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Strette tra vecchi e nuovi maternalismi

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L’Italia è ormai da anni tra i Paesi a più bassa fecondità in Europa e tra i Paesi Ocse, anche se non ne detiene più il primato, essendo stata raggiunta e in alcuni casi, superata, in Europa, da Spagna, Germania, Portogallo e alcuni Paesi dell’Est europeo. L’Italia è anche un esempio del rovesciamento del rapporto tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità avvenuto nei Paesi sviluppati alla fine del secolo scorso. Paese a fecondità relativamente alta e occupazione femminile bassa ancora negli anni Settanta del Novecento, già a metà degli anni Ottanta mostrava sia tassi di occupazione femminile sia tassi di fecondità tra i più bassi, attorno all’1,5 figli per donna. Quest’ultimo tasso ha continuato a scendere fino al 1996, toccando l’1,19 figli per donna. Da allora è risalito molto lentamente (e in larga misura a motivo del più alto tasso di fecondità delle donne migranti), ma rimanendo sempre al di sotto dell’1,5. Negli ultimi anni, inoltre, la tendenza è tornata ad essere discendente. Nel 2013 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati), il tasso di fecondità era di 1,39 figli complessivamente, più basso tra le italiane che tra le straniere. Si è anche alzata l’età della madre alla nascita del primo figlio, con un progressivo aumento delle nascite da madri che hanno più di 35 anni. Nel 2013 l’età media delle donne alla nascita dei figli è stata di 31,5 anni, circa due anni e mezzo in più rispetto al 1995 (era 29,8). Negli ultimi anni, la diminuzione della nascite è stata particolarmente veloce nel Mezzogiorno, dove nell’arco di poche generazioni il livello di fecondità è andato convergendo, al ribasso, con quello del Centro Nord, nonostante (ma forse proprio a motivo) tassi di occupazione femminile molto più contenuti. Per altro, il fenomeno, raro, della maternità in età molto giovane, prima dei 18 anni, è concentrato pressoché solo nel mezzogiorno, segnalando una possibile mancanza, per alcune giovani donne appartenenti a gruppi sociali svantaggiati, di opzioni alternative, quali l’investimento nello studio e nel lavoro prima di effettuare una scelta di questa portata per le sue conseguenze nel medio e lungo periodo, per sé e per i figli.
Avere un figlio “troppo presto” può, infatti, essere rischioso per le chances di vita di una giovane donna. D’altra parte, anche decidere di avere un figlio – e ancor più averne un secondo – può essere oggi impossibile per le donne che vorrebbero entrare nel mercato del lavoro, ma si trovano strette nella doppia scarsità della domanda di lavoro e degli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro, come succede a molte donne del Mezzogiorno, specie se a bassa qualifica. Può essere anche molto difficile per chi riesce ad accedere al mercato del lavoro, ma deve scontrarsi con le sue rigidità o flessibilità sfavorevoli (insicurezza contrattuale, part time forzato), proprie e o del proprio compagno, unite alla carenza di strumenti di conciliazione anche nelle situazioni più favorevoli. Tutto ciò in un contesto culturale e di aspettative condivise – e talvolta istituzionalizzate – secondo cui il benessere psicofisico dei figli, soprattutto quando piccoli, è una prevalente, quando non esclusiva, responsabilità delle madri. L’Italia è uno dei Paesi in cui è più elevata la percentuale di chi ritiene che un bambino in età prescolare soffra se la mamma lavora.

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Siamo di fronte al permanere di vecchi modelli, più o meno forzati, di organizzazione della famiglia fondata su una forte divisione del lavoro in base al genere

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Le giovani mamme italiane si muovono strette tra un vecchio-nuovo “maternalismo”, che coniuga il mai superato stereotipo della madre sacrificale e di maternità totalizzante con un’idea altrettanto totalizzante dei bisogni del bambino, e il nuovo modello della supermamma giocoliera, che tiene insieme tutto, figli e lavoro, solo con le sue forze (ed è sempre a rischio di essere considerata egoista, narcisista). Sono modelli solo apparentemente opposti di ipermaternità che si trovano anche in altri Paesi e che sono difficili (oltre che rischiosi) da praticare ovunque e da chiunque, ma particolarmente in un Paese come l’Italia, ove l’ideologia e le politiche troppo spesso si saldano a formare un contesto molto poco amichevole per qualsiasi tipo di mamma. Non stupisce, allora, che quasi una donna su cinque al momento della nascita del figlio lasci, o perda, il lavoro (lo dice l’Istat nel Report del 28 dicembre 2011).


 

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Né vacche sacre, né porta del male. Il mondo è cambiato

Qualche tempo fa abbiamo letto di un dibattito scoppiato in America e di un libro dal titolo Vacche sacre che raccontava di una “cultura” secolare che concepiva le donne solo se madri. Brave madri, per obbligo, perché innatamente madri. Altrimenti cattive. Una vera e propria religione della maternità secondo la quale la donna nasce madre. Altro non può essere. Contemporaneamente, alla tv americana, una signora X raccontava di non aver mai desiderato di avere figli. E di non essersi, per questo, sentita malata o menomata o semplicemente “meno”, scatenando i peggiori insulti sulla rete. Valanghe di insulti in cui veniva definita perversa, contro natura, insensibile, una poco di buono, una donnaccia cattiva.
In redazione ne abbiamo discusso più volte. Il discorso è complesso e ha addosso secoli di religione e di ragione. Di logos occidentale. Ci siamo presi del tempo, ma la discussione tornava a galla a ogni riunione. I suoi rivoli sono infiniti: l’uguaglianza, la discriminazione, la liberazione, le nuove tecniche di procreazione medicalmente assistita, la fine dei legami di sangue, l’adozione, le patologie, le scelte, il desiderio, la creatività, l’identità. Gli affetti. La maternità come scelta e non come presunta e obbligata “creatività biologica”.
Come partecipare al dibattito allora? Cosa aggiungere, dopo aver scritto per anni di una pazzia assurda che arrivava a non considerare la donna neanche “essere umano”, ma solo un pezzo d’uomo, madre e moglie, vacca sacra o porta del male per secoli. Dal mito della verginità della Madonna, idolo femminile imposto all’Occidente, a tutto quello che storicamente ne è conseguito, dalla criminalizzazione della sessualità all’invenzione della cattiveria. Come dire di più? Anzi, come dire che oramai c’è un di più? Che nel frattempo il mondo è cambiato ma non ce lo dicono. Che questo cambiamento già lo viviamo. E che ora è arrivato il momento di raccontarlo e di scriverlo. Ognuno a modo suo. Chiara Saraceno lo fa con cifre alla mano per dimostrare che senza dubbio le ragioni economiche e sociali pesano sulle scelte di vita ma che ormai «l’aumento generalizzato della scolarizzazione, con le opportunità che apre di investire anche in una professione, l’aumentata possibilità di viaggiare e fare esperienze diverse, la pluralizzazione di modelli femminili non orientati esclusivamente sulla maternità e appagati nonostante l’assenza di maternità – tutti questi fenomeni da un lato estendono il fenomeno del ritardo nella decisione di maternità… Dall’altro lato, rendono legittimo pensare, e dire, senza timore di apparire devianti o peggio, che non occorre essere madri per realizzare il proprio progetto di vita, anche sul piano relazionale e affettivo».

Abraham Yehoshua, Francesca Fornario e Barbara Fiorio lo fanno con le loro storie che narrano di donne che non sono madri e mogli per scelta. Oppure decidono di esserlo, ma sempre per scelta. Per dirvi che le ragioni economiche non bastano più a spiegare la bassa natalità o l’evoluzione sociale di una famiglia che si allarga, che accoglie stranieri, che si lascia alle spalle il valore assurdo dei vincoli di sangue per aprirsi a nuovi e potenti vincoli affettivi. Le ragioni economiche (che diventano spesso politiche), nelle nostre storie sono al massimo ciò che frena, che fa da tappo, che tenta di nascondere un mondo umano che va da un’altra parte e che si ribella a tutto. In primo luogo alle “leggi della natura”, perché come dice Francesca Fornario, l’umanità è altra cosa e «io non mi fido affatto di quello che fa la natura, perché fosse per lei, se ti viene un cancro, muori. E invece noi abbiamo inventato la chemioterapia e la natura la freghiamo. Ecco, io tra la natura e gli esseri umani, tifo per gli esseri umani, perché hanno lo sguardo decisamente più lungo».

Questo editoriale lo trovi sul numero di Left in edicola e in digitale dal 30 ottobre

 

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Sono passati sei anni, ora. E io vado avanti

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Oggi a sei anni dalla morte di Stefano Cucchi al Parco degli Acquedotti in via Lemonia si terrà la manifestazione “Corri per Stefano”, gara podistica, reading e musica il 31 ottobre dalle 10 del mattino.


 

Pochi giorni dopo la morte di Stefano, Paolo, il mio migliore amico, fece un sogno.
Era Stefano che gli diceva: «Dì a mia sorella che sto bene ora, dille di non preoccuparsi per me. Dille di battersi, ma dille anche che forse non saprà mai quello che mi è accaduto e forse non avrà mai giustizia per la mia morte. Ma dille di andare avanti, perché quello che farà per me servirà per molti altri». In quel momento né io né Paolo potevamo capire il significato di quelle parole, era troppo presto.
Sono passati sei anni, ora. E ora, dopo tutto questo tempo e dopo tutto ciò che in questo tempo è accaduto, so perfettamente cosa Stefano voleva dirci allora, quando il dolore in me era ancora straziante e la strada che avevo davanti ancora sconosciuta. Avevo bisogno di risposte in quel momento, ne avevo bisogno per provare in qualche modo ad andare avanti nella mia vita. Col tempo ho capito che a volte bisogna invece imparare a convivere con dei vuoti.
E così sono andata avanti. Anche se mio fratello mi aveva detto che, forse, non avrei mai avuto giustizia, io quella giustizia l’ho ugualmente cercata e rincorsa. Insieme ai miei genitori, ai tanti e alle tante che non ci hanno lasciato da soli, ho affrontato momenti difficilissimi, che ci hanno devastati. Spesso, in questi sei anni, mi sono chiesta se lui avrebbe voluto tutto ciò, o se forse non avrebbe voluto riposare in pace e vedere anche per noi, la sua famiglia, un po’ di pace. E la risposta era sempre la stessa: bisognava andare avanti. Perché, mi sono ripetuta e mi ripeto, occorre poter dimostrare che quella stessa giustizia che ha ucciso Stefano, processandolo e mandandolo in carcere come albanese senza fissa dimora sulla base di un verbale del tutto sbagliato redatto dai carabinieri (quegli stessi che oggi, dopo sei anni, sembrano essere sospettati di qualcosa) senza che nessuno lo guardasse in faccia o ascoltasse la sofferenza nella sua voce mentre più volte si scusa perché non riesce a parlare bene, quella stessa giustizia che ha fatto prima di tutto il processo a lui, volendo dimostrare che in fondo il principale responsabile della morte era il morto stesso, quella stessa giustizia sia alla fine capace di essere rigorosa anche con se stessa.
Sono tante le prove che abbiamo dovuto affrontare e superare, mentre nel frattempo facevamo sempre più i conti con quel lutto mai completamente elaborato, impossibile da elaborare. Dopo la pronuncia della sentenza di secondo grado, quella che assolveva tutti per insufficienza di prove, ho guardato Fabio, il mio avvocato, la persona sempre presente in tanti anni di lotta, e gli ho detto: «Abbiamo vinto!». Lui mi guardava perplesso, lui a fianco a noi aveva lottato per cinque anni in un processo estenuante e disumano e ora aveva davanti la sua cliente che era uscita di testa. Questo avrà pensato fuori da quell’aula. Ma io ho proseguito e la sera gli ripetevo ancora, avendo negli occhi le persone che continuavano a chiedere giustizia: «Fabio noi abbiamo vinto».
Fabio alla fine ha capito, lui che per tutto quel tempo non si era arreso all’ipocrisia di un processo confezionato per salvare tutti e aveva lottato, contro tutto e tutti, per restituire almeno dignità a mio fratello. E per dimostrare la verità tra una serie infinita di menzogne. Avevamo perso, è vero, ma io e Fabio avevamo e abbiamo vinto.
Fuori da quell’aula tutti sapevano e tutti avevano capito. E lo sdegno fu unanime. Le persone che ci incontravano, che ci guardavano negli occhi, non trasmettevano pietà ma condivisione, consapevolezza, indignazione e orgoglio. Una dignità che ci accomunava e che ci unirà per sempre.
Oggi, dopo sei anni esatti dalla morte di Stefano, siamo a una svolta. Qualcosa in quel muro di gomma misero e falso, fatto di menzogne e ipocrisie forse si è rotto. Oggi, dopo sei anni, la giustizia ha la sua opportunità per dimostrare di essere davvero giusta e davvero uguale per tutti.
Aveva ragione Stefano, quello che abbiamo fatto è servito e servirà per molti altri. Ma a Stefano dico che, come sempre, ancora non gli credo fino in fondo e vado avanti, perché quello che abbiamo fatto voglio serva anche per lui. E non solo per lui, forse per tanti di noi… di voi.

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Questo monologo compare sul n. 41 di Left in edicola dal 31 ottobre

 

La pubblicità Tv di Twitter, che cerca disperatamente nuovi utenti

Twitter ha organizzato la sua prima campagna pubblicitaria televisiva negli Stati Uniti: una serie di spot trasmessi durante le World Series, la serie finale del campionato professionistico di baseball. Tra i primi spot trasmessi ci sono “Post-Season”, dedicato ai fan del baseball con una serie di clip e GIF animate per mostrare come le partite possono essere seguite e raccontate tramite Twitter e “Moments”, il nuovo servizio da poco disponibile negli Stati Uniti, una sorta di antologia in tempo reale dei tweet più popolari che riguardano temi strettamente correlati all’attualità. Le caratteristiche sono la velocità, l’ottimismo e i meme, di cui “Moments” è pieno, per attirare una clientela più giovane e dinamica.

La campagna pubblicitaria, realizzata da TBWA\Chiat\Day, conosciuta per avere creato lo spot “1984” della Apple di cui si parla ancora come un capolavoro pubblicitario, fa parte di una campagna di marketing su vasta scala progettata per raggiungere le persone che non avevano mai usato Twitter prima, o che avevano provato e abbandonato anni fa. La verità è che lo spot si è attirato diverse critiche su Twitter e anche da parte di esperti della materia: «Non riesco a immaginare che interesse possa generare per chi non ha familiarità con ciò che Twitter è. E’ troppo veloce, ed è stato una specie di miscuglio di cose diverse» ha detto George Nimeh, imprenditore tech alla Bbc. L’improvviso interesse per la pubblicità televisiva del colosso social si spiega con i deludenti risultati dell’ultimo trimestre (e dei precedenti) , che hanno portato il titolo della società a perdere in borsa. Dal punto di vista finanziario, invece, Twitter se l’è cavata bene, superando i ricavi dello scorso anno e riducendo le perdite su base annua, passando da 175 milioni di dollari a 132 milioni.

Nel complesso, come si nota dal grafico qui sotto (fermo al 2014), il numero di utenti di Twitter non cresce abbastanza: se Facebook conosce un rallentamento dovuto sostanzialmente all’aver esaurito il numero di clienti potenziali o quasi, Twitter ne ha ancora relativamente pochi, ma non cresce quanto altri social che negli ultimi due tre anni hanno conosciuto trend impressionanti (Instagram, Pinterest, Reddit)

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I dati che hanno però allarmato l’azienda e gli investitori sono stati quelli sull’andamento degli iscritti al servizio. Negli ultimi tre mesi Twitter ha guadagnato appena 4 milioni di nuovi utenti attivi su base mensile, portando il totale degli iscritti attivi a 320 milioni, mentre le previsioni avevano calcolato 324 milioni di persone. Jack Dorsey, co-fondatore di Twitter e da qualche mese nuovamente amministratore delegato della società, sta puntando sui nuovi servizi, come “Moments”, sulla pubblicità e su altre innovazioni per accelerare la crescita del social network, essenziale per rendere più redditizie le pubblicità che vengono mostrate nelle timeline degli utenti, oltre ai classici tweet.

Kathryn Apte, dirigente del marketing dei prodotti per l’azienda, ha specificato che i “Moments” sono stati creati con una precisa funzione di marketing: la società ha identificato cinque gruppi principali di persone che non utilizzavano ancora Twitter, tra i quali gli appassionati di sport e la fascia di donne tra i 18 e i 24 anni, chiamate “connettori sociali”. “Moments” è, appunto, progettato per arrivare anche a loro. La campagna di Twitter si estende anche al di là della TV, attraverso ricerche a pagamento e la creazione di nuove app per cellulari. Ma gli annunci TV rimangono la parte più sostanziale, e più costosa, della campagna. Anthony Noto, il capo dell’ufficio finanziario di Twitter, ha rilasciato un’intervista a The Verge, in cui sostiene che l’obiettivo della campagna «è riuscire a far vedere ai potenziali utilizzatori del servizio tutto quello che Twitter offre quotidianamente, usando i loro interessi come degli ami, che li attirino. Abbiamo bisogno di andare incontro agli interessi individuali delle persone». Un bel cambiamento di strategia promozionale: Twitter, negli intenti della campagna promozionale, coinvolgerà le persone a partire da ciò che gli interessa e non come stream dello scibile umano. L’idea non è più “ci trovi tutto”, ma “ci trovi quel che ti piace”.

 

Qui sotto uno spot mirato alle compagnie che spiega le potenzialità commerciali della fusione tra pubblicità Tv e lavoro pubblicitario su Twitter. L’ossessione della compagnia, che continua a essere bacchettata per la sua performance mediocre dal punto di vista della crescita di utenti, è dimostrare di essere una piattaforma con potenziale commerciale tanto quanto Facebook e Google.

 

L’Onu verso Cop21: impegni nazionali sul clima meglio che in passato. Ma non bastano

Le Nazioni Unite hanno diffuso la loro valutazione generale sui 146 piani nazionali presentati in vista della Conferenza di Parigi sul clima (30 novembre-11 dicembre). Il quadro è chiaro-scuro, con un problema di fondo: se pure implementati, i piani non riusciranno a impedire che la temperatura media globale si alzi di 2 gradi centigradi, considerata dagli scienziati la soglia di guardia. Se applicati, i piani ridurranno in maniera considerevole le emissioni pro-capite – del 9% entro il 2030 – ma la concentrazione di CO2 nell’atmosfera continuerà ad aumentare.

La grande novità rispetto a Kyoto è il numero di Paesi coinvolti che, registrata la gravità della situazione relativa al cambiamento climatico, scelgono di adottare delle misure per contrastarlo. Rispetto al primo vertice che si occupò di questo tema la percentuale di emissioni coinvolta dai piani nazionali è moltiplicata per quattro – Cina e Stati Uniti non avevano firmato e i piccoli Paesi non prendevano impegni, oggi anche Etiopia e Costa Rica scelgono di avere politiche, consci che i danni del riscaldamento globale colpiranno prima i Paesi più poveri e quelli la cui collocazione geografica li mette più a rischio.

La valutazione degli esperti Onu è parzialmente positiva: i piani indicano aumenti della temperatura globale che dovrebbe essere intorno ai 2.7 gradi rispetto ai livelli pre- rivoluzione industriale. La valutazione dell’Onu spiega anche che l’obbiettivo dei due gradi non è impossibile da raggiungere e che i nuovi impegni sono un passo in avanti anche rispetto a un anno fa, quando l’impatto dei piani veniva valutato in un aumento della temperatura di 3,1 gradi. I due gradi sono il livello massimo tollerabile per l’ecosistema, oltre, sostengono gli scienziati, si rischiano impatti climatici significativi e pericolosi.

La notizia è per metà buona anche se si considera che fino a qualche anno fa i livelli di emissioni previsti facevano prevedere unaumento delle temperature di quattro o cinque gradi, con effetti catastrofici.

La cattiva notizia, oltre all’insufficienza degli impegni, è il legame tra impegni dei Paesi poveri e disponibilità di risorse: se i Paesi ricchi non ne metteranno abbastanza a disposizione è impensabile che alcuni Paesi africani facciano passi in avanti.

Nel frattempo si moltiplicano le idee, prese di posizione e proposte. Nell’editoriale sull’ultimo numero in edicola, The Lancet, il più autorevole giornale medico al mondo, propone di tagliare in maniera drastica le emissioni di inquinanti climatici di breve durata (che scompaiono in fretta dall’atmosfera):

Se le comunità politiche che professano il loro impegno contro il cambiamento climatico voglioni impedire che la loro credibilità vada in fumo di fronte a decenni di inazione, potrebbero iniziare il lavoro concentrandosi sugli inquinanti climatici di breve durata. L’impatto di questi inquinanti sulla salute e il riscaldamento globale è evidente, e le tecnologie per ridurre le emissioni sono già disponibili.

A differenza dell’anidride carbonica e di altri gas che rimangono nell’atmosfera per centinaia di migliaia di anni, gli inquinanti di breve durata clima, come il nerofumo (fuliggine), l’ozono troposferico e il metano, persistono per pochi giorni o per decenni e la loro riduzione potrebbe rallentare il riscaldamento globale entro 10 anni.

Il World Resource Institute, invece, propone 5 punti fondamentali per rallentare il riscaldamento del clima ma avverte: «Fino a oggi abbiamo corso una maratona, prima e durante il vertice di Parigi servirà uno sprint».

A proposito di impegni a breve e comportamenti: qui sotto un breve cartone di The Guardian che spiega quanto la volontà di rinfrescare i nostri ambienti chiusi con l’aria condizionata alimenti il riscaldamento del pianeta. Un tempo erano gli Usa a essere campioni dell’uso smodato di condizionatori. Oggi l’Asia insegue (e anche in Italia, negli ultimi anni, abbiamo cominciato a usarli come se non ci fosse un domani)

Migranti, quando lo smartphone è un prezioso compagno di viaggio

La polemica è stata sollevata più volte sui social network: “se sono migranti, se non hanno nulla, se sono in fuga e disperati perché possono permettersi uno smartphone?”. Come se in fatto di disperazione, guerra e migrazioni il tempo si dovesse essere fermato al secolo scorso, alle carovane e alle valige di cartone. Secondo The Indipendent la questione è semplice: chi si pone domande del genere evidentemente è un idiota.

Un migrante controlla se il suo cellulare si è ricaricato mentre aspetta di attraversare il confine fra la Serbia e la Croazia nel villaggio di Berkasovo, circa 100 km a ovest di Belgrado in Serbia. (AP Photo/Darko Vojinovic)
Un migrante controlla se il suo cellulare si è ricaricato mentre aspetta di attraversare il confine fra la Serbia e la Croazia nel villaggio di Berkasovo, circa 100 km a ovest di Belgrado in Serbia. (AP Photo/Darko Vojinovic)

A refugee checks her mobile phone at a resting point shortly after arriving on a dinghy from the Turkish coast to the northeastern Greek island of Lesbos, Tuesday, Oct. 6, 2015. (AP Photo/Santi Palacios)
Una rifugiata controlla il suo cellulare dopo essere arrivata a Lesbo dalla Turchia.

 

Senza essere così diretti, sicuramente quello che salta agli occhi quanto sia scarsa la consapevolezza delle reali condizioni di vita di chi, da un giorno all’altro, si trasforma in migrante, clandestino, esule, rifugiato. O in una qualsiasi delle mille parole che utilizziamo per indicare un qualcosa che troppo spesso riusciamo a percepire solo nelle dimensioni di eccezionalità e di lontananza.

La Siria per esempio è classificata come un Paese a reddito medio basso, le condizioni generali della popolazione non impediscono quindi a chi parte di possedere uno smartphone dotato di gps e fotocamera visto che ha un costo inferiore ai 100 dollari. Facciamocene una ragione: nel 2015, i migranti hanno lo smartphone, sanno cosa è un selfie, chattano su whazzapp e usano google maps. E questo non significa che siano ricchi, che potevano starsene a casa loro, che non siano disperati.
Perché, come scrive la giovane poetessa Warsan Shireh, «Nessuno mette i suoi figli su una barca a meno che l’acqua non sia più sicura della terra».

A man prays as another uses his cell phone to take a photograph after their arrival on a dinghy from the Turkish coast to the northeastern Greek island of Lesbos, Monday, Oct. 19, 2015. More than 600,000 people, mostly Syrians, have reached Europe since the beginning of this year. (AP Photo/Santi Palacios)
Un uomo prega mentre l’altro scatta una foto per testimoniare il loro arrivo sulla terra ferma.

 

Durante il viaggio il telefono cellulare si trasforma in uno strumento prezioso per chi, in fuga dall’Africa o dal Medio Oriente, cerca di arrivare in Europa. I rifugiati usano le app di messaggistica come WhatsApp, Viber e Linea per comunicare con i propri cari a casa, far sapere loro dove sono, mandare un selfie per dire una cosa semplice come “sono arrivato” e straordinaria come “sono vivo”.

A Syrian man holds his daughter while making a phone call immediately after his arrival on a dinghy from the Turkish coast to the northeastern Greek island of Lesbos, Thursday, Oct. 8, 2015. More than 500,000 people have arrived in the European Union this year, seeking sanctuary or jobs and sparking the EU's biggest refugee emergency in decades. (AP Photo/Santi Palacios)
Un uomo siriano tiene in braccio la figlia mentre chiama i suoi cari subito dopo essere approdato sull’isola di Lesbo a bordo di un gommone partito dalla costa turca.  (AP Photo/Santi Palacios)

 

Attraversano le fontiere utilizzando il gps di Google Maps o e dopo aver già cercato mappe e rotte da percorrere da casa, prima di partire, sempre su internet, sempre su Google. Le parole più cercate su Google in Siria in questi mesi sono: ospedale, respirazione bocca a bocca e il percorso per arrivare in Germania. Tre cose che da sole rendono chiaro il quadro della situazione.

I migranti documentano su Instagram il loro viaggio nel tentativo di raggiungere l’Europa. E uno smartphone è spesso l’unico elemento che portano. L’unico mezzo attraverso il quale registrare quello che si sta vivendo. «Vogliamo avere dei ricordi del brutto viaggio che abbiamo fatto» spiega per esempio Ahmed Mehar Aloussi, 30 anni, in fuga da Damasco intervistato dal corrispondente della rivista Time.
La crisi dei rifugiati che sta travolgendo l’Europa in questi ultimi anni è la prima dell’era digitale. Un tempo pensieri e speranze si consegnavano a lettere e diari, le risposte si cercavano nelle mappe e negli atlanti. Oggi l’esodo è cambiato, come sono cambiati i tempi, e ad ogni passaggio di frontiera, si apre una gara per trovare la rete, una nuova carta sim locale o una rete wi-fi pubblica.

 

epa04076557 This picture entittled 'Signal' by US photographer John Stanmeyer of the VII Photo Agency is the World Press Photo of the Year 2013 in the 57th World Press Photo Contest, it was announced by the organizers on 14 February 2014 in Amsterdam, The Netherlands. The picture shows African migrants on the shore of Djibouti city at night, raising their phones in an attempt to capture an inexpensive signal from neighboring Somaliaa tenuous link to relatives abroad. Djibouti is a common stop-off point for migrants in transit from such countries as Somalia, Ethiopia and Eritrea, seeking a better life in Europe and the Middle East. The picture also won 1st Prize in the Contemporary Issues category, and was shot for National Geographic. EPA/JOHN STANMEYER / VII AGENCY/ NATIONAL GEOGRAPHIC Editorial us only, no sales, no archive, no cropping, no manipulating, use only in connection with the World Press Photo and its activities HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES/NO ARCHIVES
Gli smartphone accompagnano i migranti nelle loro rotte già da qualche anno. Questa foto è del 2013 e mostra dei profughi africani che alzano i loro cellulari sulla spiaggia di Djibouti  durante la notte nel tentativo di prendere il tenue segnale di rete della vicina Somalia per contattare i propri cari.  Djibouti è una tappa fissa per i migranti che sono in transito da Paesi come la Somalia, l’Etiopia e l’Eritrea.  Questa foto è stata scattata per il National Geographic.

 

Quando la rotta intrapresa dai migranti prevede un passaggio via mare, in molti salvano il proprio smartphone dall’acqua avvolgendolo in una busta di plastica, in un palloncino o in un guanto in lattice e assicurandoselo sotto il giubbotto di salvataggio prima di salire sul gommone.

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E poi c’è chi sale sul barcone pronto all’invio di messaggi sms che lancino l’sos in tempo per far arrivare i soccorsi prima dell’emergenza, ma dopo che si è già oltrepassato il confine. I profughi spesso provengono da zone urbanizzate, in particolare i rifugiati Siriani, e sanno sfruttare al meglio i loro smartphone per rendere quanto più facile e sicuro possibile il loro viaggio.

epa04933278 Refugees charge their mobile phones at the border station between Serbia and Hungary near Horgos, northern Serbia, 16 September 2015. Hungarian police fire tear gas and deploy water cannon to push migrants away from a barricade at Roszke on the border with Serbia. Hungary declared a state of emergency in two counties along its border with Serbia, after it used a boxcar fitted with razor wire to block a major entry point there. Declaring the state of emergency paves the way for parliament to allow the army to reinforce police along the border, as new measures to crackdown on refugees go into effect. EPA/TAMAS SOKI HUNGARY OUT

epa04933285 Refugees charge their mobile phones at the border station between Serbia and Hungary near Horgos, northern Serbia, 16 September 2015. Hungarian police fire tear gas and deploy water cannon to push migrants away from a barricade at Roszke on the border with Serbia. Hungary declared a state of emergency in two counties along its border with Serbia, after it used a boxcar fitted with razor wire to block a major entry point there. Declaring the state of emergency paves the way for parliament to allow the army to reinforce police along the border, as new measures to crackdown on refugees go into effect. EPA/TAMAS SOKI HUNGARY OUT
Rifugiati ricaricano il loro cellulare arrivati al confine fra Serbia e Ungheria

 

Nei punti di racconta, nei campi o nelle stazioni dove vengono radunati durante le tappe del tragitto assieme a beni di prima necessità e scarpe vengono forniti punti dove è possibile ricaricare il proprio telefono o accedere al wi-fi. La domanda per questo servizio fra i migranti è altissima. Per esempio alla stazione di Keleti in Ungheria dove erano stati accolti migliaia di migranti, la richiesta energia elettrica e wi-fi è stata talmente alta che Greenpeace ha dovuto montare una tenda più grande per dare risposta alle esigenze di tutti. Alla domanda su cosa sia più importante fra il cibo e la possibilità di caricare il proprio smartphone, molti rifugiati, soprattutto i più giovani, non esitano nemmeno un attimo a rispondere: scelgono la seconda.

Gli smartphone infatti sono una risorsa capace di rendere i migranti preparati ad affrontare le difficoltà del viaggio, ma anche quelle che si presenteranno all’arrivo: sapere dove andare, con chi parlare, avere la possibilità di riuscire a tradurre nella propria lingua quello che non si comprende. A volte, semplicemente non sentirsi soli e abbandonati a se stessi.

A man looks at his mobile phone while waiting for a train heading toward Serbia, at the transit camp for refugees near the southern Macedonian town of Gevgelija, after crossing the border from Greece, early Thursday, Oct. 8, 2015. Several thousand migrants and refugees enter daily from Greece into Macedonia on their way through the Balkans towards the more prosperous European Union countries. More than 500,000 people have arrived this year in EU seeking sanctuary or jobs, sparking the EU's biggest refugee emergency in decades. (AP Photo/Boris Grdanoski)
In un campo profughi di transito a sud della Macedonia nella città di Gevgelija un uomo guarda il suo smartphone mentre aspetta il treno che gli permetterà di attraversare la Serbia.

 

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Halloween, Wal-Mart costretta a ritirare un costume da soldato israeliano

Chi non vorrebbe terrorizzare tutto il vicinato la notte di Halloween, mandando il proprio figlio a fare “dolcetto o scherzetto” con un paurosissimo costume da piccolo soldato israeliano?
Da Walmart, una delle più grandi catene di negozi al dettaglio statunitensi, si può. O meglio, si poteva. Il controverso outfit è stato talmente criticato, sui social network e da moltissime associazioni in Usa, che Walmart ha dovuto bloccarne la vendita.

 

Il costume da soldatino israeliano comprendeva una completo militare, una giacca con la sigla delle forze di difesa israeliane (IDF), una cintura porta munizioni, il cappello rosso dell’esercito israeliano e una mitraglietta giocattolo, somigliante in tutto e per tutto al. E veniva venduto a saldo a solo $ 27,44. La descrizione sul sito web riportava anche un attraente motto per invogliare il genitore indeciso: «E’ tempo di Halloween, rendi perfetto il completo di tuo figlio con questo costume».

La denuncia nei confronti del negozio è arrivata dalla Commissione Anti-Discriminazione arabo-americana (ADC), che ha richiesto l’interruzione immediata della vendita dei costumi, sostenendo che il rivenditore offendeva tutta la comunità araba residente in America, soprattutto a seguito della recente escalation di violenza tra israeliani e palestinesi a Gerusalemme e in Cisgiordania. «Un costume per bambini che rappresenta un simbolo di paura, violenza e una lunga storia di soprusi non fa ridere nessuno» è scritto nella lettera di denuncia inviata dal gruppo schierato a difesa dei diritti civili. L’Istituto arabo-americano con sede a Washington (AAI) ha descritto il costume come «qualcosa di spaventoso, con cui si è raggiunto un nuovo grado di ignoranza riguardo alla Palestina in America».

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Facebook e Twitter sono stati invasi di commenti indignati sulla vicenda: «Walmart vende costumi di soldati israeliani ai bambini! E’ disgustoso!»; oppure «Ehi Walmart, non ti rendi conto che stai sostenendo l’uccisione di bambini innocenti con questo costume?». Il comico palestinese-americano Amer Zahr ha twittato sul suo profilo: «Così i bambini piccoli verranno a bussare alla mia porta sabato prossimo dicendo: dolcetto o … wow, la vostra casa è bella.. tutti fuori, adesso è mia».

Gli utenti dei social media, facendo ricerche su Walmart, hanno anche individuato un altro prodotto “della vergogna”: il “naso dello sceicco Fagin”, un falso naso che si aggancia al viso e prende il nome dal cattivo di Oliver Twist di Charles Dickens, utilizzato come accessorio per un costume di Halloween. Il paradosso è che in questo caso Fagin l’ebreo era usato come rappresentazione di un arabo. Il finto naso venduto per $ 6,80 è ancora disponibile su Amazon, che gli ha cambiato nome in “il naso del Sultano”.

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La multinazionale aveva già venduto prodotti ritenuti offensivi per il popolo arabo, come un costume di Bin Laden per Halloween o una torta ispirata all’Isis con scritte in arabo sopra. Walmart si scusò per l’errore affermando che un socio in un negozio locale non sapeva cosa significasse e fece semplicemente quello che il cliente aveva richiesto. «La torta non avrebbe dovuto essere fatta e ci scusiamo» dissero ad ABC News. Nel 2014 l’ira della rete si era scatenata contro i “fat girl costumes” costumi come gli altri ma concepiti per le ragazze grasse.

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Matteo Stiffler, professore di studi arabi presso l’Università del Michigan, ha detto al Middle East Time che non è mai opportuno rappresentare un’altra cultura durante la tradizionale festa di Halloween: i costumi di Halloween sono fatti per essere spaventosi, divertenti o sexy. «Se applichi una di queste etichette ad un’etnia o a una religione stai distorcendo la realtà e creando un precedente pericoloso». Il professore ha però deciso di controbattere, inventando un’interessante iniziativa: ha chiesto ai suoi studenti di creare costumi di altre culture e religioni, per vedere quali sono i pregiudizi legati ai vari gruppi etnici.

Touil è innocente ma clandestino. Se venisse espulso in Marocco potrebbe rischiare la pena di morte

Prendi un innocente, arrestalo, sull’onda del terrore che segue evidentemente a una strage. Poi, accertato che non è colpevole, liberalo. E a quel punto rinchiudilo in un Cie. Perché? Perché è arrivato su un barcone. È un clandestino. Anzi – come si chiamano adesso secondo il “nuovo dizionario europeo” – è un “migrante economico.

Abdel Majid Touil, il 22enne marocchino accusato da Tunisi di aver partecipato alla strage del 18 marzo al museo del Bardo, 24 morti tra cui due italiani, non sarà “estradato”, ma sarà “espulso”. Che vuol dire? Che i giudici della V Corte d’Appello di Milano hanno negato l’estradizione verso la Tunisia, perché lì rischierebbe la pena di morte. Ma Touil, figlio di un’immigrata regolare residente nel Milanese – è entrato in Italia su un barcone, recuperato a largo del Mediterraneo dalla Marina italiana il 17 febbario. È arrivato in Italia su un barcone ed è tunisino (Paese sicuro, dove non c’è la guerra) perciò, essendo un “migrante economico”, deve essere espulso. Verso dove? Verso il Marocco, il suo Paese. «Abbiamo accordi bilaterali di riammissione con quel Paese», avverte il giurista Fulvio Vassallo: «E se lo rimandassero in Marocco lo torturerebbero per fargli confessare qualsiasi cosa». E Gabriella Guido di LasciateCientrare aggiunge: «Un dramma, stiamo sentendo tutti per capirlo, sarebbe una condanna a morte  di un innocente». Intanto il suo avvocato, che non riesce a incontrarlo in queste ore, si preoccupa di non fare in tempo a procedere per la richiesta di asilo politico.

La vicenda

La Corte di Appello di Milano, negando l’estradizione, lo ha salvato dalla certa pena di morte che lo avrebbe atteso in Tunisia. Ma c’è di più: la procura lo ritiene innocente, perciò ha chiesto l’archiviazione per le accuse di strage e terrorismo internazionale. Insomma, per i pm non ci sono elementi sufficienti per ritenerlo responsabile, perciò hanno deciso di non adottare né lo stato di fermo né alcuna misura cautelare, adesso spetterà al giudice decidere se archiviare – o meno – le accuse. Intanto Touil ha lasciato la cella del carcere di Opera dopo cinque mesi di reclusione, ma dal carcere è passato direttamente alla questura, perché, è irregolare. E la questura lo ha trasferito all’interno del Cie di Torino, in attesa dell’espulsione. Oggi l’avvocato di Touil, Silvia Fiorentino, dichiara: «Il ragazzo deve chiedere asilo politico. Ma non me lo fanno vedere». E non è proprio un dettaglio, perché le autorità tunisine accusano il ragazzo di aver incontrato due terroristi e di aver fornito delle armi utilizzate per la strage.

Il suo Paese, il Marocco

All’indomani della Primavera araba, nel 2011, il nostro Paese è ha sottoscritto accordi bilaterali per la riammissione con l’Egitto, la Tunisia, la Nigeria e poi anche con il Marocco. Poi, il 7 giugno, è arrivata la partnership Ue-Marocco sul fronte mobilità e immigrazione, che per la prima volta impegna l’Europa icon un Paese della sponda Sud del Mediterraneo. L’accordo sottoscritto a Lussemburgo tra il commissario Ue agli affari interni, Cecilia Malmstrom e il ministro degli Esteri marocchino Saad dine El Otmani e i ministri responsabili del dossier immigrazione di nove Stati membri: Italia, Belgio, Francia, Germania, Olanda, Portogallo, Spagna, Svezia e Gran Bretagna.
L’ultima volta che in Marocco è stata eseguita una condanna a morte era il 1993, ma l’opzione è ancora prevista dal codice penale.

Cosa avrebbe rischiato in Tunisia
La Repubblica parlamentare tunisina è uno dei 40 Stati del mondo che prevedono ed eseguono la pena di morte. La nuova Costituzione, adottata il 26 gennaio del 2014, mantiene la pena capitale, nonostante una petizione di 70 parlamentari ne abbia chiesto l’abolizione.
I tre partiti componenti la maggioranza del NCA – Ennahda , CPR e Ettakatol – hanno sostenuto che la società tunisina non sarebbe pronta ad abolirla: hanno seguito ciò che il presidente Marsit ha definito «una lettura letterale e restrittiva del Corano». E pensare che la stessa Costituzione all’articolo 21 stabilisce: «Il diritto alla vita è sacro» ma al contempo consente eccezioni nella seconda parte dell’art. 21: «Nessuno può violarlo, ad eccezione di casi estremi stabiliti dalla legge». La vita di Abdel Mayid Touil sarebbe rientrata, evidentemente, tra queste eccezioni.

Gli stranieri? Meno criminali degli italiani

Mettetevi l’anima in pace: gli stranieri, gli “immigrati”, i “clandestini”, non sono il fattore criminale preponderante nel nostro Paese. Quello, siamo noi. Secondo i dati elaborati dall’Idos/Unar, nel periodo 2004-2013 le denunce penali verso italiani, a fronte di una popolazione in leggera diminuzione, sono aumentate del 28% mentre quelle a carico di stranieri, a fronte di una popolazione più che raddoppiata, sono diminuite del 6,2%.

Così come sono diminuite le denunce contro stranieri sul totale di quelle contro autore noto: la prima è scesa dal 32,5% del 2004 al 26,7% nel 2013.

Questo è solo uno degli aspetti rilevati dal Dossier statistico sull’immigrazione del 2015, curato per conto della Presidenza del Consiglio dei ministri assieme all’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (di cui qui i punti chiave generali) e pubblicati anche su Redattoresociale.it, che segnala, riassumendo: «una crescita progressiva, seppure rallentata, della popolazione immigrata; un forte forte aumento dei processi di inserimento (acquisizioni di cittadinanza, iscrizioni a scuola, incidenza sugli occupati e sulle nascite); la persistenza del bilancio positivo tra spesa pubblica ed entrate statali assicurate dagli stranieri; il miglioramento delle statistiche penali; le crescenti difficoltà nel superare le discriminazioni e nell’orientare le politiche di immigrazione e di integrazione».

Proprio sull’aspetto penale, generalmente fulcro dei luoghi comuni di più becero populismo razzista e di paure più che sedimentate tra gli abitanti dello Stivale, è importante soffermarsi. Visto che non corrisponde alle nere “aspettative” chiamate anche pregiudizi.

Un dato significativo soprattutto se associato alla tipologia dei reati. Anche il primato per la gravità dei crimini commessi, spetta a noi. Dei 7.961 detenuti per condanne brevi (meno di tre anni di carcere), per reati minori, 3.419 erano stranieri: una percentuale altissima, pari al 42,9%. Di contro, gli stranieri tra gli ergastolani erano solo 87 rispetto ai 1.603 totali: il 5,4%. Una quota irrisoria rispetto ai nostri compatrioti

In generale, la presenza degli stranieri nei nostri istituti di detenzione, è minore. Al 30 giugno 2015 i detenuti nelle 198 carceri italiane erano 52.754. Di questi, gli stranieri erano 17.207 ovvero il 32,6% del totale. Quattro punti percentuali in meno rispetto a cinque anni prima: di fronte a una decrescita della popolazione detenuta, gli stranieri sono diminuiti in misura maggiore rispetto agli italiani.

C’è un altro elemento evidenziato dal Dossier statistico del Centro studi,  cioè l’esito discriminatorio, definito dai ricercatori addirittura «evidente», circa le possibilità per i detenuti di usufruire delle misure alternative – che tecnicamente gli spetterebbero e che in realtà vengono eseguite come vere e proprie concessioni, come la possibilità di godere di benefici premiali o di scontare parte della pena all’esterno, generalmente sono misure concedibili ai detenuti per reati minori (meno di tre anni di carcere). Ebbene, sempre al 30 giugno 2015, gli stranieri costituivano il 36,5% di coloro che erano nelle condizioni di accedere alle misure alternative. Eppure, alla stessa data gli stranieri che beneficiavano di una misura alternativa alla detenzione erano il 20,8% del totale, con uno scarto negativo del 15,7% rispetto agli italiani.

Insomma, pare proprio che solo una piccola percentuale venga in Italia per delinquere. Chi l’avrebbe mai detto…


Il rapporto in pillole

Di 240 milioni di migranti stimati nel mondo, 5 milioni e 14mila sono stranieri residenti in Italia e 5 milioni sono italiani registrati nelle anagrafi consolari come emigrati: nel 2014, anzi, i connazionali all’estero sono aumentati più degli stranieri residenti in Italia (+155mila gli emigrati e +92mila gli immigrati). Nel 2014 i migranti forzati (rifugiati, richiedenti asilo e sfollati) sono aumentati in misura notevole in Italia, ma meno che a livello mondiale: 8 milioni in più rispetto all’anno scorso. E anche i richiedenti asilo, che in Italia sono stati 65mila, nel mondo sono stati 1,8 milioni e nell’Ue 628mila. La presenza asiatica in Italia, di cui la Cina è la prima collettività (266mila residenti su 969mila asiatici) rappresenta quasi un quinto dei residenti stranieri, per cui il nostro paese è lo Stato membro più “asiatico” dopo la Gran Bretagna. In Italia l’immigrazione ha rallentato la crescita, così come è avvenuto in Europa, mentre è aumentato il numero di cittadini italiani con un passato migratorio: sono quasi 130mila i casi di acquisizione di cittadinanza in Italia nel 2014, circa 1 milione nell’Ue. La crisi ha determinato in Italia il mancato rinnovo di 155mila permessi di soggiorno, in prevalenza per lavoro o per famiglia, ma non ha frenato la tendenza all’insediamento stabile: quasi 6 cittadini non comunitari su 10 sono titolari di permesso di soggiorno a tempo indeterminato. I minori e le donne hanno accentuato la loro incidenza (pari, rispettivamente, al 22% e al 53%), a conferma del carattere familiare assunto dalla presenza immigrata. I figli degli immigrati nati in Italia e gli stranieri diventati cittadini italiani sono realtà considerevoli: ciascuna conta circa 800mila unità (un po’ meno i primi, un po’ di più i secondi).


Cinque domande (e 5 tweet di risposta) a Fabrizio Barca sul «Pd Cattivo» e la cacciata di Marino

 Ieri abbiamo posto 5 domande a Fabrizio Barca con l’articolo qui sotto. Barca ha risposto con 5 tweet che pubblichiamo qui sotto a ciascuna domanda. Lo ringraziamo, le risposte sono un bel segnale di ascolto (e di stile diverso).
Intervistato dal Fatto Quotidiano Fabrizio Barca ha sostenuto che «il Pd Cattivo» che lui avrebbe fotografato “mappando” il Pd romano, starebbe approfittando della vicenda Marino per fermare il «cambiamento». Dice Barca: «Le dimissioni di Marino ci hanno colto nel punto più difficile, a metà percorso, prima della ricostruzione. Sono molto preoccupato che il processo di cambiamento si arresti e si inverta». Il giornalista allora gli chiede: «C’è una parte del partito “cattivo” che sfrutta la situazione e usa Marino per tornare ad avere una posizione centrale?». Barca risponde: «Assolutamente sì. Persone che si appoggiano proditoriamente a Marino, e magari nemmeno lo sostenevano prima. Gli stessi che attaccano Orfini. Sono quelli che sperano che il rinnovamento si fermi».
 
A questo punto, Left vuole girare cinque domande aggiuntive a Barca, perché le sue affermazioni non diventino quello che per il momento purtroppo paiono: solo una stoccata, che non aiuta ad andare avanti, a sciogliere la complicata situazione romana, a capire le responsabilità. Ma che si inserisce perfettamente nell’immagine di un partito spaccato e in lotta, con la differenza non marginale – come nota il circolo Pd Marconi – che nella lotta è sceso lo stesso Barca: «Abbiamo letto con rabbia e dispiacere l’intervista di Fabrizio Barca sul Fatto Quotidiano che lo pone di fatto fuori dal ruolo di terzietà che il suo incarico di ispettore di un partito commissariato richiederebbe».
 
Ecco allora qualche domanda in più, utile a Barca – se crede – per recuperare il suo ruolo di ispettore e aiutare noi osservatori e gli stessi elettori del Pd a capire.
 
Nel report finale del lavoro suo e del gruppo “Luoghi ideali” avete indicato a Roma 27 circoli che avete definito “potere per il potere”, arrivando però a indicarne poi 40 con «una tendenza all’infeudamento». È questo il Pd cattivo che starebbe sperando nella resistenza di Marino? Se sì, perché dopo il vostro lavoro e il lungo commissariamento di Orfini è ancora così potente? Quanti di quei circoli avete chiuso?

 
Lei parla di «persone che si appoggiano proditoriamente a Marino» e che «sperano che il rinnovamento si fermi». Può farci qualche nome?
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Durante tutto il suo lavoro di indagine lei si presentava giustamente come attore terzo rispetto alle anime del partito. Perché oggi si espone così in sostegno di Orfini che è sì il commissario ma che su Roma, con i giovani democratici e non solo, ha anche avuto negli anni un ruolo politico nel sistema che lei stesso ha valutato?
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Perché il “Pd buono” che per lei è evidentemente quello che di Orfini, non ha cercato o non è riuscito a rilanciare l’attività della giunta Marino arrivando a chiedere le dimissioni del sindaco?
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Marino non è stato in grado. Che profilo dovrebbe avere il sindaco capace di accompagnare il «cambiamento» che lei immagina? Ha qualche nome? Lei potrebbe candidarsi?
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