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Perché Hillary Clinton è contro il trattato di commercio del Pacifico

«Da quel che ne so e per quel che ho letto il  Trans Pacific Partnership (TPP) per come è adesso non mi piace». È una discreta inversione a U quella di Hillary Clinton, che ieri ha annunciato di non essere d’accordo con gli accordi di commercio con i Paesi del Pacifico che, se ratificati dai Paesi coinvolti, coinvolgerebbero il 40% del Pil mondiale. E consentirebbero agli Stati Uniti di lavorare al contenimento della Cina dal punto di vista economico: tutti i Paesi coinvolti – salvo quelli latino americani che affacciano sul Pacifico – sono a ridosso del gigante asiatico.

In passato Hillary ha sostenuto gli accordi commerciali internazionali e, quando era Segretario di Stato, persino il TPP. La Cnn pubblica un elenco di tutte le volte che Clinton ha difeso l’accordo, elenco chiaramente fornito dalla Casa Bianca, che viene messa in difficoltà dalla presa di posizione dell’ex Segretario di Stato.

Sul commercio internazionale, come su altri temi – la costruzione dell’oleodotto XL Keystone, ad esempio – Hillary sta prendendo posizioni che non ci si aspetterebbe da una figura politica come lei. Ma perché la candidata alle primarie democratiche sceglie questa strada? Proprio perché è una candidata alle primarie e, al momento, i suoi avversari corrono alla sua sinistra e sono entrambi severi critici dei trattati di commercio. Sia Bernie Sanders, che corre nei sondaggi, che Martin O’Malley, lontanissimo, hanno rimarcato il cambio di posizione di Hillary: «Sono lieto che abbia cambiato idea, io lo dico dal primo giorno che questo è un accordo sbagliato», ha detto il senatore socialista del Vermont. Insomma, se Hillary vuole tenere lontani i suoi concorrenti, deve rincorrerli. A giorni (il 13 a Las Vegas) il primo dibattito democratico in Tv, dove Hillary verrà incalzata sulla questione dai conduttori e dagli avversari. E in settimana la stessa candidata presenterà una serie di misure per rafforzare i controlli su Wall street, le banche e la finanza.

Certo, prendere troppo le distanze dall’amministrazione Obama potrebbe contribuire a far sciogliere le riserve su una partecipazione alle primarie a Joe Biden. E questo sarebbe pessimo per Clinton. Uno spot Tv che mette l’accento sulla personalità di Biden, segnata da due tragedie enormi, (qui sotto), voluto dai sostenitori del vicepresidente, è già in circolazione. Anche per lui, che pure è molto popolare, la strada delle primarie sarebbe in salita.

Ma posizioni troppo di sinistra non potrebbero mettere in difficoltà la candidata alla presidenza una volta vinte le primarie? Essere contro gli accordi commerciali, in verità, potrebbe anche rivelarsi una buona carta da giocare contro i repubblicani. In alcuni Stati fondamentali per arrivare alla Casa Bianca – Ohio, Wisconsin, Minnesota ad esempio – le fabbriche hanno chiuso e sono emigrate verso la Cina e ai lavoratori bianchi, per quanto non culturalmente di sinistra, la contrarietà al libero scambio potrebbe piacere. Se poi torniamo al virgolettato di Clinton («A quel che so…per come è adesso»), possiamo notare come la candidata lasci una porta aperta a un nuovo cambio di posizione. Infine, c’è il dato di fatto che il commercio internazionale non è più così popolare come ai tempi di Bill: il centro politico, negli Stati Uniti si è spostato molto a sinistra.

Sul fronte repubblicano va invece segnalato il quasi appoggio di Rupert Murdoch a Ben Carson, il chirurgo afroamericano e molto conservatore. Carson è secondo nei sondaggi, insegue Donald Trump, ma potrebbe diventare il candidato che raccoglie attorno a se la parte conservatrice del partito. Ha il solo difetto di essere nero, cosa che non piace alla destra bianca di alcuni Stati. Qui sotto il tweet con il quale il magnate delle telecomunicazioni benedice Carson.

 

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Qui la nostra guida alle primarie repubblicane

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Marino si è dimesso. Verso il voto in primavera

Contenti sono i 5 stelle, ovviamente. «Non so se vinceremo», dice Alessandro Di Battista, «dipende dai romani, mettiamoci alla prova».

Marino si è dimesso e la città sembra destinata al voto in primavera, con Milano, Bologna, Torino e Napoli. Matteo Renzi è alla ricerca di un candidato, qualcuno che accetti però di andare incontro a un probabile tonfo. «Ci vuole coraggio», dicono dal Pd, in realtà per farsi coraggio. Lo scenario preferito sarebbe stato quello di andare al voto nel 2017, e invece tutto è precipitato. Dopo la vicenda delle smentite sugli scontrini e sulle cene pagate da Marino con la carta di credito del Comune, il Pd ha messo il sindaco alla porta. Lui ha provato a resistere ma prima le dimissioni dei tre più recenti innesti in giunta (Causi, Esposito e Rossi Doria), poi una mozione di sfiducia annunciata dal gruppo del Pd e da Sel, lo hanno fatto desistere. Dei commenti possibili, il primo da segnalare lo fa il collega della Stampa Iacoboni. Sul populismo insiste anche Gianni Riotta.

È stato però Renzi il primo ha cavalcare ogni polemica, anche la più strumentale, contro Marino. E l’esito della sua esperienza amministrativa sarebbe stato sicuramente diverso se fosse stato sostenuto e non osteggiato dal Pd. Solo che il Pd – come Mafia Capitale dimostra – era a Roma parte del problema, di Marino e della città.

Segno dei tempi e di scarsa memoria è che a mettere Marino sulla graticola siano non solo i 5 stelle ma anche la destra che ha sostenuto fedelmente Gianni Alemanno, e la sua esperienza amministrativa, macchiata non dai sei cene, ma da parentopoli.

New York celebra Alberto Burri, a cent’anni dalla nascita

Il Guggenheim di New York dedica una grande retrospettiva ad Alberto Burri dal 9 ottobre al 6 gennaio 2016. Per celebrare il centenario della nascita dell’artista umbro il museo nel cuore di Manhattan ne ripercorre tutta l’opera con la mostra The Trauma of Painting, organizzata da Emily Braun e realizzata con la collaborazione della Fondazione Palazzo Albizzini Collezione Burri che per questa occasione pubblica il catalogo completo delle opere di Burri in edizione bilingue.

Alberto Burri al Guggenheim di New York

L’intento, raccontano i curatori, è  “esplorare la bellezza e la complessità del processo creativo che sta alla base delle opere di Burri”, tornando – a 35 anni di distanza dall’ultima mostra newyorkese dedicata all’artista –   ad approfondire la  figura di questo protagonista della scena artistica del secondo dopoguerra,  nel quadro dei rapporti tra Stati Uniti e Europa negli anni Cinquanta e Sessanta.

Alberto Burri all’opera

E  prima ancora, a partire dalla dolorosa esperienza che Burri fece proprio negli Usa,  quando  l’artista, che era medico caporale, fu fatto prigioniero nel 1943 e venne portato dagli americani in un campo di concentramento a Hereford, in Texas.  In questo luogo di detenzione Burri, cercando di resistere in quella drammatica condizione, prese a disegnare e a creare utilizzando il carbone, lacerti di juta e altri materiali poverissimi.

Alberto Burri, Grande Cretto Bianco, 1973

La mostra al Guggenheim approfondisce poi la svolta che prese la ricerca di Burri al suo ritorno in Italia nel 1946 quando cominciò a creare quadri astratti caratterizzati da un sottile grafismo. Dal 1949, poi, ecco i Catrami, opere monocrome in cui” il colore viene ridotto alla sua funzione più semplice e perentoria e incisiva”, per dirla con le parole dello stesso Burri.  Era il primo passo verso un’attenzione alla materia che si sarebbe fatta, negli anni successivi, sempre più esclusiva. L’artista umbro aveva così sviluppato in modo originalissimo uno spunto che aveva colto nell’ambiente romano e in particolare nel lavoro di Enrico Prampolini che già nel periodo futurista aveva realizzato opere con parti di colore e di sabbie e che nel 1944 aveva pubblicato arte Polimaterica. Come il Museo Guggenheim mette bene in evidenza con la sua straordinaria collezione, questo era un filone di ricerca che più o meno negli stessi anni era stato sviluppato da Jackson Pollock che, invece, aveva tratto ispirazione dalle “pitture di sabbia” della tradizione indiana in America.

Alberto Burri, Rosso Plastica, 1964

Un altro importante capitolo della mostra nel museo newyorkese  è dedicato ai  Gobbi con cui Burri cancellava ogni divisione fra scultura e pittura.  Il primo Gobbo nacque nel 1950  incastrando sul retro del quadro un frammento di legno che rende irregolare la superficie del dipinto.  In quello stesso anno Alberto Burri realizzò il primo Sacco, un quadro eseguito intelaiando un frammento di tela proveniente da un sacco usato con le cuciture e i rattoppi bene in vista. Negli anni successivi riprese certi effetti di sgocciolatura del colore già presenti nei Catrami e aggiunse ai frammenti  altri materiali di recupero, stracci, lembi di tessuto. Nello stesso tempo cominciò a servirsi d’altri residui, dalle carte alle lamiere, dai legni bruciati alla plastica. Nel 1954 la prima Combustione, il primo intervento con il fuoco su cellotx.

Alberto Burri, Sacco, 1953

Alberto Burri rompe decisamente con la tradizione facendo della materia la vera protagonista dell’opera, ma non si tratta di materia bruta e inerte, in quanto dopo il trauma della guerra, diventa materia viva, carne e sangue di chi era stato al fronte e in senso più universale di un’umanità non arresa di fronte alla distruzione e alla violenza.

Alberto Burri, Gobbo Bianco, 1973

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Nada: «Canto la Bestia che è in ognuno di noi». Ecco il nuovo singolo in anteprima su Left

Dal 9 ottobre, in piattaforma digitale, esce il nuovo singolo di Nada Malanima, “La Bestia” (Santeria, ottobre 2015). La cantautrice livornese ci concede una seconda chicca di quello che sarà il suo lavoro definitivo che vedrà la luce a gennaio 2016. Una nuova canzone scritta, composta e prodotta da sé. La sua voce inconfondibile, il piglio sempre rock. Anzi, proto punk, come ci spiega. E un video, diretto da Ambra Lunardi, che riprende Nada insieme ai bambini della scuola teatrale Factory di Livorno. In anteprima su Left il singolo, il video e una chiacchierata con la signora del rock italiano.

Bentornata Nada. D’istinto, chi è la Bestia?

La Bestia è la paura che ci attanaglia quando ci mancano le certezze dentro e fuori di noi. Nel video mi è piaciuto circondarmi da bambini, perché loro sono come sono, senza pregiudizi verso quello che non conoscono e non esiste diversità per loro. La paura è solo un gioco. Hanno la curiosità i bambini. E per me stare con loro è stato davvero un bel giocare per dare il senso con le immagini a questa mia canzone.

E il video lo hai girato alle Fonti del Corallo di Livorno. Perché?
Sono delle terme dei primi anni del Novecento lasciate abbandonate al loro destino di macerie nel Duemila, dopo un lontano periodo di fasti e lustrini. È un luogo da favola.

Ci concedi un singolo per volta, in attesa del nuovo album nel 2016. Questo è il secondo dopo “Non sputarmi in faccia” (Santeria/Audioglobe, maggio 2015), in piattaforma digitale. Come mai questa scelta?
Ho pensato che così ogni canzone ha uno spazio suo. Di solito in un album ce ne sono solo un paio a essere seguite e le altre passano quasi sempre inosservate, sempre le più belle. Così facendo vorrei evitare questo. E poi lavorare in studio per preparare un disco in questo modo e con questi tempi da me decisi, è diverso e mi diverto. Mi stimola questo darmi scadenze e fare in modo di essere puntuale ad ogni data prestabilita per l’uscita. Mi sto impegnando per riuscirci perché essendo una perfezionista nella musica mi capita di perdermi nei giorni, nei mesi ed a volte anche negli anni. La cosa più difficile in un disco, per me, non è registrare, cantare, suonare e tutte queste belle cose, ma la vera difficoltà sta nel decidere quando è finito, accidenti. Questo album che ancora non ha titolo uscirà nel gennaio 2016. Giuro!

Intanto sappiamo che dopo una ballata, arriva il proto punk. Giusto?
Nel mio disco suonano alcuni miei amici musicisti “di passaggio”, con loro mi confronto ogni volta che affronto un nuovo lavoro. Uno di questi quando ha sentito “La Bestia” ha urlato : “Ma questo è protopunk”. Così ho deciso di dire così quando mi chiedono : che musica fai? Che genere è? Io allora rispondo sicura: è proto punk, vero proto punk. Anche se non ho capito ancora bene cosa significa davvero. Più o meno…

Sei anche una scrittrice, hai già pubblicato tre libri e ti abbiamo vista a teatro come autrice. Stai scrivendo qualcosa di nuovo?
Si. Dopo il mio album di gennaio uscirà in aprile 2016 il mio nuovo libro. A presto il titolo.

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Angioni: «Bombardare in Iraq senza una strategia politica? Poco efficace e controproducente»

Se c’è un militare  italiano che conosce  perfettamente la realtà mediorientale, questo è il generale Franco Angioni, comandante del contingente italiano in Libano negli anni più duri della guerra civile che dilaniò il Paese dei Cedri. «Di fronte alle azioni dei miliziani dell’Isis – dice il generale Angioni a Left – i bombardamenti aerei non solo sono di scarsa efficacia ma rischiano di  essere controproducenti perché possono fare vittime fra la popolazione civile».

Generale Angioni, l’Italia sembra prendere in considerazione l’ipotesi di bombardare l’Isis in Iraq. Da profondo conoscitore della realtà mediorientale, qual è la sua valutazione?

L’Italia si è impegnata a dispiegare 4 Tornado in Iraq per missioni di ricognizione e accertamento di obiettivi, senza però il coinvolgimento in azioni di attacco. Ora, invece, sembra che ci sia stato richiesto l’intervento anche in missioni di bombardamento. Sul piano del “rendimento”, considerato che il pericolo maggiore è rappresentato dalle azioni che i miliziani di Isis conducono, il bombardamento aereo non solo è di modesta efficacia ma rischia di rivelarsi controproducente per il pericolo di un coinvolgimento di obiettivi non militari nei raid aerei. Una tragica e recente conferma è il bombardamento che ha colpito l’ospedale di Medici Senza Frontiere a Kunduz, in Afghanistan.

Lo strumento militare in Medio Oriente sembra l’unico praticato.

Purtroppo è così. La politica è stata estromessa dall’azione che si sta conducendo, in Iraq come in Siria, e di conseguenza i risultati non possono dirsi soddisfacenti. Stabilito che la politica deve precedere e gestire l’intervento militare, è indispensabile che l’efficacia dell’azione militare riduca al massimo i “danni collaterali”. Questa vale oggi soprattutto per la Siria, è bene essere chiari su questo punto: ritenere che in determinati casi sia possibile avviare un processo di stabilizzazione senza lo strumento militare, è utopia. Ma è una tragica illusione ritenere che esistano scorciatoie militari che possano portare alla soluzione di crisi e conflitti che chiamano in causa la politica e i suoi protagonisti.

Matteo Renzi ha criticato l’atto unilaterale compiuto dalla Francia con i raid aerei in Siria. Ma ora non si rischia un bis italiano in Iraq?

Coerenza vuole che non sia così. Quanto meno lo spero vivamente. E lo dico partendo dalla lunga esperienza maturata sul campo, e in momenti e luoghi particolarmente difficili, come il Libano negli anni della guerra civile. La situazione è già difficile ed è foriera di grossi pericoli. Non stiamo parlando solo dell’Europa, i protagonisti sono molteplici e spesso in conflitto di interessi fra loro (vedi Arabia Saudita e Iran).  Per questo ogni azioni deve essere concordata, senza ergersi a improbabili primi della classe, e gli obiettivi militari devono essere assolutamente concordanti con una ben definita strategia politica.

Hasta la Victoria Ernesto. 48 anni dalla morte del Che

Rivoluzionario, combattente, medico, leader carismatico, visionario, mito e icona indiscussa del Novecento, Ernesto Guevara de la Serna, passato alla storia come il Che è stato tutto questo. Protagonista della scena politica del Novecento Guevara morì esattamente 48 anni fa dopo essere stato ferito e catturato da un reparto anti-guerriglia dell’esercito boliviano con i supporto degli Stati Uniti e della Cia. Il carisma del Che era tale che fu inizialmente sepolto in un luogo segreto, nonostante questo ha continuato negli anni a incarnare il modello del vero rivoluzionario e a segnare radicalmente l’immaginario politico e ideologico di giovani e adulti, fino a diventare un vero e proprio simbolo di massa per la sinistra nel mondo. Non è un caso che la famosissima foto di Korda che lo ritrae, intitolata Guerrillero Heroico sia stata una degli scatti più riprodotti del XX secolo. Il volto di Che Guevara è apparso e appare tutt’ora su libri, riviste, cartoline, poster, bandiere e T-Shirt e continua, con la sua storia, a rappresentare a quasi 50 anni dal suo assassinio un punto di riferimento.

Ecco qualche scatto e qualche aneddoto sul guerrigliero.

Il soprannome di “Che” venne attribuito a Guevara dai compagni di lotta cubani in Guatemala e deriva dalla locuzione “che” che Ernesto, come la maggior parte degli argentini, era solito usare come intercalare per attirare l’attenzione dell’interlocutore.

Il suo certificato di nascita riporta la data del 14 giugno del 1928. Julia Constenla, storica e amica personale della madre del Che, Celia de la Serna, racconta però che quest’ultima le abbia confidato di essere incinta al momento del matrimonio con Ernesto Guevara Lynch, che la vera data di nascita del figlio era il 14 maggio e che il certificato di nascita era stato falsificato posticipando la data di nascita di un mese per evitare lo scandalo.

Nonostante venga ricordato anche per la sua famosa frase: «Bisogna essere duri senza mai perdere la tenerezza», c’è chi sostiene che il Che si sia in realtà macchiato di crimini di guerra abusando della sua autorità conferitagli all’interno dell’esercito rivoluzionario.

Quella volta che Che Guevara, Renzi e Berlusconi

Matteo Renzi, diventato segretario Pd, ha appeso fra i quadri scelti per il suo ufficio al Nazareno, una foto di Korda in cui Che Guevara e Fidel Castro giovano a golf (foto in apertura). E, proprio sotto questo scatto è avvenuto il primo incontro a porte chiuse con Berlusconi.
A detta di molti anche se sicuramente il Che era stato testimone delle situazioni peggiori, “assistere” a questa chiacchierata deve averlo fatto probabilmente rivoltare nella tomba.

Buona scuola, è ribellione al Sud: «Alternanza scuola-lavoro? Ma dove?»

Sarà una goccia in mezzo al mare, ma comunque è simbolica, segno di un malessere profondo. Il Sud si ribella alla Buona scuola. Tre consigli comunali del Mezzogiorno hanno votato una mozione contro la legge 107, indirizzandola al presidente del Consiglio e ai presidenti delle Camere. Sono Gravina di Puglia (che aveva bocciato la riforma renziana quando ancora era un ddl), Lamezia Terme (Catanzaro) e Cinquefrondi (Reggio Calabria). «È un sostegno alla lotta degli insegnanti, contro la controriforma della scuola», afferma Michele Conìa, giovane sindaco di Cinquefrondi, a capo di una giunta che fa capo alla lista civica di sinistra Progetto Rinascita. Il consiglio comunale ieri ha approvato l’ordine del giorno anti Legge 107.

«Al Sud la situazione è particolarmente drammatica soprattutto perché le diseguaglianze sono sotto gli occhi di tutti», aggiunge Rosanna Giovinazzo, docente che fa parte del collettivo insegnanti calabresi Partigiani della scuola, uno dei comitati più combattivi nell’ultimo anno nella lotta contro la Buona scuola. Quali sono le principali storture che in un territorio come quello della piana di Gioia Tauro, circa 200mila abitanti, un tasso di disoccupazione altissimo e il problema della dispersione scolastica? Prendiamo uno dei capisaldi della Buona scuola, l’alternanza scuola-lavoro. «Dove potranno andare gli studenti, per esempio degli istituti tecnici occupati per 400 ore nel triennio? In un supermercato, in un oleificio?», sottolinea la docente. Il rischio che con l’alternanza scuola-lavoro si vada incontro ad uno sfruttamento del lavoro giovanile è evidente. Un altro aspetto è quello legato alle erogazioni liberali, lo School Bonus che permette ai privati che effettuano donazioni di detrarne il 65 % dalle tasse. «Chi vuole che venga a finanziare l’ultima scuola della Calabria?», si chiede l’insegnante. Chiara la sperequazione tra territori come quello calabrese e quello di altre regioni, soprattutto del Nord, dove privati, fondazioni e imprese da tempo “aiutano” le scuole.

Come si legge anche nella mozione votata dal consiglio comunale di Cinquefrondi è anche il sistema di valutazione a essere fortemente criticato. Cioè la formazione dei comitati di cui fanno parte anche studenti e genitori e che dovranno scegliere i docenti a cui andrà il bonus in denaro. «I criteri di valutazione del merito dei docenti vanno stabiliti per legge, e non attribuiti a scelte discrezionali di dirigenti scolastici o comitati di cui fanno parte membri esterni, genitori e studenti, che non sono né ben informati sul rendimento, né imparziali. Infatti, l’art 97 della Costituzione stabilisce che “i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione»», si legge nell’ordine del giorno.

La mozione del piccolo comune calabrese dopo aver valutato tutti i punti critici della Legge 107 considerato che «il mondo della scuola è un settore di primaria importanza, al quale tutti dobbiamo volgere il nostro interesse e le nostre fondate preoccupazioni», delibera infine, «di esprimere solidarietà e soprattutto pieno appoggio alle iniziative, pienamente condivisibili, anche in riferimento alla tutela dei fondamentali diritti costituzionali, degli insegnanti calabresi e di tutt’Italia». Una presa di posizione che non avrà certo ripercussioni sull’effettiva attuazione della legge, ma che ben rappresenta un disagio diffuso in tutta Italia. Intanto, il 9 ottobre si terrà la manifestazione degli studenti “Vogliamo potere” in oltre 90 città italiane e entro novembre è prevista una mobilitazione del mondo docente. Mentre, va detto, il percorso della legge segna qualche ritardo, visto che la presentazione del Pof (il piano dell’offerta formativa) da presentarsi entro la fine di ottobre slitta a gennaio 2016.

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7 ottobre 2001, cominciava la guerra in Afghanistan. Che non è finita

L’anno prossimo sarà un anniversario tondo, ma non conta: sono 14 anni che si combatte in Afghanistan – molto di più in realtà, è dall’invasione Sovietica che il Paese non conosce pace. Qui sotto una cronologia breve. Mancano molti passaggi, morti, episodi gravi, incidenti, battaglie. Sono troppi per ricordarli: bombardamenti finiti male come a Kunduz, autobomba esplose in mezzo ai civili, raid in scuole dei talebani e uccisioni a freddo delle truppe straniere. E’ la guerra che implica tutte queste cose. E che difficilmente risolve: la decisione di Obama, che probabilmente lascerà in Afghanistan più truppe del previsto, è proprio li a dimostrarlo.

Unioni civili, il nuovo testo è un ulteriore compromesso al ribasso o no?

Gli alfaniani gridano allo scandalo e dicono che la nuova formulazione della legge sulle unioni civili sarebbe «un’inaccettabile forzatura» del Pd. Lo dice così, ad esempio, Maurizio Lupi, presidente dei deputati centristi: «Introdurre tensioni nella maggioranza continuando ad alzare asticelle divisive non è un buon servizio né al governo né al Paese».

E pensare, invece, che il testo che il Pd vuole portare direttamente in aula e senza relatore, per superare l’impasse della commissione giustizia, fa ulteriori concessioni ai conservatori di tutti gli schieramenti. Anche se “non sostanziali” dice a Left Monica Cirinnà, senatrice dem e prima firmataria del testo. In realtà la nuova formulazione – di cui però per leggere il testo ufficiale bisognerà aspettare domani – conferma l’intenzione di non avvicinarsi formalmente all’equiparazione col matrimonio: viene confermata la prudente perifrasi della “formazione sociale”. “ll nuovo testo”, spiega il senatore dem Giorgio Tonini, cattolico, “viene incontro a una delle obiezioni. Dicevano: voi state facendo i matrimoni. Abbiamo quindi chiarito la distinzione fra i due istituti”. “Ma la formula con cui si sanciranno le unioni”, continua Cirinnà, “vi assicuro che ricorda in tutto e per tutto quella dei matrimoni civili”. “Non è un caso”, dice, “che gli alfaniani protestino. Protestano anche perché abbiamo mantenuto la reversibilità delle pensioni”. Questa, con adeguate coperture, dovrebbe esser prevista dall’art. 19.

Cirinnà assicura anche che non c’è alcuna modifica sull’articolo 5 della legge, quello che introduce l’adozione del figlio del partner. Secondo l’anticipazione pubblicata da Repubblica, nel nuovo testo la stepchildadoption sarebbe stata limitata ai figli naturali: “Ma non è vero!”, dice ancora Cirinnà, convinta che a mettere in giro queste voci sia chi – anche nel suo partito – vuole spingere Sel e 5 stelle verso il voto contrario, affossando, a quel punto, la legge.

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Migranti, il piano segreto Ue svelato dal “Times”. E il film già visto dei Cie

Un «piano segreto» per espellere dall’Europa più di 400mila “migranti economici” nelle prossime settimane. Lo riporta il quotidiano Times, alla vigilia del vertice tra ministri degli Interni dell’Ue sull’immigrazione. Quello che discuteranno i ministri, perciò, sarà come organizzare l’espulsione e i rimpatri che riguarderanno i profughi ai quali è stato negata la protezione, quelli che sono stati catalogati dall’Ue “migranti economici” e che sono giunti in Europa nei primi sei mesi del 2015.

Per 120mila accolti, quindi, 400mila saranno rispediti a casa. E la storia, nemmeno troppo lontana, insegna che le espulsioni di massa non solo sono contrarie ai principi della Convenzione di Ginevra, ma sono stati anche il palcoscenico dei peggiori accordi tra Stati.

Espulsioni e rimpatri

Espellerli per rimpatriarli. Dove? Ognuno nel suo Paese d’origine. E se i Paesi d’origine fanno resistenza o problemi – sempre secondo il quotidiano britannico – il piano dei vertici Ue prevede di fare leva sulla minaccia di restrizioni in termini di sostegno economico, di partnership commerciale e di visti concessi ai loro Paesi. Facciamo due esempi: il Niger e l’Eritrea, due Paesi dalle quali provengono molti migranti e con i quali l’Ue intrattiene non poche relazioni.

Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate.

Art. 4 del Protocollo alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo

 

Nel frattempo, detenzione

L’accordo, riportato dal Times, prevede anche la detenzione preventiva di chi deve essere espulso, per timore che in attesa dell’attuazione possa fuggire. Cosa che accade nel 60% delle volte. Come ha già, e più volte, scritto il giurista Fulvio Vassallo, in ultimo sullo scorso numero di Left: «Chi oggi sostiene l’introduzione degli hotspot dove trattenere per due o tre giorni i migranti al fine di identificazione, aggiunge poi che chi si rifiuterà di rilasciare le impronte, potrebber essere rinchiuso nei Cie». E sempre nei Cie andrebbero quei migranti che, una volta qualificati “migranti economici” con evidenti “pericolo di fuga”, dovrebbesro essere espulsi.

Sarà anche un piano segreto, ma ha tutta l’aria di essere un film annunciato. E già visto.

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