Home Blog Pagina 1282

La lotta per la supremazia dei colossi internet nella Silicon Valley spiegata con Games of Thrones

games-of-thrones-silicon-valley

Le guerre tra i colossi del mondo di internet segnano sempre più i nostri destini. Vanity Fair America in un video rilegge gli scontri e le lotte per il potere che si sono susseguite nel mondo ipertecnologico della Silicon Valley come se fossero gli intrighi di Games of Thrones.
Dal regno di Aol a quello di Google, Facebook e Apple, a minacciare il Trono di Spade in versione tecnologica non sono più i bruti della pluripremiata serie tv di Hbo, ma i “banditi della banda larga”.

Anche nella Silicon Valley quindi: l’inverno sta arrivando.
E la lotta tra i 7 regni del 2.0 è quella per accaparrarsi più visitatori/utenti possibile e far salire le proprie azioni in borsa più dei concorrenti. Nel frattempo, al Nord, gli hacker incombono e tentano di assaltare la grande barriera.

Sicuramente questa versione rivista del fantasy tv, riesce a trasmettere un’immagine ironica e, tutto sommato, abbastanza realistica di quello che accade ogni giorno nei grandi imperi dell’hi-tech.

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link]  @GioGolightly

L’Ocse: «Così faremo pagare le tasse alle multinazionali “furbette”»

Quante volte avete letto che Google, Apple, Amazon e mille altri gruppi con sedi in tutto il mondo non pagano le tasse? «Lacune e inadeguatezza delle attuali norme fiscali internazionali possono consentire ai profitti di “sparire” dallo sguardo delle autorità fiscali, o consentire lo spostamento dei profitti verso luoghi dove vengono tassati molto poco o non vengono tassati affatto. Se si escludono alcuni casi eclatanti, una parte di queste fughe dal fisco sono determinate dai sistemi fiscali stessi». Così si legge in un rapporto sull’elusione fiscale da parte delle multinazionali presentato oggi all’Ocse (BEPS 2015, final reports). Il testo continua: «Invece di fare investimenti per ragioni economiche, le aziende sono spesso tentate a fare investimenti solo per motivi fiscali, scelte che portano a un’allocazione inefficiente delle risorse».

 

great avoiders table

(Quanto pagano di tasse in Gran Bretagna questi grandi gruppi? Non molto: da 0% a 0,57%)

Di cosa parla l’Ocse? Delle tasse che i grandi gruppi industriali e delle finanza riescono a evitare di pagare surfando tra le pieghe delle regole internazionali e spostando capitali e sedi nei luoghi in cui si paga o si paga meno. L’Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo parla di mancate entrate fiscali che si stimano tra il 4 e il 10% del totale delle tasse pagate nel mondo (100-240 miliardi dollari l’anno). Ma nel rapporto si legge che si tratta di stime al ribasso. In tempi di austerità e taglio alla spesa sono risorse che farebbero molto comodo agli Stati.

Sarà stata la crisi esplosa nel 2008 e la enorme perdita di prestigio di banche, imprese finanziarie e multinazionali, sarà l’opinione pubblica che è stanca di vedere i profitti fuggire all’estero, ma l’Ocse e il G20 stanno cercando di mettere a punto un sistema che consenta di recuperare agli Stati quelle entrate fiscali mai pagate. Non sarà facile. Ma certo il tema è cruciale, per i sistemi fiscali (che sono sempre più dipendenti dalle tasse sulle entrate delle persone) e per una migliore allocazione delle risorse (leggi investimenti produttivi).

In un processo lungo due anni e fatto di molte consultazioni e mediazioni, gli esperti Ocse hanno preparato un pacchetto che punta a risolvere questa questione, introducendo standard internazionali e promuovendo la cooperazione tra Stati (ovvero includendo queste nuove regole nei trattati fiscali bilaterali tra gli Stati). Le compagnie che usano i buchi dei sistemi fiscali e le possibilità dell’economia digitale per muovere sedi e fondi non potranno più approfittare di benefici fiscali se poi porteranno i profitti in un luogo diverso rispetto a quello dove producono. E dovranno produrre un rapporto annuale che includa tutte le loro attività Stato per Stato. Un altro luogo del delitto sono i trasferimenti di fondi (magari per vendita di servizi) tra un marchio e un altro all’interno della stessa multinazionale: se il gruppo A con sede in un Paese vende servizi al gruppo B che ha sede in un Paese dove le tasse sono più alte, ed entrambi appartengono alla stessa multinazionale, il gruppo A farà profitti con i soldi di B e la multinazionale nel suo complesso pagherà meno tasse. Anche per questo tipo di pratiche si prevedono standard e regole internazionali.

Serviranno le regole? Un po’, ma non molto. Le reti e campagne che fanno da watchdogs sul tema delle tasse internazionali hanno commentato sostenendo che il piano Ocse è una grande novità ma non è abbastanza coraggioso da cambiare le cose oltre una certa misura.

«È deludente che l’Ocse non abbia affrontato il modo in cui le norme fiscali trattano le varie filiali di multinazionali come se fossero semplicemente gruppi diversi l’uno dall’altro. È questo il difetto centrale che consente alle multinazionali di sfruttare il sistema fiscale internazionale» si legge nel comunicato diffuso da Tax Justice Network.

Drastico anche il giudizio di EuroDad European Network on Debt and Developement«Ora che vediamo il quadro completo di ciò che il processo dell’Ocse sulle tasse produrrà, sappiamo che non riuscirà a raggiungere l’obiettivo dichiarato di garantire che le multinazionali paghino le tasse  nei luoghi dove creano valore». Le Ong e le campagne sostengono che le regole proposte sono troppo complicate e difficili da applicare. Ed è proprio nei buchi e nella complessità dei regolamenti che commercialisti e strateghi fiscali delle multinazionali hanno trovato negli anni il modo di non pagare le tasse laddove fanno profitti.

 

Verso COP21, l’appello della società civile alla conferenza sul clima

L’appuntamento di Parigi, il COP21, si avvicina a grandi passi. E anche se non ne avete sentito parlare, è un appuntamento cruciale. A Parigi infatti il mondo si riunisce per affrontare la questione del cambiamento climatico e cercare di mettersi d’accordo su come fare per invertire la rotta che sta portando l’umanità verso la catastrofe. Crisi economica, necessità di sviluppo e scarsa volontà di prendere impegni vincolanti in sedi internazionali sono gli enormi ostacoli frapposti tra la necessità di trovare accordi efficaci e la possibilità di trovarli. E poi c’è il lobbysmo attivo dei gruppi petroliferi e di altre multinazionali che non ritengono che il cambiamento climatico esista (o preferiscono che il mondo nasconda la testa sotto la sabbia e non imponga loro limiti).

Che questo sia il terzo o quarto anno consecutivo più caldo registrato o che i fenomeni atmosferici estremi si ripetano in maniera sempre più frequente ovunque, non basta. Per tutte queste ragioni la mobilitazione della società civile mondiale è partita da tempo. Tra le cose lanciate in questi giorni l’appello di 350.org firmato da personalità, scienziati, attivisti di tutto il mondo e, tra gli altri, da  Desmond Tutu, Vivienne Westwood, Naomi Klein, Noam Chomsky, Michael Hardt, l’ambientalista Bill McKibben, Vandana Shiva. (e che potete firmare qui)

Il testo chiede di fermare le estrazioni di combustibili fossili, eccone due passaggi.

Non coviamo alcuna illusione. I Governi si sono riuniti per più di 20 anni, ma le emissioni di gas climalteranti non sono diminuite e il clima continua a cambiare. Prevalgono l’inerzia e gli ostacoli, anche se gli avvertimenti della scienza diventano giorno dopo giorno più preoccupanti. (…)

Alla vigilia della Conferenza Onu sul clima che si terrà a Parigi – Le Bourget, dichiariamo la nostra determinazione perchè i combustibili fossili rimangano sotto terra. Questa è l’unica via che abbiamo davanti.

In concreto, i Governi devono cancellare i sussidi all’industria dei combustibili fossili e fermare le estrazioni lasciando intatto l’80% delle riserve esistenti.

Il Fondo monetario taglia le stime di crescita e ammonisce sul rischio di stagnazione

Il Fondo Monetario rivede al ribasso le sue previsioni di crescita per l’anno in corso e mette in guardia da rischi di stagnazione. Nel World Economic Outlook pubblicato oggi, infatti, la crescita mondiale per il 2015 si parla di una crescita al 3,1%, 0,2% in meno di quanto previsto nel luglio scorso e 0,3% in meno dello scorso anno e, questo è il dato preoccupante, numero più basso dall’inizio della lenta ripresa mondiale dopo nel 2009.

A rendere complicata la situazione il pesante rallentamento delle grandi economie emergenti. Nella presentazione del rapporto si legge:
«Si prevede un rallentamento per il quinto anno consecutivo dell’attività nei mercati emergenti e in via di sviluppo», specie per alcune grandi economie e per gli esportatori di petrolio. «In un contesto di calo dei prezzi delle materie prime, di flussi di capitale ridotti e di pressioni sulle valute dei Paesi emergenti, e con l’aumento della volatilità dei mercati finanziari, i rischi di rallentamento dell’economia crescono, in particolare per i mercati emergenti e in via di sviluppo».

I Paesi che in questi anni hanno trainato l’economia mondiale con la loro crescita sostenuta continuano a rallentare, conseguenze anche per l’export dei Paesi sviluppati. In generale, «i rischi al ribasso per l’economia mondiale appaiono più pronunciato di quanto hanno fatto solo pochi mesi fa».

Il World Economic Outlook prevede che gli Stati Uniti avranno la più forte crescita tra i Paesi del G7 sia nel 2015 che nel 2016 (rispettivamente 2,6% e 2,8%), al secondo posto la Gran Bretagna. Nessun’altro, nel G7 – Germania, Francia, Italia, Giappone e Canada – secondo il Fondo Monetario, arriverà a una crescita del 2%. Non nel 2015 e neppure nel 2016.

E l’Italia? Male grazie. Nella tabella qui sotto si può notare come il nostro Paese – nella realtà  e in previsione – sia quello che va peggio degli altri. Peggio della Francia, della Spagna e della Germania (+0,8% nel 2015, 1,3% nel 2016), numeri che difficilmente riusciranno a restituire dinamicità a un mercato del lavoro che, fatte salve le assunzioni dovute al Jobs Act, che difficilmente creano nuovo lavoro, ma semmai lo stabilizzano, ha bisogno di milioni di posti.
Schermata 2015-10-06 alle 17.38.10

 

I conservatori britannici giurano: «Meno rifugiati e meno immigrati»

Alla conferenza del partito conservatore britannico a Manchester, la Home Secretary (la minostro degli Interni) Teresa May ha annunciato un piano per restringere il diritto di asilo nel Paese (“tough”, lo ha chiamato, “duro-tosto”).

La May ha anche ribadito la sua intenzione di tagliare il numero di persone che entra nel Paese per ragioni lavorative sotto i 100mila. Una promessa già fatta quattro anni fa all’avvio del primo governo Cameron, e smentita dai fatti: sotto Cameron il flusso di immigrati è continuato come e più che negli anni precedenti. «Con tanta immigrazione è imossibile pensare a una società coesa», ha detto May.

La Danimarca ha invece deciso di complicare la vita a rifugiati e immigrati che volessero richiedere la cittadinanza. Così facendo il Paese scandinavo si conferma il più chiuso nei confronti degli arrivi assieme alla Finlandia.

Il governo di centrodestra ha infatti introdotto nuove misure – in vigore dal 15 ottobre – che aumentano le necessità per chi fa domanda: più test linguistici e più requisiti finanziari (essere autosufficienti per quattro anni e mezzo) e rispondere correttamente all’80 per cento delle domande su temi di attualità danesi.

Inger  Støjberg, il ministro degli Interni, ha dichiarato che «l’acquisizione della cittadinanza danese è qualcosa di molto speciale, e pr questo è ragionevole alzare l’asticella di quando una persona può chiamarsi se stesso danese.». Per essere una delle patrie del welfare socialdemocratico, è un nazionalismo che spaventa. Del resto anche la legge sui ricongiungmenti familiari danese è pessima e quando è stata approvata ha diviso molte famiglie già residenti nel Paese.

«Troppe persone che hanno ottenuto la cittadinanza non parlano danese», ha detto Astrid Krag, del partito liberale Venstre.

Le regole entreranno in vigore il 15 ottobre, dopo un accordo è stato raggiunto tra Venstre, l’estrema destra danese, i conservatori,  l’Alleanza Liberale e i Socialdemocratici. Che inseguono malamente i loro avversari.

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”on” ][/social_link] @LeftAvvenimenti

 

Occupare le fabbriche? In Italia sono già 400. Ecco 10 esempi

«Oggi qualsiasi azienda che chiude è persa per sempre. Per difendere posti di lavoro e crearne di nuovi siamo pronti a utilizzare, democraticamente come abbiamo sempre dimostrato, determinate azioni», lo ha detto il segretario della Fiom Cgil Maurizio Landini, ai microfoni di Agorà su Raitre. Landini ha commentato così quanto accaduto ad Air France, dove i dipendenti hanno fatto irruzione nella sede del gruppo per protestare contro il nuovo piano aziendale, con il taglio di 2.900 posti di lavoro: 300 piloti, 900 assistenti di volo e 1.700 personale di terra.

Occupare le fabbriche? Sarei pronto a farlo per difendere il lavoro. Oggi qualsiasi azienda che chiude è persa per sempre. Per difendere posti di lavoro e crearne di nuovi siamo pronti ad utilizzare, democraticamente come abbiamo sempre dimostrato, determinate azioni. Il manager di Air France aggredito dai dipendenti è il segno delle difficoltà e delle disuguaglianze di questo momento. Prima la differenza di stipendio tra un manager e un operaio era di 20-30 volte, ora si è arrivati a 500-1.000 volte. Se il governo ha 5 miliardi, faccia investimenti anziché cancellare la tassa sulla prima casa, spenda queste somme per un piano straordinario di investimenti sul territorio che genererebbe posti di lavoro.

Postato da Maurizio Landini  Martedì, 6 Ottobre 2015

All’indomani del caso Air France –  mentre la foto del manager che scappa con addosso brandelli di camicia fa il giro del mondo – ecco una buona occasione per riportare l’attenzione sui “workers buyout”, o più semplicemente fabbriche recuperate. Dalla Rimaflow, Trezzano sul Naviglio, a Milano – che abbiamo visitato con Left lo scorso mese, il reportage lo trovate cliccando qui – al Birrificio Messina, che andremo a visitare il prossimo 15 ottobre nella città dello Stretto, sempre con il tour Mirafiori Lunapark. E ancora la Ncs di Rimini nata dopo il fallimento della Sia, la Nuova Bulleri Brevetti di Cascina a Pisa, la Raviplast di Ravenna. Di fabbriche recuperate in Italia ce ne sono già, Legacoop – che ne sostiene più di 30 con Coopfond – stima che siano 400 le aziende in fallimento  ripartite sotto forma di cooperativa, dando lavoro a quasi 700 persone. Ecco alcuni casi.

10 esempi di fabbrica recuperata in Italia

D.&C. Modellaria di Vigodarzere, Padova. Riuniti in una cooperativa, gli operai progettano e realizzano costruzioni di modelli per fonderie, in legno, resina, alluminio, ghisa e acciaio. Mischiando i saperi artigianali accumulati in trent’anni e l’uso di moderne tecnologie. Nel 2010, dopo il fallimento dell’ex Modelleria Quadrifoglio, i 12 ex lavoratori dell’azienda sono diventati cooperatori con il supporto finanziario di Legacoop-Veneto: hanno rilevato l’attività utilizzando l’anticipo dell’indennità di mobilità, come previsto dalla legge 223 del 1991 per intraprendere l’attività in cooperativa.

Calcestruzzi Ericina Libera, Trapani. Qui gli operai, anch’essi riuniti in una cooperativa, producono materiale per edifici, utilizzando un impianto di riciclaggio di materiali destinati alla discarica. La Calcestruzzi Ericina, confiscata alla mafia nel 2000, è stata gestita in amministrazione giudiziaria fino al 2009, quando è stata consegnata, come prevede la legge sull’uso sociale dei beni confiscati (La n.109 del 1996), a una cooperativa di 6 soci, già lavoratori dell’azienda prima del sequestro.

GresLab, Scandalino, Reggio Emilia. La cooperativa è nata dalle ceneri della ex-Optima spa, industria operante nel settore della ceramica. L’azienda in liquidazione è stata salvata dai 40 operai che si sono costituiti in cooperativa, con il supporto di Legacoop Reggio Emilia e il finanziamento di Banca etica.

Fonderie Zen, Albignasego, Padova. Nella fabbrica i 141 dipendenti fabbricano componenti per auto e macchine agricole. È uno degli stabilimenti del gruppo di Florindo Garro che nel 2008 contava più di 3mila dipendenti e un fatturato di 510 milioni di euro. Dopo due anni di amministrazione straordinaria, a cambiare il destino della fabbrica ci hanno pensato i lavoratori: circa 2mila euro a testa, per coprire una parte della liquidazione, la costituzione della cooperativa con un capitale sociale di 250mila euro e la parallela costituzione di una srl, tra i dirigenti dell’azienda. Cooperativa e società dei dirigenti hanno avanzato la proposta d’interesse per l’acquisizione della società che, valutata positivamente dal ministero, consente l’acquisizione.

Esplana Sud di Nola, Napoli. L’azienda di imballaggi per ortofrutta, dopo aver messo in cassa integrazione 120 operai, è stata occupata per cinque mesi. Poi si è passati all’autogestione. L’azienda, nel frattempo, veniva messa in liquidazione. Lo scorso aprile Carovana Coop, nata grazie a 40 ex dipendenti che hanno investito il loro trattamento di fine rapporto e l’indennizzo di mobilità, ha rilevato l’ex Esplana

Cantiere Navale di Trapani. I 32 lavoratori licenziati nel dicembre 2011, hanno promosso per otto mesi una campagna di raccolta fondi terminata con la costituzione della cooperativa Bacino di Carenaggio, come del resto avevano fatto qualche anno prima quelli della Cooperativa Cantieri Megaride di Napoli.

Art lining di Reggio Emilia, specializzati nella produzione di interni per cravatte, si sono costituiti in cooperativa dal 2008, i tre soci fondatori sono gli ex dipendenti di Lincra srl.

Vetreria, Empoli. Gli operai producono vetro soffiato, un mestiere sempre più raro. Perciò, oltre ad avviare un workers buyout, hanno avviato anche una scuola di formazione per giovani.

Cooprint, Colle Val d’Elsa, Siena. La tipografia, messa su nel dicembre del 2010 da 13 soci, che hanno rilevato le attività di una storica azienda toscana, Alsaba grafiche, da trent’anni nel settore della produzione tipografica e editoriale.

Ipt (Industria Plastica Toscana) di Scarperia, Firenze. Fabbrica recuperata negli anni 90, adesso è una cooperativa, producevano sacchetti e pellicole per pane, oggi hanno anche avviato un processo di conversione ecologica e si preparano a realizzare shopper biodegradabili.

argentina

Quel movimento argentino del 2001…

Nel 2001 il movimento dei disoccupati argentini apre a un nuovo immaginario l’intero sguardo del mondo: quello che supera la logica della proprietà privata. In Argentina, le aziende recuperate si sono rivelate uno dei progetti più durevoli emersi dalla crisi: 205 aziende recuperate, oggi tutte funzionanti. Fabbriche di cioccolata, scarpe, macchine da stampa, alberghi. Lo racconta bene il famoso documentario di Naomi Klein, The take (2004), e anche alcuni libri come «Sin patron» del Collettivo di giornalisti La Vaca (Carta e Gesco) e «Lavorare senza padroni» di Elvira Corona (Emi). L’ultima, e non per importanza, riflessione la affidiamo a Raúl Zibechi, scrittore e giornalista latinoamericano:

In queste iniziative il lavoro alienante non è più la forma dominante, grazie alla rotazione delle mansioni e alla consapevolezza acquisita dei lavoratori.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Davvero in Portogallo ha vinto l’austerity?

portogallo-ha-vinto-l-austerity

I titoli di molti giornali e media italiani e stranieri di ieri parlavano di una vittoria dell’austerity nelle elezioni portoghesi. In effetti la coalizione di centrodestra guidata da Passos Coelho ha vinto le elezioni.  E’ un ottimo risultato ma è condizionato da due fattori: il Partito socialista è quello che era al governo nel momento in cui la crisi è esplosa (come il Labour in Gran Bretagna e il Psoe in Spagna) e paga ancora le conseguenze di quella gestione; il premier socialista dell’epoca, Socrates, è appena uscito dal carcere, dove era finito per questioni di corruzione. I due fattori non hanno aiutato il partito oggi guidato da Antonio Costa, che pure ha guadagnato 4 punti. I risutati – non ancora proclamati – sono quelli rappresentati nella tabella della commissione elettorale portoghese.

Schermata 2015-10-06 a 9.31.39 AM

La lettura è semplice: la coalizione di governo perde circa 14 punti percentuali, i socialisti ne guadagnano 4 e la sinistra, divisa in due, 5. La coalizione uscente non ha una maggioranza, l’opposizione alla sua sinistra guadagna 21 seggi.

L’idea quindi che il voto portoghese sia una promozione dei pacchetti imposti da Bruxelles è quindi un po’ fuori fuoco. Del resto la povertà è al 20%, il Paese ha perso quasi mezzo milione di persone emigrate in quattro anni e da quando il Pil è tornato con il segno più non ha mai superato l’1,5% di crescita, che non serve a recuperare il baratro degli anni precedenti. Anche nel Paese iberico serviranno molti anni per tornare al pre-crisi, difficile sostenere che l’austerity abbia pagato. Cosa mancava al Portogallo? Un’alternativa reale e al contempo credibile, probabilmente.

Anche in Spagna, dove si vota il 20 dicembre, si dice che Rajoy potrebbe tornare a vincere le elezioni. Si dirà anche in quel caso che il voto è un successo le politiche di austerity? La verità è che i sondaggi spagnoli di queste settimane danno i numeri – ce n’è persino qualcuno che assegna la vitttoria relativa ai socialisti. E che anche nel caso in cui Rajoy finisse in testa, il voto sarebbe molto anti austerity e anti classe dirigente tradizionale. Anche qui infatti tra socialisti, Podemos e Ciudadanos ci sarebbe un risultato intorno al 60% – a cui vanno aggiunte le forze localiste, spesso di sinistra. Altra certezza: i due partiti che alternandosi hanno guidato la Spagna dalla morte di Franco a oggi, perderebbero voti rispetto alle elezioni del 2011. Tra l’altro Rajoy, che si avvicina alle elezioni, è sotto la lente di Bruxelles per i mancati tagli e un deficiti più alto di quanto promesso.

pollofpolls

(La media dei sondaggi al 4 ottobre, negli ultimi due effettuati Ciudadanos sopra Podemos)

Intanto in Gran Bretagna Corbyn ha vinto la battaglia per la leadersip laburista e gli scozzesi (anti-austerity) dello Scottish National Party hanno fatto il pieno alle ultime elezioni. Due segnali ai quali si accompagna però la vittoria per Cameron nel voto di maggio. E in Francia la promessa mancata di Hollande di rompere con l’austerity alimenta i consensi al Front National e ai repubblicani di Sarkozy.

Ogni Paese europeo ha le sue forze politiche e le sue vicende interne diverse. E i suoi guai. Se c’è una certezza, è che, da Orban alla destra danese, da Podemos al Bloco de Esquerda portoghese, a crescere nei consensi in giro per il vecchio continente sono le forze fuori dalla grande coalizione che ha costruito l’Europa (socialisti/popolari/liberali). Che poi le socialdemocrazie non abbiano saputo dare un’alternativa credibile ai partiti popolari e conservatori non è una sorpresa. E’ per questo che alcuni partiti vincono nonostante tutto. Lo ha scritto bene Walter Munchau sul Financial Times una decina di giorni in un articolo mlto ripreso anche in Italia:

Lo spostamento a destra (delle socialdemocrazie) ha funzionato, inizialmente. Ha portato alle vittorie di Tony Blair in Inghilterra nel 1997 e di Gerhard Schröder in Germania nel 1998. Blair venne rieletto due volte; Schröder una. Queste vittorie hanno creato lo stereotipo ancor oggi in voga fra i dirigenti politici di centrosinistra: quello secondo cui si possono vincere le elezioni solo su posizioni di centro.
Poi sono arrivate le crisi finanziarie e politiche (…) Dopo aver abbandonato i tradizionali strumenti di gestione della politica macroeconomica, il centrosinistra era rimasto privo di alternative. Così, quando la crisi del capitalismo globale ha offerto un’occasione da non perdere, i suoi leader non hanno saputo coglierla. Hanno salvato le banche, invece di nazionalizzare. Hanno imposto l’austerità. Non avevano nulla di originale da dire.

Il tema è questo. L’alternativa di governo a sinistra non ha idee e non si presenta come un cambiamento. Per questo i partiti popolari al potere arrivano primi alle elezioni nonostante abbiano imposto pacchetti di austerity. E per questo quei partiti di sinistra non associati alle politiche di austerity, ma anche capaci di guardare al futuro, prendono molti voti. Ma da qui a dire che con le vittorie come quella del governo portoghese lo scenario è cambiato e si torna al business as usual nel quale le grandi famiglie politiche europee riprendono il centro della scena da sole, ce ne passa. Magari sarebbe anche rassicurante (specie guardando alla Francia), ma non è così: il panorama politico europeo è destinato a rimanere instabile per qualche tempo.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link] @minomazz

Scuola e università: il 9 ottobre “Vogliamo potere” studiare

Si chiama “Manuale per una scuola ribelle” ed è una sorta di vademecum per una “sana” contestazione contro la Buona scuola. È diviso in tre parti: nella prima sono contenute informazioni sulla legge 107 perché per contestare bisogna prima conoscere. Nella seconda, si suggeriscono gli strumenti per difendere i propri diritti – dalla didattica all’autogestione – e infine, nella terza, le pratiche di lotta: non solo occupazioni e assemblee ma anche organizzazioni di eventi culturali e proiezioni di film, perché no. Il Manuale (qui) è un po’ il segno della nuova stagione di protesta degli studenti che comincia con la mobilitazione del 9 ottobre. «Se ti rassegni e pensi solo a boicottare si sgonfia tutto», dice Danilo Lampis, coordinatore nazionale dell’Uds (Unione degli studenti). «Bisogna invece trovare attraverso proposte di progetti e di attività, un meccanismo di speranza. All’autoritarismo non si risponde indurendosi, magari in maniera stupida, ma favorendo la partecipazione», continua Lampis che cita la frase che campeggerà nelle magliette di quest’autunno: « È di Ludovico Geymonat e dice: “L’importante è la contestazione e la creazione” ».

 I punti critici della legge 107 che gli studenti contestano

Al primo posto i comitati di valutazione, a cui prendono parte anche gli studenti, com’è noto. Dai comitati dovranno essere “scelti” i prof che poi riceveranno il bonus in denaro. «Stiamo vedendo che c’è un certo ritardo nella formazione dei comitati e lo notiamo con piacere perché propugnano idee punitive e premiali», continua il rappresentante dell’Uds. Gli studenti non ci stanno a «diventare carnefici dei docenti» e propongono come alternativa incontri bimestrali – senza genitori, anche loro nel comitato – in cui magari si evidenzino gli eventuali deficit degli insegnanti da valutare. Il secondo punto critico è l’erogazione dello School bonus, attraverso cui i privati possono erogare denaro e ricevere detrazioni fiscali del 65 per cento. Questo crea disuguaglianze tra scuole e territori. Altro punto critico: l’alternanza scuola-lavoro, per il triennio dei licei di 200 ore, mentre per i tecnici di 400 ore. «Qui il rischio è che si aprano percorsi dequalificanti, magari anche nel periodo estivo. Occorre la garanzia della presenza di un tutor dentro l’azienda e che ci sia un codice etico per le imprese. E vogliamo una carta dei diritti degli studenti. Noi non siamo contro il saper fare ma siamo contro l’andare a imparare un mestiere», conclude Danilo Lampis.

Scuole superiori e università insieme

Per il 9 ottobre sono già previsti un centinaio di cortei nelle città, con una mobilitazione che vede partecipare insieme – von lo slogan “Vogliamo potere” – sia gli studenti delle scuole superiori, che quelli universitari. Il diritto allo studio è diventato ormai un’emergenza, visto che in dieci anni in Italia si è verificato il crollo delle immatricolazioni: ben 80mila in meno. Ogni anno 40mila studenti che hanno tutti i requisiti per avere la borsa di studio rimangono esclusi perché non ci sono soldi a sufficienza. In più adesso, con il nuovo Isee, la quota di studenti non garantiti sarà maggiore. Ma il Ministero, per il momento, nonostante incontri e sollecitazioni e anche dichiarazioni da parte del ministro Giannini, non passa ai fatti. Il diritto allo studio negato fa sì che siamo ultimi in Europa per numero di laureati, con il 22 per cento, rispetto alla media europea che è del 37 per cento.

L’assemblea della Flc Cgil

Di diritto allo studio si è parlato molto anche all’assemblea nazionale della Flc Cgil dell’1 e 2 ottobre (qui i video). Il sindacato ha aderito sia alla manifestazione del 9 ottobre che a quella per il reddito e contro la povertà del 17 ottobre. E sia Francesco Sinopoli nell’introduzione che Domenico Pantaleo in chiusura hanno ricordato la necessità di garantire lo studio a tutti, anche a chi non può per motivi economici. Un “salto culturale” per il sindacato, è stato sottolineato più volte. All’assemblea Alberto Campailla portavoce di Link- Coordinamento universitario ha dipinto, dati alla mano, un quadro drammatico. I beneficiari di borse di studio in Italia sono il 10 %, rispetto al 19 % della Spagna e il 27 % della Francia. Uno studente su quattro ha i requisiti ma non riceve nulla; tra l’altro tutto questo avviene a macchia di leopardo, visto che ogni regione ha il proprio “tetto” per il Dsu. Una situazione difficile che al di là delle cifre si manifesta, ha detto Campailla, «nel numero chiuso e nello sbarramento all’accesso di metà delle facoltà e nel grande tema della didattica che così com’è, oppressa dai tagli, impedisce la formazione di un pensiero critico». Che poi è il problema dei problemi. Come ha ricordato il professor Paolo Rossi, membro del Cun (Consiglio universitario nazionale) citando Orwell, «a un Paese ignorante si possono raccontare frottole». Ma la conseguenza – forse non sufficientemente analizzata dai governi – «è che una popolazione non formata non produce idee a livello di imprese innescando così una spirale negativa». Molto semplice: i mancati investimenti oggi nell’istruzione, ricadranno a mo’ di valanga sul futuro sviluppo economico.

L’Annunciazione di padre Charamsa

ANSA/ LUCIANO DEL CASTILLO

Conferenza stampa, un libro in uscita, un blog aperto a fine agosto e un coming-out alla vigilia di uno degli appuntamenti più importanti dell’universo cattolico, il sinodo sulla famiglia: il sacerdote polacco Krzysztof Charamsa presenta al mondo il suo compagno, seguendo il perfetto schema di lancio di una casa di produzione cinematografica. Annuncia convivenza e omosessualità, e rincara con una frase che non può lasciare indifferenti: «È il momento che la Chiesa apra gli occhi e capisca che la soluzione che propone, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana». E rilancia l’intento di apripista: «Dedico il mio coming out ai tantissimi sacerdoti omosessuali che non hanno la forza di uscire dall’armadio».

Com’è naturale, il dibattito si apre, e altrettanto prevedibilmente, la Chiesa boccia, per tramite del direttore della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, l’«indebita pressione mediatica sul Sinodo» esercitata dell’exploit del teologo, che «non potrà continuare a svolgere i compiti precedenti presso la Congregazione per la dottrina della fede (di cui era ufficiale, ndr) e le università pontificie (presso le quali era docente)». Gli altri aspetti della sua situazione «sono di competenza del suo ordinario diocesano», monsignor Ryszard Kasyna, vescovo di Pelplin, che ha già ammonito il prelato a «tornare sulla via del sacerdozio di Cristo».

Temi principali della XIV Assemblea generale ordinaria dei vescovi (istituita da Paolo VI nel 1965), che ha iniziato i lavori stamattina per concludersi il 25 ottobre: l’ammissione alla comunione per i divorziati risposati, le coppie di fatto e l’omosessualità, la contraccezione. A cui si aggiungerà il tema della castità per i prelati? No signore: «l’assise vaticana e le vicende mediatiche sono questioni separate», ha chiarito l’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. I 270 padri sinodali, provenienti dai 5 continenti, si guarderanno bene dal discutere un’uscita che non può che essere stroncata sul nascere. Ne è riprova il quasi silenzio delle testate cattoliche, che riportano in sordina non la notizia, quanto il commento del portavoce del Vaticano, in secondo piano.

Il punto è: all’interno di un’istituzione che deve al controllo e ai dogmi indiscutibili la propria tenuta, nell’era della comunicazione immediata e senza limiti, che riverbero può avere una dichiarazione del genere?
La ricaduta a pioggia sulle comunità più piccole potrà portare altri preti a uscire allo scoperto, o al contrario, l’epilogo potrebbe essere quello di un oscurantismo di ritorno, proprio in risposta alle modalità spettacolari e clamorose dell’annuncio?

La dottrina cattolica, così come la giurisprudenza e la morale, deve suo malgrado a un certo punto avvicinarsi alla realtà, se vuole continuare a svolgere la sua funzione di barometro valoriale di riferimento (quantomeno per i suoi fedeli). E, il nome di questa realtà, che senso ha mantenere il celibato e soprattutto il voto di castità in maniera assiomatica, quando moltissimi rappresentanti della Chiesa cattolica, intrattengono relazioni (etero o omosessuali)? Ha ancora un senso ai giorni nostri imporre il voto di castità ai sacerdoti?

È possibile immagine una Chiesa che comprenda la pratica dell’amore, anche nei fatti e anche per i suoi rappresentanti?

Dal Tpp al Ttip. Fatto un patto se ne fa un altro?

Tre milioni di cittadini europei hanno firmato per dire “stop” all’accordo di libero scambio e investimenti tra Unione Europea e Stati Uniti: il Transatlantic trade and investment partnership, il Ttip. Ma anche al trattato di libero scambio e investimenti tra Canada e Unione Europea. Intanto Obama porta a casa l’altro super-trattato commerciale, quello transpacifico, che vale da solo il 40% dell’economia mondiale. Per liberalizzare un altro 50% del Pil mondiale (naturalmente Usa e Canada sono conteggiati in entrambi i casi), il ponte da fare è quello sull’Atlantico, quello con l’Unione europea, il Ttip appunto. E una volta incassato il successo, ci sono serie possibilità che gli States decidano di dedicarsi anima e corpo.

TPP Export Graphic

Dati della commissione Finanze del Senato Usa

Barack Obama – questa mattina, 5 ottobre – ha portato a casa l’intesa di libero commercio del Pacifico, quella che coinvolge i suoi Stati Uniti e altri undici Paesi: Giappone, Australia, Brunei, Canada, Cile, Malaysia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Il Trans-Pacific Partnership Tpp, Trattato di libero commercio e investimenti transpacifico. Dopo anni di negoziati, quindi, è giunta a termine l’intesa che riguarda il 40% dell’economia mondiale. Una vittoria per Obama, che aveva messo questo trattato al centro del suo secondo mandato. Manca solo un piccolissimo passo, il vaglio del Congresso, dopo di che gli Stati Uniti potranno il più grande accordo commerciale concluso dai tempi del Nafta, l’area di scambio del Nordamerica entrata in vigore nel 1994.

ttip21

La mobilitazione. Dal 10 al 17 ottobre, la Settimana europea

Se i Grandi procedono, gli oppositori incalzano. All’indomani delle tre milioni di firme raccolte – la campagna è chiusa ufficialmente il 6 ottobre – l’Iniziativa autorganizzata dei Cittadini Europei rilancia e indice, in tutta Europa, la Settimana europea di mobilitazione: dal 10 al 17 ottobre. Sabato 10 sarà una giornata di eventi delocalizzati in gran parte dell’Unione, la più grande delle manifestazioni è attesa a Berlino. Anche in Italia si terranno numerose iniziative e il calendario è in continuo aggiornamento. Dal 15 al 17 ottobre a Bruxelles – in occasione del Vertice europeo – scenderanno in piazza i movimenti che si battono contro il Ttip e quelli contro l’austerità. Anche negli Stati Uniti si protesterà,  il 14 ottobre con una giornata d’azione sull’impatto dei cambiamenti climatici.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla