzi. «Tra le mie fonti – aggiunge – ci sono uomini di Chiesa, persone rispettabili. Io penso che il vero problema non è chi racconta il malaffare, ma è rappresentato dall’obolo di San Pietro che non va ai poveri, oppure dal banchiere Giampietro Nattino che riciclerebbe denaro attraverso il Vaticano. A tal proposito va riconosciuto che sono aumentati i sistemi di controllo e di denuncia, e la collaborazione internazionale tra magistratura italiana e quella del Vaticano. Ma su quanta pulizia sia stata fatta ho delle riserve. Non è che sia stata fatta grande pulizia».

Per quanto riguarda questo altro aspetto “giudiziario” che ruota intorno alla vicenda Vatileaks 2 anche se non è direttamente collegato, secondo l’autore di via Crucis, l’indagine nei confronti del presidente di Banca Finnat Euramerica spa è un segnale che «qualcosa in termini di trasparenza finanziaria sta cambiando al di là delle Mura Leonine. Seppur molto lentamente». Nuzzi si riferisce al rapporto di 33 pagine, pubblicato in esclusiva dall’agenzia Reuters, realizzato da investigatori del Vaticano che stanno indagando su un «eventuale riciclaggio di denaro, insider trading e manipolazione del mercato» in cui sarebbe stata utilizzata l’Apsa, l’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica che gestisce finanze ed immobili d’Oltretevere. Per farsi un’idea dell’ordine di grandezza in cui si muovono questi affari bisogna sfogliare le pagine del libro di Fittipaldi. Il bilancio dell’Apsa, si legge in Avarizia, a differenza dello Ior, «non è di dominio pubblico». In particolare «ha attivi per 998 milioni di euro (anno 2013)» e il «portafoglio investimenti in euro ha superato nel 2013 la bellezza di 475 milioni”.

Secondo la Reuters, le informazioni contenute nel documento riservato degli ispettori vaticani, che copre il periodo 2000-2011, sono stato trasmesse agli inquirenti italiani e svizzeri per i relativi controlli, perché alcune attività legate ai conti avrebbero avuto luogo in questi paesi. Gli investigatori vaticani sospettano che l’Apsa sia stata utilizzata da persone estranee al Vaticano, con eventuale complicità di personale interno, in violazione dei propri regolamenti. In particolare hanno rilevato la presenza di un «portfolio» riconducibile a Giampietro Nattino, il cui contenuto «oltre 2 milioni di euro» sarebbe stato trasferito in Svizzera poco prima che in Vaticano, nel 2010, fossero introdotte le nuove leggi contro il riciclaggio.

Si tratta, in assoluto, della prima inchiesta della Autorità di informazione finanziaria vaticana che viene resa nota pubblicamente e che non riguarda ecclesiastici o organizzazioni della Chiesa cattolica. L’unico caso arrivato finora allo scoperto ha riguardato mons. Nunzio Scarano, funzionario proprio dell’Apsa, sotto processo in Italia per operazioni sospette realizzate tramite lo Ior, l’istituto bancario della Santa Sede che secondo la Procura della Repubblica di Roma fino al 2011, anno in cui ha chiuso i conti correnti negli istituti italiani trasferendo tutto in banche estere, ha «esercitato abusivamente l’attività bancaria e finanziaria» per oltre 40 anni.  

 

Buona scuola, domani sciopero. Ma il fronte sindacale è spaccato

L’unità raggiunta durante lo sciopero del 5 maggio ormai è un ricordo.  Contro la Buona scuola allora scesero in piazza oltre 600mila insegnanti: un evento storico, mai accaduto nemmeno durante la mobilitazione contro la riforma Gelmini. Un fronte compatto, anche a livello sindacale. Domani, 13 novembre, invece, a protestare contro quella che ormai è la legge 107/2015 non ci saranno le maggiori sigle sindacali, la Cgil, Cisl e Uil e anche Gilda e Snals.  All’indomani dell’assunzione a ruolo degli oltre 48mila docenti precari della fase C – è accaduto il 10 novembre -, la protesta è portata avanti dai sindacati di base come i Cobas e Unicobas, dall’Anief, da Mida e Adida, e anche da tante associazioni e comitati che sono fioriti durante l’anno di contestazione alla Buona scuola, come Illumin’Italia o i Partigiani della scuola pubblica. Ha aderito anche il comitato nazionale Lip scuola che sta preparando il secondo appuntamento nazionale dopo l’assemblea di Bologna del 6 settembre: a Roma, il 29 novembre, presso l’Istituto Galilei, (Via Conte Verde 51), dalle ore 10 alle ore 18.00 si discuterà su un ordine del giorno che verte, da una parte, sul prosieguo della mobilitazione contro la legge 107/15 e dall’altra sulle novità sul percorso referendario per l’abrogazione della Buona scuola.

Accuse ai sindacati Cgil, Cisl, Uuil, Gilda e Snals

Nell’appello firmato da Cobas e Unicobas per lo sciopero del 13 novembre che riguarda sia il personale docente che Ata, si denuncia «il palese tradimento di quelle cinque organizzazioni sindacali firmatarie di contratto che, pur avendo promesso a luglio “scioperi di inizio anno” , a tutt’oggi non hanno saputo produrre altro che autoreferenziali assemblee chiuse al sindacalismo di base, innocue passeggiate del sabato sera…». Come si vede, il tono è abbastanza polemico.  La Cgil intanto, prepara la mobilitazione della scuola nell’ambito della manifestazione nazionale per il pubblico impiego fissata a Roma per il 28 novembre.  Va detto che a questa iniziativa aderiscono anche Cisl, Uil, Gilda e Snals. E anche il Comitato Lip che dà il pieno sostegno anche allo sciopero del pubblico impiego indetto da Usb per il 20 novembre. Insomma, invece di una manifestazione unitaria, la protesta viene diluita in uno stillicidio di proteste.

A Roma manifestazione “statica”

Domani 13 novembre poi probabilmente salterà anche il corteo, perché come fa sapere Stefano D’Errico, segretario nazionale di Unicobas sulla sua pagina Fb, poiché i cortei sono consentiti nella capitale solo il fine settimana, “in questa situazione abbiamo chiesto l’autorizzazione per una manifestazione statica in Piazza dell’Esquilino, non distante dalla stazione Termini. Poi – continua D’Errico – se la Questura ce lo consentirà formeremo un corteo attraverso via Cavour e Fori Imperiali e conclusione in Piazza SS Apostoli”.

Quali sono i punti della legge 107 che vengono contestati?

Nel documento Unicobas (qui) La disparità di trattamento ovvero “la palese violazione dei diritti acquisiti, nonché di quelli dei neo-assunti, in materia di titolarità d’istituto e mobilità”. E ancora: “la chiamata diretta e la valutazione impropria in piena violazione della libertà d’insegnamento”. L’alternanza scuola-lavoro che secondo le sigle sindacali “nasconde un vero e proprio ritorno all’avviamento ed all’addestramento professionale”. Le leggi-delega ancora da discutere in Parlamento su temi delicatissimi non toccati dalla legge 107, e cioè tutta la questione della scuola dell’infanzia, la figura dell’insegnante di sostegno, la penalizzazione degli organi della cooperazione educativa come i collegi dei docenti e i Collegi d’istituto, il taglio di 2000 posti sul personale Ata.

La Cgil risponde alla lettera di Renzi

Tutti i docenti assunti a ruolo nella fase C si sono visti arrivare via mail una lettera di congratulazioni da parte del presidente del Consiglio. Ma l’assunzione non è un “regalo” del Governo, è un atto dovuto. Domenico Pantaleo, segretario Flc Cgil lo spiega: “Come al solito il Presidente del Consiglio capovolge la realtà.  Il piano straordinario di immissioni in ruolo è sicuramente un fatto positivo rivendicato da anni dal sindacato. La sentenza della Corte di Giustizia Europea ha imposto al Governo di stabilizzare tutto il personale della scuola, docente e Ata, con più di 36 mesi di servizio e sui posti disponibili. In realtà il Governo ha lasciato fuori dai processi di stabilizzazione tutto il personale Ata,  23 mila insegnanti dell’infanzia, le seconde fasce”. La realtà quindi è ben diversa, visto che si tratta di 100mila precari. Quindi secondo la Cgil è falso affermare che si è eliminato il precariato. Infine, dulcis in fundo, il contratto è fermo da sette anni.

Clima, l’opinione pubblica è più preoccupata che mai (chi inquina di più un po’ meno)

Il mondo è più preoccupato che in passato del cambiamento climatico, anche se le società che inquinano di più sono quelle che trovano che, in fondo, non ci sia troppo da preoccuparsi. E’ questo il risultato di un sondaggio planetario contenuto in un lungo rapporto del Pew Research Centre a pochi giorni dall’inizio dalla conferenza mondiale sul clima di Parigi (COP21).

Vediamo quali sono le convinzioni e le preoccupazioni delle diverse società mondiali cominciando con il notare che, a giudicare dal sondaggio del Pew, i governanti di tutto il mondo un po’ di pressione addosso la sentiranno. Certo, le grandi manifestazioni che ci saranno, ma anche le opinioni pubbliche nazionali. La tabella qui sotto ci mostra come America latina e Africa siano le aree del mondo più preoccupate e convinte che (da dx a sx) “Il Cambiamento climatico sia un problema serio/Che produce già danni alle persone/Che mi recherà danno”. Gli europei sono preoccupati, ma non temono per loro stessi. Americani e cinesi, secondo e primo inquinatore del pianeta, hanno meno paura (in generale nel mondo, più emissioni e meno preoccupazione vanno assieme). Con la differenza che in Cina la preoccupazione cala, mentre negli Usa è cresciuta in maniera costante negli ultim anni.

Latin America, Africa More Concerned about Climate Change Compared with Other Regions

 Cosa preoccupa le società? Dipende dal clima, ma per tutti la prima cosa è il timore di siccità e mancanza d’acqua. Gli asiatici temono molto eventi metereologici violenti – che sono in aumento nel Pacifico – in Medio Oriente temono più il caldo che altrove, e in Europa e Usa c’è timore per l’innalzamento dei mari.
Drought Tops Climate Change Concerns across All Regions

Un dato positivo è quello che riguarda le scelte da farsi: il 78% degli interrogati dice di essere d’accordo con il fatto che il suo Paese debba limitare le emissioni, il 67% ritiene che occorrerà adottare dei cambiamenti consistenti agli stili di vita e il 54% pensa che i Paesi ricchi dovrebbero fare di più. A Parigi, insomma, chi vuole fare delle scelte, potrà dire di avere dalal sua l’opinione pubblica mondiale.
Many Say Changes Needed to Lifestyle, Policy
Da ultimo vale la pena di guardare alle differenze di opinione sulla base dell’orientamento politico in alcuni Paesi presi a campione: ovunque la gente di sinistra è convinta che il cambiamento climatico avrà effetti che la riguarderanno, mentre la destra meno. Interessante per misurare il livello di consapevolezza europeo: in Germania e Gran Bretagna le differenze sono meno marcate. Negli Stati Uniti il Pew ha interrogato anche sulla base delle convinzioi religiose e del censo: cattolici e atei sono più preoccupati dei protestanti (in parte più di destra e messianici, ma c’entra cneh la recente visita di papa Francesco), mentre i poveri sono più preoccupati dei ricchi.
Partisan Divide on Climate Change in Major Economies

E l’Italia?

Da noi il 55% pensa che il cambiamento climatico sia un problema serio; il 90% pensa che avrà degli effetti negativi sulla vita delle persone adesso o nei prossimi anni (adesso 65%) e l’81% ritiene che avrà effetti sulla propria vita. Quanto alle differenze politiche, chi è di sinistra pensa che il cambiamento del clima sia un problema serio nel 69% dei casi, i moderati nel 59% e la destra nel 42%. L’89% ritiene che occorra limitare le emissioni di gas serra e il 70% che occorra cambiare stili di vita. Quanto alle preoccupazioni, gli italiani temono eventi climatici catastrofici più di quanto non temano la siccità. Ad avere voglia di agire, insomma, c’è un’opinione pubblica attenta persino in Italia.

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Kerry: a Parigi gli Usa non vogliono un trattato sul clima

Con un’intervista al Financial Times, il Segretario di Stato Usa, John Kerry, ha spiegato che, a differenza dell’Europa, il suo Paese non vuole che da Parigi esca un trattato vincolante come quello di Kyoto, che gli Usa non firmarono.

Prima di insultare mentalmente Kerry e il suo capo, cerchiamo di capire cosa ha detto e perché. Una delle questioni, già affrontate nei giorni successivi all’accordo sul nucleare iraniano, è il veto di un Congresso a maggioranza repubblicana che di trattati sul clima che vincolino gli Stati Uniti a limitare le emissioni non vogliono sentir parlare. Sull’Iran Obama è riuscito a bloccare un voto grazie a qualche senatore repubblicano di buon senso. Sul clima sarebbe diverso. Il rischio, insomma, sarebbe che un eventuale tarrato uscito da Parigi, venisse respinto dal Congresso e che, a quel punto, gli Usa non sarebbero vincolati in nulla. Se, come è allo stato attuale, a Parigi ciascun Paese prenderà impegni sulla base della propria volontà, non ci sarà bisogno di passare per il voto del Congresso e Obama potrà cercare le risorse e formulare piani senza i repubblicani – o con un loro contributo, ma non necessario.


 

Leggi anche: L’opinione pubblica mondiale più preoccupata che mai dal riscaldamento globale e chiede scelte importanti. I dati del rapporto del Pew Research Centre


 

Kerry, durante e prima dell’intervista è stato piuttosto chiaro sul clima, parlando a una base navale su una costa minacciata dall’erosione ha detto: «Qui non si tratta di ridicolizzare il tema, non sono gli orsi polari e le farfalle il problema, la minaccia è alla sicurezza nazionale, all’economia e all’agricoltura». Il Segretario di Stato ha anche elogiato la Cina per il suo impegno («A Kyoto stavano a guardare, oggi agiscono e investono soldi») e criticato l’India di Narendra Modi che usa più carbone che in passato, aggiungendo: «Dobbiamo però non usare toni accusatori, non servono». In fondo sa bene che a inquinare per primi sono stati europei e americani.

Il Segretario di Stato ha anche assicurato che Obama troverà i tre miliardi di dollari promessi ai Paesi più poveri per affrontare il tema «perché si tratta di una sua priorità». Vedremo le reazioni dell’Europa a questo posizionamento pre-parigino degli americani. Certo è che se pure gli argomenti di Kerry sono validi, la presa di posizione Usa suona un po’ come una doccia fredda e si presta a critiche. Tanto più che se a Parigi ci sarà chi non vuole un accordo, potrà usare la posizione americana per farsi forza.

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Poter avere un figlio sano da oggi è un diritto riconosciuto

fecondazione assistita

In Italia non è più reato  la selezione degli embrioni. Si potrà accedere a questa tecnica medica nel caso si tratti di interrompere la trasmissione di malattie genetiche e di altre patologie rispondenti ai criteri di gravità previsti dalla legge 194 sull’aborto. Lo ha stabilito una nuova sentenza della Corte Costituzionale.

Cade così un altro antiscientifico divieto contenuto nella Legge 40/2004, la norma sulla fecondazione assistita che negli ultimi dieci anni ha fatto sì migliaia di coppie fossero costrette ad andare all’estero per poter avere un figlio con tecniche mediche che nel nostro Paese erano normalmente praticate prima che un accordo trasversale in Parlamento fra cattolici di destra e di sinistra approvasse questa norma nella sua prima stesura zeppa di divieti basati su dogmi religiosi come l’equiparazione fra embrione e persona.

I giudici della Consulta, con una sentenza depositata oggi, hanno dichiarato illegittimo l’articolo 13 della legge che stabiliva il «divieto di sperimentazione sugli embrioni umani» . in cui si contempla «come ipotesi di reato» la condotta di «selezione degli embrioni anche nei casi in cui questa sia esclusivamente finalizzata ad evitare l’impianto nell’utero della donna di embrioni affetti da malattie genetiche trasmissibili rispondenti ai criteri di gravità stabiliti con la legge sull’aborto e accertate da apposite strutture pubbliche».

Nelle aule di tribunale, grazie al coraggio di molti cittadini che hanno deciso di far valere i propri diritti, la legge 40 è stata smantellata pezzo dopo pezzo. È caduto così il divieto di fecondazione eterologa, l’obbligo di impiantare al massimo tre embrioni e tutti insieme, il divieto di accesso alle tecniche (e conseguentemente alla diagnosi preimpianto) alle coppie fertili ma portatrici di malattie, il divieto di selezione degli embrioni in caso di patologie genetiche. Per approfondire, sul sito dell’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca c’è tutta la storia di questa legge e delle sentenze che l’hanno decostruista pezzo dopo pezzo.

Entrando nello specifico di questa nuova sentenza scrivono gli avvocati Gianni Baldini, Filomena Gallo e Andrea Calandrini del collegio giridico dell’Associazione Luca Coscioni:

La Corte ha adeguato l’impianto della legge anche sotto il profilo penalistico alle proprie precedenti pronunce (sent 151/09 -3 embrioni e obbligo di contemporaneo impianto; sent 96/15 -accesso delle coppie fertili alla PMA e PGD). In particolare  quest’ultima ha recentemente affermato il diritto delle coppie fertili portatrici di patologie genetiche trasmissibili alla prole, qualificabili per analogia secondo il criterio normativo di gravità previsto dalla legge 194/78 (aborto terapeutico in caso di gravi malformazioni del feto), di accedere alla Procreazione assistita preceduta dalla tecnica di diagnosi genetica di pre impianto (forma di diagnosi pre- natale diretta a verificare lo stato di salute degli embrioni prodotti e finalizzata alla selezione di quelli malati rispetto a quelli sani da trasferire). Affermato il diritto della coppia di selezionare l’embrione sano da quello malato non aveva senso lasciare la previsione penale di cui all’art 13 c 3 lett b) che prevedeva una sanzione penale a  carico del sanitario che eseguisse in tali casi la selezione a tutela della salute della donna evitando di trasferire l’embrione malato. Un divieto che non aveva ragione di esistere alla luce delle pronunce di incostituzionalità già emesse. Quanto alla questione della eventuale possibilità di soppressione dell’embrione risultato malato, la Consulta ha precisato che il divieto previsto dalla legge risulta conforme al principio di ragionevolezza rientrando nella discrezionalità del legislatore prevedere  che a tutela della dignità dell’embrione (ancorchè malato) non sussistendo alcun diritto antagonista da bilanciare ( non la tutela della salute della donna, né esigenze autodeterminative della coppia) lo stesso deve essere crioconservato a tempo indeterminato. In sintesi:-selezionare gli embrioni da trasferire al fine di tutelare il prioritario interesse alla salute della donna non è più reato e dunque il sanitario dovrà procedere, sussistendo i requisiti di gravità della patologia ex art 6 l. 194/78, all’impianto dei soli embrioni sani preventivamente individuati tali con la PGD- in assenza di un diritto antagonista da bilanciare a tutela della dignità dell’embrione permane il divieto di soppressione dello stesso e il correlativo obbligo per i centri di PMA di crioconservazione a tempo indefinito.

Il prossimo 22 marzo la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi sull’art.13 l.40 sulle questioni riguardanti embrioni non idonei per una gravidanza, ricerca scientifica e revoca del consenso.

 

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L’Italia vista da Cartier-Bresson e gli altri

ITALY. 1933. Tuscany. Florence.

L’Italia vista dai grandi maestri della fotografia nel corso di ottant’anni. Da Henri Cartier-Bresson a Robert Capa e Paul Strand. Dall’Italia minore raccontata da Cuchi White, quando era ancora studentessa di fotografia, alle visioni provocatorie di William Klein del 1956, fino a Sebastião Salgado che racconta gli ultimi pescatori di tonni in Sicilia, come un’epica, per arrivare poi agli scatti à la page di da Newton e alle visioni di McCurry.

In Palazzo della Ragione a Milano prende vita un lungo e intenso viaggio fotografico, in sette tappe,  lungo la penisola  attraverso trentacinque autori, grazie alla mostra  Italia inside-out. «Il viaggio inizia con un autoritratto di Henri Cartier-Bresson del 1933», racconta la curatrice della mostra Giovanna Calvenzi. Una data che nella memoria collettiva segna il momento più drammatico della storia d’Europa. Quell’anno Heidegger pronunciava il suo discorso di adesione al nazismo. Ma Cartier-Bresson, preferendogli il filosofo Henri Bergson non è fra i tanti intellettuali che si lasciarono incantare dall’autore di Essere e tempo. Osa guardare oltre, rilanciando «il  sogno umanista», con i suoi eleganti scatti in bianco e nero, che riescono a scovare angoli di poesia, di resistenza, di riscatto anche in quegli anni che precipitavano verso la guerra mondiale. «La sua poetica dell’istante decisivo, il suo sogno di fermare il tempo, di cogliere l’attimo nel flusso in divenire della realtà influenzerà a lungo la fotografia di diversi Paesi e sarà adottato da generazioni di fotografia» dice  Calvenzi presentando venti immagini  del grande maestro francese, fra le quali la celebre foto fiorentina che mostra una schiera di tavolini vuoti in uno scenario autunnale, carico di malinconia, ma anche la foto “rubata” nelle strade di Livorno che ci mostra un uomo che legge  un giornale, all’interno di una casa, nell’attimo in cui la brezza solleva la tenda, coprendogli il volto. Evocando l’immagine di un’Italia non arresa, che si informa, che dopo la guerra cerca il modo per ripartire. «Il primo di questi grandi fotografi a raccontare l’Italia fu proprio Henri Cartier-Bresson.  E a lui – sottolinea Calvenzi – è affidato il cuore della mostra e il compito di introdurre il primo itinerario fotografico attraverso scatti dagli anni Trenta in poi. Assieme a quelle di altri 35 autori presenti, contribuisce a restituirci l’immagine del nostro Paese». La mostra è aperta fino al 7 febbraio.

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A 5 giorni dal crollo di una diga mineraria, il Brasile continua a cercare i superstiti

CORRECTS THE NUMBER OF DAMS THAT BURST - Rescue workers search for victims in Bento Rodrigues after two dams burst on Thursday, in Minas Gerais state, Brazil, Sunday, Nov. 8, 2015. Brazilian rescuers are looking for people still listed as missing following the burst of two dams at an iron ore mine in the southeastern mountainous area. (AP Photo/Felipe Dana)

La disperazione presto si è trasformata in rabbia. È così che dopo il crollo della diga mineraria di proprietà della Vale SA, nel Minas Gerais brasiliano, i parenti delle vittime e gli sfollati hanno iniziato a protestare chiedendo l’istituzione di un nuovo regolamento per gli scavi e le ricerche minerarie. Un regolamento che, prima di tutto, tuteli la sicurezza dei lavoratori e riduca l’impatto ambientale. La richiesta di norme più restrettive e severe per il codice minerario ha spinto quindi Vale SA, il colosso dell’estrazione del ferro, accusato del disastro, ad impegnarsi nell’ aiuto delle famiglie in lutto e nel contenimento dell’impatto ambientale.

Negli ultimi cinque giorni delle operazioni di soccorso nelle città devastate dalla tremenda colata di fango, sono stati ritrovati 6 corpi, mentre 22 invece è il numero delle persone ancora disperse. Le cifre fanno del crollo della diga e della valanga di fango che si è abbattuta principalmente sul paesino di Bento Rodrigues, uno dei peggiori disastri minerari nella storia del Brasile. Dopo quasi una settimana le speranze dei soccorritori di ritrovare ancora qualcuno in vita sono sempre meno.

La tragedia si è verificata in un distretto nel Sud Ovest del Brasile, ricco di minerali, dove a causa del rischio di nuovi crolli centinaia di residenti sono stati evacuati dalle loro case. I pm al momento indagano sulle cause, ancora ignote, del crollo e al momento circa 750 persone sono senza tetto.

Le immagini dopo il disastro

 

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Rifugiati, ecco il muro in Slovenia. E sette bambini affogano in Turchia

Slovenian soldiers erect a razor-wired fence on the Croatian border in Veliki Obrez, Slovenia, Wednesday, Nov. 11, 2015. Slovenia has started erecting a barbed-wire fence on the border with Croatia to prevent uncontrolled entry of migrants into the already overwhelmed alpine state. (AP Photo/Matej Leskovsek)

Un muro in più mancava. Oggi è la volta della Slovenia, che per respingere il flusso di immigrati ha deciso di avviare la costruzione di una barriera ai suoi confini con la Croazia. Il giorno dopo l’annuncio del governo di Lubiana, polizia ed esercito, muniti di rete metallica sono giunti in forze nel villaggio di Veliki Obrez, vicino al confine con la Croazia.

Il primo ministro sloveno, Miro Cerar, aveva sostenuto che il confine resta aperto, ma la recinzione serve ad aiutare a controllare il flusso di persone. Polemizzando con i vicini austriaci ha spiegato che il suo paese non ha le risorse per accogliere un gran numero di migranti e rifugiati durante l’inverno alle porte e che la chiusura delle frontiere da parte di Vienna ha creato un collo di bottiglia.

Migrants waiting to board a train at the train station in Sid, about 100 km west from Belgrade, Serbia, Wednesday, Nov. 11, 2015. Slovenia on Wednesday began erecting a razor-wire fence along its border with Croatia to control the influx of migrants, as European and African leaders gathered in Malta to seek long-term solutions to the flow of people making their way across Europe. (AP Photo/Darko Vojinovic)

Slovenian soldiers erect a razor-wired fence on the Croatian border in Gibina, Slovenia, Wednesday, Nov. 11, 2015. Slovenia has started erecting a barbed-wire fence on the border with Croatia to prevent uncontrolled entry of migrants into the already overwhelmed alpine state. (AP Photo/Darko Bandic)
(AP Photo/Darko Bandic)

 

Intanto il vertice europeo straordinario in programma a Malta oggi e domani si prepara a offrire milioni di euro in cambio di contenimento dei flussi e l’accoglienza dei rimpatriati da parte dei Paesi africani. E la Finlandia prepara tende e container da camion per ospitare i rifugiati in arrivo dalla Russia. Che nel Paese notoriamente l’inverno è tiepido.

Quattordici persone tra cui sette bambini sono affogati dopo aver lasciato le coste turche. Un modo come un altro per ricordarci quanto sia drammatica la situazione per le persone in fuga: la scelta di scappare prescinde dai muri, dai blocchi alle frontiere o dai controlli. Chi sceglie di rischiare di affogare – e lo sa – non verrà fermato dalle politiche europee.

E la Germania torna ad applicare gli accordi di Dublino: con l’esclusione della Grecia i rifugiati che sono entrati nel Paese passando per altri Paesi europei, verrà rispedito in quello. L’Europa, insomma, fa di tutto per togliersi di mezzo un problema destinato a non sparire.

Grandi e inutili. I danni delle grandi opere in Italia

«Ci accomuna il bisogno di cambiare questo Paese, un Paese dalla parte dei promettenti e non dei conoscenti. Che permetta le unioni civili, come nei Paesi civili; che preferisce la banda larga al Ponte sullo Stretto» si legge nel documento dei “rottamatori per una nuova Italia” che uscì dalla Leopolda del 2010 voluta dall’allora sindaco di Firenze Matteo Renzi: «Ma ora, in veste di presidente del Consiglio, Renzi ci ripensa e dopo il sì alla Camera dice dallo studio televisivo di Porta a Porta che il ponte si farà. «Un’opera colossale e inutile» dice il sindaco di Messina Renato Accorinti mentre la città è ancora allagata e necessita di ben altri interventi che riguardano la messa in sicurezza del territorio e infrastrutture degne di questo nome.

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Nel 2008 il paese di Giampilieri, sui monti del messinese, fu investito da una frana e morirono 39 persone. «Nulla è stato fatto nelle zone limitrofe perché non accada di nuovo» scrive Antonio Fraschilla nel libro inchiesta Grandi e inutili, le grandi opere in Italia da poco uscito per Einaudi. «In questi giorni Milazzo e Barcellona Pozzo di Gotto sono state vittima di alluvioni e solo per miracolo non ci è scappato il morto», commenta il giornalista e scrittore. «Da Giampilieri a oggi non un euro dei fondi stanziati per il dissesto idrogeologico in Sicilia è stato speso in queste due città. Stesso discorso a Messina, che è attraversata da circa 60 torrenti. A Messina da giorni i cittadini sono senz’acqua per una frana che ha travolto l’acquedotto. Di fronte a questo disastro– sottolinea Fraschilla – il Ponte sa solo di beffa». Renzi ha detto che il ponte si farà dopo aver messo in sicurezza e investito a Messina e in Sicilia. Bene, vista l’arretratezza delle infrastrutture in Sicilia ci vorranno decenni di investimenti».

La mappa degli incompiuti secondo National Geographic

Perché il premier Renzi non chiude più all’idea di costruire il ponte?

La risposta a mio avviso è semplice: grazie all’operazione messa in piedi dal governo Berlusconi, lo Stato rischia di pagare penali per quasi 600 milioni di euro alla cordata che ha vinto la gara. Il Ponte oggi non serve alla Sicilia, ma i cittadini italiani rischiano di pagare centinaia di milioni per un semplice modellino di plastica.

Sono già seicento le opere incompiute e appena abbozzate censite dal ministero delle Infrastrutture e dalle Regioni.

In realtà sono molte di più. Nemmeno i Comuni sanno spesso quante sono le incompiute nei loro territori. È come se le amministrazioni che si sono succedute, a tutti i livelli, avessero dimenticato quello che era stato fatto dai predecessori. Fondamentalmente perché ognuna ha pensato a cosa iniziare a costruire e non a completare quello che era rimasto a metà. Per un semplice motivo: in Italia dagli anni Settanta in poi si è pensato a come spendere i soldi e non a perché spenderli. Il risultato è che le nostre città e le nostre campagne sono state riempite da incompiute che ne devastano la bellezza. In alcuni casi si è invece pensato a investire ancora soldi in incompiute inutili, con esisti disastrosi

Da un lato in Italia si continua a spendere per le grandi opere e i grandi eventi dall’altro si tagliano i fondi e si indeboliscono le strutture di tutela del paesaggio e del patrimonio d’arte. Una evidente contraddizione?

In Italia i grandi eventi sono serviti ad affidare velocemente appalti aggirando le leggi ordinarie. Così abbiamo gettato al vento 300 milioni per il G8 fantasma de La Maddalena oppure abbiamo sprecato 200 milioni per gli impianti sportivi di Tor Vergata a Roma che doveva ospitare i mondiali di nuoto e invece sono rimasti a metà e adesso nessuno, né il Comune di Roma, né il Coni né l’Università sanno cosa fare di una spianata di terra con su la grande vela di Calatrava che ha la stessa quantità di acciaio della Torre Eiffel di Parigi. Nel mio libro parlo di 10 miliardi sprecati in opere grandi e inutili. Una Finanziaria dello Stato.

Una parte importante del libro è dedicata al dissesto idrogeologico provocato anche da continui abusi edilizi incoraggiati dai condoni. Lei riporta che sono oltre cinquemila le vittime per alluvioni e frane dal 1963 a oggi. Quali sono le cause principali di questo drammatico stato di cose?

Leggi troppo farraginose, molti e troppi enti coinvolti, burocrazia e politica che forse pensano più alle tangenti che ad altro, come purtroppo sta emergendo in diverse inchieste recenti. In Italia, come racconto nel libro, non sono stati spesi miliardi di euro stanziati per far fronte al dissesto idrogeologico, oppure sono stati spesi e le opere non sono state completate. Ma la cosa grave è che nessuno paga per questo, mentre in alcune aree del Paese si rischia la vita ogni volta che piove forte.

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Tasse, immigrazione, politica estera. I candidati repubblicani hanno qualcosa su cui litigare

Rieccoli: 8 candidati alle primarie repubblicane, una sola donna, a tentare di fare in modo che qualcuno, dopo due ore di discussione, si ricordi di loro. Perché sono stati i più brillanti, per la battuta azzaeccata, per l’attacco giusto contro i democratici e il presidente Obama o per essere apparsi seri e competenti oppure abbastanza conservatori da piacere a quel pezzo dell’elettorato repubblicano più a destra che non ha ancora scelto il suo campione.

Come al solito c’è chi è salito sul palco della FoxBusiness, il canale che mandava in onda il dibattito, sapendo che era la sua ultima chance. E chi voleva evitare danni. In quest’ultima categoria rientrava Ben Carson, che è in testa nei sondaggi nazionali e che di conseguenza è stato messo sotto la lente di ingrandimento dai media. Che lo hanno beccato a mentire su una borsa di studio all’accademia di West Point. Il neurochirurgo conservatore ne è uscito bene: nessuno ha tirato in ballo la cosa e lui, collegandosi alla sua «versione non accurata delle cose», ha attaccato Clinton sull’attacco all’ambasciata Usa a Benghazi chiamandola bugiarda. E poi è stato meno soporifero del solito. Visto che con performance peggiori ha scalato la classifica dei contendenti, questa per lui potrebbe essere un’ottima notizia. Chi invece era alla sua ultima chance era Jeb Bush, a cui i riflettori non piacciono più di tanto. Dall’inizio della sua candidatura si capisce la sua scarsa attitudine all’essere un animale da palco, con la battuta pronta e la voglia di azzannare gli avversari. Non è detto che sia un male, ma quando si è così mal messi nei sondaggi, una performance stellare può aiutare. Non è stato il caso, ieri notte. Anche se ad oggi, Jeb ha fornito la sua prova migliore. I prossimi giorni diranno se è servita a qualcosa o se si tratti di un morto che cammina che ha passato lo scettro del “candidato dell’establishment a Marco Rubio.


I candidati hanno litigato molto. Di tasse, politica estera e immigrazione. Conservatori contro moderati, buon senso contro sparate. Donald Trump, tornato a fare lo spaccone dopo che nell’ultimo dibattito aveva giocato al presidente, è tornato sul muro da costruire al confine con il Messico. «Dite che non funziona? Chiedete a Israele». La risposta di buon senso è venuta dai tre meno di destra sul tema, con John Kasich che gli ha detto: «Andiamo, dire che deporterete 15 milioni di perosne è roba per bambini, non è un discorso da adulti». Anche Bush e Rubio sono pro-riforma dell’immigrazione.

L’altro scontro duro è stato tra il giovane senatore della Florida che i boolmakers danno al momento come favorito e Rand Paul, senatore del Kentucky: «Spiegami se spendere miliardi per il Pentagono è una politica conservatrice». Qui siamo di fronte a uno scontro ideologico tra conservatori di risma differente: da un lato il libertario che vuole semplicemente abolire lo Stato e tornare all’isolazionismo americano, dall’altro quelli che pensano che la leadership americana sia fondamentale a salvare il mondo. Il più falco è Ted Cruz, che dice: «Se pensate che difendere questo Paese sia troppo costoso aspettate di vedere quanto costa non difenderlo». Altra buona performance la sua, che cerca con un certo successo di coagulare i conservatori attorno alla sua candidatura e poi giocarsela con Rubio o Bush (i moderati). E’ lui il vero outsider potenziale, Rand Paul e Huckabee – ormai relegato nel pre-dibattito – non sembrano in grado di farcela.

Ci si è scontrati sull’Isis, con Trump che sostiene l’intervento russo perché «contro quelli va bene tutto e i ribelli nemmeno sappiamo chi siano». E gli altri a spiegargli che la politica estera non è Monopoli. Il miliardario che ha probabilmente toccato l’apice nei mesi scorsi, ha fatto una gaffe vera, spiegando che nel TTP, il Trattato commerciale con i paesi asiatici «non c’è nemmeno una riga sulla manipolazione delle valute da parte della Cina, mentre quella dovrebbe essere la nostra prima preoccupazione». Il fatto, gli hanno fatto notare, è che nel TTP non c’è una riga sul tema perché la Cina non è parte dell’eventuale partnership del Pacifico. Anzi, il TTP è proprio uno strumento commerciale per contenere la Cina. Una brutta gaffe che segnala come Trump davvero non sia preparato su mille cose.

Se si escludono John Kasich e Carly Fiorina, tutti possono dire di portare a casa qualcosa da questo dibattito: Bush è vivo ma in terapia intensiva, Trump deve sperare in un pubblico abbastanza becero e divertito che continui a sostenerlo in quanto uomo di successo lontano a Washington, Carson non si è fatto male e guarda gli altri dall’alto, Paul è tornato ad essere aggressivo.

Ciò detto, Rubio e Cruz hanno mostrato di nuovo di essere bravi, capaci di piazzare le battute e al contempo preparati dal punto di vista dei contenuti. Salvo un autogol di Cruz che spiegando che avrebbe chiuso 5 agenzie federali ha fatto un elenco nominandone quattro (nel 2012 il governatore del Texas Perry ne fece una simile, fu un disastro per lui). Che poi i loro contenuti sarebbero un disastro per l’America e il mondo è un altro paio di maniche. I due senatori, entrambi con un nome ispanico, sono i meglio piazzati per un duello serio tra filosofie politiche di destra. Non è detto che le primarie repubblicane 2016 diventino mai un duello serio.

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