Home Blog Pagina 1266

Turchia, la vittoria del sultano Erdogan

Più stabile, forse. Ma più democratica, laica e plurale, certamente no. La Turchia che ha messo il suo destino nelle mani del “Sultano”, è un Paese spaccato a metà, molto più di quanto mette in luce il risultato delle elezioni legislative. Erdogan è riuscito nel suo azzardo, ma il prezzo che la Turchia è destinata a pagare è altissimo. Il “Sultano” ha trasformato le elezioni in un referendum sulla sua persona e su una torsione presidenzialista del regime. E per conquistare la maggioranza assoluta in Parlamento, negatagli nelle elezioni del giugno scorso, ha messo in campo tutte le armi termine che non è metaforico) a sua disposizione.

 

turkeyelections_nov2015

Il nuovo Parlamento turco, voti assoluti ai partiti e in percentuale

Il rilancio in chiave nazionalista della guerra contro i curdi, e non solo nei confronti della componente più radicale, il Pkk, il bavaglio imposto ai media indipendenti o legati all’opposizione, fino all’utilizzo della strategia della paura, con stragi di Stati come quella compiuta contro i pacifisti ad Ankara, per non parlare nel ricatto all’Europa nell’uso spregiudicato fatto dei profughi siriani: o me o la destabilizzazione, stabilità o terrore, questo è il referendum che Erdogan ha imposto al Paese. Ha vinto, certamente, ma lo ha fatto cavalcando la paura, giocando sull’ultranazionalismo (togliendo voti al partito dell’estrema destra Mhp), promettendo benessere, trasformando il sud-est della Turchia, a maggioranza curda, in un campo di battaglia, giocando anche sulla debolezza degli avversari, sulla loro divisione, sull’assenza di leader alternativi forti, credibili, nuovi, capaci di costruire un fronte comune e prospettare un’alternativa realistica al regime del “Sultano” e l suo braccio politico, l’Akp. La conquista della maggioranza assoluta in Parlamento, permette all’Akp di Erdogan e Devatoglu di governare da solo, quanto alla modifica, in chiave presidenzialista, della Costituzione, questa può attendere, è solo questione di tempo.

epa05006470 Supporters of Justice and Development Party (AKP) celebrate after hearing the early results of the general elections in front of the party's office in Istanbul, Turkey, 01 November 2015. Early results in Turkey's general elections on 01 November showed the Justice and Development Party (AKP) on track to receive enough seats to form a single party government. The results exceeded pollsters' expectations and would be a huge boost for President Recep Tayyip Erdogan, the AKP founder, who called the snap election and is looking to consolidate his power. EPA/DENIZ TOPRAK
Sostenitori dell’Akp festeggiano il risultato dle partito di Erdogan a Istanbul (EPA/Deniz Toprak)

Ora, il “Sultano” ha altre priorità. La prima delle quali è usare il trionfo elettorale sullo scacchiere internazionale. Erdogan non ha mai nascosto le ambizioni neo-ottomane in politica estera, a cominciare da un ruolo centrale della Turchia nella definizione nei nuovi assetti statuali e di potere nella Siria del dopo-Assad. Il “Sultano” si muove su due direttrici: sedersi al tavolo dei vincitori, una sorta di “Yalta mediorientale” e decidere non solo su chi dovrà guidare la Siria dopo l’uscita di scena (anche qui, è solo questione di tempo, e a decidere quando sarà soprattutto “Vladimir d’Arabia”, il presidente russo Vladimir Putin) di Assad e del suo clan, ma, nel caso in cui lo “Stato fallito” siriano dovesse frantumarsi, individuare lo staterello dell’ex Siria su cui allungare la mano turca. Comunque, al centro dei giochi. Così come con l’Europa. Erdogan ha giocato spregiudicatamente la carta dei 2 milioni di profughi siriani rifugiatisi in Turchia.
Anche qui il messaggio, rivolto ad una Europa incapace di elaborare una strategia comune sui migranti, è stato chiaro: o io, o il caos. O mi sostenete altrimenti quei due milioni di profughi faranno saltare l’Europa. Il ricatto è riuscito, come dimostrano le aperture politiche ed economiche, manifestate verso il “Sultano” dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Si dirà: ora per Erdogan viene il difficile.
Dovrà dimostrare di saper rispettare le tante promesse elettorali elargite in campagna elettorale, far ripartire la locomotiva, in panne, dell’economia turca, portare a termine il suo “disegno siriano”. Tutto vero, ma gli avvenimenti che hanno segnato gli ultimi cinque mesi in Turchia, da elezione a elezione, hanno dimostrato, drammaticamente, che il potere islamista ha saputo rafforzare il patto d’azione, e di affari, con i vertici militari (da sempre l’Esercito è un soggetto politico in Turchia), e che questo patto d’azione mette in conto, anzi ingloba in sé, la militarizzazione dell’informazione, il controllo sul potere giudiziario, il mantenimento in vita della strategia della paura (e dunque c’è da attendersi un inasprimento nella guerra al Pkk).

epa05006675 Kurdish supporters of People's Democratic Party (HDP) clash with riot police after hearing the early results of the general elections in Diyarbakir, Turkey, 01 November 2015. Early results in Turkey's general elections on 01 November showed the Justice and Development Party (AKP) on track to receive enough seats to form a single party government. The results exceeded pollsters' expectations and would be a huge boost for President Recep Tayyip Erdogan, the AKP founder, who called the snap election and is looking to consolidate his power. EPA/STR
Diyarbakir, scontri tra polizia e sostenitori dell’Hdp dopo l’annuncio dei primi risultati del voto (EPA/STR)

 

Il voto turco, infine, rimanda ad una riflessione che va oltre i confini della Turchia e investe la geopolitica del Grande Medio Oriente e dei suoi attori principali: con l’eccezione della Tunisia, si può dire che la stagione della speranza, quella dei ragazzi di Piazza Tahrir come di Gezi Park, sia davvero venuta meno, e che in questa nevralgica area del mondo, ci sia solo spazio di comando, per sultani, califfi, generali-presidenti e zar, con un occidente miope, imbelle, privo di visione, che in quel mondo cerca solo dei “gendarmi” a cui affidare il compito di farsi carico, con la repressione, i muri, il filo spinato, di una umanità sofferente che da quell’inferno ceca di fuggire. La vittoria del “Sultano” ha anche questo segno. Triste, e molto inquietante..

Aemilia, Ciconte: «Il Pd ha colpe enormi. Colpe politiche chiaramente»

Il 28 ottobre 2015, è iniziato il processo Aemilia, processo che vede alla sbarra la ’ndrangehta presente in Emilia-Romagna e nelle regioni del Nord-Italia, ma soprattutto imprenditori e politici locali. Oggi, la terza di quasi trenta udienze che si terrano entro Natale. Duecentodiciannove gli imputati. Decine e decine i reati contestati, quasi tutti con l’aggravante di favorire e agevolare l’azione mafiosa.
Sono passati quasi 20 anni (era il 1998) da quando Enzo Ciconte, oggi professore all’Università di Pavia dove insegna Storia delle mafie italiane, analizzava e sintetizzava per primo – nel suo libro Mafia, Camorra e ‘Ndrangheta in Emilia-Romagna – il radicamento della criminalità organizzata al Nord. Ex deputato del Pci, e consulente per oltre 11 anni della commissione parlamentare antimafia, è considerato il massimo esperto in Italia di dinamiche e penetrazioni mafiose, gli abbiamo chiesto di delinearci i tratti salienti di quello che può essere considerato il maxiprocesso alla criminalità – e alla storia – dei giorni nostri.

Professore, è un processo storico? Ci può dire perché?
Sì, lo è senz’altro. Intanto, è la prima volta vengono processati contemporaneamente cosi tanti mafiosi. Ma il processo è storico anche per un’altra ragione: segna un mutamento di qualità rispetto al passato. Per la prima volta, emerge un coinvolgimento equivalente da parte del mondo dei corruttori, gli ’ndranghetisti, e dei corrotti, pezzi di società, che a loro volta diventano criminali. Su alcuni segmenti della società, come nel mondo del giornalismo, dell’economia, dell’imprenditoria, della pubblica amministrazione, emergono fatti inquietanti. Per la prima volta sono questi mondi ad andare a chiedere i servigi e cercare le strade della criminalità organizzata e non viceversa. Ora sono uomini del Nord, nati e cresciuti a Reggio Emilia o a Modena, a richiedere per primi un certo tipo di reati, non uomo in di Cutro. Il mutamento è tutto qua: mentre prima gli imprenditori erano calabresi, emigrati e stabilitisi al Nord, vittime e poi collusi, adesso la novità rilevante è che una parte imprenditoria reggiana si criminalizza.

Si “’ndranghetizza”, praticamente?
Esattamente.

Come mai?
Crisi dell’economia, e dell’etica. Etica imprenditoriale, principalmente. E poi, tutto sommato, va detto: trovano comodo usufruire delle scorciatoie. Un imprenditore di Reggio (Emilia, ndr) ha prima tentato di corrompere una funzionaria di Brescia per ottenere un appalto, poi siccome l’affare non è andato in porto, per così dire, si rivolto alla ’ndrangheta per riavere i soldi, e sa perché, spiega? Perché “commercialmente ci stava”, si è giustificato. “Commercialmente ci stava”. È agghiacciante, perché vuol dire che tu imprenditore, consideri la ’ndrangheta come un fatto economico, e non ti rendi conto che così la alimenti, la nutri.
Come una sorta di recupero crediti di nuova generazione, praticamente.
Nel mondo giornalistico invece, succede altro. Qualcuno fa da trait d’union con la mafia. Uomini cerniera, io li chiamo. L’imprenditore viene consigliato direttamente dal giornalista che gli dice di rivolgersi agli ’ndranghetista. Il giornalista (tra gli imputati di Aemilia, ndr) prende coscientemente parte di questo processo.

Oltre alla Regione, a diversi Comuni e Province, centinaia erano originariamente le persone offese individuate. All’inizio del processo, però, solo 4 persone si sono dichiarate parte civile – di cui una sola presente in aula, la coraggiosa giornalista del Resto del Carlino di Reggio Emilia Sabrina Pignedoli. Come mai le vittime si sono tirate indietro?
Si chiama paura. Si chiama omertà. Il problema è che ce l’hanno a Reggio Emilia, a Bologna, che cavolo! Stiamo parlando di luoghi in cui, per altro, non c’è il controllo del territorio. Non c’è mai scritto in 1500 pagine di ordinanza, una sola riga in merito. La capacità pervasiva esiste perché le mafie condizionano il mercato.

Quindi paura di ritorsione economica più che fisica?
Mah, quando c’è la paura, è paura. Principalmente per la propria incolumità.

Come mai, almeno al Nord, non c’è la fiducia nella magistratura?
Sospira. Questo non so dirglielo. Non ne ho proprio idea.

Chi sono le vittime, le parti offese?
Se si guardano i reati, sono facilmente bersaglio di estorsione o intimidazione, come appunto gli imprenditori, principalmente. O i commercianti. Per le dinamiche di cui sopra. Ma anche operai, lavoratori del settore edile e via discorrendo.

Sono 20 anni che racconta quanto la ‘ndrangheta faccia parte del tessuto emiliano romagnolo e del nord in generale, e quanto necessariamente si debba nutrire di questo per prosperare. Dunque perché si è arrivati a mettere insieme elementi per un processo solo ora? Cos’è cambiato?
C’è voluto un po’ per mettere insieme tutto. Ma un momento: tenga conto che questa è solo una ’ndrina, quella dei Grande Aracri, ma c’è tutto un panorama che ancora non abbiamo toccato.

Sarebbe stata la mia prossima domanda: cosa e quanto c’è di tuttora sommerso, che ancora non sappiamo?
Ah, sicuro che sia un panorama enorme, come le dicevo. Perché guardando al passato, al radicamento, ad alcune presenze storiche, per così dire, posso assicurarle che c’è ancora molto. Non è una critica ai magistrati, per carità: non è possibile fare tutto in una volta.
Poi c’è un altro aspetto: c’è la parte della politica che è interessante. Tutto un altro mondo da scoperchiare. Rispetto al passato, la politica ha ceduto: invece di essere un presidio contro questi atteggiamenti criminali, i politici che emergono dall’inchiesta hanno fatto un’operazione diversa. Hanno avuto, senza dubbio alcuno, rapporti chiari e consapevoli con la ’ndrangheta. Perché anche qui, è cambiata l’etica della politica. Un tempo aveva a disposizione una cosa seria che si chiamavano partiti, c’era un lascito che si tramandava e consegnava di generazione in generazione. In Emilia, poi, col Pci che era autorevolissimo… La selezione della classe dirigente avveniva all’interno delle sezioni, con un passaggio tra le persone… Nel momento in cui tutto questo è venuto meno, e si va alle primarie, cambia tutto. Il passato delle persone e la loro esperienza, contano.

Il segretario provinciale di Bologna, Critelli, ha dichiarato che il Pd ha parecchio da farsi perdonare.
Non c’è dubbio alcuno. Il Pd ha colpe enormi. Colpe politiche, chiaramente.

Cosa si può fare, per il futuro?
Ah, io sono uno storico, non un indovino (ride un po’ amaramente). Mantenere viva, e sempre costante l’attenzione nei confronti di questo fenomeno. Perché ormai spero sia chiaro che ci sarà una presenza mafiosa che non si scioglierà nel giro di pochi anni. Non è un fenomeno circoscritto che fa qualche anno svanirà. Poi, ognuno deve fare la sua parte. Gli amministratori locali non devono più farei gli appalti al massimo ribasso d’asta, gli imprenditori devono fare gli imprenditori senza prendere scorciatoie, i politici i voti li devono raggranellare facendo politica e non la appellandosi alla ’ndrangheta. Insomma, facendo cose normali come si fa in un Paese normale. Il problema non lo risolvi con i processi, le inchieste e le condanne. Lo risolvi con la cultura.

Investire in cultura è un’esigenza prioritaria

Massimo_Bray

«La storia della Reggia di Carditello è quella di un luogo trascurato e lasciato in condizioni di abbandono che ora invece viene restituito alla comunità e valorizzato in base ai compiti di tutela che dobbiamo esercitare sul nostro patrimonio, come dice l’articolo 9 della Carta». Così l’ex ministro della Cultura Massimo Bray racconta del pieno recupero della Reggia a cui ha lavorato in prima persona, nonostante le minacce da parte della camorra. «Arrivai a Carditello dopo un crollo, chiamato da associazioni locali. Lì incontrai Tommaso Cestrone che ne è stato per anni il custode. Era abbastanza prevenuto perché la politica, come mi disse subito, tante volte si era affacciata a Carditello, dicendo che era uno dei luoghi più belli del mondo, ma poi aveva sempre finito per fare molto poco. Mi disse: non ci servono più parole, ma trovare la via perché lo Stato rientri in possesso della Reggia. Con Tommaso poi abbiamo continuato a sentirci. Gli dissi che il ministero avrebbe tentato in tutti i modi di entrare in possesso della Reggia» ricorda Bray. Purtroppo Tommaso non ce l’ha fatta a vedere il suo sogno arrivare a compimento. La sua storia e quella della Reggia ora sono evocate nel film Bella e perduta di Pietro Marcello che sarà presentato il 18 novembre al Torino Film Festival.

«Mi dispiace molto che non abbia visto il recupero dell’opera. Senza di lui non saremmo arrivati a questo risultato» dice l’ex ministro oggi direttore della Treccani. «Conosco la Reggia da quando ero ragazzo, mi ha sempre colpito l’intuizione di Ferdinando IV che ne fece un’impresa modello e un luogo di cultura che svolgeva un ruolo importante per la vita di questa comunità. Anticipando la riforma agricola toscana del Settecento. Oggi il caso di Carditello dimostra che, se lo Stato intende fare una cosa, può portarla a compimento in tempi brevi».
Dopo le lettere con proiettili e minacce di morte non ha pensato di mollare?
Tendo a pensarci cercando di ribaltare il problema. All’inaugurazione della Reggia, una signora disse: “Per la prima volta il Tg parlerà bene di Carditello e della Campania”. Finalmente la Reggia non è solo nelle cronache perché bisogna bonificare il paesaggio, o perché si è cercato di fare una discarica a pochi metri, come è successo. Veramente potrebbe essere un luogo di riscatto sociale, per far tornare i cittadini a sentirsi partecipi di un bene comune.
Qualcosa di analogo si può dire per gli Uffizi in trasferta a Casal di Principe?
Ho visitato la mostra e, ancora una volta, sono rimasto impressionato dal lavoro svolto dalle associazioni e dai volontari: 70 giovani donne e uomini. Sono riusciti a gestire il recupero di questo bene confiscato e a progettare una mostra che trasforma quello che era un simbolo dell’illegalità in un simbolo della trasparenza e della partecipazione.
Il 6 novembre lei inaugura il festival di Microeditoria a Chiari; un settore creativo e vitale nonostante tutto e che ora dovrà vedersela con il colosso “Mondazzoli”. Perché in Italia fare editoria da indipendenti è così difficile?
Pensando ai piccoli editori ho sempre l’impressione che il Paese sia diviso in due, come una mela. Siamo costretti a prendere atto di uno status quo, difficile da cambiare ma al contempo questi editori ci danno dimostrazioni straordinarie. In Italia abbiamo una grande quantità di piccole imprese che con vitalità, con forza, con capacità di resistenza, ci dicono che si può fare editoria in Italia. Una cosa che rimprovero anche a me stesso è non aver sostenuto abbastanza il valore sociale del libro: abbiamo inseguito il dibattito sul libro digitale e cartaceo senza pensare che il libro, al di là della forma, ha una funzione sociale importante. I piccoli editori stanno portando avanti questa bella sfida. È una risposta molto italiana che mi piace molto. La prima parte della “mela” è bene organizzata, conosce le procedure che funzionano, chissà cosa accadrebbe se la seconda parte della mela riuscisse a mettere insieme tutte queste esperienze, forse vedremmo il Paese in modo differente.
La Girolamini è stata saccheggiata, molti libri antichi sono stati rubati e venduti. Solo grazie al coraggio di due bibliotecari precari lo scandalo è emerso e ora la biblioteca di Vico è stata riaperta. La Nazionale di Firenze, invece, è sotto organico e sono state organizzate sfilate e partite di golf per drenare fondi. Che fare per salvaguardare le biblioteche pubbliche?
Una scelta così – che ovviamente non condivido – è dettata dall’idea di non avere fondi per gestire questo nostro patrimonio. Ma questa è una scelta di campo della politica. Che invece deve capire che la cultura è il migliore veicolo di diplomazia. Pensando al futuro non possiamo non dare ossigeno alla cultura. Oggi in tutto il mondo si scopre il valore del bel canto e del melodramma. Benissimo, ma questo è possibile perché noi per secoli abbiamo messo al centro delle nostre attenzioni queste manifestazioni che sono espressione della nostra identità nazionale. Pensiamo per esempio al valore del cinema italiano nella memoria collettiva del Paese. Per far vivere e dar forza a queste e ad altre forme artistiche occorrono finanziamenti. Occorre che lo Stato ci metta tutte le risorse necessarie. Che secondo me ci sono. È solo un problema di scelte, rispetto alle risorse. Non possiamo lasciare morire le biblioteche. Ha ragione una bibliotecaria come Antonella Agnoli quando dice che sono le piazze del sapere del nostro tempo. Devono essere il luogo dove i giovani si possono incontrare , dove possono leggere un libro o un videogioco; dove i meno giovani possono andare a leggere un giornale. Dobbiamo fare in modo che le biblioteche stesse diventino uno spazio di socialità, questo passaggio non è ancora avvenuto. Bisogna crederci e investire perché accada. Sono stato molto colpito dagli studenti di storia dell’arte della Gam di Torino che insieme agli insegnanti hanno portato avanti una battaglia, giustissima, per tenere aperta la biblioteca, non solo per il valore che ha, ma anche come luogo dove si confrontano le esperienze, dove si creano relazioni intellettuali, sociali, affettive. Questo significa ripensare gli spazi urbani. Le categorie di valutazione non possono essere solo la commercializzazione e l’utile.
Da ministro lei firmò una lettera per il ripristino dell’insegnamento della storia dell’arte cancellato dalla Gelmini. La politica italiana si vanta del patrimonio d’arte ma poi a scuola non si studia. Non è una contraddizione in termini?
Lo è indubbiamente. Si parla molto oggi di innovazione con la scuola digitale. Io vorrei che la scuola esprimesse che tipo di Paese vogliamo. La scuola deve immaginare una visione del Paese. Di quali contenuti c’è bisogno per fare tutto questo? Se l’Italia si è sedimentata come nazione grazie a questo straordinario patrimonio storico-artistico, la storia dell’arte merita di avere debito spazio.
In un libro Rottama Italia di Altreconomia, scritto con Settis, Montanari e altri, lei è intervenuto criticamente sullo Sblocca Italia. Poi le soprintendenze sono state subordinate alle prefetture ed è passata la clausola del silenzio assenso. Che idea di tutela emerge da tutto questo?
Ho scritto quelle pagine perché sono convinto che non sia buon metodo per governare il Paese derogare sempre alle norme. Non si governa così. Peraltro ogni volta che abbiamo derogato i risultati non sono stati affatto positivi. Bisognerebbe ricordarsi cosa è successo. C’è un problema, vediamo cos’è, affrontiamolo. Non mi piace questo fatto di leggere tutte le strutture di tutela, come fossero di ostacolo all’azione. Se possiamo ancora vantarci di avere tracce di un passato che tutti ci invidiano lo dobbiamo proprio alle strutture del ministero che con intelligenza, sapienza, hanno saputo difendere il patrimonio d’arte e il paesaggio. Lo Sblocca Italia contiene molti pericoli a questo riguardo. Qui si contrappongono due modi di vedere il Paese: c’è un modo di vivere un po’ alla giornata. Del tipo: si apre una buca, la chiudo. Ma noi ci dovremmo chiedere come sarà questo Paese nel 2030, cosa favorisce lo sviluppo, quali saranno le forme di lavoro buono. Di fronte alla crisi dell’industria pesante quale crescita possiamo immaginare? Se tutto questo ci porterà a dire che il Paese potrebbe crescere su innovazione e valorizzazione dei beni culturali, sarà chiaro perché la Costituzione le tiene fortemente unite. Per questo non è utile leggere i beni culturali come petrolio da sfruttare. Vanno visti invece come un bene che ha creato un’identità nazionale come disse Calamandrei. Se non avviene questo ci sarà un sempre maggiore senso di distacco da parte dei cittadini e sarà sempre di meno la parte che si sentirà rappresentata. Questo mi preoccupa.

La Treccani ha 90 anni, che ruolo ha nella storia italiana e cosa immagina per il futuro?
Per i 90 anni abbiamo mostrato documenti d’archivio come quello in cui i servizi segreti scrivono al Duce segnalandogli il lavoro di Gentile all’interno dell’istituto e questa comunità animata da un bel po’ di anti fascisti. È di grande attualità il modo in cui inizia questa nostra storia. Nel manifesto fondativo Gentile dice che questo sarà il luogo dove si formeranno le classi dirigenti, dove si formerà la memoria del Paese e adesso ci chiediamo come proiettarlo nei prossimi 90 anni; la scuola sarà il luogo dove misurarsi. Anche il lavoro di tutela dei beni culturali potrebbe vedere impegnata Treccani, tutela e valorizzazione non sono solo numeri, quantità di spettatori. Intanto mi sembra importante che tante famiglie acquistino il vocabolario Treccani. Si fanno convegni sulla lingua come presidio culturale e i cittadini ci credono davvero se fanno tanti sforzi per acquistare un buon vocabolario. Forse dovrebbero crederci di più le classi dirigenti. @simonamaggiorel


 

Leggi l’articolo completo sul numero di Left in edicola e in digitale dal 30 ottobre

 

SOMMARIO       ACQUISTA

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/simonamaggiorell” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorell

Legittima difesa, Buonanno fa l’americano (e in America le pistole uccidono)

«Grazie alla scelta di disarmare i tedeschi e usando la propaganda, i nazisti sono stati capaci di portare a termine i loro piani malvagi senza incontrare nessuna resistenza. Fossero stati armati, gli ebrei avrebbero potuto evitare l’Olocausto». Se Netanyahu ha provato a riscrivere la Storia collegando lo sterminio degli ebrei all’incontro tra Hitler e il Gran Mufti, il candidato alle primarie repubblicane, il neurochirurgo afroamericano e molto religioso Ben Carson fa la Storia con i se. Le sparate di Carson sono la versione da mediocre storico contemporaneo della teoria della lobby delle armi Usa che, ogni volta che il Paese rimane di stucco davanti a una strage in una scuola, ritorna nelle dichiarazioni di qualche dirigente della National rifle association (la Nra) pronto a dire che che se le vittime avessero avuto delle armi non avremmo visto tanti morti.

legittima difesa magritte left

La vignetta di Mauro Biani su Left n.42

È un’idea della legittima difesa che non sta in piedi, ma è un posizionamento che, accompagnato da milioni di dollari in lobbying e propaganda, per anni ha funzionato. La reazione furiosa di Obama davanti all’ultima strage in una scuola – in Oregon – è un segnale che il vento sta leggermente cambiando, persino in un’opinione pubblica, quella americana, che tende in maggioranza a considerare normale il possesso di un’arma. Negli anni la Nra ha impedito che qualsiasi presidente dopo Clinton riuscisse a imporre dei limiti al commercio o regole più strette per il possesso – come test psicologici e controlli più stringenti su chi fa richiesta del porto d’armi. La lobby delle armi è anche riuscita a far approvare una serie di leggi statali proprio sulla legittima difesa. Negli States queste leggi sono di tre tipi, ma vale la pena soffermarsi su due: una è definita “dottrina del castello” e consente l’uso delle armi quando qualcuno penetra nella proprietà privata di chi spara – ma in Missouri e Ohio la proprietà privata è anche l’auto, per dire.

[divider] [/divider]

Negli Usa dove vige la legge più “liberale” le assoluzioni per omicidio sono aumentate. Del 54 per cento in Texas, del 200 per cento in Florida e del 725 per cento in Kentucky

Leggi anche: Perché negli Usa circolano tante armi

[divider] [/divider]

La versione più liberale – in senso negativo – è invece un tipo di legge relativamente nuova che la Nra e i repubblicani sono riusciti a far approvare in 23 Stati, primo tra tutti, nel 2005, la Florida del governatore Jeb Bush. Queste leggi sono denominate Stand your ground, che potremmo tradurre «non arretrare di un passo».
L’idea della stand your ground è semplice: se chi spara ha legittimo motivo di ritenere che la persona colpita o uccisa possa arrecare grave danno a sé o ad altri non ha l’obbligo di provare a scappare e poi, semmai, difendersi. Può sparare per primo. Così ad esempio ha fatto George Zimmerman, l’auto nominatosi vigilante del suo quartiere quando ha sparato a Trayvon Martin, uscito di casa per comprare degli snack in una serata di pioggia. Nero e col cappuccio, Martin non poteva che rappresentare un pericolo. Zimmerman ha ucciso il ragazzo e nel 2013 è stato assolto. I dati contenuti in un rapporto del 2013, successivo all’assoluzione di Zimmerman, ci dicono che gli omicidi con un colpevole assolto sulla base di questo modello di legge sono aumentati del 200 per cento in Florida, del 54 in Texas, dell’83 in Georgia. Del 725 in Kentucky. Il modello di legittima difesa fai da te, insomma, non fa che aumentare il numero di persone ammazzate senza motivo. I dati indicano, naturalmente, che rapine, furti, aggressioni non sono diminuite per nulla, o lo sono per ragioni non collegate all’approvazione delle leggi e in Stati che non hanno quel tipo di legittima difesa aggressiva nel loro codice penale.
Buonanno e soci che vorrebbero regalarci pistole per farci stare più sicuri, insomma, sono (nel migliore e improbabile dei casi) disinformati. Oppure, banalmente, pescano nel torbido di una supposta emergenza criminalità pur di raccattare qualche voto. Se poi un ladro di polli, un ragazzino o uno straniero finisce ammazzato, beh, non è mica un problema loro.


 

Leggi l’articolo completo sul numero di Left in edicola e in digitale dal 30 ottobre

 

SOMMARIO       ACQUISTA

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

Lale e mille numeri di Left

Fuori c’è il sole e la tentazione di metterla persa di fronte all’ennesimo editoriale di Scalfari è forte. Meglio la bicicletta e qualche libreria. Però ieri sera finalmente sono riuscita a vedere Mustang di Deniz Gamze Erguven e ve lo voglio dire. Persino nella sperduta Turchia che oggi va al voto tra mille violenze il mondo è cambiato. Anche lì vale “Donna libera tutti”. Una donna piccola, Lale, quinta di 5 sorelle, 10-12 anni al massimo. Che si ribella e salva l’ultima delle sue sorelle. Dopo averne viste due date come pacchi in matrimonio e una terza suicidarsi per non affrontarlo. Tutto noto, tutto visto, la potenza di giovani donne che scatena l’odio delle anziane chiuse «in quei vestiti color cacca senza forma» come dice Lale. La violenza, la segregazione, la religione, le grate, i muri. Quello che c’è di potente nel film della giovane regista turca non è questo racconto, ma l’immagine di quelle cinque giovani donne, dai capelli lunghissimi e nerissimi, sensuali, libere, senza freni. Sì libere, come fossero nate così. Come fosse naturale essere così, persino nello sperduto villaggio della Turchia. Libere e uguali. Senza vestiti color cacca addosso. Solo Lale, occhi neri, che registra, guarda, intuisce, resiste e costruisce la fuga, vale mille pagine e mille numeri di Left. La resistenza, la vitalità, la capacità di reazione, la ribellione, il rifiuto che diventa rivoluzione e cambia tutto. Apre un’altra vita. Ci sono scene indimenticabili, la casa che diventa fortezza, i veli rossi dei matrimoni, Lale che impara a guidare, la fiducia, Istanbul. La musica. La libertà. La libertà di cui parla questo film è qualcosa che ha profondamente a che fare con l’identità delle donne di cui abbiamo provato a scrivere anche su questo numero di Left. Mi riprometto di cercare la regista e di farle centinaia di domande.

Ho un’unica certezza (disperante) che mi convince a uscire e a prendere la bicicletta invece di rispondere a Scalfari. Non ce l’avrebbe mai fatta Lale se solo avesse creduto a una sola delle cose che il “buon” Francesco spaccia per famiglia.


 

Storie di donne e del mondo che  cambia anche sul numero di Left in edicola dal 31 ottobre 

 

SOMMARIO       ACQUISTA

 

 

GALLERY | Vivian Meier, l’ex bambinaia che diventò street photografer in mostra a Milano

vivian maier foto

I suoi sorprendenti scatti in bianco e nero raccontano la vita nelle strade di New York e di Chicago negli anni Cinquanta e Sessanta, con uno sguardo attento a tutto ciò che accade nella vita delle persone “comuni”, che nelle fotografie di Vivian Maier diventano protagoniste di microstorie, originali, curiose, talvolta ironiche più spesso velate di malinconia. Uscendo decisamente dall’ordinario. Come è accaduto a lei stessa.  Per vivere, infatti, Maier faceva la bambinaia, ma grazie al suo talento con la Rolleiflex e con la Leica, è entrata nella storia della fotografia. Anche se soltanto dopo la sua scomparsa, avvenuta nel 2007. A scoprire il suo lavoro è stato, quasi per caso, un giovane, John Maloof, alla ricerca di scatti inediti per un libro su Chicago che un giorno ha acquistato all’asta dei negativi, facendo venire alla luce la sensibilità di Vivian nel cogliere il senso più profondo di uno sguardo incrociato per caso, l’intensità di attimi di vita vissuta da sconosciuti incontrati nelle piazze, nei negozi, sui mezzi pubblici della metropoli americana. Centoventi fotografie della Maier e otto suoi filmati in super 8 sono dal 20 novembre al 31 gennaio in mostra a Formafoto a Milano. L’esposizione curata da Anne Morin, e realizzata in collaborazione con Chroma Photography, permette di conoscere una parte dello sterminato lavoro della fotografa americana di origini francese: il suo archivio, infatti, contiene 150mila negativi, una messe di pellicole non sviluppate, stampe, film in super 8 o 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti che lo stesso Maloof ha catalogato e divulga organizzando mostre in giro per il mondo. Ma anche attraverso la realizzazione di documentari, come il film Alla ricerca di Vivian Maier realizzato con Charlie Siskel e distribuito in Italia da Feltrinelli Real Cinema. «Non ero né un fotografo né un regista: è stata Vivian a trascinarmi nella fotografia. Con questo lavoro ho imparato a fare foto, ma anche a girare un film», ha raccontato Maloof in una recente intervista.

«Seppur scattate decenni or sono, le fotografie di Vivian Maier hanno molto da dire sul nostro presente. E in maniera profonda e inaspettata – scrive Marvin Heifermann nell’introduzione al catalogo e dito da Contrasto – Maier si dedicò alla fotografia anima e corpo, la praticò con disciplina e usò questo linguaggio per dare struttura e senso alla propria vita conservando però gelosamente le immagini che realizzava senza parlarne, condividerle o utilizzarle per comunicare con il prossimo. Proprio come Maier, noi oggi non stiamo semplicemente esplorando il nostro rapporto col produrre immagini ma, attraverso la fotografia, definiamo noi stessi».
 

Dopo  il Man di Nuoro , Vivian Meier è protagonista della retrospettiva Vivian Maier. Una fotografa ritrovatache, dal 20 novembre al 31 gennaio, le dedica la Fondazione Forma Meravigli a Milano. La mostra, a cura di Anne Morin e Alessandra Mauro, è realizzata in collaborazione con Chroma Photography.


 

[huge_it_gallery id=”13″]

 

per info: www.formafoto.it

 

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/simonamaggiorel” target=”” ][/social_link] @simonamaggiorel

La Turchia al voto urne in un clima di paura. Erdogan cerca una maggioranza

I 75 milioni di cittadini turchi (o meglio, gli aventi diritto) tornano al voto a pochi mesi dalle elezioni e in un clima quanto mai dominato dall’incertezza e dall’ansia. Le elezioni del giugno scorso sono state un campanello d’allarme per Recep Tayyip Erdogan e il suo partito, l’AKP. A sorpresa e per la prima volta nella storia del Paese, il partito pro-curdo HDP aveva fatto il pieno di seggi in Parlamento, arrivando al 14% dei consensi e per la prima volta in 13 anni l’AKP del sultano Erdogan non ha messo assieme un numero di parlamentari tale da garantirgli la maggioranza.

Da allora, in 5 mesi, Erdogan è riuscito a trasformare la Turchia in un paese in preda alla paura. L’attentato terroristico del 10 ottobre scorso alla stazione di Ankara, in cui sono morte circa 100 persone e più di 500 sono state ferite, è stato solo la punta dell’iceberg. Ma nei mesi si sono succeduti atti che hanno reso la Turchia un Paese instabile, come non lo era da molti anni: la ripresa del conflitto con il PKK e con i curdi, la chiusura di varie Tv dell’opposizione, di molti giornali e stazioni radio avvenuta a poche ore dal voto, gli arresti senza alcun motivo di giornalisti e intellettuali, il tentativo di oscurare la figura del chierico auto-esiliato negli Usa, Fetullah Gulen, che prima ha creato il leader islamico e poi ha cercato di distruggerlo, i tentativi di oscurare il ruolo della Magistratura, baluardo di una Costituzione laica. Questi mesi sono anche stati quelli del crescente protagonismo turco sul fronte siriano (il Paese ospita centinaia di migliaia di profughi).

Supporters of Turkish Prime Minister Ahmet Davutoglu and leader of the Justice and Development Party (AKP), wave Turkish flags, party s posters and a banner with former party leader and current Turkish President Recep Tayyip Erdogan, as they wait for Davutoglu to deliver a speech at a rally in Istanbul, Sunday, Oct. 25, 2015, ahead of the Nov. 1 general elections. (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Sostenitori dell’AKP (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

Erdogan sente di non avere più in mano il Paese che lo ha eletto premier e poi presidente della Repubblica e i sondaggi situano l’Akp intorno al 41-43%, percentuale che non gli permetterebbe di ottenere i 276 seggi che gli servirebbero per governare da solo. L’ipotesi più probabile sarebbe quindi quella del governo di coalizione con il partito della destra ultraconservatrice dei lupi grigi, Mhp, che risulta il più vicino all’Akp, soprattutto per via della similarità ‘socio-culturale’ dell’elettorato dei due partiti. «Se l’Akp sarà costretto a formare una coalizione sappiamo che preferirà comunque il Mhp», scrive l’analista Kadri Gursel su al-Monitor. «Un’alleanza Akp-Mhp servirebbe a supportare il piano di Erdogan fino al raggiungimento dell’obiettivo di governare da solo, ma allo stesso tempo accentuerebbe la polarizzazione della Turchia, per non parlare di come sarebbe difficile terminare gli scontri con il Pkk, dal momento che il Mhp respinge ogni tipo di trattativa riuscendo a concepire solo una soluzione militare» aggiunge. Ma un’altra eventualità, molto più coerente con la politica del pugno di ferro che Erdogan ha applicato al Paese, si profila all’orizzonte. Il vice premier Mehmet Ali Sahin, ha dichiarato che in mancanza di un risultato chiaro alle urne, il Paese potrebbe tornare a votare per la terza volta consecutiva. L’idea è che, a forza di instabilità, la maggioranza die turchi decida di dare la maggioranza all’AKp pur di tornare alla normalità. Per Murat Yetkin, direttore di Hurriyet Daily News, qualunque possa essere l’esito del voto è la volontà del presidente Erdogan che sarà determinante alla fine. «Una coalizione significherebbe per il presidente dover rinunciare al suo piano presidenziale. Per questo motivo, Erdogan potrebbe arrivare anche a chiedere di andare a nuove elezioni anticipate» spiega Yetkin.

Il sistema elettorale

Il parlamento turco ha 550 seggi. La maggioranza è dunque a quota 276 seggi. Ne servono però 367 per approvare modifiche costituzionali direttamente e 330 per indire un referendum popolare su una modifica costituzionale. Erdogan spera ancora che il suo partito possa ottenere abbastanza seggi da poter emendare la costituzione in senso presidenzialista, in modo da affidargli maggiori poteri. Ma le possibilità che questo accada sono quasi nulle.
I parlamentari sono eletti con il sistema proporzionale in 85 collegi, ma c’è una soglia di sbarramento al 10%. In base al sistema turco se un partito ottiene 40 seggi con il 9,55% dei voti, come nel 2002 accadde al Partito della vera via, i 40 seggi vengono distribuiti tra i partiti che hanno superato il 10%. In sostanza il sistema favorisce i grandi partiti. Domenica i seggi saranno aperti dalle otto de mattino alle cinque del pomeriggio locali.

I partiti politici
Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP) Il partito nato nel 2001 dall’alleanza di politici conservatori islamici di varia provenienza ha trionfato alle elezioni del 2002 e da allora guida il Paese. Con l’elezione di Erdogan alla presidenza lo scorso anno, nel primo voto popolare sul capo di Stato, alla guida del partito e del governo è arrivato Ahmet Davutoglu, ex ministro degli Esteri.

Partito repubblicano del popolo(CHP) Fondato nel 1923 da Mustafa Kemal Ataturk, padre della Repubblica di Turchia, il Chp, guidato da Kemal Kilicdaroglu, è il più antico partito del Paese e la principale forza d’opposizione. La sua piattaforma elettorale al voto di giugno era incentrata sul lavoro e l’economia con promesse di pensioni più alte, lotta alla disoccupazione giovanile e aumento del salario minimo. Il CHP è favorevole alla riforma della costituzione in vigore, figlia del golpe militare del 1980, ma dice no al presidenzialismo caldeggiato dall’Akp. Se il partito è cambiato con Kirlicdaroglu, molti elettori, in particolare i curdi e i fedeli islamici, lo percepiscono come elitista e secolarista.

Partito del movimento nazionalista (MHP) Il Partito del movimento nazionalista (MHP), i cosiddetti Lupi Grigi, formazione di estrema destra guidata da Devlet Bahceli, secondo i sondaggi manterrà il terzo posto in Parlamento. Il partito sostiene un certo grado di protezione dei diritti delle minoranze, ad esempio afferma che le cemevi, i luoghi di culto della minoranza musulmana alevita, vanno finanziate dallo Stato. Ma è fermamente contrario al processo di pace con il Pkk e promette di interrompere ogni negoziato se governerà.

Selahattin Demirtas, co-chair of the pro-Kurdish Peoples' Democratic Party, (HDP), speaks during a press conference ahead of the Nov. 1 general elections, at Ozgur radio station in Istanbul, Turkey, Friday, Oct. 30, 2015. The election is a redo of June elections in which the ruling Justice and Development Party, or AKP, stunningly lost its majority. The ballot comes at a sensitive time for Turkey, a key Western ally that has major issues to navigate. (AP Photo/Hussein Malla)
Selahattin Demirtas, leader dell’HDP (AP Photo/Hussein Malla)

Partito democratico del popoli (HDP) Descritto come la risposta turca al greco Syriza e allo spagnolo Podemos, l’HDP è un partito socialdemocratico che nasce della causa curda con la promessa di perseguire la pace con il Pkk e porre fine alle discriminazioni etniche, religiose e di genere. Ha un programma fondato sui diritti delle minoranze, delle donne e della comunità omosessuale, è stato fondato del 2012, co-presieduto da Selahattin Demirtas, stella nascente della politica turca, e Figen Yüksekdag. E’ l’unico in Turchia ad avere la metà dei candidati donne. Il partito si è presentato per la prima volta al voto di giugno, ottenendo 80 e seggi e il 13% dei consensi. In precedenza i candidati filo-curdi correvano come indipendenti per aggirare la soglia del 10%.

Io della natura non mi fido anzi, la frego

la-banda-della-culla-francesca-fornario

Mentre leggevo La banda della culla di Francesca Fornario ho pensato che se nel 2004 lo avessi avuto per le mani forse sarebbe stato diverso, per me. Avrei cercato anche io la mia banda, avrei avuto un quartier generale (nel libro è un ristorante messicano dove lavora Miguel, medico chirurgo argentino, che in Italia è costretto a fare il cameriere), mi sarei «preoccupata insieme ad altri» come mi racconta l’autrice «perché è meglio», avrei persino trovato il lato buffo in quello che mi accadeva. Tutto nel libro di Francesca Fornario mi è sembrato familiare, la sensazione di «essere genitori senza figli», l’impatto feroce con le stranezze «dell’apparato riproduttivo femminile» fatto di spazi angusti e strani tubicini, il desiderio di voler essere genitore perché si era in due, quei due, in quella storia. Non da soli, non diversamente, non per rispettare un ipotetico ed imposto “ciclo naturale della vita” ma perché quello “era” il momento giusto nella vita. Miguel e Giulia, Veronica e Camilla, Claudia e Francesco, sono i protagonisti del primo romanzo di Francesca Fornario. Nella mia sala d’aspetto (lì si conoscono i sei protagonisti) loro non c’erano e li rimpiango. Perché avrei condiviso “il piano”, la soluzione comune per fronteggiare tutto quello che c’era di sbagliato nelle leggi, nello Stato e persino in quella cultura che ti condanna perché ti scopre difettosa “secondo natura”.
Tre storie dense le sue, dove l’ironia, priva di qualsiasi crudeltà, ti trascina in momenti veri, vivi. «Non ho inventato molto rispetto alle storie delle persone che mi circondano», mi dice Francesca, quando le ho chiesto di incontrarci. «Ho solo aggiunto la mia lettura paradossale. Io tendo alla farsa per salvarmi la vita, rido per non piangere. Come se avessi un motorino dentro, che dall’ironia mi tira fuori la tenerezza, e sto bene». Ecco, questo libro ti porta in tutte le battaglie da fare. Da quella per il diritto alla “scienza” e ai suoi progressi (di Giulia che desidera un figlio da Miguel ma ha un’endometriosi grave che le impedisce di concepirlo), a quella per i diritti civili (di Veronica e Camilla che stanno insieme da dieci anni e vorrebbero ricorrere a una fecondazione eterologa o all’adozione ma in Italia nessuna legge glielo consente), fino a quella contro la precarietà. Una precarietà materiale che esaspera quella “normalmente” umana che ti spinge a cercare e a cambiare (di Claudia, studentessa di russo, fuori sede, che rimane incinta di Francesco nel momento sbagliato. Quello in cui deve realizzare mille altre cose, senza per questo doversi sentire sbagliata).

[divider] [/divider]

È un libro sul desiderio di essere genitore perché si è in due, quei due, in quella storia. Non per rispettare un ipotetico e imposto “ciclo naturale della vita”

[divider] [/divider]

Quello che è chiaro e forte dentro queste storie è cosa si intenda per vita, per umanità, per amore e persino per maternità. Che non deve seguire «nessuna assurda legge di natura», mi dice l’autrice. «Credo sia molto bello poter decidere e avere dalla nostra parte la scienza. Non siamo animali, e io non mi fido affatto di quello che fa la natura, perché fosse per lei se ti viene un cancro, muori. E invece noi abbiamo inventato i farmaci, la chemio e riusciamo a fregarla. Ecco, io tra la natura e l’uomo, tifo per l’uomo perché – con tutti i suoi limiti – ha lo sguardo più lungo». E infatti nel libro, vincoli biologici e legami di sangue non contano. Vale altro, insomma – l’adozione, la fecondazione eterologa, l’amicizia, l’affido -, perché l’importante è quel mondo di affetti in cui tutto è cimento.

«A un tratto Giulia realizza di essere un genitore senza figli», così scrivi del mio personaggio preferito. Quasi a dire che un figlio non è una semplice “riproduzione biologica” (che può venire o non venire), ma una realizzazione tutta interiore che addirittura si fa prima?
Sì. Giulia ha quarant’anni, è una storica dell’arte, e non si era mai immaginata madre. Poi arriva Miguel, questo chirurgo argentino che in Italia è costretto a fare il cameriere, e c’è lo scatto, il desiderio di avere figli insieme e i tentativi: eterologa, adozione…
Un figlio, quindi, come realizzazione di una capacità affettiva?
È molto più facile scrivere un romanzo dove si tradisce o si litiga, ma io volevo raccontare tutte coppie innamorate perché mi piaceva associare l’idea di genitorialità a questo sentimento per cui “insieme” ti senti in grado di affrontare questa svolta, con tutte le sue difficoltà.
«Decidere di non avere un figlio non è un reato». Lo dice il ginecologo a Claudia.
Per secoli ci è stato raccontato un unico modello di famiglia, quello dove la donna faceva i figli molto presto e possibilmente uno dopo l’altro. L’unica soluzione per me è la conoscenza, quella empatica. Bisogna entrare in empatia con gli altri e spero che il mio libro un po’ contribuisca, perché affezionandosi ai protagonisti che hanno un vissuto diverso da chi legge, magari passa la paura e ci si sente più vicini alla sorte di chi migra, di chi vuole fare un figlio a 40 anni perché a 20 non si sentiva pronto o aveva da fare altro.
«Promettimi che faremo un casino», dice invece Giulia a Miguel. Niente genitori modello: meglio genitori imperfetti?
A volte avere dei genitori imperfetti aiuta a crescere più liberi! Senza condizionamenti, senza l’ingombro di un modello da emulare. Non a caso ho dedicato il libro a mio padre…


 

Leggi l’articolo completo sul numero di Left in edicola e in digitale dal 30 ottobre

 

SOMMARIO       ACQUISTA

 

 

 

Chi è Francesca Fornario

Giornalista e autrice satirica. Su Radio2 lavora a Un giorno da pecora e conduce lo show satirico Mamma non mamma. Ha tra gli altri un contratto da attrice. La cosa è così surreale che ci tiene a farlo sapere.

La banda della culla è pubblicato da Einaudi.

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/ilariabonaccors” target=”on” ][/social_link] @ilariabonaccors

Ottobre, un mese di elezioni e campagna elettorale. Le foto

Voters display their his inked fingers after casting their ballots at a polling station during the first round of the parliamentary elections, in Giza, Cairo, Egypt, Sunday, Oct. 18, 2015. (AP Photo/Khaled Kamel)

A screen displays a hashtag that reads in Spanish; There's a run-off, where supporters of top opposition presidential candidate Mauricio Macri gathered in Buenos Aires, Argentina, Sunday, Oct. 25, 2015. Opposition leaders claimed Sunday night that Macri had gotten enough votes in Argentina’s presidential election to force a runoff against ruling party presidential candidate, Buenos Aires Gov. Daniel Scioli. (AP Photo/Jorge Saenz)
Si va al ballottaggio: gli argentini dovranno aspettare il 22 novembre per sapere chi saràil nuovo presidente tra Mauricio Macri e Daniel Scioli. (AP Photo/Jorge Saenz)

Alexandra Pettit takes a selfie with her kids at the Gloucester Presbyterian Church polling station in Ottawa, after casting her vote in the Canadian federal election on Monday, Oct. 19, 2015. Pivotal elections Monday pitted embattled Prime Minister Stephen Harper against Liberal leader Justin Trudeau, the son of the late Prime Minister Pierre Trudeau. (Patrick Doyle/The Canadian Press via AP)
Selfie prima del voto in Canada. Ha vinto il liberale Justin Trudeau (Patrick Doyle/The Canadian Press via AP)

An electoral volunteer marks a woman's finger after she cast her vote in the presidential runoff election, in Chinautla, Guatemala, Sunday, Oct. 25, 2015. Guatemalans are choosing a president amid political upheaval that forced the last elected leader from office. Comedian and political outsider Jimmy Morales is leading in most polls, ahead of former first lady Sandra Torres. (AP Photo/Oliver de Ros)
Ai seggi in Guatemala, ha vinto il comico Jimmy Morales (AP Photo/Oliver de Ros)

Electoral workers count ballots at a polling station in Port-au-Prince, Haiti, Sunday, Oct. 25, 2015. The country is holding the first-round presidential vote Sunday along with balloting for numerous legislative races and local offices. (AP Photo/Ricardo Arduengo)
Conta dei voti a Port-au-Prince, Haiti (AP Photo/Ricardo Arduengo)

Exile Tibetans write on their ballot papers in make-shift kiosks before casting their votes in the first round of choosing a new government-in-exile in Dharmsala, where the exiled government is based, India, Sunday, Oct. 18, 2015. Tibetan communities worldwide are voting in the first round of choosing a new government-in-exile, and are debating how to carry on their campaign to free their Himalayan homeland from Chinese rule.(AP Photo/Ashwini Bhatia)
I tibetani in esilio hanno eletto il loro governo in esilio basato in India (AP Photo/Ashwini Bhatia)

Men read newspaper headlines after recent elections near the entrance to the local zoo, right rear, in Abidjan, Ivory Coast, Monday, Oct. 26, 2015. Ivory Coast voters await result after elections on Sunday as the West African nation held its first presidential election since a disputed vote five years ago. (AP Photo/Schalk van Zuydam)
La lettura dei giornali in Costa D’Avorio, il giorno dopo il voto  (AP Photo/Schalk van Zuydam)

A supporter of National Development Party (NDP) displays stickers of party flags stuck to their face during an election campaign in Mandalay, Myanmar, Sunday, Oct. 25, 2015. Myanmar’s general elections are scheduled for November 8, 2015, the first since a nominally civilian government was installed in 2011. (AP Photo/Hkun Lat)
Campagna elettorale in Birmania, si vota l’8 novembre la prima dopo la fine della giunta militare (AP Photo/Hkun Lat)

Egyptian soldiers stand guard as a veiled woman voter leaves a polling station of the runoff to the first round of the parliamentary elections in Giza, just outside of Cairo, Egypt, Wednesday, Oct. 28, 2015. (AP Photo/Amr Nabil)
Ai seggi in Egitto, dove la partecipazione è stata molto bassa (AP Photo/Amr Nabil)

Helpers count ballot papers at a gymnasium in Bern, Switzerland, Sunday, Oct. 18, 2015. Swiss voters have cast ballots to elect their parliament and polls show a nationalist party could advance amid widespread concerns about the recent influx of migrants into Europe. (Peter Klaunzer/Keystone via AP)
La conta dei voti a Berna, Svizzera (Peter Klaunzer/Keystone via AP)

A woman walks past a damaged Civic Platform election poster in Warsaw, Poland, Monday, Oct. 26, 2015. According to an exit poll following the Sunday elections and released early Monday, the conservative Law and Justice won 37.7 percent of the votes, trouncing the governing pro-business Civic Platform, which took 23.6 percent. (AP Photo/Alik Keplicz)
Campagna elettorale in Polonia, dove ha vinto l’ultradestra (AP Photo/Alik Keplicz)

A Ukrainian voter in uniform casts his ballot at a polling station in Kiev, Ukraine, Sunday, Oct. 25, 2015. Polling stations opened in Ukraine on Sunday for regional and local elections across the country, except for the separatist-held regions in the east. (AP Photo/Sergei Chuzavkov)
Elezioni locali e regionali in Ucraina (AP Photo/Sergei Chuzavkov)

Officials from the electoral commission, watched by representatives of political parties, start the vote-counting process at a polling station in the Temeke district of Dar es Salaam, Tanzania Sunday, Oct. 25, 2015. Voting has taken place in Tanzania's general elections in which the ruling party faces a strong challenge from a united opposition, with the ruling party's candidate John Magufuli battling former Prime Minister Edward Lowassa, who defected to the opposition earlier this year after being rejected as the ruling party's candidate. (AP Photo/Khalfan Said)
Conta dei voti da parte di scrutatori e rappresentanti dei partiti a Dar es Salaam, Tanzania (AP Photo/Khalfan Said)

Sono una rocker dal cuore tenero

diana-winter-tender-hearted-nuovo album

Se dovessimo descrivere Diana Winter con una sola parola sicuramente sarebbe eclettica. Diana, classe 1985, una vita divisa fra l’Italia e l’Inghiliterra, canta, suona la chitarra e compone canzoni sin da quando era piccola. Il suo ultimo album “Tender Hearted” è uscito il 29 ottobre in collaborazione con Beta Produzioni. Questo disco è il frutto di un lungo processo di lavorazione e segna un nuovo punto di maturazione nella carriera dell’artista. Soprattutto arriva dopo una serie di esperienze importanti: il tour come vocalist di Giorgia – che di lei disse: «quando intrecciamo le nostre voci mi sembra di sentire la mia raddoppiata» – e l’esperienza in tv a The Voice, il talent musicale di Rai 2, dove faceva parte del team della cantante Noemi.
Tender Hearted è il secondo album della tua carriera. Come lo descriveresti?
Sì, ho debutatto nel 2007, a 22 anni, con Escapizm e tra quel lavoro e questo è passato molto tempo. Tender Hearted è diventato una sorta di diario musicale, un compagno di viaggio che mi ha seguito durante tutti questi anni e attraverso le varie evoluzioni, sia personali che professionali della mia vita. Il risultato finale è eclettico, poliedrico, si percepiscono mille sfaccettature derivate dal fatto che quando produci qualcosa in un tempo così lungo, hai modo di tornare indietro, rivedere quello che hai realizzato, aggiungere, togliere, migliorare.
E il risultato si vede. Nel disco si intrecciano soul, rock, folk, pop e funk.
Nell’album i generi musicali si alternano e si contaminano l’uno con l’altro come fossero degli stati d’animo. Quest’album è insieme un diario e un ritratto di come sono, dei vari aspetti che mi contraddistinguono.
Un’anima rock che ha anche un cuore tenero? È questo il senso di “Tender Hearted”?
In un certo senso sì. Il disco mescola questo duplice aspetto che mi caratterizza, ci sono brani più forti, caratterizzati da sonorità rock e folk, e altri più dolci e intimi, raccontati attraverso delle ballad più soul. Io sono sempre stata entrambe le cose fin da bambina, “Tender Hearted” era un modo per spiegare questa mia ambivalenza, emotiva e artistica.
Qual è allora in quest’album la traccia che ti descrive meglio?
L’ultima, April Lane, mi somiglia molto. È una ballad dalle sonorità acustiche, dolce ma allo stesso tempo vitale, grintosa. Per questo l’ho messa alla fine del disco. Era un modo per dire: anche questa sono io.
Questo lavoro vanta anche collaborazioni internazionali
Sì, ho collaborato con Phil Gould dei Level 42, Neil Black, Rupert Brown, Al Slavik. Figure che sono un punto di riferimento per me nel mondo della musica, con più esperienza di me e dalle quali ho imparato molto. Avevo già lavorato con molti di loro per “Escapizm” e così abbiamo portato avanti questo percorso.
Sei italiana ma canti e scrivi in inglese, un altro elemento che segna la tua “doppia” identità. Hai mai pensato di realizzare un disco interamente in italiano?
Trovo l’idea molto stimolante, ci ho pensato e mi piacerebbe molto. L’italiano è la mia lingua madre e, soprattutto, è una lingua estremamente ricca. Offre potenzialità espressive enormi devo solo lavorare per riuscire a tradurle al meglio e unirle alla mia musica. Forse ci vorrà un po’, ma un giorno potrei cantare anche in italiano, perché no.
Un cantautore a cui ti ispireresti volentieri?
Niccolò Fabi, mi piace molto.

>> VIDEO | Diana Winter conquista i giudici di The Voice

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link]  @GioGolightly