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Portogallo, la sinistra unita ha i numeri per governare, il presidente incarica il centrodestra

il segretario generale del Partito socialista, Antonio Costa

AGGIORNAMENTO 24 novembre, ore 17,46. Il socialista Antonio Costa è stato nominato primo ministro del Portogallo. Sostenuto dalla sinistra radicale, dal Bloco de Esquerda e dai comunisti portoghesi, entro martedì dovrà formare il nuovo governo. A due settimane dalla sfiducia al governo di centrodestra di Passos Coelho, adesso la sinistra portoghese tenta di porre fine alle politiche di austerità della Troika, in campo dal 2011.

È bufera in Portogallo. Il governo uscente di centrodestra ha vinto di un soffio le elezioni ma non ha la maggioranza per governare e non è in grado di formare una coalizione che prenda la metà più uno dei membri del nuovo Parlamento. Il 22 ottobre era però arrivato l’annuncio storico del socialista Antonio Costa che ha comunicato al Presidente della Repubblica l’accordo unitario della sinistra tutta per la formazione di un governo insieme al Bloco de Esquerda e al Partito comunista portoghese. La sinistra tutta questa volta ha i numeri, e per la prima volta in 40 anni di democrazia è anche riuscita a trovare un accordo. Non aveva fatto i conti con il presidente Cavaco Silva.

Subito dopo aver ricevuto questa comunicazione, il Presidente della Repubblica portoghese ha infatti nominato come primo ministro, Pedro Passos Coelho, capo della coalizione filo-Troika di centrodestra e premier uscente. La nomina è un atto formalmente e politicamente legittimo, Passos Coelho è di fatto il capo di del partito che ha vinto le elezioni, anche se già si sa che con l’attuale composizione del Parlamento portoghese non ha alcuna speranza di mettere in piedi un governo che non venga subito rimandato a casa. A sollevare la bufera nella sinistra portoghese non è stata solo la “perdita di tempo” del Presidente, ma anche e soprattutto il discorso (qui sotto, per chi volesse guardarlo) con il quale il Presidente ha voluto accompagnare tale nomina.

Cosa ha detto Cavaco Silva? «I contatti presi tra i partiti politici che sostengono e si rivedono nel progetto dell’Unione europea e dell’Eurozona non hanno prodotto i risultati necessari per raggiungere una soluzione govenativa stabile e duratura», ha detto il Presidente, aggiungendo poi: «Questa situazione è singolare perché gli orientamenti politici e i programmi elettorali di questi partiti non si mostrano incompatibili, essendo, al contrario, praticamente convergenti con gli obiettivi strategici del Portogallo». Aggiungendo infine: «Fuori dall’Unione europea e dall’Euro il futuro del Portogallo sarebbe catastrofico». Insomma, Cavaco Silva giustifica un governo di minoranza che però è in linea con l’Ue. Anzi, con la Troika. L’unica opzione di governo stabile che il presidente ha ammesso nel suo discorso è quella tra il Psd / Pp e Ps, un governo di larghe intese per intenderci.

Dopo aver ascoltato tutti i partiti di opposizione per obbligo costituzionale, e dopo che il Partito socialista, il Blocco di sinistra, il Partito comunista e i Verdi si sono detti pronti per un incarico di governo guidato dai socialisti del Psd. «Le dichiarazioni del Presidente della Repubblica sono un episodio sfortunato senza precedenti per la nostra democrazia», ha commentato a Left Marisa Matias, eurodeputata del Bloco de Esquerda e candidata alla Presidenza del Portogallo. «Niente giustifica che questa decisione sia stata accompagnata da un discorso di “crociata” ideologica, segnato da insinuazioni e minacce che non fanno altro radicalizzare le posizioni e ostacolare il dialogo rispetto alle scelte che il Paese deve affrontare. Quando il Presidente della Repubblica invoca l’Europa per mettere a tacere la democrazia, non fa altro che attaccare l’Europa e la democrazia». Il contenuto e il linguaggio delle sue affermazioni rivelano una totale assenza di imparzialità e neutralità e denunciano una comprensione abusiva delle funzioni presidenziali».

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«Il Presidente della Repubblica ha dimostrato di non essere e di non voler essere il Presidente di tutti i portoghesi», affonda Matias. «La gravità di queste dichiarazioni esige una posizione chiara di tutti i candidati e le candidate alle prossime elezioni Presidenziali, senza eccezioni. I portoghesi hanno il dirito di sapere. Per la mia parte, sempre rispetterò tutti i partiti in egual misura».

La creatività, la vitalità e la forza delle donne sono bombe sociali

editoriale chiara mezzalama

Mi chiedo talvolta come sia possibile che la condizione femminile sia ancora così arretrata. Che due sorelle siano condannate allo stupro collettivo per riparare all’errore di un fratello, come è successo in India recentemente, tanto per fare un esempio. Mi guardo allo specchio e penso a quanto sono fortunata di poter disporre di me stessa, verrà mai il giorno in cui tutte le donne potranno guardarsi allo stesso modo? Quanto tempo dovrà passare: decenni, secoli, millenni? Qual è la paura fondamentale, che non permette di liberare le donne? È quello che mi sono chiesta guardando Mustang il film della regista turca Deniz Gamze Ergüven alla sua prima, eccellente, prova.
Cinque sorelle orfane, cresciute da una nonna e da uno zio si affacciano alla vita con la forza dirompente della giovinezza. Adolescenti e preadolescenti, capelli lunghi sulla schiena, sguardi profondi e risate eccitate, escono da scuola l’ultimo giorno prima delle vacanze e si buttano in mare tra schizzi e schiamazzi insieme ad alcuni compagni. La reazione delle donne del villaggio, in una zona rurale della Turchia, è feroce. Le ragazze hanno ostentato comportamenti indecenti, la loro reputazione è subito messa in discussione. Inizia così un lento e inesorabile processo di imprigionamento che assume diverse forme. Le più concrete sono in fondo le meno gravi: grate alle finestre, muri innalzati, porte sprangate. Gli ostacoli fisici non impediranno alle cinque ragazze di scappare di casa per andare ad assistere a una partita di calcio solo per tifose donne. È l’unica scena del film in cui le vecchie del villaggio si rendono complici della disperata ricerca di libertà delle ragazze invece di essere complici del sistema patriarcale che vuole soffocarle. La vera prigione è proprio questo sistematico tentativo di spegnere la gioia di vivere, la forza, la ricerca di sé, l’energia e la sensualità che a quell’età sembrano non conoscere limiti. Le ragazze non torneranno a scuola dopo l’estate, allo studio si sostituisce l’economia domestica e una dopo l’altra andranno spose a ragazzi del villaggio, come se l’unico modo di tenerle a bada fosse di farle entrare nel giogo matrimoniale.


La verità però è che il film sembra dire che la conquista della libertà non può essere fermata, sebbene il prezzo da pagare, per alcune, sarà molto alto. È questo che fa paura: la vitalità rompe gli schemi di un ordine precostituito e implica una rimessa in discussione radicale della società tutta intera, a partire dal rapporto tra i sessi e le generazioni. E questo è pericoloso, viene considerato come una minaccia catastrofica. La creatività, la vitalità, la forza delle donne sono delle bombe sociali che potrebbero far esplodere tutto. Meglio allora disinnescarle subito. Nel film sarà l’ultima delle sorelle, Lale, a riuscire a ribellarsi davvero. È un’immagine forte dello sforzo che costa rompere le catene della tradizione. Rompere i pregiudizi di genere. La rottura implica una forza, una protesta, non può essere un processo pacifico, indolore. Sarà per questo che a molti (e a molte) dà fastidio il termine “femminista” che la regista rivendica per il suo film. In un Paese come la Turchia è un messaggio dirompente, proprio come le cinque ragazze che urlano allo stadio fino a perdere la voce. Urlare, protestare, ribellarsi, lottare: non c’è altra scelta.


«La vera prigione è proprio questo sistematico tentativo di spegnere la gioia di vivere, la forza, la ricerca di sé, l’energia e la sensualità», scrive Chiara da Parigi. Mustang è in sala dal 29 ottobre e noi ci andiamo. Parla di uguaglianza e libertà. E di donne, considerate una minaccia catastrofica. Bombe sociali appunto, da disinnescare subito perché potrebbero sovvertire la “prigione vera” del sistema patriarcale. Sono anni che lo scriviamo su Left, anche su questo numero vi racconteremo come non siamo più noi a dover assomigliare agli eroi ma loro a noi, perché ciò che li rende “super” non sono più i muscoli (la macchina funzionante del corpo) ma la sensibilità (la loro identità umana), perché questo fa stare bene le persone.
Buona lettura, i.b.

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Trovi questo editoriale nel numero 41 di Left disponibile in edicola e in digitale dal 24 ottobre

 

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Rubano lavoro? No, gli immigrati pagano le nostre pensioni

Il dubbio lo si aveva un po’ tutti, ma la quinta edizione del Rapporto annuale sull’economia dell’immigrazione della Fondazione Moressa, presentato giovedì 22 a Roma, lo mette nero su bianco per l’ennesima volta: gli immigrati che vivono e lavorano in Italia sono una risorsa economica. L’idea che i milioni di persone che negli anni sono venuti a lavorare nel Paese siano solo sbarchi e spacciatori – come a qualcuno piace di raccontare – è sbagliata e fuorviante. Tasse, contributi Inps, ricchezza (per non parlare di imprenditoria, demografia e persino commercio con l’estero) sono tutti aspetti che rendono l’immigrazione un fattore fondamentale della nostra vita economica. Vediamo qualche passaggio del rapporto che fornisce numeri su ciascun aspetto della partecipazione degli stranieri alla costruzione del Pil italiano. Senza bisogno di aggiungere altro.

Nel 2015 la popolazione straniera ha superato quota 5 milioni e rappresenta l’8,2% della popolazione complessiva. Non solo: tra la popolazione italiana 1 su 10 ha più di 75 anni, mentre tra gli stranieri appena 1 su 100. Una diversa composizione demografica che ha un impatto significativo sul mercato del lavoro e sul sistema del welfare e che è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni.

La ricchezza prodotta e il contributo fiscale. Nel 2014 i contribuenti stranieri hanno dichiarato redditi per 45,6 miliardi e versato 6,8 miliardi di euro di Irpef netta. Mettendo a confronto i costi e benefici della presenza straniera (esclusivamente i flussi finanziari diretti), la differenza tra entrate e uscite mostra segno positivo: +3,9 miliardi di saldo attivo per le casse dello Stato.
Inoltre, considerando la ricchezza prodotta dai 2,3 milioni di occupati stranieri, nel 2014 il “Pil dell’immigrazione” ha raggiunto i 125 miliardi di euro, ovvero l’8,6% della ricchezza nazionale.

Le pensioni pagate dagli stranieri. Nel 2013 i contributi previdenziali hanno raggiunto quota 10,3 miliardi. Ripartendo il volume complessivo per i redditi da pensioni medi, si può affermare che i lavoratori stranieri pagano la pensione a 620 mila anziani italiani. Sommando i contributi versati negli ultimi cinque anni si può calcolare il contributo degli stranieri dal 2009 al 2013, pari a 45,7 miliardi di euro, volume sufficiente per una manovra finanziaria.

Il ruolo nei paesi d’origine. Nell’attuale dibattito sull’immigrazione, “aiutiamoli a casa loro” è uno degli slogan più diffusi, inteso come possibilità concreta per limitare l’immigrazione irregolare e le problematiche ad essa connesse. Tuttavia, i dati OCSE evidenziano come gli investimenti pubblici non rappresentano una priorità per i governi della vecchia Europa, nonostante già nel 2000 si fosse fissato come obiettivo lo 0,70% del PIL. L’Italia, ad esempio, investe in aiuti allo sviluppo appena lo 0,16% del PIL (meno di 3 miliardi di euro). Quota ampiamente superata dai flussi di denaro che gli immigrati inviano in patria, pari allo 0,31% del PIL (4,9 miliardi secondo la stima 2015).

 

Decreto Colosseo, Airaudo (Sel): «Uno strumento per intimidire chi sciopera»

Il decreto Colosseo votato dalla Camera «è un provvedimento che usa strumentalmente il diritto di assemblea dei lavoratori del Colosseo per intimidire tutto il mondo del lavoro rispetto al diritto e alla libertà di sciopero. La fruizione della cultura non c’entra nulla perché colpisce i lavoratori che erano in assemblea perché non gli pagavano gli straordinari da nove mesi quando proprio quei custodi per mesi, benché non adeguatamente retribuiti, hanno tenuto aperto il Colosseo», dice Giorgio Airaudo deputato di  Sel ed ex sindacalista FIOM, che nel dibattito alla Camera ha chiesto il ritiro di questo provvedimento varato d’urgenza a settembre dopo che il Colosseo è  rimasto chiuso per qualche ora per assemblea sindacale regolarmente convocata.

«Accade tutto questo – continua il parlamentare dal lungo passato di sindacalista – mentre in tutta Italia siti archeologici vengono affittati, come è accaduto  alla Reggia di Venaria a Torino,  per fare  un ballo in maschera alla maniera del Settecento, facendo sì che i turisti non potessero entrare per tre ore. E i turisti ne staranno fuori dalla porta anche il 21 novembre quando ci sarà il lancio  del portale Italia Login alla presenza del Premier Renzi».

In Italia, anche grazie alla Legge 4/1993 firmata dall’allora ministro Ronchey, moltissimi sono gli esempi  di uso di musei e luoghi pubblici per interessi privati, permettendo che l’interesse collettivo sia subordinato al profitto dei privati. «L’ 8 ottobre scorso una banca ha affittato la villa della Regina a Torino – ricorda Airaudo -. La Biblioteca nazionale di Firenze è stata chiusa ai lettori per una sfilata di moda. E prima ancora quando  Renzi era sindaco di Firenze affittò il Ponte Vecchio alla Ferrari solo per fare alcuni esempi.  In tutti questi casi  ad essere esclusi sono i visitatori e cittadini ma nessuno ha gridato allo scandalo. Poi se i lavoratori  fanno un’assemblea sindacale si grida allo scandalo e al disservizio per i turisti».

Dopo il sì dell’Aula della Camera al decreto legge Colosseo la parola ora passa al Senato. Alla Camera i voti a favore sono stati 241, 102 i contrari, 19 gli astenuti. Contro hanno votato M5S, Sel e Fi; la Lega si è astenuta.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

Pubblicità al gioco d’azzardo, i 5 stelle per l’abolizione

Nel territorio italiano, il gioco d’azzardo è vietato. Salvo deroghe. Negli anni, l’eccezione è diventata la regola, alimentando non solo la dipendenza che è legata alla scommessa, ma anche il business, sempre più chiaro e sempre meno pulito, che vi è alla base. Le videolottery, le slot machine, i punti scommessa, si sono diffusi in maniera impressionante e capillare, fino ad abbattere la percezione del rischio e tanto da portare spesso amministratori locali a chiederne quantomeno la distanza a 500 metri dalle scuole.

Stando ai dati Nomisma del 2015, il 51 per cento dei minorenni ha giocato d’azzardo almeno una volta nell’ultimo anno. Di questi, il 6 per cento gioca quotidianamente e il 32 per cento nasconde ai genitori o minimizza le somme effettivamente spese. A oggi, sono circa 15 milioni i giocatori abituali, 800mila quelli affetti da dipendenza patologica. L’ “azzardopatia” è una malattia fortemente debilitante e, non a caso, nel novembre del 2012 è stata inserita per legge nei Lea, Livelli essenziali di assistenza, con un costo per il servizio sanitario nazionale annuale che ammonta a quasi 6 miliardi di euro.

Ogni anno, lo Stato incassa solo dalle concessioni e relativi canoni mensili e tassazione (che ricordiamo aumenta in base all’incasso dovuto alle giocate), oltre 10 miliardi annui. Concessioni che il governo Letta rinnovò e ampliò. Nella legge di stabilità di quest’anno, alle 15mila esistenti si andrebbero ad aggiungere 7mila nuovi corner – dato immediatamente corretto dal premier sebbene il documento della Finanziaria tardi a essere reso noto. Sempre a bilancio, è previsto un apposito bando di 500 milioni dedicato proprio all’acquisizione o al rinnovo di queste licenze – che in ogni caso non dovranno superare il tetto delle 22mila concessioni (motivo per cui il governo sostiene di non aver aumentato il numero di concessioni).

L’esecutivo conta di incassare per la copertura dell’anno prossimo, un miliardo di euro dalle imposte e dalle nuove gare previste (500milioni ciascuno). È dunque difficile pensare che abbia intenzione di sbarazzarsene o limitarne il mercato.
Si riapre inoltre la procedura di condono delle agenzie senza concessione: su 7000 solo 1200 hanno avviato la procedura l’anno scorso. Le altre hanno continuato ad agire senza licenza – con relativo buco nel bilancio previsto dalla finanziaria dell’anno scorso di 180milioni. E anziché fargli chiudere i battenti, il governo gli offre la possibilità di sanare la propria illegalità.

Ma c’è un altro mercato, connesso al gioco d’azzardo, che ogni anno produce un guadagno all’editoria e in generale ai media (tra questi anche le reti del servizio pubblico) di circa 200milioni di proventi: quello della pubblicità. I concessionari infatti sono obbligati a investire parte dei loro introiti in pubblicità, in base alla convinzione che il gioco legale – ricordate lo spot “gioca responsabilmente”, o “gioca senza esagerare”? – possa estirpare quello illegale.

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Non la pensano così i parlamentari del Movimento 5 stelle, per i quali la pubblicità ha «assunto un ruolo determinante e pesantissimo. Non solo per il reclutamento di nuovi giocatori. Essa promuove una visione distorta dell’individuo e dei rapporti sociali».

Così, accogliendo la richiesta che arriva a gran voce e da tempo da comitati e associazioni no-slot (NoSlot, SlotMob, SenzaSlot) e Libera, hanno elaborato un disegno di legge per l’abolizione, totale e senza eccezioni (come sponsor o versamenti alle fondazioni), della pubblicità del gioco d’azzardo (ddl 2024, Introduzione del divieto di pubblicità per i giochi con vincite in denaro). I Cinquestelle, con il senatore Giovanni Endrizzi in testa, hanno ottenuto la dichiarazione d’urgenza, e la discussione sul ddl è finalmente partita nelle Commissioni Sanità e Finanza al Senato.

Il testo è molto semplice, con un unico articolo diviso in tre commi, ma basta e avanza per mettere in chiaro la politica di contrasto incondizionato del marketing dell’azzardo:

  1. È vietata qualsiasi forma, diretta o indiretta, di propaganda pubblicitaria, di ogni comunicazione commerciale, di sponsorizzazione o di promozione di marchi o prodotti di giochi con vincite in denaro, offerti in reti di raccolta, sia fisiche sia on line.

 

Prevede poi una sanzione amministrativa per qualsivoglia violazione, da 50.000 a 500.000 e che i proventi derivanti dall’applicazione delle sanzioni saranno destinati «alla prevenzione, alla cura e alla riabilitazione delle patologie connesse alla dipendenza da gioco d’azzardo».

I pentastellati segnalano tra l’altro un dato significativo: il 56 per cento dei giocatori patologici è disoccupato. Il che può sembrare scontato, ma allo stesso tempo deve far riflettere sul ruolo distorto che ha assunto lo Stato in questa partita. Lo Stato, dovrebbe porsi come tutore di fasce a rischio vieppiù in un momento in cui la crisi rischia di far sprofondare interi strati in dipendenze equivalenti a quelle che furono le droghe negli anni 80.

«È lo stesso Stato a consentire una pratica che pone maggiori ostacoli alle fasce deboli e che impatta con conseguenze disastrose su un numero enorme di persone – scrivono – anche le stime più ottimistiche parlano di un numero di giocatori patologici tra gli 800.000 e i 900.000, pressoché il doppio dei tossicodipendenti calcolati in Italia, pur avendo situazioni cliniche e conseguenze sulla salute personale e familiare del tutto paragonabili. Si ravvisa quindi – concludono – anche un contrasto con l’articolo 32 della Costituzione, in base al quale proprio lo Stato dovrebbe tutelare la salute dei cittadini, non metterla in pericolo».

Tra gli altri ddl, quella del Pd, che è simile (presentata un giorno dopo rispetto a quella 5 Stelle), salvo abbassare le sanzioni (con la minima che parte da 20.000 euro a un massimo di 200.000 euro) e destinarle al bilancio dello Stato che a sua volta le reindirizzerà a interventi di generica «educazione sanitaria», e salvo essere del Pd, ovvero del partito di governo, che come abbiamo visto non ha nessuna intenzione di rinunciare agli introiti di questo mercato in espansione.

Emerging Talents, talenti della fotografia in mostra a Roma

Le foto che vedete sono una piccola parte della mostra Emerging Talents, che nell’ambito del Festival della fotografia di Roma, raccoglie i lavori di quattro fotografi inediti in Italia:Antoine Bruy, Salvi Danés, Jing Huang, Dina Oganova.

La mostra si inaugura venerdì 23 ottobre alle 18. 
Officine Fotografiche – Via Giuseppe Libetta, 1 – Roma
Dal 23 Ottobre al 20 Novembre 2015

© Dina Oganova© DINA OGANOVA

© Salvi Danés_Black Ice, Moscow 2012© Salvi Danés_Black Ice, Moscow 2012

© Antoine Bruy_ Scrublands© Antoine Bruy_ Scrublands

Grandi navi a Venezia, le foto e la lettera di Berengo Gardin al sindaco

Alcune cose che vorrei dire al sindaco… di Gianni Berengo Gardin

Mi dispiace molto quando qualcuno si dà la zappa sui piedi, mi dispiace quindi anche per il sindaco di Venezia. Gli sono anche molto grato, perché bloccando la mia mostra a Palazzo Ducale mi ha fatto un grande favore: tutti i giornali italiani e stranieri (Le Monde, il Guardian, El Pais, il New York Times e molti altri) ne hanno parlato diffusamente. È probabile che, se non ci fosse stata tutta questa attenzione da parte della stampa, la mostra sarebbe stata vista da molte meno persone.

Devo essere grato a Celentano e a tutti gli artisti, architetti, uomini di cultura e semplici cittadini che hanno preso le mie difese. Devo inoltre ringraziare Roberto Koch e Alessandra Mauro della Fondazione Forma, curatori della mostra e del libro, senza il cui impegno questa mostra non si sarebbe fatta. E naturalmente il FAI.

Sono doppiamente felice che il FAI mi abbia invitato a esporre le mie fotografie nel Negozio Olivetti di Piazza San Marco: ho fotografato diverse opere per l’architetto Carlo Scarpa che ne è stato il progettista e per oltre 15 anni ho lavorato per l’Olivetti.

Il sindaco Brugnaro mi ha insultato più volte: mi ha dato dello “sfigato”, dell’“intellettuale da strapazzo”, del “Solone”. Ha detto che avrei denigrato Venezia, mi ha definito un “intoccabile”– non lo sapevo, lo ringrazio di avermelo fatto sapere – e se l’è presa con me perché ho il doppio cognome.
Non voglio mettermi sul suo stesso piano, ma un paio di cose vorrei le sapesse.

La mia famiglia è veneziana da cinque generazioni, per tre abbiamo gestito un negozio di artigianato veneziano e perle in Calle Larga San Marco. I Berengo Gardin e il negozio sono citati già nel 1905 dallo scrittore Frederick Rolfe Baron Corvo nel suo libro su Venezia “Il desiderio e la ricerca del tutto”. La casa dei nonni affacciava su Piazzetta dei Leoncini, mio padre è praticamente nato in Piazza San Marco, e io, anche se sono nato per i casi della vita a S. Margherita Ligure, ho vissuto 30 anni a Venezia. Mia moglie è veneziana e i miei figli sono nati a Venezia.
Per questo, il problema del passaggio delle grandi navi mi sta particolarmente a cuore: perché mi sento venezianissimo.

Forse il sindaco non sa, inoltre, che a Venezia ho dedicato ben 10 libri, esaltandone in tutti i modi la bellezza, a partire da uno dei miei primi, Venise de Saison pubblicato nel 1965.

Per quanto poi riguarda l’accusa di aver usato “chissà quali teleobiettivi” per creare effetti artificiosi, vorrei sottolineare il fatto che ho addirittura dovuto utilizzare dei grandangoli, perché le navi erano così grandi che non entravano nel mirino della macchina. Solo in alcuni casi ho usato un 90 millimetri, che non è teleobiettivo.

Per finire, il sindaco Brugnaro dovrebbe conoscere la Costituzione Italiana, che all’art. 21 dice: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”.


 

Gianni Berengo Gardin
Venezia e le Grandi Navi
Venezia, Negozio Olivetti, Piazza San Marco 101
La mostra sarà aperta da giovedì 22 ottobre 2015 (apertura al pubblico ore 15.30) al 6 gennaio 2016
Orari: da martedì a domenica dalle 10.00 alle 18.30


4. © Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

Gianni Berengo Gardin, Davanti a San Marco.
© Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

5. © Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la FotografiaGianni Berengo Gardin, Davanti alle Zattere, nel Canale della Giudecca.
© Gianni Berengo Gardin-Courtesy Fondazione Forma per la Fotografia

Gianni Berengo Gardin

Marino insiste: «Con le primarie potrei ricandidarmi»

La resistenza continua. Ignazio Marino intervistato da la Repubblica torna a spiegare gli scontrini contestati e risponde sulle smentite dell’ambasciata del Vietnam e su quelle del titolare della “Taverna degli amici”. Sugli sviluppi politici delle sue dimissioni che vale la pena aggiornarvi.
 
Marino conferma intanto di non volersi proprio risparmiare il passaggio in consiglio comunale. Vuole farsi sfiduciare formalmente, Marino, o forse – capatosta – è convinto di trovare i numeri per andare avanti: «Sto incontrando i consiglieri», dice, «voglio ascoltare le opinioni degli eletti dal popolo». A tutti, Marino, sta facendo notare il supporto ricevuto in questi giorni, supporto che avrà il suo apice nella manifestazione convocata per domenica 25 ottobre in Campidoglio. Possiamo immaginare che Marino dica ai consiglieri quello che da Repubblica dice a Renzi: «Ho grande rispetto per Renzi» – che è quindi indicato come mittente della richiesta di dimissioni recapitata da Matteo Orfini – «ma mi permetto di dire che non capita tutti i giorni che 50mila persone firmino una petizione per chiedere al sindaco di restare».
Se tanto ascolto non dovesse produrre lo sperato frutto, però, Marino spiega anche cosa potrebbe fare dopo. Ed è insistere, se non si fosse capito. «Se si faranno le primarie è possibile che ci sia anche io», dice il sindaco a Sebastiano Messina, che è un modo per dire che al momento – come abbiamo scritto sull’ultimo numero di Left – non esiste lo scenario di una candidatura alternativa, una cosa che magari coinvolga pezzi della sinistra e che ricordi lo schema seguito da Luigi de Magistris a Napoli. Non lo vuole Marino, al momento, non lo vogliono i pezzi sparsi della sinistra, da Civati a Sel. «Io sono un nativo del Partito democratico», dice Marino imperterrito. Per il Pd che voleva liberarsi di lui non è però una buona notizia. Marino, le primarie, rischia anche di vincerle.

«Il riscaldamento del pianeta riduce il Pil». Al via la mobilitazione globale sul clima

Secondo una ricerca della Stanford University pubblicata sulla rivista Nature, il riscaldamento globale in atto farà sì che il Prodotto interno lordo dell’intero Pianeta nel 2100 sarà inferiore del 23 per cento rispetto a quello che potrebbe essere senza gli sconvolgimenti climatici. «Stiamo fondamentalmente buttando via i soldi nel momento in cui non affrontiamo la questione», ha spiegato Marshall Burke, docente della Stanford University. «Consideriamo il nostro studio uno strumento per fornire una stima dei benefici legati alla riduzione delle emissioni». Lo studio, intitolato “Global non-linear effect of temperature on economic production”, ha preso in considerazione i dati storici relativi al rapporto tra aumento di temperatura e produttività, senza tener conto dell’impatto economico dell’innalzamento del livello dei mari, delle tempeste o degli altri effetti del cambiamento climatico. Non è la prima che una ricerca collega  l’emergenza climatica a un calo del Prodotto interno lordo: un report di due mesi fa realizzato dal colosso bancario statunitense Citigroup ha evidenziato come, nei prossimi anni, contenendo l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi centigradi si può contenere la perdita di Pil mondiale entro i 20mila miliardi di dollari.

Il costo della mancata risposta, spiega lo studio, sarà di 44mila miliardi di dollari di perdita di Pil al 2060 se la temperatura aumenterà di 2,5 gradi e addirittura di 72mila miliardi se l’aumento sarà di 4,5 gradi centigradi.

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La notizia arriva mentre a Bonn sono in corso i negoziati preliminari al vertice sul clima di fine novembre a Parigi. Proprio in vista della Conferenza delle parti (Cop21) francese che dovrà fissare nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, l’Ong Corporate Accountability International ha lanciato una petizione per chiedere di escludere le grandi aziende inquinatrici dai negoziati sul clima. Gli attivisti chiedono che società energetiche, compagnie petrolifere e del gas, produttori e “utilizzatori” di carbone non interferiscano con le trattative. A denunciare le pressioni di questa lobby per boicottare il successo dei negoziati è uno dei portavoce di Corporate Accountability International, Jesse Brag, il quale traccia un parallelismo con l’industria del tabacco e la “manipolazione” che ha ritardato così tanto la presa di coscienza collettiva sui danni del fumo.

Le ultime notizie da Bonn riguardano il braccio di ferro tra G77 e Cina contro i Paesi più ricchi. I 77 (che in realtà sono 180 e rappresentano l’80% della popolazione) chiedono risorse per applicare le politiche di riduzione delle emissioni, che al momento non ci sono nella bozza di documento in discussione. Nel 2009 a Copenhagen la promessa era di 100 miliardi l’anno a partire dal 2020. Ma la conferenza nella capitale danese fu un fallimento.

Un’attività di pressione che – nel caso del clima – avviene soprattutto nei confronti di governi e parlamenti nazionali e che, ad esempio, negli Usa ha preso di mira il Clean Power Plan del presidente Obama. A supporto di questa tesi l’Ong cita un documento dell’organizzazione no-profit britannica InfluenceMap dal titolo Big Oil ant the obstruction of climate regulations. Altra criticità, spiegano gli attivisti della campagna “Kick big polluters out of climate policy” che intanto ha quasi raggiunto le 400mila adesioni, sono le cosiddette “sliding doors”, le porte girevoli che vedono sempre più spesso esponenti dell’industria fossile passare in ruoli chiave della pubblica amministrazioni (e viceversa) per occuparsi proprio di energia e clima. Un’osmosi che influenza pesantemente le scelte dei governi in materia di riduzione delle emissioni climalteranti.

Basta dare un’occhiata alla classifica delle 25 multinazionali più potenti del Pianeta recentemente riprodotta dal Centro nuovo modello si sviluppo per capire che ruolo giochino nel determinare le scelte dei governi giganti delle energie fossili come Sinopec, con 446.811 milioni di dollari di fatturato, Royal Dutch Shell, China National Petroleum, Exxon Mobil, Bp, Total, Chevron.

Le 25 maggiori multinazionali

In Italia parte oggi una tre giorni di mobilitazione della Coalizione di associazioni ambientaliste nata in vista della Cop21  di Parigi: lo slogan scleto è “Il clima è il mio pallino”, con scritta bianca su un cerchio rosso che ricorda il Pianeta surriscaldato. Le attività procederanno fino ai giorni del vertice, con una marcia globale prevista per domenica 29 novembre con l’obiettivo di fare pressione per un accordo soddisfacente. Organizzazioni internazionali come 350.org e Attac Francia annunciano invece azioni di disobbedienza civile in concomitanza con gli ultimi giorni del summit parigino, l’11 e 12 dicembre. 130 organizzazioni internazionali e migliaia di persone confluiranno attorno a Le Bourget, la zona di Parigi sede del vertice sul clima, portando con sé delle fasce gonfiabili di colore rosso per simboleggiare i limiti da non oltrepassare se si vuole salvare il destino del Pianeta e di chi lo abita, contenendo l’aumento della temperatura globale entro i due gradi centigradi al 2100.

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Se potessi avere 500 euro all’anno…

Tanto per riflettere sulle diseguaglianze della Buona scuola. Nella sala insegnanti di ogni scuola d’Italia d’ora in poi siederanno fianco a fianco due tipi di insegnanti. Uno di serie A e l’altro di serie B. Fanno lo stesso lavoro, le stesse ore, nelle stesse classi. Ma alcuni avranno sul proprio conto corrente (la spedizione è già iniziata) il bonus di 500 euro per la formazione e l’aggiornamento, altri invece non avranno assolutamente niente. Sì, perché il provvedimento contenuto nella Legge 107/2015 “Carta del docente” (qui il testo) esclude una bella fetta di docenti. Non godranno dei benefici della “Carta” infatti tutti quei docenti che non rientrano nel piano straordinario delle assunzioni e che hanno ricevuto “soltanto” una supplenza annuale e che quindi lavoreranno fino al 30 giugno o i più fortunati fino al 31 agosto. Per loro, che sono quelli che forse ne avrebbero più bisogno, visto che guadagnano meno, niente soldi per la formazione. Eppure potrebbero essere loro i più privilegiati, visto che sono precari. Invece la legge prevede i soldi per aggiornamento informatico, per spettacoli, musei, acquisto di libri o corsi di formazione, solo per i docenti attualmente di ruolo, così come quelli che saranno assunti nella fase C del piano straordinario, a novembre, circa 50mila. Secondo il sindacato Anief rispetto ai 650mila insegnanti che riceveranno il bonus, sono circa 300mila i lavoratori della scuola che rimarranno a bocca asciutta. In questo numero l’Anief fa rientrare anche tutto il personale Ata (amministrativi, tecnici e ausiliari) che, secondo il sindacato autonomo, avrebbe diritto alla formazione al pari dei docenti.

Per questo motivo l’Anief avvia un ricorso al Tar che scade il 19 novembre (qui). E anche la Flc Cgil annuncia che proporrà «di valutare eventuali azioni legali per chiedere l’attribuzione del bonus anche a coloro che ne sono rimasti esclusi».

Intanto, entro il 31 agosto 2016 tutti gli altri, i fortunati del bonus, dovranno presentare la rendicontazione delle spese effettuate. Tra l’altro, con proteste (vedi qui) da parte dei dipendenti delle segreterie amministrative che si troveranno una mole di lavoro immensa. Immaginatevi verificare gli scontrini o i biglietti degli spettacoli…

Infine, al di là degli annunci autoincensanti da parte del premier sulla Carta docente – che comunque è una buona cosa se fosse data a tutti -, ricordiamo che il contratto nazionale degli insegnanti è fermo da sei anni e che gli stipendi dei docenti italiani sono tra i più bassi d’Europa. Lo stipendio medio va da un minimo di 23mila euro per la scuola primaria e dell’infanzia ai 38mila nei licei. In Spagna un insegnante guadagna 46mila euro, in Francia 47mila, in Germania fino a 70mila, come racconta il rapporto Eurydice (qui).

E dulcis in fundo, il bonus è su un cedolino a parte, cioè è un importo decontrattualizzato. Insomma, una specie di mancia. Domanda: per ingraziarsi i prof che durante i mesi scorsi hanno combattuto la Buona scuola, promettendo di non votare Pd? Vedremo…