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Il nuovo numero di Left: “Donna libera tutti”

«La maternità come scelta e non come “obbligo biologico”». Questo scrive il direttore Ilaria Bonaccorsi nell’editoriale del prossimo numero di Left. Il settimanale affronta un tema delicato: il mondo è cambiato e nessuna “religione della maternità” è più accettabile. Ci sono, è vero, motivi socio economici che spiegano la crescente denatalità, come scrive la sociologa Chiara Saraceno, ma le ragioni sono anche altre come suggerisce sempre la Saraceno: «Non occorre essere madri per realizzare il proprio progetto di vita, anche sul piano relazionale e affettivo». Le donne oggi scelgono quando come e se avere dei figli. Può capitare di cercare un figlio superando problemi fisici grazie alle tecniche di procreazione medicalmente assistita o di adottarli come racconta Francesca Fornario nel suo primo romanzo La banda della culla; o di scoprire forme di genitorialità legate al semplice affetto, come narra un’altra scrittrice, Barbara Fiorio. O anche di non essere madre affatto come racconta  Abraham Yeshohua ritraendo Noga, donna israeliana protagonista della sua ultima opera.

In Società Left affronta una delle emergenze del momento: la casa. Tra occupazioni continue e sfratti, la politica del Governo si rivela del tutto insufficiente, come dimostra la storia dello sgombro della Ex Telecom di Bologna. Poi il Far west politico nel pezzo di Martino Mazzonis sulla destra e l’uso delle armi. Chi sono i politici e gli amministratori che cavalcano il partito delle armi? E ancora:  il sindaco di Napoli Luigi de Magistris, dopo la sua assoluzione, lancia la sua sfida «controcorrente e rivoluzionaria» per le elezioni in primavera. Mentre sul fronte migranti, Amnesty lancia l’allarme sul reato di clandestinità: «Non è stato ancora depenalizzato».

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Negli esteri ci occupiamo di Spagna, a pochi mesi dalle elezioni il clima si fa incandescente. Left racconta Albert Rivera,  leader di Ciudadanos, un partito di giovani “di centro” che comincia a insidiare le sicurezze di Podemos e del suo leader Pablo Iglesias.  E ancora: l’analisi del ruolo di Putin in Siria e nella lotta contro l’Isis,  un reportage da Hebron dove l’occupazione dei coloni israeliani continua a opprimere i palestinesi e la seconda tappa del “diario cinese” del musicista Fernando Fidanza, questa volta alla scoperta di Tianjin, “ex colonia d’Italia”.

In Cultura parla Massimo Bray, ex ministro dei Beni culturali, che critica le politiche del governo e difende le strutture di tutela  che lo Stato deve mettere in campo per proteggere il paesaggio e i beni culturali.  E ancora: il caso di uno scavo archeologico che rivive e diventa un esempio di archeologia pubblica; tutti gli interrogativi della scienza sull’“editing baby” – i nuovi bambini dal codice genetico riscritto -, e infine  Luca Carboni che ci racconta del suo ultimo lavoro.

 

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Toni Servillo recita a Pomigliano per i disoccupati: «Non è assistenza, è condivisione»

Toni Servillo (Francesco Maria Colombo)

«Non è assistenza sociale, ma è condivisione e solidarietà». Toni Servillo parla dello spettacolo che lo vedrà protagonista, sabato 31 ottobre, a Pomigliano d’Arco, Napoli. Toni Servillo legge Napoli al Cinema teatro Gloria è una iniziativa particolare, non molto usuale in Italia. L’incasso dello spettacolo (info qui) a cura di Teatri Uniti verrà devoluto interamente al fondo promosso dall’associazione Legami di solidarietà (Libera Campania, Fiom Cgil e la Caritas). L’obiettivo è quello di creare, nello spirito delle antiche società di mutuo soccorso, un fondo da cui attingere per sostenere disoccupati, precari, lavoratori in cassa integrazione. E non è pura assistenza finanziaria perché come si legge nel sito di Libera Campania i beneficiari metteranno a disposizione idee, competenze e saperi per attività rivolte alla comunità. Insomma, un modo per rimettere in circolo le energie che si spengono spesso quando una persona perde il lavoro e non riesce a trovarne uno nuovo. Più formazione e meno assistenza.

Left ha sentito Toni Servillo, in un momento come al solito pieno di impegni: ha ultimato le riprese del film di Francesco Amato Lasciati andare – in cui interpreta uno psicoanalista freudiano -, ha anche “dato” la sua voce all’aviatore del Piccolo principe e allo stesso tempo è protagonista di un libro che fa il punto sulla sua attività, Oltre l’attore (Donzelli editore).

Toni Servillo, ci racconti come è nata l’iniziativa di Pomigliano d’Arco.

Tutto è nato da un incontro casuale in treno, come spesso accade durante i trasferimenti per le tournée teatrali, con un attivista di Libera. Avevo già partecipato alcuni anni fa ad un’iniziativa promossa dall’associazione di Don Ciotti e mi sono reso disponibile, come già fatto in qualche altra occasione, a offrire gli incassi della serata dal titolo Toni Servillo legge Napoli.

Quali testi del vasto repertorio napoletano porterà a Pomigliano?

Nello spettacolo si incrociano le voci di grandi autori della tradizione napoletana, come Salvatore Di Giacomo, Eduardo De Filippo, Raffaele Viviani e quelli di poeti contemporanei come Enzo Moscato, Michele Sovente, Mimmo Borrelli. Abbiamo individuato l’occasione migliore nell’attività dell’associazione Legami di solidarietà, nella difficile realtà economica di Pomigliano d’Arco.

Si tratta di un tentativo di aiuto “dal basso”, di una rete sociale nei confronti dei disoccupati, dei cassintegrati di Pomigliano. Che cosa ne pensa? È assistenza o è anche un modo di creare partecipazione e quindi ridare dignità alle persone?

Non si tratta di assistenza sociale. È sicuramente un modo per affermare il valore della condivisione e, nei limiti di chi fa il mio mestiere, esprimere una forma di solidarietà attraverso il teatro, nei modi che mi sono propri. Naturalmente esistono anche altri modi che andrebbero utilizzati al meglio da chi ne ha le possibilità e la responsabilità.

Lei che porta nel suo Dna, si potrebbe dire, i segni della tradizione e allo stesso tempo della ricerca teatrale e artistica napoletana, pensa che la cultura e  il teatro, possano ridare vita alla città?

La cultura e il teatro devono essere alla base dello sviluppo e della crescita di una società, a Napoli come ovunque. Ritengo che uno degli esempi più significativi nella nostra città sia quello rappresentato dal Teatro Nuovo nei Quartieri Spagnoli. La riapertura di quella storica sala all’indomani del terremoto del 1980 è stata significativa. E così l’attività portata avanti fino ad oggi pur tra enormi difficoltà, ha permesso non solo la nascita di esperienze artistiche poi consolidatesi fino a raggiungere una dimensione internazionale, ma anche la riqualificazione di un tessuto urbanistico e sociale attraverso il teatro. E questo sottraendo molto spazio al degrado e alla criminalità.

Lei ha prestato la sua voce all’aviatore del Piccolo Principe, in uscita tra pochi giorni. Secondo lei è un romanzo sempre attuale?

Sì, come tanti capolavori, attraversa indenne le epoche nella grande tradizione dei romanzi di formazione. De Il piccolo principe apprezzo soprattutto la dimensione di perdita legata alla crescita. E per quanto mi riguarda, ho affrontato con piacere il lavoro difficile ed impegnativo del doppiaggio, cimentandomi per la prima volta in una branca diversa del mestiere di attore.

Il libro Oltre l’attore permette di allargare lo sguardo sulla sua ricerca di interprete. Lei scrive: «il laboratorio segreto di un’arte che è un’arte “che non resta”, che ha il suo fascino nel fatto che è come la vita, che passa e non c’è più».

Mi piace sintetizzare questi concetti con le parole di uno dei principali riferimenti per il mio lavoro, un grande maestro del teatro francese del Novecento, Louis Jouvet: l’attore brucia tutto se stesso sul posto.

La foto di Toni Servillo è di Francesco Maria Colombo

Primarie repubblicane, scintille al dibattito Tv. Bene Rubio, male Bush

Niente guantoni, il terzo dibattito televisivo tra candidati repubblicani è stato quello delle mani nude: i candidati se le soo date di santa ragione tra di loro e, poi, hanno malmenato in gruppo i tre conduttori della Cnbc che moderavano la tenzone. Ci si aspettava che le scintille sarebbero arrivate dalla reazione di Donald Trump, che per la prima volta è secondo nei sondaggi dietro al chirurgo afroamericano Ben Carson. Non è andata così: i duri delle due ore sono stati (o hanno provato a essere) Bush, Rubio, il senatore texano Ted Cruz e l’ex governatore dell’Ohio, Kasich. A qualcuno è andata bene, a Bush è andata male. Vediamo perché premettendo una cosa: qui sotto non si parla di politiche e proposte, i dibattiti Tv interni a un partito servono a convincere la base di essere un buon candidato in sintonia con gli umori dell’elettorato, ad emergere, non a spiegare nel dettaglio cosa si farà se si diventa presidente. Nel complesso, quasi tutti appaiono molto di destra e molto poco specifici nel trovare risposte serie alle domande su come manterrano le loro promesse di tagliare tasse e deficit assieme.

 

Il duello per la Florida tra Bush e Rubio

I due sono tra quelli che vengono definiti candidati dell’establishement, ovvero non appartengono alle ali più destre o sui generis del partito e non sono nemmeno outsider puri (e in questo momento vincenti) come Carson e Trump. Siccome ci si aspetta che prima o poi le candidature di quelli della coppia che è avanti agli altri si sgonfi, molti osservatori ritengono che lo scontro vero sia tra quei candidati spendibili in elezioni generali che in questo momento inseguono. Tra questi Rubio è in ascesa e il suo ex mentore politico Bush in declino. Per questo Jeb ha provato ad attaccare più di una volta il senatore ispanico. Ad esempio sulle sue assenze in Senato per andare in giro a fare campagna: «Ti hanno eletto per essere in aula a votare, cos’è la tua settimana, una settimana francese di tre giorni (pregiudizi repubblicani sull’Europa, ndr)?». La risposta è stata: «Tu sei un ammiratore di McCain, che pure salta molte votazioni, ma non ti ho sentito parlarne così, mi attacchi solo perché insegui nei sondaggi». E poi: «Siamo qui non per farci la guerra tra noi ma per battere Hillary Clinton». Più conservatore di Bush, preparato e diligente, Rubio è anche capace di trovare la battuta giusta in fretta. Jeb, che aveva disperato bisogno di una performance convincente, invece, si trova per la terza volta a prendere “appena sufficiente” e dopo essersi visto prendere in contropiede due volte da Rubio, ha anche smesso di provare a incalzarlo (il manager della sua campagna ha anche protestato contro il produttore dello show televisivo, brutto segnale). Il primo è probabilmente il vincitore del dibattito, il secondo è nei guai.

 

Ted Cruz, il texano contro i moderatori di parte

Ai repubblicani non piacciono i media: in Tv guardano FoxNews e, soprattutto, ascoltano le talk radio, una specie di universo parallelo che li nutre di quello che si vogliono sentir dire (Beppe Grillo ha studiato molto da quel modello). E i tre moderatori del dibattito hanno fatto di tutto per rafforzare le convinzioni dell’elettorato di destra: le loro domande erano troppo spesso del tipo «Davvero lei ha detto questa frase controversa?» e molto poco spesso «cosa pensa del patto conl’Iran» o «che piano ha per le tasse». Il primo a notarlo è stato Ted Cruz (poi qualcosa di cattivo ai conduttori l’hanno detta tutti), che tra gli applausi del pubblico ha detto «Questa non è un incontro di pugliato in una gabbia, le vostre domande sono come se lo fosse. Al dibattito tra democratici, che era un dibattito tra bolscevichi e menscevichi, invece chiedevate “chi tra voi è più intelligente e bello». Il minuto che vedete qui sotto e una buona performance a destra degli altri rende Cruz il campione potenziale dell’ala conservatrice del partito. Ha raccolto molti fondi e deve aspettare, come tutti gli altri, che le candidature Carson e Trump si sgonfino. Se dovesse davvero succedere (ma va detto che i due sono molto più resistenti del previsto) Cruz potrebbe unire la destra del partito.

Carson e Trump, da outsider a figure sopra la mischia

In tre mesi di campagna Ben Carson è riuscito a scalare i sondaggi e collocarsi al primo posto. Parla piano, non attacca gli altri, esprime concetti facili e ultraconservatori. Spesso controversi. Ma col sorriso. nel dibattito non eccelle, ma gli basta così: è primo nei sondaggi grazie ai consensi tra quell’ala religiosa che contribuì ad eleggere Bush e che dal 2004 ha perso protagonismo all’interno del partito. Quanto a Trump, tutti si aspettavano di vederlo azzannare Carson e lui non lo ha fatto, dichiarandolo dall’inizio. Dopo mesi a fare il pagliaccio, ora prova a darsi un tono. Se farlo gli dovesse guadagnare delle simpatie senza fargli perdere i consensi dei tifosi a cui piace il miliardario spaccone, il suo sarà un calcolo azzeccato.

 

Kasich e Christie, i governatori che annaspano

La gente li percepisce come due politici schietti e capaci che hanno fatto bene il loro lavoro. C’è un elemento di verità. Ma il rispetto non basta e nei sondaggi i due sono indietro. Kasich ha provato a emergere giocando il ruolo dle candidato responsabile contro Trump: «Le vostre sono politiche di fantasia, dite quel che la gente vuole sentirsi dire, non quello che bisogna dire». «Mi attacchi solo perché sei indietro nei sondaggi» è la risposta di Trump. Hanno ragione entrambi. Christie è stato efficace quando ha interrotto una domanda a Bush sul FantaFootball (il fantacalcio): «Abbiamo l’Isis alle porte e un debito alle stelle e siamo qui a parlare di FantasyFootball?!». Le candidature di questi due non sono finite, ma certo serve qualcosa che gli dia una scossa. Quando e se il campo dei concorrenti sarà più piccolo, almeno uno dei due potrebbe salire nei sondaggi. Se ci sarà ancora

Il dibattito non è servito a Huckabee, Rand Paul e Carly Fiorina. Probabilmente costerà caro a Jeb Bush. Tra un paio di giorni avremo nuovi sondaggi e vedremo se Rubio, Cruz (e magari Christie) faranno passi in avanti. Per ora tutto appare aoncora in ballo. Con i bookmaker che cominciano ad alzare le quotazioni di Rubio e Carson e Trump che continuano a guardare tutti dall’alto. La nomination repubblicana è in alto mare e i grandi donatori e l’establishement del partito sono molto, molto preoccupati.

 

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Repubblicani, terzo dibattito Tv, stavolta Trump insegue

Electability, eleggibilità. Sarà questa la parola d’ordine che un disperato Jeb Bush proverà a usare nel terzo dibattito televisivo tra aspiranti candidati repubblicani a Boulder, cittadina del Colorado tra le più liberal e di sinistra d’America. Per quello che doveva essere il candidato forte e da battere, questa è forse l’ultima chance di dare una scossa a una corsa che fino ad oggi è stata un disastro.

Gli ultimi sondaggi nazionali e quelli dei primi due-tre Stati in cui si tengono le primarie non sorridono al fratello intelligente di George W. In testa non c’è più Donald Trump, ma il chirurgo afroamericano Ben Carson, il campione dei conservatori religiosi che nelle ultime settimane ha scritto o dichiarato che: se gli ebrei avessero avuto delle armi l’Olocausto si sarebbero difesi, l’aborto è paragonabile alla schiavitù perché la madre ritiene di disporre del feto come lo schiavista disponeva degli schiavi. Nel 2013 invece spiegò che l’omosessualità è paragonabile alla bestialità e alla pedofilia. Come Trump, secondo nei sondaggi per la prima volta (22% contro il 26% di Carson), è un outsider, non è mai stato eletto a nessun incarico e incarna il disprezzo che l’elettorato conservatore nutre per il proprio partito – troppo moderato, incapace di portare a casa risultati contro Obama. Per le stesse ragioni per cui Bush non tira, insomma, Carson e Trump raccolgono consensi. Almeno per ora. (Qui sotto le medie dei sondaggi nazionali, dove Trump è ancora in testa)

 

Bush e gli altri inseguono a molta distanza e hanno bisogno di buone performance per rimanere a galla ed arrivare fino alle prime primarie senza essere già bolliti. L’ex governatore della Florida ha di recente riorganizzato la sua campagna, licenziando persone dalla sede centrale e assumendo nelle sedi locali. L’obbiettivo è quello di costruire il consenso casa per casa, convincere gli elettori di Iowa, New Hampshire e South Carolina che lui è quello che può battere Hillary Clinton – che dopo la rinuncia del vicepresidente Biden a correre appare davvero imbattibile nelle primarie democratiche. Per l’ex candidato predestinato il dibattito serve a restituire smalto alla propria candidatura, a spiegare che anche lui è un conservatore, anche se meno di Carson, che è credibile e capace a governare, a differenza di Trump. In un memoriale distribuito alla stampa per spiegare la direzione presa dalla campagna Bush spiega che solo lui è stato capace di raccogliere tanti sostegni da figure importanti del partito e tanti fondi (anche se ultimamente le casse cominciano a essere vuote). Sapere se si tratta di una strategia vincente è difficile: certo, lui e pochi altri  tra i candidati repubblicani sono eleggibili e potenzialmente vincenti contro Clinton, ma al contempo l’elettorato repubblicano intenzinato a votare alle primarie sembra avere idee molto a destra.

A incalzare davvero Bush in materia di eleggibilità c’è Marco Rubio, avanti nei sondaggi a Bush nella Florida che lo ha eletto senatore. Giovane, conservatore abbastanza da non essere proprio spiacevole alla destra del partito, preciso quando si tratta di rispondere a domande sulle politiche da attuare, il figlio di esuli cubani è forse il candidato potenzialmente più forte: al contempo credibile e di destra.

Tra le cose interessanti da seguire nel dibattito c’è la reazione di Donald Trump alla prima discesa nei sondaggi. Quanto e come attaccherà Carson? Ad oggi i due sono andatti piuttosto d’accordo, o meglio, non si sono morsi. I due sono molto diversi: in fondo, per quanto macchiettistico e buffonesco, il miliardario di New York è tra i meno di destra tra i candidati repubblicani. Specie in materia di temi etici. E come risponderà agli attacchi Carson? Ad oggi ogni sua performance è stata caratterizzata dalla calma assoluta, dal sorriso e dall’aplomb. Si tratta probabilmente di una parte del suo fascino – che è anche dato dal fatto di essere un grande medico con origini umili. Ma Carson è talmente calmo che in rete e nei programmi satirici in Tv ci sono diverse parodie che lo mostrano addormentarsi mentre ascolta parlare se stesso.

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(Qui una guida rapida alle primarie repubblicane)

Ci saranno altre grandi performance come quella che ha consentito a Carly Fiorina, unica donna del gruppo repubblicano, di fare un salto nei sondaggi per una decina di giorni (per poi ripiombare in basso)? Il governatore del New Jersey Chris Christie, il libertario Rand Paul e l’evangelico Mike Huckabee ne hanno un disperato bisogno. Qualcuno tra loro nei prossimi giorni, se il dibattito di stanotte dovesse andare male, potrebbe anche lasciare. La verità, però, è che il memo di Bush alla stampa contiene un’analisi che non è sbagliata: l’elettorato repubblicano è ancora molto volatile e indeciso, spesso cita più di un nome e il campo è ancora molto aperto. E’ molto difficile che Carson e Trump, per quanto stiano tenendo in maniera sorprendente nei sondaggi, finiscano davvero con l’essere la scelta finale. Per questo, i dibattiti Tv pesano: servono a fare ricordare a tutti i repubblicani che esisti. Poi starà agli strateghi delle campagne, ai soldi da spendere e alla capacità organizzativa sul territorio lavorare per portare la gente ai seggi a febbraio 2016.

La natura e il software: le foto vincitrici dei Pano awards

Fotografia panoramica, di ambienti toccati e manipolati dall’uomo e di natura incontaminata. La foto di questa gallery sono quelle premiate all’Epson International Pano awards. Due categorie di foto e due tipi di concorrenti (professionisti e amatori) per 1055 partecipanti, 4345 foto da 60 Paesi. A vincere è stato l’olandese Max Rive con la foto qui sopra, scattata sull’Himalaya e titolata The ice prison.

01_2015_O_BE_Darren_Moore-TowerSecondo posto per ‘Tower’ di Darren Moore (Broadway Tower, Worcestershire, United Kingdom)

05_2015_O_BE_Carlos_F_Turienzo-Lightning_the_WayCarlos F. Turienzo ‘Lighting the Way’ 

02_2015_O_BE_Darren_Moore-CurvatureDarren Moore ‘Curvature’ 

A vincere il concorso amatoriale è stato il polacco  Mateusz Piesiak

01_2015_A_N_Mateusz_Piesiak-Phantoms_of_the_MorningMateusz Piesiak ‘Phantoms of the Morning’ – 

Secondo posto per John Finnan, Australia.

01_2015_A-BE_John_Finnan-Foggy_Sunrise_at_Wallaces_HutJohn Finnan ‘Foggy Sunrise at Wallaces Hut’ 

 

Qui sotto finalisti di ciascuna delle quattro categorie

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03_2015_A_BE_Daniel_Brauer-ColossalDaniel Brauer Colossal

10_2015_A_BE_Juan_Garcia_Lucas-DAWN+NIGHT+DAY-IN-NYCJuan Garcia Lucas Dawn night in NYC

02_2015_A_N_Nicholas_Roemmelt-Welcome_Milky_WayNicholas Roemmelt Welcome Milky Way

04_2015_A_N_Nicholas_Roemmelt-In_Heaven_on_HovenNicholas Roemmelt In Heaven on Hoven

08_2015_A_N_Dag_Ole_Nordhaug-Approaching_StormDag Ole Nordhaug Approaching Storm

09_2015_A_N_Pamela_Jennings-Tidal-WonderPamela Jennings Tidal Wonde

06_2015_O_BE_Carlos_F_Turienzo-Future_Visions Carlos F. Turienzo Future Visions

07_2015_O_BE_Dennis_Ramos-FlyoverDennis Ramos-Flyover

10_2015_O_BE_Sajeesh_Shanmughan-Foggy_Dubai_MarinaSajeesh Shanmughan Foggy Dubai Marin 

02_2015_O_N_Matthew_Smith-Smiling_AssassinMatthew Smith Smiling Assassin

03_2015_O_N_Mohammad_Rahman-AloneMohammad Rahmanm Alone

07_2015_O_N_Miles_Morgan-Weeping_WallsMiles Morgan-Weeping Walls

Hanoi-Mosca in treno nel 1975, il Sud-est asiatico come non è più

Le giornate che scorrono con lentezza, tra le immagini sempre diverse, il menù consunto ma enciclopedico, gli incontri inattesi, il viaggio che Massimo Loche racconta nel suo preziosi Per via di terra in viaggio da Hanoi a Mosca (Voland) offre la possibilità di tuffarsi in un sud est asiatico lontano. (Come quello di Tiziano Terzani ma raccontato senza i suoi toni sapienziali e un po’ mistici). Siamo improvvisamente catapultati nel 1974 . E mentre in Italia avveniva la strage dell’Italicus e si festeggiava il divorzio, mentre in America scoppiava il caso Watergate, da inviato dell’Unità, Massimo Loche raccontava un Paese affascinante come il Vietnam dove erano ancora aperte le ferite dell’occupazione americana. In questo volume Loche ci fa rivivere quei viaggi in treno dal sapore leggendario con la puntualità del cronista e una prosa avvincente.

Abbiamo approfittato della presentazione di questo suo piccolo e prezioso libro al Salone dell’ditoria sociale a Roma per rivolgergli alcune domande.

Per via di terra, in treno da Hanoi a Mosca ha un’impronta fortemente letteraria, pur essendo un libro nato da un’esperienza veramente vissuta, che cosa l’ha ispirato?

Se non suonasse banale direi che il viaggio è stato ispirato dal viaggio stesso. Infatti quando ho deciso di farlo non pensavo che ne sarebbe venuto fuori un libro, volevo semplicemente vivere l’esperienza, soddisfare la mia passione per i viaggi in treno cogliendo un’occasione unica. Non fu facile realizzare il progetto, e questo lo racconto nel libro, ma se fosse stato facile forse il libro non sarebbe nato. Se i miei compagni di viaggio fossero stati tutti muti e scontrosi e non avessi potuto scambiare osservazioni e idee, nemmeno in questo caso il libro sarebbe nato. Invece il viaggio mi dette il materiale necessario per poterne scrivere, ma non ne feci un reportage giornalistico che forse avrebbe “bruciato” la possibilità di far nasce un libro dopo. Passò il tempo e quando, venti anni dopo quell’esperienza, in un periodo di inattività forzata, mi rimisi a scrivere il libro mi venne quasi di getto. Non avevo preso appunti durante il viaggio e scrissi tutto a memoria, questo forse dà al libro una certa aria “letteraria”. O, se vogliamo dirla al contrario, non è un reportage, manca appunto la precisione, il controllo delle fonti e delle affermazioni, il rigore che deve essere proprio del giornalismo. Ma tutto quello che racconto è sostanzialmente vero, almeno nella mia memoria.

Nell’introduzione evochi i reportage di Renata Pisu. La sua esperienza di viaggio da Pecino a Mosca sulla transiberiana ha qualche nesso con la tua?

In realtà i viaggi raccontati da Renata Pisu sono molto diversi dal mio. Certo la linea è la stessa i treni sono ancora quelli vecchi su cui ho viaggiato, ancora più obsoleti, ma qui finiscono i punti comuni. Siamo già in un mondo cambiato la Cina ha iniziato la sua lunga marcia nel capitalismo, l’Urss non esiste più. La transiberiana è veramente un luogo di traffici e di commerci leciti e meno leciti (va detto che anche Tiziano Terzani racconta questo aspetto con grande efficacia). Non è tornata ad essere la transiberiana degli Zar, col vagone sauna, il vagone cappella, il barbiere, con bronzi dorati e legni pregiati. Ma è molto lontana dalla transiberiana dove io ho viaggiato, dove si respiravano tensioni politiche evidenti e pesanti sostituite da tensioni legate al passaggio delle merci, ai sospetti di truffa, alla diffidenza di venditori e compratori. Il frusciare che si sente non è più quello delle pagine del libretto rosso, ma quello dei biglietti di banca.

Hanoi oggi sembra vivere un momento di grande vitalità, all’epoca del tuo viaggio, i bombardamenti americani erano cessati da solo due anni, quella vietnamita è una storia di straordinaria resistenza, agli Usa e prima ancora alla dominazione cinese?

Leggo delle grandi trasformazioni del Vietnam, del diffondersi di una nuova prosperità, ma anche di corruzione e illegalità. Leggo sempre più spesso in tanti prodotti l’etichetta “Made in Vietnam”, sappiamo di eccellenti rapporti tra Vietnam e Usa. Tutte cose assolutamente inimmaginabili allora. Gli americani erano il grande nemico, certo non bombardavano più, ma sostenevano il presidente del Sud Vietnam Nguyen Van Thieu che conduceva la sua guerra contro il Nord Vietnam e contro i combattenti del FNL al sud. I cinesi erano alleati sì, ma la diffidenza si percepiva a voler ben guardare – e nel mio libro ne do qualche indizio – dietro le affermazioni ufficiali di fraternità. Infatti finita la guerra nel 1975 e solo 5 anni dopo il mio viaggio ci fu un conflitto aperto con la Cina e il Vietnam scelse come alleato l’Unione Sovietica. Oggi stanno nascendo nuove tensioni tra Hanoi e Pechino a proposito delle acque territoriali ricche di petrolio. Eppure il modello a cui si è ispirato il Vietnam per il suo sviluppo assomiglia molto a quello cinese a dispetto delle tensioni. Ma non c’è da stupirsi: per secoli il Vietnam si è ispirato alla Cina, ma il “piccolo dragone” non si è mai sottomesso al “grande dragone”. E a ben pensarci anche l’evoluzione dei rapporti con gli Stati Uniti poteva essere prevista: sarebbe bastato prendere sul serio, e non solo come propaganda, la frase di Ho Chi Minh: “il popolo americano è il primo alleato del Vietnam”.

Quando tu misuravi piazza Tien An Men a lunghi passi e cercavi di far capire a gesti al tassista che volevi andare alla città proibita, Pechino era ancora molto lontana dagli sguardi occidentali. Poi ci sarebbe stata la sanguinosa repressione della rivolta giovanile e un aggressivo capitalismo di Stato. E oggi quasi si fatica a cogliere i segni della sua storia millenaria. La rivoluzione culturale che ha ostracizzato la storia antica e poi il capitalismo sfrenato danno l’impressione che la città viva su un vuoto culturale. Cosa ne pensi, è un’impressione sbagliata?

No, non è un’impressione sbagliata, o almeno non del tutto. Posso dire questo: quando tornai a Pechino, molti anni dopo, nel 1996, faticavo a riconoscere la città. La porta e il pezzo di antiche mura che stavano non lontano da Piazza Tien An Men non c’erano più. Non riuscii a ritrovare la stazione delle ferrovie dove ero arrivato e da dove ero partito nel ’74. Ma soprattutto il mare di biciclette, che tanto mi aveva impressionato negli anni Settanta, era stato sostituito da un mostruoso maleodorante stuolo di automobili e camion. Per ritrovare qualcosa di antico mi dovetti spingere fino agli splendidi templi del Cielo e della Terra. Non so cosa sia successo oggi. I cinesi in certi casi hanno riaperto e restaurato antichi templi, o con molta disinvoltura ricostruito monumenti antichi, lo sviluppo del turismo dovrebbe agire in controtendenza alla distruzione del patrimonio storico enorme e splendido della Cina.

Anche per questo hai deciso di pubblicare con Voland Per via di terra?

Sì proprio perché può aiutare a ricordare la storia di quei paesi, a suggerire a chi oggi va facilmente come turista a Pechino o Hanoi, o percorre la transiberiana nei moderni treni russi o cinesi come tutto ciò poteva essere diverso solo quarant’anni fa. Mi piace l’idea che in qualche modo posso aiutare il viaggiatore di oggi a vedere con gli occhi della fantasia il muro di biciclette inforcate da uomini e donne tutti in tuta blu mentre fermi a un semaforo si osserva il rutilante spettacolo di auto cromate e scoppiettanti guidate da signori e signore vestiti in tutti i modi e colori.

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Corradino Mineo lascia il Pd. Gli abbiamo chiesto perché

Corradino Mineo lascia il Pd: «Da oggi lascio il gruppo», scrive su Facebook, «auguro buon lavoro ai senatori democratici e continuerò la mia battaglia in Senato, cominciando dalla legge di stabilità che, come dice Bersani, sta isolando il Pd».
 
Mineo, in realtà, lascia così non solo il gruppo in Senato ma tutto il partito democratico: «Non ero più iscritto al Pd dal 2014», dice a Left, «perché il Pd siciliano, che è dove sono stato eletto, era tale che proprio non potevo tesserarmi, no?». «Il gruppo», continua il senatore, ex direttore di Rainews24, «era l’ultimo legame che avevo con il Pd. Un legame che ho mantenuto, siccome non sono un salta fossi, finché è stato possibile mantenerlo. Ma ora non è proprio più possibile».
 
Lamenta, Mineo (che ha votato in dissenso dal gruppo su molti passaggi chiave, sulla scuola, sulla riforma costituzionale, sull’Italicum e il jobs act, oltre che sulla Rai) di esser stato «processato stalinianamente» da Luigi Zanda, il capogruppo, che «è spaventato dal passaggio della Stabilità e quindi ha inventato un meccanismo per cui nessuno può presentare emendamenti senza il parere del capogruppo e dai presidenti delle commissioni. Ogni volta se ne inventano una per evitare che i senatori possano fare il loro lavoro e condurre le battaglie politiche che ritengono giuste».
 
«Ieri», è la ricostruzione che Mineo mette nero su binaco in un post, «Luigi Zanda mi ha dedicato – senza avvertire né me né altri di quale fosse l’ordine del giorno – un’intera assemblea, cercando di ridurre le mie posizioni politiche a una semplice questione disciplinare, stilando la lista dei dissidenti “buoni”, Amati, Casson e Tocci e del “cattivo”, Mineo. Il Pd non espelle nessuno – ha detto Zanda – ma nelle conclusioni ha parlato di “incompatibilità” tra me e il lavoro del gruppo. Non espulsione, dunque, ma dimissioni fortemente raccomandate».
«Come deluderlo?», prosegue Mineo. Già. E, allora, adesso? Come succederà anche al deputato Alfredo D’Attorre, Mineo raggiungerà altri usciti dal Pd: «Qui al Senato per adesso vado al gruppo misto», dice a Left, «e continuerò con la battaglia politica che è utile se non è rituale ma sulle scelte». Sul processo costituente a sinistra, per ora Mineo si limita a una constatazione: «Ci sono delle persone fuori che stanno cercando di dare battaglia, e io sarò con loro. Ovunque vada in Italia mi dicono di tenere duro, ed è un consenso morale prima che politico. Lo spazio c’è ed è grande». Si tratta di capire come occuparlo.

Giustizia sociale, Italia terzultima in Europa. Cresce ovunque il gap giovani-vecchi

Una nuova classifica, un nuovo insuccesso. La società italiana, a leggere i dati e gli indicatori contenuti nel rapporto del Social Justice Index (l’indicatore di giustizia sociale) europeo prodotto dalla fondazione Bertelsmann, è stata malamente colpita dalla crisi e dalle politiche di austerità che ne sono seguite.

A dire il vero il binomio crisi/austerità ha colpito quasi tutti i Paesi dell’Europa a 28, se è vero che confrontando i valori del 2008 con quelli di quest’anno, solo quattro migliorano il loro livello di giustizia sociale – la Germania, il piccolo Lussemburgo, la Gran Bretagna che nel 2008 era già in piena crisi finanziaria e la Polonia che due giorni fa ha votato la destra estrema.
Guardando ai valori quantitativi e qualitativi relativi a povertà, inclusione sociale, accesso all’istruzione, coesione sociale e non-discriminazione, solidarietà inter-generazionale (che tradotto significa benessere, qualità delle politiche e delle istituzioni e tenuta della società), la fondazione produce una classifica – e un rapporto di più di cento pagine.


Che cos’è il SIJ

Con l’indice sociale giustizia, la Fondazione Bertelsmann indaga ogni anno le opportunità di partecipazione sociale nei 28 Stati membri dell’Ue, sulla base di 35 criteri. L’indice prende in esame sei diverse dimensioni della giustizia sociale: la povertà, l’istruzione, il mercato del lavoro, la salute, la giustizia intergenerazionale, la coesione sociale e  la non discriminazione. I dati sono stati raccolti fino al 25 Agosto 2015.


Bene, in questa mappa europea l’Italia è al 25° posto, seguita solo da Romania, Bulgaria e, naturalmente, dalla Grecia. L’indice è appena più alto di quello dello scorso anno, ma non abbastanza da rendere il quadro roseo. Anche in questo caso la situazione dle nostro Paese cammina di pari passo con il resto d’Europa, dove le cose migliorano. Il punto più basso, scrivono gli esperti della fondazione Bertelsmann, è stato il 2012. Eppure, si legge nel rapporto:

Una svolta autentica e globale in termini di giustizia sociale, non è in corso. Una certa stabilizzazione in relazione all’economia è evidente in molti Paesi (…) anche in alcui tra quelli più martoriati dalla crisi come Spagna, Portogallo e Irlanda. (...) Certo è che le condizioni sociali e le possibilità di partecipazione per le persone nella maggior parte dei paesi dell’Unione europea restano molto peggiori del periodo pre-crisi.

La questione più importante e difficile messa in luce dal Social Justice Index 2015 è quella della solidarietà inter-generazionale: bambini e giovani sono le vittime della Grande crisi, mentre per i più anziani, si legge nel rapporto, esclusione sociale e povertà sono diminuite, ampliando il gap inter-generazionale. Peggio che altrove va ai Paesi del Sud europeo:

In tutta l’Ue, il 27,9 per cento dei bambini e dei giovani sono minacciati dalla povertà o di esclusione sociale, che è chiaramente più rispetto al 2007 (26,4%). (…) Quando guardiamo esclusivamente all’aumento della povertà nei quattro Paesi più colpiti dalla crisi Spagna, Grecia, Portogallo e Italia –  il tasso di povertà medio dei bambini è aumentato di più di 5 punti percentuali: da 28,7 del 2007 al 33,8 per cento di oggi. In termini assoluti, ciò corrisponde ad un aumento di 1,16 milioni di bambini.

Enorme il divario che riguarda quella parte di giovani esclusi dalla formazione e dal mercato del lavoro, i NEET. A Sud è un disastro e l’Italia fa peggio degli altri:

In Spagna, circa un quarto (24,8%) dei giovani sono NEET, mentre in Italia il tasso è vicino a un terzo del totale (32%). I tassi di disoccupazione giovanile in questi paesi Sono ancora più alti: in Spagna e Grecia siamo ancora ben oltre il 50 per cento, e in Italia è addirittura salita di nuovo a un tasso del 42,7 per cento. I tassi NEET più bassi sono nei Paesi Bassi (7,8%), in Danimarca (8,4%) e in Germania (9,5%). La Germania è l’unico Paese dove le cose sono sostanzialmente migliorate rispetto al 2008.

Tutto quel che dice il rapporto, in qualche modo lo sapevamo: per rispondere a una crisi come quella che l’Europa ha vissuto e sta vivendo, servono politiche sociali innovative e risorse per politiche economiche e non austerità e tagli alla spesa. La stessa fondazione, con un altro indice, il Social policy reform in the Eu, che è basato su indicatori qualitativi, spiega bene la situazione:

Nel complesso, i risultati dello studio mostrano che molti paesi europei che hanno perso lo slancio per le riforme sociali. Anche se si può dire che il livello di consapevolezza problema è alta tra i governi, lo studio rivela che vi è una chiara discrepanza tra problema consapevolezza e la risposta problema in un certo numero di Stati membri dell’Ue. In particolare i Paesi del sud non hanno – o non sono stati in grado di – attuare riforme tali da far avanzare l’integrazione sociale. Per contro, alcuni Stati del nord sono riusciti a incrementare il livello di inclusione sociale negli ultimi anni.

 

I “mattoncini” della discordia: l’artista Ai Weiwei contro la società danese Lego

I fan dell’artista cinese Ai Weiwei hanno inviato migliaia e migliaia di mattoncini Lego alla sua casella postale, dopo che la nota società gli ha impedito di comprare i suoi giocattoli.

L’attivista cinese Ai Weiwei aveva, nei giorni scorsi, fatto un grosso ordine di blocchi dalla Lego, nota compagnia di giocattoli danese. Fin qui niente di nuovo. L’artista, infatti, aveva già utilizzato in una precedente mostra ad Alcatraz i mattoncini, con cui aveva creato ritratti di famosi dissidenti politici, che uscivano fuori dai blocchi colorati.

Questa volta Ai aveva previsto di utilizzare i blocchi per la prossima mostra d’arte che si sarebbe dovuta tenere alla National Gallery of Victoria. Il suo piano è andato in frantumi quando la società danese lo ha avvertito che non poteva vendergli i suoi mattoni perché: «non autorizzata a sostenere opere politiche». In un post su Instagram, raffigurante un water pieno di Lego, Ai ha spiegato nel dettaglio cosa sia successo.

 

“Everything is awesome “

Una foto pubblicata da Ai Weiwei (@aiww) in data:

Parlando con la CNN, il portavoce della Lego Roar Rude Trangbaek ha spiegato che la politica aziendale prevede «la completa astensione, a livello globale, dall’impegno attivo e dall’avallo dell’utilizzo di mattoncini Lego per progetti o contesti che abbiano a che fare con progetti politici. La Lego ridurrà le donazioni o il sostegno ai progetti, così come la possibilità di acquistare i mattoni in grandi quantità, cosa che non è possibile fare attraverso i normali canali di vendita, nei casi in cui sia evidente che questi vengono utilizzati per scopi politici o di propaganda». Attraverso la sua arte e il suo attivismo, Ai Weiwei è diventato noto per essere uno dei più feroci e creativi critici del governo cinese. Come riprova della doppia faccia che la società danese utilizza, indica poi piani già pronti per la costruzione di un prossimo parco divertimenti Legoland, da costruire a Shanghai. In risposta alle azioni della Lego, i fan hanno voluto lanciare messaggi di supporto ad Ai Weiwei, facendo recapitare all’artista moltissimi mattoncini Lego. Ma anche on-line, utilizzando l’#LegosForWeiwei. Da parte sua, Ai ha istituito una casella di posta, dove i fan possono inviare i loro mattoni: 258 Caochangdi Chaoyang district, Beijing China 100015.


 

Dato il netto rifiuto da parte della Lego, Ai ha già pronta una contromossa per reagire al sopruso. Sta sviluppando l’idea di «un nuovo lavoro per difendere la libertà di parola e dell’arte che cerca di scardinare i meccanismi sbagliati che stanno dietro la politica». La particolarità del nuovo progetto starà nell’istituire diversi di punti di raccolta dei mattoncini in diverse città di tutto il mondo. L’iniziale rifiuto della società danese, che avrebbe dovuto costituire un handicap per l’attivista e un intralcio al suo lavoro, ha portato, invece, molta più pubblicità e visibilità alle sue opere antigovernative di quanta lui si sarebbe mai aspettato di ricevere. Non si può certo dire lo stesso per la società danese.

Luigi de Magistris a Ignazio Marino: «Fai bene a non mollare, devi farti sfiduciare»

05/02/2013 Roma, trasmissione Ballarò. nella foto Luigi De Magistris, sindaco di Napoli

Sabato in edicola su Left c’è una lunga intervista a Luigi de Magistris. Abbiamo parlato della sua ricandidatura a sindaco di Napoli, della sinistra da costruire, dell’opposizione a Renzi. E anche di Ignazio Marino: «Se è convinto che sono affaristi e mafiosi a volerlo cacciare», ci ha detto De Magistris, «deve farsi sfiduciare. Non deve mollare».

Lei, de Magistris, è una spina nel fianco. Lui, Ignazio Marino, è un “marziano”. Entrambi non siete graditissimi a Palazzo Chigi. Che idea si è fatto della vicenda del sindaco di Roma?
Sicuramente, Marino durante il suo mandato è stato messo in difficoltà – così come hanno fatto con me – da chi non ama particolarmente le esperienze più autonome rispetto al sistema tradizionale dei partiti. Ma la sua esperienza non è paragonabile alla mia, per quanto più autonoma rispetto ad altre tradizionalmente di centrosinistra, perché Marino è espressione del Partito democratico che lo ha sostenuto alle elezioni e adesso furbescamente lo vuole cacciare. È Renzi che ora stacca la spina e si trova in una curiosa convergenza parallela con i 5 stelle e con la destra, che hanno preparato il terreno.

Il sindaco di Roma Ignazio Marino in Campidoglio in occasione della presentazione del progetto di illuminazione artistica dei Fori Imperiali, Roma 16 settembre 2014. ANSA/ALESSANDRO DI MEO
Il sindaco di Roma Ignazio Marino

Cosa farebbe al suo posto?
Alla luce della mobilitazione popolare e di quello che lui stesso dichiara, dovrebbe rivendicare un po’ di coerenza e quindi andare in Consiglio comunale e ammettere i suoi errori con molta onestà. Errori che ci sono stati, ed è innegabile anche per me che sono umanamente molto legato a Ignazio. Ma se ha la coscienza a posto deve ribadirlo in modo forte, anche gridando: “Sono onesto, non ho commesso alcun illecito. Sfiduciatemi, se volete”.

Quando parla di errori a cosa si riferisce?
Penso ad esempio che quando c’è stato il funerale di Casamonica sarebbe dovuto rientrare subito in città. E che le spiegazioni sulla vicenda degli scontrini non sono state proprio le più chiare possibili, né rapide. Ma penso pure che se uno è convinto di stare dalla parte giusta e di essere addirittura bersaglio di tentativi seri di “farlo fuori”, non dovrebbe mollare. Lui dice che sono gli affaristi e i mafiosi che lo vogliono cacciare, allora deve resistere e farsi sfiduciare.

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