Home Blog Pagina 1280

Israele-Palestina, verso la terza Intifada?

Morti e feriti, da una parte e dall’altra. Prima si è cominciato con gli accoltellamenti, poi con gli spari. Gli ultimi morti sono sei i palestinesi uccisi da soldati israeliani alla barriera di Gaza mentre protestavano in solidarietà con la gente di Gerusalemme. Sessanta i feriti. La mattina un uomo aveva accoltellato quattro arabi israeliani a Dimona. A Gerusalemme, invece sono un giovane israeliano e un poliziotto ad essere stati accoltellati. In una settimana sono undici le vittime di attacchi e rappresaglie. Ma è dal 9 settembre, con il braccio di ferro attorno ai luoghi di culto ebrei e musulmani che a Gerusalemme sono ammassati gli uni sugli altri. Da quel giorno, arresti, ferimenti, assassinii di israeliani, manifestazioni si sono susseguite senza sosta. All’Assemblea generale dell’Onu, il presidente palestinese Abbas ha protestato, mentre Netanyahu criticava l’accordo Usa-Iran sul nucleare.

epa04970663 An Israeli border policeman aims his weapon towards Palestinian protesters during clashes in the West Bank city of Hebron, 09 October 2015. Israeli soldiers killed four Palestinians in clashes on the border with the Gaza Strip, while there were four stabbing incidents inside Israel targeting both Jews and Palestinians. Violence has been ongoing for weeks, focused on Jerusalem and nearby areas on the West Bank amid rising concerns the situation could lead to an even greater escalation if not scaled back soon. EPA/ABED AL HASHLAMOUN

Il clima nella città vecchia è tesissimo: le autorità israeliane hanno imposto severi limiti alla possibilità di andare a pregare ad al Aqsa, sulla spiana delle moschee. Gli uomini non anziani non possono entrare. In alcuni quartieri periferici della città le macchine israeliane sono state fatte oggetto di lancio di pietre da parte dei palestinesi. Il capo di Hamas a Gaza, Hanyeh, ha chiamato la terza Intifada. La situazione, insomma, è entrata in una nuova fase di alta tensione. Ce lo si aspettava da tempo.

Per adesso gli attacchi dei palestinesi sono da imputare a lupi solitari, ma nel caso di una reazione eccessiva delle forze di sicurezza israeliane, è probabile che anche i gruppi organizzati comincino a organizzare la protesta. Le parole del capo di Hamas sono un segnale in questo senso. Vedremo nei prossimi giorni cosa produrranno. Amira Hass, giornalista israeliana, ha commentato su Ha’aretz la situazione:  

(…) Anche il linguaggio è dannoso. Gli ebrei sono assassinati, i palestinesi vengono uccisi e muoiono. È proprio così? Il problema non comincia con il nostro non essere autorizzati a scrivere che un soldato o un poliziotto ha sparato ai palestinesi da distanza ravvicinata e senza essere in pericolo di vita (…) La nostra comprensione è prigioniera di un linguaggio censurato retroattivamente (…) Nel nostro linguaggio, gli ebrei vengono uccisi perché sono ebrei e i palestinesi trovano la loro morte e la loro angoscia, perché, presumibilmente, è quello che stanno cercando.
L’obiettivo di questa guerra unilaterale è quello di costringere i palestinesi ad abbandonare tutte le richieste relative alla costruzione di una nazione. Netanyahu vuole l’escalation perché l’esperienza finora ha dimostrato che i periodi di calma dopo una crisi ci riportano non alla linea di partenza, ma a un nuovo minimo nel sistema politico palestinese, e aggiunge privilegi alla Grande Israele. I privilegi sono il fattore principale che distorce la nostra comprensione della realtà, accecandoci. Grazie a questi, non riusciamo a capire che, anche con una leadership debole e “presente-assente”, il popolo palestinese – sparso nelle sue riserve indiane – non rinuncerà e continuerà a trovare la forza necessaria.

Della leadership palestinese parla anche un commento pubblicato su Foreign Affairs che, nelle scorse settimane si chiedeva: come mai non c’è una terza Intifada?

Nonostante un recente smentita ufficiale dell’ufficio del primo ministro, le voci su negoziati diretti su un cessate-il-fuoco tra Hamas e Israele persistono. A solo un anno da una brutale guerra di 50 giorni, Hamas è visto da alcuni come un cuscinetto contro il caos e l’aumento dellinfluenza dell’IS nella Striscia di Gaza. Nessuna trattativa simileè attualmente in corso con l’Autorità palestinese, partner per la sicurezza di Israele in Cisgiordania. Il leader dell’opposizione israeliana Isaac Herzog ha sostenuto che la politica del governo sembra essere «parlare con Hamas isolando Abu Mazen».

Per Israele, a quanto pare, la realpolitik ha la precedenza, tranne quando l’ideologia, politica interna, e il territorio della Cisgiordania sono coinvolti. Una terza Intifada non è cominciata, non  per grazia di Dio, ma a causa delle decisioni prese a Ramallah. Data l’incertezza che circonda la successione di Abbas, è difficile sapere quanto a lungo l’Autorità palestinese continuerà a mantenere questa linea. Il governo israeliano finirà con il rimpiangere di non aver parlato con Abbas quando poteva.

Ecco, in queste ore il tempo sembra essere scaduto: se a Gaza davvero si cominciasse una Intifada, l’Anp avrebbe serie difficoltà a mantenere tranquilla la situazione in Cisgiordania. Del resto, se valgono le parole di Tzipi Hotovely, viceministro degli Esteri israeliano, la situazione sembra senza via di uscita. Criticando l’idea europea di boicottare le merci israeliane prodotte fuori dai confini del ’67, al Jerusalem Post Hotovely ha detto:

«Il mondo ha bisogno di interiorizzare che la West Bank rimarrà sotto la sovranità israeliana “de facto”, che non è una merce di scambio. Non dipende dalla buona volontà dei palestinesi. E’ la terra dei nostri antenati e non intendiamo lasciarla. Certo non allo stato islamico o ad al-Qaeda o ad altre organizzazioni estremiste che finirebbero per per avere il controllo sul territorio».

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

Apre a Roma Fotografia, «Un festival che riflette sul presente»

Il presente è il tema, vivo e urgente, della XIV edizione di Fotografia-festival internazionale di Roma che ha aperto il 9 ottobre. Al Macro e in altri luoghi della Capitale, fino al 17 gennaio, si dipana una mostra, come sempre poliedrica, con molti giovani talenti e nomi di primo piano della fotografia internazionale. A cominciare da Olivo Barbieri con il progetto site specific Roma14 e dall’inglese Paul Graham, autore che sa cogliere la grazia e la bellezza in attimi straordinari, nel flusso quotidiano della vita nelle strade, in ciò che c’è di più ordinario. I suoi dittici che compongono The Present mostrano le infinite possibilità contenute in un istante, che si possono aprire inaspettatamente. Graham – a cui il festival rende omaggio fin dal titolo – ci restituisce magistralmente questi speciali momenti di attesa, di stupore, per qualcosa che sta per accadere. Con lui e con molti protagonisti della scena internazionale, il fotografo e direttore artistico di Fotografia festival, Marco Delogu, ha avuto modo di tessere un dialogo più stretto da quando, lasciata Roma, si è trasferito in Inghilterra, con un nuovo, importante, incarico, di direttore dell’Istituto italiano di cultura (Ici) a Londra. Anche da questo abbiamo preso spunto per la nostra intervista.


Olivo Barbieri, site specific_ROMA14

Paul Graham, The Present, dittico

Marco Delogu, da quattro mesi lei è alla guida dell Ici-London, come è vista oggi la cultura italiana oltremanica?
A Londra oggi c’è un enorme interesse per la cultura italiana. Da Dante a Gramsci, passando per gli studi di Sraffa. E poi c’è una grande attenzione per il cinema italiano, anche per quello contemporaneo, non solo per i classici del neorealismo e per Pasolini. Il London film festival, per esempio, presenta i nuovi film di Luca Guadagnino, di Piero Messina e molti altri.
Quali sono gli autori italiani di oggi più letti ?
Elena Ferrante è un caso letterario anche a Londra, ma c’è attenzione anche per scrittori come Sandro Veronesi e per autori più giovani come Emanuele Trevi, all’istituto ce ne occuperemo nei prossimi giorni e settimane. All’Istituto prossimamente incontreremo attori come Fabrizio Gifuni e un protagonista del teatro di narrazione come Marco Paolini.
Lei ha sostenuto un appello per salvare l’italian book shop di Londra. Che cosa rende speciale questa piccola grande libreria diventata protagonista anche di un romanzo di Luca Bianchini?
E’ un posto caldo che unisce la comunità e la cultura italiana. Dove trovi e puoi scovare libri e film. Dove incontri una libraia, (Ornella Tarantola ndr) che conosce tutto quello che vende, che sa parlare con i “clienti” e suggerire; sa diffondere la qualità della cultura italiana.
La sua ricerca come fotografo trova spazio in questo suo nuovo impegno di direttore dell’Italian Institute of culture?
Per me la fotografia è un fatto mentale, di pensiero. Penso e continuerò a pensare in questo modo. In questo periodo sono impegnato nelle prime ricognizioni per tre nuovi lavori: uno dedicato a Londra, che sento come la naturale continuazione di Roma e di Luce attesa. Il secondo progetto continua il mio lavoro sui cavalli. Il terzo è un lavoro che mi è stato commissionato per le scene di un’opera lirica. Nel mio nuovo studio londinese sicuramente riprenderò il mio lavoro di ritrattista, che ho interrotto da un po’ di tempo.
Viceversa, cosa ha portato questa sua londinese al festival di fotografia di Roma?
All’estero si vedono cose nuove, si ricevono nuovi stimoli. Così il festival si è aperto a nuove visioni e a nuovi rischi. A Londra ho incontrato di nuovo Alec Soth, Jon Rafman, Parr e molti altri autori internazionali. Con loro ho avuto occasione di parlare del festival, della contemporaneità, di ciò che significa lavorare oggi con la fotografia. E tutto questo ritorna nella mia visione della rassegna. Last but not least porterò a Londra il festival di Roma e in particolare la commissione Roma e la giovane fotografia italiana.
Il festival- fotografia ha una programmazione vasta che dal Macro si espande in altre location. Come è strutturata?
Il festival è una riflessione profonda sul presente con molte contaminazioni fra fotografia e letteratura. Parte da Paul Graham e arriva alla collettiva dove quest’anno sono coinvolti molti fotografi italiani. Non perdere De Giorgis, Scollo, Graziani. E poi Giovanna Silva e Francesco Neri. Fantastico il lavoro di Pietro Paolini e il lavoro comune di Cocco e Serra. Quella di Paul Graham è una grande lezione su come si lavora e su come si espone un lavoro.
Con il poetico cortometraggio Ci sarà ancora il mare? interpretato da Pietro Ragusa e musicato da Paolo Fresu si è misurato anche con il cinema. Come è nato questo progetto?
Da un po’ di tempo la fotografia non mi basta più e il cinema mi è sembrato il miglior modo di lavorare sul ritorno nella mia terra. Non tornavo in Sardegna da trent’anni e l’emozione è stata forte. Mio padre, mia madre, le loro vite e la loro etica. Tutte le visioni e i paesaggi forti, mi serviva la parola, la musica originale di Paolo Fresu. E il racconto di mia sorella Cristina da cui ho preso ispirazione. Ora è finito il primo pezzo del film, ma il progetto verrà ripreso la prossima estate.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link]@simonamaggiorel

TWAOLI_15_ 008

Drew Nikonowicz, This World and Others Like It

Paolo Ventura - Homage a Saul Steinberg 2
Paolo Ventura, Homage a Saul Steinberg 2

 

Chanel e Sidney nel giardino di nonna Sevla. Roma. Luglio 2015.
Paolo Pellegrin, Sava

 

L’anteprima del venerdì. Propaganda permanente, Renzi e l’uso delle tv

(La copertina di Left è dedicata al sistema dell’informazione negli anni di Renzi. Molte voci di grande esperienza scrivono o parlano con noi. Ecco qualche assaggio, molto piccolo, di quel che trovate nel numero in edicola)

Informazione su misura

L’opinione di Corradino Mineo

Perché il presidente del Consiglio più amato dai media – il consenso di Berlusconi non fu mai così trasversale – ora se la prende con l’informazione, critica i talk show di cui è stato ospite seriale, lascia che suoi collaboratori chiedano la decapitazione dei vertici della Terza Rete? Bianca Berlinguer l’ha chiesto allo stesso Renzi, con risultati deludenti. Per Massimo Giannini il premier ha «sciolto i cani». Scalfari e Diamanti hanno dedicato al tema articoli corposi. Vediamo i fatti.

21 settembre, direzione del Pd, Renzi: «Se i talk show del martedì fanno meno della replica numero 107 di Rambo, dobbiamo riflettere». Scusi ma a lei cosa importa – gli si potrebbe obiettare – se Ballarò e Di martedì non fanno ascolti sarà un problema degli editori! Eh no, il premier si preoccupa: «Ho visto cambiare l’umore dei deputati e dei senatori del Pd – dice – quando sono iniziati i talk show. Il punto vero è che il racconto del paese non può essere quello che va così da dieci anni, con la solita musichina, in cui va tutto male». Allegria! diceva Mike Bongiorno.

Le parole sono diventate proiettili

Ilaria Bonaccorsi intervista Giovanni Minoli

Io sono arrivato a fare una proposta molto provocatoria. Tempo fa Renzi fece un paragone tra Tv e calcio e io risposi: bene esatto, qual è la dinamica economica che c’è dietro ai talk? Io editore ti do visibilità (ai politici), tu mi riempi ore di palinsesto gratis e io ci metto la pubblicità. Io editore ho il mio interesse, e tu politico hai il tuo interesse che derivano dall’essere visibile, questo è lo scambio, che prescinde dall’interesse dello spettatore. Allora dico, se siamo arrivati fin qui, vuol dire che la tv ha vinto definitivamente sulla politica e se ha vinto e la dinamica è la stessa dello spettacolo, allora paghiamo i protagonisti. Come si fa negli show, qualunque attore o cantante lo paghi. Ma se lo paghi deve fare il risultato, altrimenti non lo paghi più.

(…) Non sto parlando del servizio pubblico ma del meccanismo. Peraltro il servizio pubblico è pagato solo per metà dal canone e per l’altra metà dalla pubblicità. La mia è una proposta paradossale: avresti il finanziamento pubblico dai partiti, perché tu editore chiedi al partito chi ti manda e il partito ti manda uno che deve rendere. Ma se “renderà” al partito (consenso), a te editore e a lui stesso, potrà dire di più quello che vuole.

Chi è Giovanni Minoli? È uno degli uomini che hanno rivoluzionato la tv in Italia. Ha ideato programmi di approfondimento politico, come Mixer, e storico, come La storia siamo noi. Oltre che programmi di intrattenimento diventati presto di culto come Quelli della notte con Renzo Arbore o fiction come Un posto al sole, prima soap opera realizzata in Italia.

 

LEGGI IN DIGITALE

Matteo non vede, non sente, non parla

L’analisi di Loris Mazzetti

Renzi sta commettendo un grave errore: dopo aver condannato più volte la legge Gasparri, ha deciso di non intervenire sul sistema ma di riformare solo una piccola parte di esso: la governance della Rai.

rai-riforma-Un po’ come rifare una casa senza consolidare le fondamenta. Antonello Giacomelli, titolare della delega alle Comunicazioni, è l’autore del ddl. Il sottosegretario allo Sviluppo economico ha lavorato mesi e mesi, incontrando esperti e professionisti del settore, quando gli sarebbe bastato leggere la proposta di riforma dell’associazione MoveOn Italia che raggruppa una buona parte di società civile, o quella del Movimento 5 stelle, oppure ripassare la proposta di legge Gentiloni, o Per un’altra tv, l’iniziativa di legge popolare con prime firmatarie Sabina Guzzanti e Tana de Zulueta. Queste ultime scritte durante il secondo governo Prodi. Tutte sono meglio della sua. Giacomelli, per prima cosa, avrebbe dovuto chiedersi se la sua proposta di legge, approvata in prima seduta al Senato, garantirà l’imparzialità e la completezza dell’informazione, se tutelerà le varie componenti sociali del Paese, in particolare le minoranze. La speranza è che la prossima discussione alla Camera faccia il miracolo di migliorarla.

 

LEGGI IN DIGITALE

Tutto merito di un buon suggeritore

Il ritratto del portavoce del premier Filippo Sensi di Luca Sappino

«Not my fuckin’ problem» è lo pseudonimo di Sensi sui social network, per sintesi, Nomfup. Questo è anche il nome del suo blog, che continua ad aggiornare seppur con ritmo molto lento. A giugno ha pubblicato uno speach di David Milliband. A marzo la prima puntata di una serie web prodotta dal governo francese, per raccontare il dietro le quinte del potere. Prima puntata: Le porte-parolat, l’ufficio del portavoce. A Sensi piace perché lui fa la stessa cosa. Porta ogni giorno giornalisti e curiosi dietro le quinte, per esempio con le foto informali pubblicate su Instagram.

 

LEGGI IN DIGITALE

[divider] [/divider]

Left n.39 lo trovi in edicola da sabato 10 ottobre 

[divider] [/divider]

 

Niente Nobel per la Pace a Merkel. Perché è giusto così

Che il tema dei migranti e dei rifugiati sarebbe stato al centro del tavolo in cui si sono decisi i Nobel è più comprensibile. Quello che sconcerta è che tra i candidati – accanto al papa e all’agenzia Onu per i rifugiati – ci fosse pure il nome di Angela Merkel. Papabile fino a poche ore fa, Merkel è stata candidata da alcuni colleghi della sua Unione (Cdu-Csu) «per avere aperto le porte del suo paese ai migranti arrivati in Europa». Chi ha candidato e sostenuto “das Mädchen” (“la ragazza”) alla santità svedese, però, omette di riportare che la paladina delle frontiere aperte, in realtà, non smette di chiedere, costantemente, il rafforzamento delle frontiere esterne. È questo il modo – come ha sostenuto al Parlamento europeo, con al suo fianco il presidente francese François Hollande – per contrastare ed evitare le virate populiste e xenofobe.

Il cambio di posizionamento dell’asse franco-tedesco, nelle ultime settimane, si è spostato sulla difesa e il rafforzamento di Schengen (lo spazio di libera circolazione all’interno dell’Unione), sull’ampliamento dell’area ai rifugiati e, di conseguenza, sulla revisione (per qualcuno addirittura superamento) del Sistema Dublino (quello per cui uno straniero deve fermarsi nel primo paese d’ingresso). Queste “aperture”, però, si accompagnano all’ossessiva richiesta di un aumento del controllo delle frontiere esterne. Sembra di vedere una sorta di openspace europeo, una casa in cui abbattere ogni parete e ogni porta. Ma con un portone d’ingresso blindatissimo, che rende l’impresa di entrarci sempre più difficile.

Germania, 6 settembre. Stazione ferroviaria di Dortmund

Sì, è vero, la scorsa estate Merkel ha aperto le frontiere tedesche ai “rifugiati”. Lo abbiamo letto e riletto, fino allo stremo. Ma vi siete chiesti chi è meritevole del titolo di “rifugiato” secondo i canoni di Merkel? Le condizioni sono precise: la certezza che il Paese di provenienza dei profughi sia “ufficialmente” in guerra, come per i siriani. La Cancelliera, non a caso, insiste nel volere una lista dei Paesi sicuri. E cioè un elenco di Paesi che stabilisca chi ha diritto di essere “protetto” e chi – essendo un “migrante economico”, e cioè uno che scappa dalla fame o da un conflitto che non è riconosciuto da quell’elenco – questo diritto non lo ha e deve essere espulso dall’Ue. E giù con gli hotspot, con la detenzione preventiva (perché sennò scappano prima che si riesca a rispedirli a casa) e con i rimpatri nei Paesi che non vogliono riprenderseli e quindi tocca sanzionarli e minacciarli di rimettere mano ad aiuti e visti rilasciati, per esempio.

Un Nobel alla Merkel sarebbe stato inopportuno, almeno quanto quello ricevuto dall’Unione europea nella passata edizione per «l’impegno nei diritti civili e umani». Dopo quel premio in Europa abbiamo costruito reti metalliche con lamette e filo spinato, abbiamo assistito a una serie di vertici con l’intento di suddividere in quote precise pacchetti di esseri umani, abbiamo finanziato una missione militare per bombardare dei barconi, contro i trafficanti d’esseri umani, s’intende. E infine i vertici tessono accurate minacce per i Paesi terzi, per convincerli a riprendere con sé chi è scappato proprio da lì. Ecco, perseverare sarebbe stato davvero diabolico.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Dimissioni di Marino, quando l’ingenuità diventa incapacità politica

marino-sindaco-roma-dimissioni

Non c’è molto da aggiungere. Ma forse va aggiunto. Il web si schiera dalla parte del sindaco marziano, Ignazio Marino, lo difende a spada tratta. Sarebbe vittima di un Pd che se ne voleva liberare e che finalmente trova degli scontrini per silurarlo non più perché gli sia solo antipatico ma perché insopportabilmente pasticcione. Modo per dire, in modo gentile, di una sua “incompetenza” oramai ritenuta troppo grave. Left ha tentato in questi due anni di seguire con pazienza ed attenzione quello che stava accadendo a Roma e cosa si potesse muovere contro Marino, non per difenderlo, non ne avevamo la capacità né imarino sotto esamel compito, ma per restituire un po’ di realtà. L’ultima volta, il 27 giugno, abbiamo tentato di fare un bilancio della sua giunta insieme ad alcuni esperti. Il titolo era “Sotto esame”. Che fosse senza scampo lo si annusava da un po’. Che sia stata più lunga e dolorosa del previsto forse non lo avevamo messo in preventivo. Ma dal gesto a dir poco inelegante del papa di ritorno dagli Usa a ieri sera è stato un ruzzolare giù nel burrone senza sosta, fino all’ultimo scontrino dell’ultimo vino dato in pasto al “comune sentire”.
Poche cose sono chiare e vanno tenute a mente: Marino era miliardi di volte meglio di Alemanno, Marino ha molto probabilmente messo in crisi (anche involontariamente) una filiera di potere corrotta, Marino ha pedonalizzato quello che nessun altro sindaco di Roma ha mai pedonalizzato, Marino ha arginato il cemento a Roma e i suoi scontrini sono ridicoli di fronte al magna magna di decenni e decenni.


Marino era miliardi di volte meglio di Alemanno, ha messo in crisi una filiera di potere corrotta, ha pedonalizzato, ha arginato il cemento a Roma e i suoi scontrini sono ridicoli di fronte al magna magna di decenni e decenni.


 

Detto questo, una cosa mi colpì del rapporto consegnato dal prefetto Gabrielli al ministro Alfano nello scorso mese di luglio, un’espressione ripetuta di continuo relativa a Marino, che più o meno era così «non si è reso conto». Cioè il problema non era eventualmente una sua collusione vicina o lontana con Mafia capitale ma una sua estraneità che diveniva “non rendersi conto”. Questa è la colpa che ascrivo oggi al sindaco Marziano, non si è reso conto “troppo”. Questo ha reso persino impossibile sostenerlo fino in fondo, perché il suo non rendersi conto, figlio di una estraneità/ingenuità/incapacità, si è trasformato in una serie di grossolani errori che metteranno fine a tutto quel che di buono aveva messo in campo.

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/ilariabonaccors” target=”” ][/social_link] @ilariabonaccors

Chi è il Quartetto per il dialogo nazionale tunisino che ha vinto Nobel per la Pace

Quartetto del Dialogo nazionale tunisino

Il Quartetto del Dialogo nazionale tunisino ha vinto il Nobel per la Pace «per il suo contributo determinante nella costruzione di una democrazia pluralistica in Tunisia in seguito alla Rivoluzione dei Gelsomini». A comporre il quartetto sono il sindacato Ugtt, la ‘confindustria’ Utica, la Lega dei diritti umani Ltdh e l’Inoa, ovvero l’ordine nazionale degli avvocati tunisini. Insieme organizzarono la Primavera Araba in Tunisia nel 2011.

L’Italia pagò un riscatto ai pirati somali per la liberazione di Pellizzari?

L’Italia ha pagato riscatti per le vittime di rapimenti da parte di terroristi e pirati, ma ha sempre negato di farlo. O almeno questo è quel che si evince da documenti ottenuti da al Jazeera e The Guardian sul caso del rilascio di Bruno Pellizzari e la sua compagna, la sudafricana Debbie Calitz, rapiti da pirati somali nel 2010 e rilasciati nel 2012.

Al rilascio lo skipper sequestrato in mare al largo di Gibuti aveva ringraziato le autorità italiane «che mi sono venute a prendere» e non aveva risposto a domande relative al blitz delel forze speciali somale (!) che secondo la versione ufficiale lo avrebbero liberato. Il ministro degli Esteri allora era Giulio Terzi che escluse in ogni modo il pagamento di un riscatto ma non disse nulla sull’operazione. I dettagli li fornirono le autorità somale, parlando, appunto di un blitz.

Oggi scopriamo che probabilmente non andò così, ecco un estratto dell’articolo del Guardian che riporta la notizia e che illustra il contenuto di un documento catalogato come “segreto” redatto dal responsabile dei servizi sudafricani per il Corno d’Africa:

Nel documento si legge che il servizio segreto italiano AISE ha pagato un riscatto di 525.000 dollari e che “Per nascondere il pagamento del riscatto, AISE, SNSA (l’agenzia di sicurezza nazionale della Somalia) e ostaggi hanno concordato di informare media e pubblico che il rilascio è stato il risultato di una riuscita operazione di salvataggio da parte delle forze di sicurezza somale.

Non è la prima volta che si ha notizia o il sospetto del pagamento di riscatti da parte delle autorità italiane in casi come questo – il Guardian parla della liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo in Siria, rapite da al Nusra. In questi anni il tema è delicato per la semplice ragione che in alcune aree di guerra o a grande presenza di gruppi islamici armati l’uso del rapimento e la richiesta di riscatto (o l’uccisione brutale di ostaggi) sono episodi ricorrenti. Alcuni Paesi mantengono una linea dura con i rapitori nonostante le pressioni interne (Usa e Gran Bretagna, ad esempio), mentre altri sono meno rigidi. Pagare i riscatti può significare incentivarli. Ma non è necessariamente questo il punto: in questo caso il riscatto è stato pagato e poi, se è vera la versione contenuta nel documento segreto, si è mentito.

Buon compleanno John Lennon. E 4mila mani creano un enorme simbolo della pace a Central Park

Central Park, 7 ottobre 2015. Quattromila mani incrociate formano una catena umana: è un gigantesco simbolo della pace. Il tutto per augurare buon compleanno a John Lennon che il 9 ottobre avrebbe compiuto 75 anni, se solo la mano di Mark David Chapman non gli avesse sparato addosso proprio lì, a due passi dalla loro casa, dall’altra parte del parco, l’8 dicembre 1980.


Per realizzare “Imagine Peace” in migliaia si sono radunati dalle prime ore del mattino. A chiamarli lì, proprio sotto casa loro, è stata Yoko Ono. Il flash mob è anche un modo per raccogliere fondi per il John Lennon Educational Tour Bus, l’organizzazione non profit e studio di registrazione mobile che permette agli studenti di produrre musica e video gratuitamente.

Yoko, ha cantato per l’occasione la celebre Give Peace a Chance, il singolo del 1969 della Plastic Ono Band. E ha poi sottolineato che oggi, John, se fosse vivo non esiterebbe a occuparsi di migranti: «John sarebbe stato molto, molto, molto scioccato da quanto sta succedendo nel Mediterraneo e in Europa», ha dichiarato Yoko Ono. «John era un attivista importante», ha aggiunto Yoko Ono, ed «era anche un emigrante», ecco perché le immagini dei migliaia che fuggono da persecuzioni, guerre, fame e povertà estrema lo avrebbero toccato in modo speciale.

John-Lennon-Catena-Park-1
Dopo la catena di pace di oggi a New York, il 9 ottobre Yoko accenderà la torre di luce “Imagine Peace” di Reykjavik. L’installazione rimarrà accesa, come ogni anno, dal 9 ottobre all’8 dicembre. Le celebrazioni toccheranno altre città, oltre New York e Reykjavik. A Los Angeles la stella dedicata a John nella Walk of fame di Hollywood sarà il centro di discorsi e di una cerimonia di taglio della torta.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Balcani, sulle rotte dei rifugiati

La gestione del passaggio dei profughi nella rotta balcanica diventa sempre più strutturata ed organizzata. Mezzi di trasporto coordinati dai vari Governi accompagnano i rifugiati da un punto all’altro della frontiera, facendoli transitare solo qualche ora in centri dove sono identificati. Al ritmo della costruzione dei muri e delle tensioni tra stati vicini, alcune frontiere si chiudono ed altre se ne aprono, le rotte cambiano, ma restano sempre pilotate e controllate dai vari Governi. I migranti, convogliati da un estremo all’altro del paese, diventano invisibili.

Subotica

Fino ad oggi la rotta più battuta, dopo l’annuncio del completamento del ‘muro di Orban’ al confine tra Serbia e Ungheria, é quella che attraversa Macedonia, Serbia, Croazia, Ungheria, Austria e Germania. Arrivati in Germania, i rifugiati decidono se restare o continuare verso nord.
Ma lo scacchiere delle frontiere balcaniche è in continuo movimento. Da qualche giorno corre voce di una possibile chiusura della frontiera Croato-Ungherese, in seguito al completamento del secondo muro di Orban. Due gli scenari possibili che si aprono: dalla Croazia i rifugiati saranno portati in Slovenia e da lì in Austria, escludendo quindi l’Ungheria dalle rotte, oppure la Serbia si accorda con la Romania che apre il confine e diventa il nuovo punto di passaggio.

belgrado

Diretta conseguenza della gestione in ‘convogli’ dei profughi è lo svuotamento del parco Bristol a Belgrado. Ora ne restano solo qualche centinaio rispetto alle migliaia che transitavano prima. Sono spesso quelli più vulnerabili. Nonostante siano diminuiti, l’assetto dell’accampamento resta uguale: tende ovunque, ma qui i profughi possono ricevere vari tipi di servizi: informazioni di ogni natura, vestiario, cibo, cure mediche, ricarica del telefono e intrattenimento per i bambini. Sono centinaia i volontari che affiancano le numerose organizzazioni internazionali e nazionali presenti. Molti i cittadini che offrono vestiti o cibo.

slider 1

belgrado-8
slider 2
La visione di questi profughi – racconta una giovane volontaria – riapre una ferita non ancora rimarginata, quando erano gli stessi serbi a fuggire dalla guerra. Una forma empatica di identificazione.
La solidarietà arriva fino alla frontiera. Al valico di Babska, dove sono convogliati la maggior parte dei rifugiati che entra in Croazia, ci sono decine di organizzazioni in un campo coordinato dalla Croce Rossa, da MSF, da UNHCR e da varie associazioni locali.


La visione di questi profughi – racconta una giovane volontaria – riapre una ferita non ancora rimarginata, quando erano gli stessi serbi a fuggire dalla guerra. Una forma empatica di identificazione.


Ci sono anche decine di volontari venuti da altre città della Serbia. Uno di loro – viene da un paesino a 130 km da Sid – ci racconta di aver raccolto vestiti e scarpe per i profughi attraverso la moschea. Poco prima della barriera con la frontiera croata, ci sono un gruppo di cittadini della Repubblica Cecoslovacca. Ci dicono di essere venuti per solidarietà con i rifugiati, non appartengono a nessuna associazione. Offrono té caldo ed un sorriso, ma anche informazioni che hanno scritto in varie lingue sui cartoni sistemati vicino alla frontiera Viene spiegato che, superati i 150 metri che separano la Croazia dalla Serbia, i profughi devono percorrere 1 km a piedi, saranno poi portati negli ‘shelter’ croati, identificati ed accompagnati alla frontiera ungherese. Da li passeranno “illegalmente” a piedi la frontiera, e continueranno il loro cammino verso l’Austria.

slider 3

croazia border-1

slider 4

Nei punti non ufficiali di passaggio, come Subotica da cui sono passati migliaia di uomini, donne e bambini, non resta quasi più nessuno. In mezzo ai rifiuti dell’accampamento di Subotica, restano solo qualche decina di persone. Pachistani. Sono passati dalla Bulgaria. Il resto entra nel sistema ufficiale. Anche gli ‘shelter’, centri di identificazione di chi entra e di chi esce dal paese, si strutturano sempre di più. Uno è in costruzione vicino a Subotica, nell’eventualità della riapertura della frontiera serbo-ungherese. Un cartello all’entrata del cantiere precisa che il ‘Subotica camp’ è finanziato dal Governo Tedesco. C’è pero una minaccia che si fa sempre più reale e che potrebbe stravolgere questi meccanismi di passaggio dei rifugiati attraverso la rotta Balcanica verso nord: la firma di un accordo tra Ue e Turchia per chiudere le frontiere. Gli incontri tra il governo di Erdogan e la Commissione Europea si infittiscono. Dalle prime dichiarazioni si tratterebbe di un controllo rinforzato della frontiera greco-turca in cambio di un finanziamento massivo dei campi profughi dove la Turchia accoglie oggi più di 2 milioni di rifugiati siriani ed una eventuale quota per accessi legali al territorio.


slider 5

Subotica-1

testo e foto sono di Sara Prestianni per Arci

Propaganda permanente. Il circolo vizioso tra media e governo

Cosa c’è dietro la polemica tra Renzi e i talk politici della Rai? Left questa settimana affronta il tema della comunicazione nelle reti pubbliche ai tempi di Renzi e lo fa con personaggi che hanno fatto la storia dell’informazione televisiva. Corradino Mineo, senatore Pd e ex direttore di Rai News 24, analizza il conflitto per arrivare a una conclusione: Renzi teme le critiche  e per questo motivo «gli serve che giornali, telegiornali suonino all’unisono la grancassa, che vedano la ripresa, diffondano ottimismo, denuncino il pericolo del populismo, cancellino le minoranze».

left n. 39 servizio pubblico renzi e la rai

Insomma, dopo la Buona scuola, la Buona informazione. Giovanni Minoli, “padre” di Mixer e di programmi storici del servizio pubblico, ex direttore di Rai2, Rai3, Rai Educational, Rai Storia, intervistato dal direttore di Left Ilaria Bonaccorsi, è categorico: «La televisione ha vinto sulla politica e l’ha distrutta, perché ha consumato il significato della parola».  E ancora del servizio pubblico: «Nel mondo globalizzato deve raccontare le radici, con tutte le forme del racconto possibili (cinema, documentario, fiction, informazione)». Loris Mazzetti, capostruttura Rai e braccio destro di Fabio Fazio affronta invece il tema “caldo” della riforma del servizio pubblico. «La realtà è che il governo, con tutto quello che avrebbe potuto e dovuto fare, ha partorito un topolino». La Rai è ancora di più dipendente dai partiti e, in sostanza, Renzi non ha voluto intervenire sulla legge Gasparri. Infine, il ritratto dell’uomo chiave della comunicazione renziana: Filippo Sensi, molto più di un portavoce.
In Società, Left ritorna sul problema delle droghe, con un racconto da un rave in cui gli operatori si sono occupati concretamente di riduzione del danno.  La strana storia della quercia nel simbolo del Pds raccontata da Stefano Santachiara, il dramma del figlio di un testimone di giustizia con Giulio Cavalli e la storia di Althea Gibson prima tennista afroamericana a vincere Wimbledon. Negli Esteri l’Afghanistan: il presidente di Medici senza frontiere Italia, Loris De Filippi, spiega il fallimento della politica occidentale. Ancora il tema dei migranti con un reportage dalla “terra di nessuno” tra Serbia e Croazia. Dal Portogallo poi parla Marisa Matias, del Bloco de esquerda che ha raddoppiato i suoi consensi, con il 10 per cento dei voti alle ultime elezioni,  mentre dalla Spagna la storia di una gitana che è diventata senatrice, Silvia Heredia Martin. Infine, da New York, il fenomeno degli Open Studios, l’arte che invade i quartieri.

Schermata 2015-10-08 alle 16.58.47

In Cultura un focus sull’arte del Novecento odiata da Hitler e definita “degenerata” e il caso del maestro mangaka Shigeru Mizuki che aveva raccontato a fumetti la storia del dittatore. Per la scienza, il ritratto di Youyou Tu, la farmacologa cinese che ha vinto il premio Nobel per aver scoperto una terapia anti malaria dalla pianta dell’artemisia. E negli Spettacoli Erica Mou, giovanissima e grintosa cantante pugliese col suo album autoprodotto Tienimi il posto.