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Brian Eno negli archivi di John Peel

Brian Eno si aggira tra gli archivi che furono di John Peel, tra i Dj radiofonici più importanti di sempre, e protagonista (post mortem) delle John Peel Lectures in diretta dalla British Library per onorare uno dei più grandi broadcaster britannici di tutti i tempi. Uno che ha sempre lavorato per la radio pubblica perché, come spiegava, .
Tanti sono stati infatti gli artisti e le band che nel corso dei quarant’anni di messa in onda del programma (1967-2004) hanno poi ricevuto, da appena conosciute che erano, la consacrazione al successo internazionale. Il format era semplice, ma geniale: Peel ospitava in trasmissione una band per un mini – concerto di quattro pezzi. Alcune avevano già un contratto o un singolo in uscita, altre avevano semplicemente mandato un demo-tape agli studi Bbc. Qualche nome? I Pink Floyd, Siouxsie and the Banshees, gli Smiths, i Pulp, Billy Bragg, i Joy Division, PJ Harvey. Molti di quei concerti in miniatura furono poi incisi su un disco su una collana dedicata.

E Brian Eno è lì che,  rispolvera i dischi che furono di John Peel e, nel mentre, in un lungo flusso di coscienza interrotto solo dalle canzoni, si racconta. Del resto lo stesso Eno è una delle pietre miliari della storia della musica: esordisce insieme a Robert Fripp, l’allora leader dei King Crimson,verso l’inizio degl anni ’70, ma senza mai apparire sul palco e rimanendo dietro il sintetizzatore, sua grande passione. Successivamente la collaborazione con Fripp diviene un vero e proprio sodalizio al punto che nascono album come No Pussyfooting, Evening Star e Taking Tiger Mountain, i quali hanno consacrato Eno al successo internazionale.

In seguito Eno cambia rotta e si abbandona a sonorità più evocative ed elettroniche, abbandonando il rock acido e distorto dei primi tempi e arrivando a capolavori come Before and After Science, album questo che lo rese un fenomeno raffinato e di massa al contempo. Evidenetemente però la musica non era sufficiente a Mr. Eno, non era abbastanza. Al punto che vestì anche i panni di produttore discografico, consegnando al successo star internazionali come David Bowie, il duca bianco, gli U2 e i Talking Heads, tanto per citarne alcuni. Negli ultimi anni la musica di Eno è cambiata completamente rispetto agli inizi: così come Violetta ne La Traviata di Verdi, Eno non canta più. Ormai già da qualche anno. E, polistrumentista eclettico quale è, si dedica esclusivamente alla musica strumentale e cosiddetta ambient.

E negli studi di John Peel gli sembra di rivivere il passato in una sorta di reverie a occhi aperti: si racconta, Eno, parla di sè, delle sue scoperte e dei suoi esordi. Della prima volta che ha ascoltato i Velvet Underground , e ciò avvenne proprio grazie alla trasmissione londinese di Peel «non avevo mai sentito una band come quella», racconta mentre mette su il vinile del celebre The Velvet Underground & Nico con I’m Waiting for the Man. «Non ricordo quando li sentii la prima volta. Dev’esser stato nell’agosto del 1967, e fu come un fulmine per me. A quei tempi nessuno passava la loro musica in Inghilterra.»

Ma Eno non manca di trascurare i tempi in cui si esibiva insieme a Robert Fripp in vesti decisamente più eccentriche di quelle attuali: capelli arancioni e pantaloni in spandex. Parliamo degli anni, appunto, di No Pussyfooting e di Evening Star, in cui già si intravedevano le influenze elettroniche e ambient a cui poi Eno sarebbe approdato più tardi.

Ed è proprio No Pussyfooting l’album al centro di un aneddoto che lo lega a Peel: «Quest’album conteneva due pezzi molto lunghi su ogni lato del disco. Peel lo mise su, ma al contrario» , racconta Eno facendosi una grand risata, e prosegue: «allora noi gli facemmo una casetta di venti minuti e gliela mandammo ma anche quella la mise all’indietro. Un intero album di venti minuti all’indietro. Durante la trasmissione, che stavo ascoltando, ho telefonato dicendo “Oddio, ma il mio disco è stato messo al contrario!”, ma la receptionist non mi credette. Un’ora e mezzo più tardi poi Peel mise su l’altro lato, anche quello all’indietro.». (qui la registrazione della trasmissione con No Pussyfooting al contrario)

Se parla di Peel, invece, Brian Eno torna serio: «Penso veramente che sia stato l’unica persona a quei tempi che ha capito che la popular music era anche qualcosa di serio, e non una sciocchezza per ragazzini. ». Va da sè l’importanza delle John Peel Sessions: sono state un luogo importantissimo dove la gente ha realmente potuto conoscersi e conoscere tanti generi musicali. «Erano veramente il centro di qualsiasi cosa ruotasse attorno alla musica». E continua: « E’ strano, John Peel mi è sempre piaciuto, l’ho solo incontrato varie volte, ma non si può dire che io l’abbia mai conosciuto veramente. Sento di averlo conosciuto molto meglio ora per quel che era come persona.» E noi non possiamo che essere d’accordo con lui.

Ma è un fiume in piena, Eno, e in quel guscio protetto che sono gli studi radiofonici di John Peel si lascia andare a considerazioni sull’arte e la cultura: «rappresentano un luogo protetto dove si ha la possibilità di provare sentimenti estremi, a volte anche pericolosi.», afferma con fermezza. «Costituiscono una sorta di “simulatore” nella vita delle persone, consentendo loro di uscir fuori dalla ragione. Penso che dobbiamo ripensare il modo in cui parliamo di cultura, – continua –  ripensare a cos’è e a che valore ha per noi. C’è invece molta confusione a riguardo.».

E ancora: «Viviamo in una cultura che sta cambiando in maniera così incredibilmente veloce» che ci sono più cambiamenti in un mese dei giorni nostri che nell’intero quattordicesimo secolo. «Dobbiamo trovare il modo di essere in sintonia fra di noi e di rimanere coerenti e – aggiunge – penso che sia proprio ciò che la cultura sta facendo per noi.». Mr. Eno parla infatti della cultura come un “insieme di rituali collettivi” ai quali ognuno può legarsi a modo suo. Il re dell’ambient poi non lesina di rivolgere critica all’attuale modalità, più o meno tacita, di pensare all’arte e alla cultura: secondo Eno, infatti, regna il primato della scienza e della tecnologia, «tutte cose con le quali mi trovo in perfetta sintonia e che mi interessano molto», ma che non possono essere ritenute come l’unico centro della cultura.

«C’è l’idea che sono solo quelle le cose importanti, che sono un ingranaggio fondamentale della macchina economica e che sono le uniche cose che hanno reso grande la Gran Bretagna.». E prosegue: Dall’altra parte, le arti, sono relegate a una sorta di nicchia, a un lusso di cui tu puoi godere solo dopo aver sgobbato di duro lavoro.». Mentre invece «penso che anche l’arte e la cultura vadano riconosciute come entità economiche».

Vaccinazioni in calo, Italia peggio dei Paesi dell’est

Il calo dei vaccini è un fenomeno sempre più diffuso in Italia e nel mondo. Secondo le recenti dichiarazioni di Claudia Stein, direttore della divisone informazione dell’Oms Europa, ormai la percentuale di bambini vaccinati nel nostro Paese sta diventando inferiore a quella registrata nell’Est Europa. Le regioni dove la flessione è più consistente sono Marche, Abruzzo, Valle d’Aosta e, nel caso del morbillo, anche la Puglia. Secondo i dati forniti dal ministero della Salute, diminuiscono in particolare proprio i vaccini contro morbillo, seguiti da quelli per parotite e rosolia, subendo una contrazione del 4% rispetto all’anno precedente.

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Qual è l’identikit di chi sceglie di non vaccinare il figlio?

Una ricerca condotta dalle università tedesche di Erfurt e Aquisgrana, in collaborazione con l’americana Rutgers University, pubblicata sulla rivista Policy Insights from the Behavioral and Brain Sciences ha rivelato che i profili dei contrari alle vaccinazioni sono: disinteressati, pigri, calcolatori e, soprattutto, male informati. Secondo lo studio ridurre il pericoloso calo dei vaccini richiede lo sviluppo di attività di informazione, sensibilizzazione e facilitazione.
Soprattutto è necessario diffondere la consapevolezza che alcune malattie hanno ridotto la loro aggressività e la diffusione, ma questo non significa che siano state debellate. In Italia per esempio dall’inizio del 2013 sono stati segnalati 4094 casi di morbillo, di cui 2258 nel 2013, 1696 nel 2014 e 140 nei primi sette mesi del 2015; il 30% dei casi segnalati è stato ricoverato in ospedale e il 25% ha avuto almeno una complicazione.
La flessione costante del numero di vaccinazioni rischia quindi di riesumare virus che non incontravamo da parecchi anni. A provarlo ad esempio un caso registrato in Spagna dove a giugno un bambino è morto a causa della difterite.


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Chi ha paura dei vaccini?

di Pietro Greco


Ritorna la pertosse, primi morti

Tra la malattie “dimenticate” che stanno tornando a colpire a causa del calo delle vaccinazioni c’è anche la pertosse. A ricordarlo è Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di Pediatria, commentando i dati del ministero e dell’Oms e l’allarme lanciato sul tema dall’Istituto Statale della Salute presieduto da Walter Ricciardi. «Come pediatri siamo preoccupati per questo pericoloso fenomeno e per i danni che sta provocando sulla salute dei bambini – dichiara Corsello – Stiamo assistendo al ritorno di malattie che credevamo debellate. Un esempio tra tutti è la morte di bambini per pertosse, malattia che sta avendo una recrudescenza nei bambini nei primi mesi di vita, proprio per il calo della copertura vaccinale». E la cosa non stupisce visto che sono in calo anche i vaccini dei bambini da 0 a 2 anni per polio, tetano, difterite, epatite B e appunto: pertosse. In questo specifico caso la percentuale dei vaccinati si aggira attorno al 94,6%, inferiore quindi al 95% fissato come livello minimo dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale.
Per contrastare il fenomeno, sensibilizzando e informando correttamente, la Società Italiana di Pediatria ha deciso di dedicare gli Stati Generali della Pediatria, previsti per il 19 novembre, proprio al tema delle vaccinazioni.

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Di che parliamo quando diciamo “famiglia”? Matrimoni, divorzi e figli nati fuori dal sacro vincolo in Italia, Europa e Stati Uniti

Di che parliamo quando parliamo di famiglia? Se chiedeste a Giovanardi non avrà dubbi: un uomo, una donna e, possibilmente tre-quattro figli. La verità è più complessa, oggi le famiglie sono mille cose diverse e cambiano a causa delle leggi, delle dinamiche sociali, dell’andamento dell’economia. E’ sempre stato così, anche se ce la raccontiamo in un altro modo. Declino della popolazione, declino della famiglia, calo costante del numero di matrimoni. Non sarà il Sinodo che conviene oggi a Roma a scoprire che la famiglia intesa come coppia sposata ed eterosessuale è sempre meno una rappresentazione del mondo reale. Sono i dati a raccontarlo e persino i nove giudici della Corte Suprema Usa, fatta a maggioranza di conservatori, ha dovuto riconoscere, emettendo una sentenza sul matrimonio omosessuale, che la legge deve definire ciò che esiste, evolvere con la società.
I dati Onu – che la chiesa parla al mondo – indicano come il numero di matrimoni sia in declino quasi ovunque (in più dell’80% dei Paesi), che l’età del matrimonio avanza, cresce il numero di unioni consensuali, così come il numero di divorzi. Naturalmente, parlando di mondo, cultura, religione e giurisprudenza modificano il quadro di Paese in Paese.

Di che famiglia parliamo allora? Vediamo cosa ci dicono i dati relativi alla famiglia italiana, europea e americana.

Gli ultimi dati diffusi dall’Istat sono relativi al 2013 e sono inequivocabili. Per la prima volta si scende sotto i 200mila matrimoni e, naturalmente, se non ci fossero gli immigrati il numero di famiglie tradizionali sposate sarebbe più basso di quanto già non sia.

A diminuire sono soprattutto le prime nozze tra sposi di cittadinanza italiana: 145.571 celebrazioni nel 2013, oltre 40 mila in meno negli ultimi cinque anni. Questa differenza spiega da sola il 77% della diminuzione osservata per il totale dei matrimoni nel 2008-2013. I matrimoni in cui almeno uno dei due sposi è di cittadinanza straniera, dopo il recupero del 2012, scendono di nuovo tornando al livello di circa 26 mila (pari al 13,4% delle nozze celebrate nel 2013).

La diminuzione si deve sopratutto alle nozze tra stranieri. I matrimoni misti, cioè quelli in cui un coniuge è italiano e l’altro straniero, ammontano a 18.273 nel 2013. La tipologia prevalente è quella in cui è la sposa ad essere di cittadinanza straniera: 14.383 nozze (il 78% di tutti i matrimoni misti). Una sposa straniera su due è cittadina di un paese dell’Est Europa (Ue e non-Ue).

Diminuiscono anche i matrimoni successivi al primo, scendendo da 34.137 del 2008 a 30.691 del 2013, ma il ritmo della flessione è più contenuto di quello delle prime nozze. Pertanto, la loro quota sul totale continua ad aumentare, dal 13,8% del 2008 al 15,8% del 2013.

Veniamo all’Europa, con questo grafico Eurostat è di facile interpretazione, la curva che sale è quella dei divorzi e quella che scende, più rapidamente di quanto non salga l’altra, è quella dei matrimoni.

matrimoni e divorzi in Europa

In Europa aumenta in maniera crescente anche il numero di figli nati fuori dal matrimonio, come si legge sul sito Eurostat:

Circa il 40% dei bambini sono nati fuori dal matrimonio nel 2012, mentre la cifra corrispondente per il 2000 era del 27,3% . Le nascite extra-coniugali sono aumentate in quasi tutti gli Stati membri dell’UE-28 nel corso del 2012 rispetto al 2011, con l’eccezione dell’Estonia. In sette Stati membri la maggior parte dei nati è fuori dal matrimonio. Una percentuale ancora maggiore di nati vivi fuori dal matrimonio è stata registrata nel 2012 in Islanda (66,9%). I Paesi del Mediterraneo (Grecia, Croazia, Cipro, Italia e Malta), assieme con Polonia e Lituania sono all’altra estremità della scala, con oltre il 70%, delle nascite che si è verificata all’interno del matrimonio.

Che poi nei Paesi scandinavi il tasso di matrimoni sia calato meno che altrove, che in media si facciano più figli e che, sempre in quei Paesi, sia in media più facile divorziare, ci dice quanto pesino l’organizzazione di un welfare efficiente e una legislazione laica.

Anche negli Stati Uniti il matrimonio tradizionale è in calo. Nel 1990 le persone mai sposatesi erano intorno al 25%, nel 2012 il 40%, mentre i divorziati e separati, erano l’11% nel 1990 e il 14% nel 2012.

Rising Share of Never-Married Adults, Growing Gender Gap
Aumenta in maniera esponenziale le coppie provenienti da esperienze di matrimonio precedente: nel 2013 erano il 40% del totale.

Four-in-Ten New Marriages Involve Remarriage
Interessante anche l’inchiesta campionaria fatta dal Pew Research Center sull’idea di famiglia nella comunità LGBT americana.

Una netta maggioranza di adulti LGBT e il pubblico in generale concordano sul fatto che amore, compagnia e prendere un impegno per tutta la vita siano ragioni molto importanti per sposarsi. Tuttavia, gli intervistati LGBT sono due volte più propensi del pubblico in generale a parlare dll’importanza del matrimonio come momento dell’ottenimento di diritti e benefici (46% contro 23%).

Un altro caso in cui il tema è la legislazione e non l’affettività in generale a essere il tema. La questione non è rendere difficile il divorzio, impedire alle persone di avere diritti uguali per tutti tema ma la percezione diffusa di cosa sia lo stare assieme. Una percezione che cambia.

Di famiglia come costruzione sociale e storica Left aveva parlato con Chiara Saraceno su un numero di Left del 2014. La sociologa autrice di Coppie e famiglie (Feltrinelli, 2012), ecco due delle risposte che diede allora a Donatella Coccoli.

Non è mai stato giusto, perché non c’è niente di meno naturale della famiglia. Il che non vuol dire che è innaturale, certo. Ma la famiglia è una costruzione sociale, legale e normativa. Sono le norme che definiscono quali rapporti di sesso o di generazione sono familiari oppure no. E se noi guardiamo la famiglia da un punto di vista antropologico e storico scopriamo che il modo in cui questo processo normativo è avvenuto è variato molto nel tempo e nello spazio. Ancora fino all’altro ieri, per esempio, si distingueva fra legittimi e naturali. E qui il termine naturale vale meno di legittimo. (…)

La famiglia è cambiata dentro l’eterosessualità del matrimonio proprio nei contenuti, negli obiettivi che ci si aspetta. Il motivo per cui oggi le persone omosessuali si sentono legittimate a considerarsi famiglia è fondato sulle trasformazioni della coppia eterosessuale. Nel momento in cui questa trova la giustificazione – parlo dell’Occidente democratico – nell’affettività reciproca, nella simmetrica uguaglianza, e non necessariamente nella riproduzione, che differenza c’è?

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Un autunno d’arte: da Malevich a Klee a Lautrec, le mostre da non mancare

Malevic, Sportivi, 193

L’avanguardia di Kazimir Malevič apre uno straordinario autunno d’arte in Italia. Dal 2 ottobre fino al 17 gennaio 2016 alla GAMeC ,Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo, una importante retrospettiva dell’artista russo curata da Eugenia Petrova, vice direttore del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, e da Giacinto Di Pietrantonio. L’esposizione presenta circa 70 opere del suprematista Malevič, accanto a pitture di altri protagonisti del primo Novecento. Per la prima volta in Italia, la riedizione de La Vittoria sul Sole, prima opera di arte totale di musica, arte, poesia e teatro, creata da Malevič con Matjusin e Krucenych.

Paul klee al Man
Paul Klee, al Man

Il mondo magico di Paul Klee. Dal 30 ottobre al 14 febbraio 2016 il Man di Nuoro ospita cinquanta opere di Klee, tra dipinti, acquerelli e disegni provenienti da collezioni svizzere e tedesche. Curata da Pietro Bellasi e Guido Magnaguagno, con il coordinamento scientifico di Raffaella Resch, la mostra ripercorre tutta la carriera di questo complesso e per certi versi controverso artista. Filo rosso della mostra, il tema del principio vitale, generativo della natura che attraversa tutta l’opera di Klee, fra astratto e figurativo deformato e fiabesco.

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Lautrec in Palazzo Blu a Pisa

La Montmartre di Toulouse Lautrec. Dal 16 ottobre nelle sale di Palazzo Blu a Pisa una interessante retrospettiva dedicata al bozzettista e artista francese che raccontava con sguardo partecipe e implacabile la Bohème parigina. Fino al 14 febbraio 2016 nella città toscana una ridda di suoi ritratti che mettevano in luce la disforia sottesa a forsennate notti nei locali di Parigi della Belle Epoque. La mostra, curata da Maria Teresa Benedetti a Pisa, trova poi un seguito ideale dal 3 dicembre al 3 maggio 2016 nella retrospettiva dedicata all’artista francese che si terrà all’Ara Pacis di Roma.

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Monet alla Gam di Torino

L’attimo fuggente degli impressionisti. Dal 2 ottobre al 31 gennaio la Gam di Torino presenta una retrospettiva dedicata a Monet, grazie a prestiti del museo d’Orsay. Dai primi esperimenti en plein air alle ultime suggestive visioni che fanno naufragare la visione retinica e razionale del mondo in un bagno di luce. Per chi poi volesse continuare il viaggio nell’Impressionismo, l’appuntamento è poi  al Vittoriano a Roma, dal 15 ottobre con Impressionisti Tête-à-tête che propone in un percorso di sessanta opere, un ritratto della società parigina della seconda metà dell’Ottocento. E poi dal 29 ottobre al museo di Santa Caterina a Treviso con la Storia dell’impressionismo. I grandi protagonisti da Monet a Renoir, da Van Gogh a Gauguin: 120 opere dai maggiori musei francesi e d’Europa. Infine: agli ultimi esiti dell’impressionismo, dal divisionismo alla rivoluzione del colore di Van Gogh è invece dedicata la mostra Seurat, Van Gogh, Mondrian, a Verona, al 30 ottobre al 13 marzo 2016: in Palazzo della Gran Guardia 80 opere provenienti dal Kroller Muller Museum

Van Gogh in Palazzo Strozzi
Van Gogh in Palazzo Strozzi

La bellezza è “sacra”? Fino al 24 gennaio 2016 in Palazzo Strozzi a Firenze la mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana, interroga il rapporto tra arte e sacro, tra metà Ottocento e metà Novecento, attraverso oltre cento opere di celebri artisti. Dalla stagione ancora figurativa di  Felice Casorati, a quella astratta du  Lucio Fontana ed Emilio Vedova, inanellando nel percorso capolavori di artisti internazionali come Vincent van Gogh,  del suo maestro ideale Jean-Francois Millet, e poi di Edvard Munch, Pablo Picasso, Max Ernst, Henri Matisse e molti altri.

Brueghel a Bologna
Brueghel a Bologna

L’arte fiamminga di Brueghel. La famiglia dei grandi maestri d’inizi Seicento in mostra fino al 28 febbraio 2016 in Palazzo Albergati con opere di Pieter Brughel il Vecchio come La Resurrezione (1563 ca), di Pieter Brueghel il Giovane, come Danza nuziale allʼaperto (1610 circa) e di Jan Brueghel il Vecchio, come Paesaggio fluviale con bagnanti (1595 ) e molto altro. Questa importante mostra analizza la rivoluzione nella pittura nata dal genio della famiglia Brueghel che ha influenzato lungamente la pittura europea. La mostra, accompagnata da un catalogo Skira, è davvero un viaggio appassionante nell’epoca d’oro della pittura fiamminga del Seicento.

Giotto in Palazzo Reale a Milano
Giotto in Palazzo Reale a Milano

La prospettiva di Giotto. Fino al 10 gennaio 2016 Palazzo Reale a Milano ospita una grande mostra dedicata a Giotto e ai suoi predecessori nei primi decenni del Trecento con opere antecedenti l’arrivo del maestro a Milano. La mostra, accompagnata da un catalogo Electa, riunisce alcuni dei grandi capolavori dell’artista fondatore di una nuova pittura italiana. Nei suoi numerosi viaggi, Giotto ha avuto la capacità di attrarre le scuole e gli artisti locali verso il suo stile innovatore, cambiando in modo definitivo i tragitti del linguaggio figurativo italiano. In mostra tredici  opere dell’artista tra cui i lavori giovanili, quelli che testimoniano l’attività padovana e infine la maturità fiorentina.

Raffaello alla Venaria Reale, Torino
Raffaello alla Venaria Reale, Torino

La grazia di Raffaello, la sua straordinaria capacità di assimilare le novità artistiche del suo tempo e di distillarle in una poetica seducente e personale sono al centro della mostra Raffaello e il sole delle arti che fino al 24 gennaio 2016 è aperta nella Reggia di Venaria Reale. Il percorso espositivo racconta la prodigiosa carriera del bel giovane di Urbino che presto divenne il divin pittore,le diverse città dove ha vissuto e gli amori che gli ispirarono quadri come La fornarina. Per raccontare gli anni della sua formazione, accanto a opere di Raffaello figurano dipinti dei maestri da cui apprese il mestiere e ben presto superò, parliamo per esempio del padre Giovanni Santi, del Perugino, del Pinturicchio ma anche di Luca Signorelli. Il percorso poi idealmente prosegue a Roma con la mostra Raffaello, Parmigianino, Barocci. Metafore dello sguardo. Nei Musei Capitolini fino al 10 gennaio 2016 questa esposizione curata da Marzia Faietti, direttrice del gabinetto disegni e stampe degli Uffizi, indaga l’influenza di Raffaello sul raffinatissimo e inquieto Parmigianino e su un protagonista del ‘600 come il Barocci.

Huguette Calandm
Huguette Calandm a Palermo

Mare nostrum dell’arte
La mostra Mezzo del Mezzo, è dedicata alla memoria di una persona che ha pagato con la vita il suo amore per l’arte a cui ha dedicato più di 50 anni di lavoro. Parliamo dell’archeologo Khaled Al-Asaad, barbaramente ucciso dai fondamentalisti dell’Isis. “Un uomo che fino alla fine ha custodito l’’arte e la cultura del Mediterraneo, trasmettendone i valori senza tempo all’umanità intera” si legge nella presentazione della mostra che si apre il 10 ottobre al Museo Riso di Palermo, dedicata al tema del dialogo fra culture, alle migrazioni che sono sempre esistite nella storia del mondo, alla tradizione marittima di aiuto reciproco. Tematiche che sono raccontate da artisti siciliani del Gruppo Forma 1 (Accardi, Sanfilippo, Consagra) che qui dialogano con artisti libanesi (Choucair, Adnan, Caland) che si sono dedicati soprattutto all’arte astratta. L’eredità di Alberto Burri e del suo famoso Grande Cretto di Gibellina è rievocata dalle opere degli artisti contemporanei Raphaël Zarka e Marzia Migliora. Intorno al vulcano Stromboli si incontrano le creazioni di Giovanni Anselmo, ma anche la videoarte di Masbedo e di uno storico documentarista come Vittorio De Seta. E ancora: Emilio Isgrò, Michele Ciacciofera e la palestinese Mona Hatoum raccontano le città del mare, la vita quotidiana, sulle musiche ipnotiche di Hassan Khan. La mostra curata da Christine Macel
Marco Bazzini, Bartomeu Mari resterà aperta fino al 30 novembre e prende vita dal dialogo di 80 artisti in cinque sedi espositive: dal Museo Riso, all’Albergo dei Poveri, fino al Palazzo delle Aquile.

 

Marinella Senatore per Abo, L'albero della cuccagna
Marinella Senatore per Abo

Amaci. Sarà una cuccagna
il 10 ottobre si festeggia la Giornata del contemporaneo indetta dalla rete Amaci che runisce i maggiori musei pubblici e privati che si occupano di contemporaneo in Italia. In questa occasione annuale gli spazi d’arte che aderiscono all’iniziativa di all’iniziativa ospitano mostre, conferenze e laboratori. Un programma multiforme che quest’anno di arricchisce del progetto L’albero della cuccagna ideato da Achille Bonito Oliva. Una sorta di anti Expo dedicato al tema del nutrimento in senso lato a cui partecipano artisti affermati ed emergenti, che dal 25 settembre fino al10 Febbraio 2016 si passano il timone della ricerca. Dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, tra musei e fondazioni pubbliche e private l’iniziativa coinvolge oltre 40 artisti, chiamati a realizzare un’opera sul tema carnevalesco (Bachtin docet) dell’albero della cuccagna. “Un simbolo di abbondanza eletto dall’arte a monito, per invitare a riflettere sui temi dell’alimentazione e sulle sue implicazioni sociali” dice Abo. Collegate a questo ambito anche alcune iniziative del museo Madre di Napoli che dal 10 ottobre ospita i Desiderata di Mark Leckey. Ma anche le nuove installazioni di Daniel Buren, Axer / Désaxer, lavoro in situ (si tratta del secondo intervento dell’artista francese al Madre, dopo il lavoro Come un gioco da bambini) e quella del toscano Marco Bagnoli, La Voce. Nel giallo faremo una scala o due al bianco invisibile.

 

Egitto millenario a Bologna
Egitto millenario a Bologna

l’Egitto antico a Bologna. Dal 16 ottobre 2015 al 17 luglio 2016 il Museo Civico Archeologico ospita Egitto. Splendore Millenario. La mostra curata da Paola Giovetti, responsabile del Museo e Daniela Picchi, curatore della sezione egiziana. Sotto le due torri rivive lo splendore di una civiltà millenaria: l’Egitto delle Piramidi, dei Faraoni, degli dei potenti e multiformi. La mostra che apre al Museo Civico Archeologico di Bologna è frutto di una collaborazione internazionale, nata in primis dalla collaborazione fra la collezione egiziana del Museo Nazionale di Antichità di Leiden in Olanda e quella di Bologna. Sono oltre 500 i reperti, databili dal Periodo Predinastico all’Epoca Romana, che dall’Olanda giungeranno al museo emiliano.

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Sul web vincono i Trentenni. “Tutte le ragazze con una certa cultura” miglior serie al Roma Web Fest

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Tutte le ragazze con una certa cultura non è solo la miglior serie web italiana premiata da pochissimo al Roma Web Fest è anche una piccola wunderkammer 2.0 dove, a colpi di citazione e oggetti di culto, si delinea il ritratto ironico e fedele di una generazione cresciuta a merendine, sushi, arte e precarietà. Un’immaginario colto eppure follemente pop, dove Leopardi ha potenzialmente lo stesso valore intellettuale di cartoni e telefilm. Esemplare il momento in cui Luca, il protagonista, discute con la sua “supercar” – non il multi accesseriato Kit della serie con David Hasselhoff, ma una vecchia 500 rossa – di cartoni giapponesi e controcultura. A pochi giorni dal successo del Roma Web Fest abbiamo fatto due chiacchiere con il regista Felice V. Bagnato.

Bene avete vinto il premio come migliore serie web. Soddisfatti?
La cosa che mi ha fatto piacere più dei premi, oltre al successo di pubblico ovviamente, è stato il successo di critica. Per prima cosa nessuno ne ha parlato male e già questo di per sè è un grande risultato, e poi ne hanno scritto davvero in tanti questa è una grandissima soddisfazione. Siamo stati recensiti addirittura su Liberation.

…Non male per un’autoproduzione. Come è nato Tutte le ragazze con una certa cultura?
Il progetto nasce nel 2008 quando Roberto Venturini, l’autore del soggetto, scrisse un racconto intitolato Tutte le ragazze con una certa cultura hanno appeso in camera un poster di un quadro di Schiele. Decisamente un titolo alla Wertmuller. Lo leggo e penso che è perfetto. Un racconto conciso, nato già cinematografico, i dialoghi sembravano fin da subito quasi sceneggiatura. Bisognava farne qualcosa…inizialmente penso a un cortometraggio, ma ormai era un genere che stava svanendo. Eri molto anni 90 se facevi un cortometraggio, cominciavano invece a prendere piede le serie. Il tempo passa e il progetto rimane lì nel cassetto, fino a che nel 2012, assieme a Roberto scriviamo una sceneggiatura, decidiamo insieme agli altri di produrre il primo episodio e vedere come viene…ed eccoci qui. La serie è uscita ufficialmente nel giugno 2014, ma continuerà a girare anche il prossimo anno perché siamo in finale al Berlino Web Festival.

Cosa significa distribuire il proprio prodotto su YouTube? Vale la pena?
Sicuramente YouTube offre una possibilità di visibilità ma ci può essere di meglio. Facebook per esempio. Con il passare del tempo infatti abbiamo notato che le visualizzazioni su facebook possono essere maggiori, in poche ora puoi essere visto da migliaia di persone. YouTube invece ormai è un contenitore in cui trovi qualsiasi cosa: dalla web serie ai gattini. In sostanza Facebook, per chi lavora nel nostro settore, sta diventando sempre di più quello che era YouTube all’inizio, mentre YouTube si ridurrà probabilmente a diventare una tv a pagamento con canali specifici votati a fare visualizzazioni e non qualità.
Dato che noi possediamo il prodotto perché darlo a qualcun altro che alla fine lo gestisce come faresti tu? Se alla fine non ottieni benefici meglio poter scegliere dove andare e cosa fare. Dovendo scegliere oggi probabilmente caricheremmo Tutte le ragazze con una certa cultura direttamente sul social di Zuckerberg.

Qual è lo spettatore ideale a cui puntavate all’inizio?
Lo spettatore tipo ovviamente è il trentenne “con una certa cultura”, insomma tanto per ritornare a quello che dicevamo prima: quello che trovi su Facebook, ma che in più sa essere autoironico, che capisce battute e riferimenti ma non si prende troppo sul serio o comunque è consapevole delle sue debolezze.

Quindi nonostante il titolo strizzi l’occhio “alle ragazze” puntavate ai ragazzi?
Sì, almeno all’inizio sì. Questa storia parte dal punto di vista maschile, quello di Luca che racconta la sua esperienza con un certo tipo di donna. Guarda caso, il tipo di ragazze frequentate dal protagonista si assomigliavano tutte, o meglio, lui tendeva a categorizzarle, a metter loro addosso delle etichette come sui barattoli, a trovare delle somiglianze che dopotutto non ci sono.

Somiglianze che sono ben definite dai gusti artistici.
Arte e cultura sono un po’ il fil rouge della serie. E, per il protagonista, una vera e propria ossessione. Addirittura nelle prime stesure Luca finiva per uccidere la compagna con un Argan. Un’aspirante critico d’arte che assomiglia molto al Patrick Bateman di American Psycho. Una delle opere citate nella serie è proprio quella di Bret Easton Ellis. All’epoca, quando uscì il libro, Ellis fu accusato di essere misogino e sessista, ma quello che faceva era semplicemente mostrare un punto di vista evidentemente distorto della realtà. In Tutte le ragazze con una certa cultura c’è una gran dose di ironia, ma questo è esattamente quello che accade a Luca. Il suo punto di vista non è mai quello corretto, piano piano lo spettatore capisce che è lui quello che sbaglia, che la sua versione delle cose non è quella corretta. E nell’arco narrativo alla fine è sempre Luca quello che fallisce. Non è un eroe, è un perdente e vince solo quando cambia: si taglia la barba e si leva tutte le sovrastrutture, i pregiudizi, con cui era solito analizzare la realtà.

 

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Una serie tutt’altro che maschilista quindi.
Già, avevamo anche pensato di mostrare in ogni puntata i fatti visti dal punto di vista di lei oltre che da quello di lui. In realtà ci siamo riusciti solo nel secondo episodio, perché diventava molto difficile. Nelle prime stesure i due dovevano addirittura uccidersi reciprocamente alla fine di ogni puntata e c’è un finale che non abbiamo mai montato dove in realtà era la protagonista a uccidere Luca. Poi però ci siamo normalizzati. (Ride divertito)

8 episodi di 8 minuti, un formato particolare ma che a quanto pare funziona.
Assolutamente sì, è abbastanza coerente con i tempi del web o meglio con i tempi che il nostro genere di prodotto richiede per funzionare bene sul web. Internet è un grande calderone, ci trovi cose realizzate appositamente per la rete, serie tv diffuse, più o meno legalmente, via streaming online, c’è lo youtuber che gioca su elementi diversi dalla fiction, ma che comunque produce dei contenuti seriali. Il punto quindi è che ogni cosa postata sul web ha un suo formato e un suo minutaggio specifico, dipende sempre da quello che fai, magari per una sketch comedy bastano 2 minuti e mezzo, mentre un documentario ha bisogno di mezz’ora e noi funzioniamo bene con 8.

Diciamolo: il web è anche questione di visibilità, un modo per mostrare comunque un prodotto a un pubblico ampio senza dover trovare qualcuno che ti distribuisca
Sicuramente se non ci fosse stato internet avremmo dovuto muoverci in modo tradizionale cercare un produttore che finanziasse, e che probabilmente non avrebbe finanziato il progetto per non rischiare, bussare molte porte con una possibilità remota di ottenere qualcosa. In questo senso il web ci ha aiutato a fare il primo passo e il percorso è molto più semplice: se hai voglia ci provi e se ci riesci magari vai avanti. In questo internet è molto democratico.

Il successo delle web series è stato tale che abbiamo visto alcuni prodotti pensati inizialmente per l’online sbarcare in tv. Penso a Il Candidato presentato all’interno di Ballarò come striscia comica a fine puntata.
Secondo me un ottimo esperimento e Ludovico Bessegato, il regista de Il Candidato, è un po’ un mito. Pensa che mentre giravamo “Tutte le ragazze” guardavo una sua serie sempre per web, eccezionale dal punto di vista narrativo e visivo, si chiamava “Le cose brutte” e pensavo che era un ottimo modello. Poi più in generale credo sia sempre più evidente che la televisione stia andando verso internet, è un momento di cambiamento totale per cui non ci sono molte certezze su cosa nello specifico accadrà, ma sicuramente la direzione è questa.

Progetti per il futuro?
Abbiamo raggranellato una discreta somma dopo aver vinto svariati premi in alcuni festival. Siamo rientrati di alcuni costi e ci è rimasto abbastanza per investire in una nuova produzione. Magari una seconda serie chissà.

 

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Intanto, se ancora non l’avete vista potete godervi la serie qui

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link] @GioGolightly

Il bagno nel Chand Baori, pozzo sacro in Rajastan

Il Chand Baori è una fonte-deposito di acqua sacro ad Abhaneri, in Rajastan: 13 piani per 3500 gradini, è stato tra l’800 e il 900. La fonte è sacra e l’accesso ai locali è consentito solo una volta l’anno per una festività religiosa, il “Jel Juline Aka Desi”. Questo tipo di costruzioni sono tipiche del Rajastan e di altre zone semi-desertiche dell’India, e servono a conservare l’acqua e mantenerla fresca. Gli scatti che vedete ritraggono il giorno di festa.

 

Ecco cosa sta succedendo in Turchia. PKK e Hdp ai ferri corti

epa04927947 Selahattin Demirtas, the co-chairman of the Peoples' Democratic Party (HDP), speaks to supporters during a rally in the Cizre district, southeastern Turkey, 12 September 2015. A predominantly Kurdish town in south-eastern Turkey is no longer under full-day curfew, a day after the governor of Sirnak province had promised to lift it, according to local media reports. The curfew on the town of Cizre was lifted early 12 September, according to local broadcaster IMC. The curfew had been in place for nine days, imposed by the government after fighting between authorities and Kurdish separatists. EPA/STR

Le elezioni parlamentari di giugno.
Con le elezioni parlamentari di giugno, per la prima volta, il partito pro-curdo è riuscito a superare la temuta soglia di sbarramento del 10% e a garantirsi 80 seggi in Parlamento. Nel periodo immediatamente successivo alle elezioni, quel 13% ottenuto dal Partito democratico popolare, HDP, ha iniziato a essere percepito come una minaccia da parte del Partito dei lavoratori del Kurdistan, PKK, che si è trovato improvvisamente con un alleato più influente e più istituzionalmente accreditato di lui.
Da quel momento, «HDP e PKK si sono trovati a rivendicare entrambi, da diverse posizioni, la vittoria ottenuta alle elezioni. Lo scontro è iniziato come un botta e risposta tra i due gruppi la stessa notte delle elezioni», spiega Mustafa Gurbuz, esperto della questione curda e membro permanente presso il Rethink Institute di Washington.
«Premesso che le radici ideologiche del PKK e dell’HDP erano le stesse fino a pochissimo tempo fa, dobbiamo ammettere che quelle radici si sono profondamente separate il 7 giugno, il giorno delle elezioni; non importa quanto siamo arrabbiati con lui per quello che ha fatto, il leader dell’HDP Selahattin Demirtaş ha diffuso una percezione positiva di queste nuove grandi radici che lui ha creato e con cui è riuscito a guadagnare un alto livello di fiducia nel popolo», dice il giornalista dell’Hurriet Daily News, Sükrü Küçüksahin. Cengiz Çandar, un altro giornalista della stessa testata, esperto della questione curda, è arrivato a equiparare le tensioni tra HDP e PKK a quelle tra HDP e AKP, il partito del presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan. In un articolo sull’Hurriyet, Çandar ha sostenuto che, a seguito delle elezioni di giugno, il PKK ha utilizzato una strategia di indebolimento non solamente del governo dell’AKP, ma anche dell’ HDP: «Demirtaş è una figura politica con un brillante futuro. Forse questa è stata la ragione per cui il PKK lo ha presentato come un traditore della causa curda, sostenendo l’idea della sua eliminazione politica attraverso una trappola».


Escalation di violenze dopo l’attentato di Suruc.
Soltanto un mese e mezzo dopo le elezioni, il 20 luglio, l’attacco kamikaze di un giovane ragazzo curdo affiliato all’Isis uccide 32 attivisti curdi e ferisce 100 persone nella città di Suruc, al confine turco-siriano, di fronte alla città di Kobane. Il tragico evento porta lo scatenarsi nel Paese di molte proteste contro il governo turco, accusato di non aver fatto abbastanza per fermare l’avanzata dell’Isis alla frontiera con la Siria e quindi di essere indirettamente responsabile del terribile massacro. Come ritorsione per l’attentato, il 22 luglio, il braccio armato del fuorilegge PKK decide di condurre un’azione punitiva, rivendicando l’uccisione di due poliziotti turchi nella città di Ceylanpinar, vicino al confine siriano. I due poliziotti vengono, inoltre, accusati dal gruppo armato di aver collaborato con l’Isis per portare a termine l’attentato. L’escalation di violenza porta a un’immediata rottura del cessate il fuoco tra il PKK e il governo turco. Nello stesso tempo il tragico evento mina profondamente, come mai era successo prima, le relazioni tra il PKK e il suo stretto affiliato pro-curdo, HDP. Molte dichiarazioni pubbliche rilasciate durante l’estate dai leader del PKK evidenziano che “la trappola” di cui parlava Çandar era scattata.
Facendo trapelare un crescente disagio nei confronti di Demirtaş, Duran Kalkan, autorevole militante nel PKK, il 27 agosto rilascia un’intervista al giornale turco Yeni Şafak, scagliandosi contro il leader dell’HDP: «Ma sappiamo davvero chi è, che cosa ha fatto o portato a termine finora?». La risposta di Demirtaş non si è fatta attendere a lungo. Ha invitato il PKK a mettere giù le armi e a lavorare per un’incondizionata cessazione delle ostilità: «Non importa da dove viene e che scopi vuole attuare, la violenza deve finire, i poliziotti uccisi dal PKK sono nostri figli». Le sue parole hanno rappresentato la prima forte presa di posizione contro l’operato del PKK. La totale indifferenza degli esponenti del PKK agli appelli per la pace di Demirtaş sono una valida dimostrazione che gli equilibri all’interno del movimento curdo stanno cambiando e che la formazione partitica attualmente in parlamento sta sempre più prendendo le distanze dal suo alleato scomodo.


I principali punti di contrasto
Il principale punto di divergenza tra il PKK e l’HDP è il metodo politico con il quale portare avanti le istanze della questione curda
. Secondo gli analisti, mentre l’HDP spera ancora in una soluzione politica alla situazione di stallo attuale, il PKK è fermamente convinto che il negoziato di pace con il governo turco sia definitivamente morto e la ripresa della lotta armata si sia resa assolutamente necessaria. L’ambizione dell’HDP è quella di agire come una vera coalizione di sinistra, con una base di elettorato che vada oltre la popolazione curda e la ripresa della lotta armata da parte del PKK è il primo impedimento alla riuscita di tale progetto. Secondo il co-direttore e ricercatore dell’Istituto turco di Londra, Mustafa Demir: «L’escalation di violenza da parte del PKK ha indebolito il peso politico dell’HDP e ha mostrato a tutti che il suo successo dipende dal sostegno popolare del PKK. Quando i curdi hanno visto i propri rappresentanti entrare in Parlamento e lottare per i diritti democratici curdi, tutti hanno iniziato a mettere in discussione la necessità di una lotta armata», ha detto Demir. «Ma l’escalation di violenza raggiunto con l’attentato di luglio ha nuovamente giustificato la lotta armata del PKK, mentre ha indebolito il ruolo dei rappresentanti parlamentari agli occhi degli elettori curdi», ha aggiunto.
Un altro punto di divergenza è la visione del futuro di entrambi i gruppi. Mentre il PKK ha una prospettiva regionale, legata al territorio curdo, che comprende il sud-est della Turchia e parte della Siria, l’HDP sta cercando di affermarsi come un partito turco che rappresenta anche le istanze di chi curdo non è e non solo in quella zona geografica. Entrambi vogliono l’autonomia locale per la regione sud-est a maggioranza curda della Turchia ma le finalità con cui raggiungere l’obiettivo sono profondamente diverse: l’HDP vuole infatti arrivare all’autonomia locale tramite un processo democratico all’interno del sistema politico odierno, mentre il PKK vuole creare zone autonome spesso attraverso l’uso delle armi.

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Un precario equilibrio
Nonostante le crepe esistenti tra i curdi, i recenti eventi nella città sudorientale di Cizre sono riusciti nuovamente a serrare le fila del movimento. In questa città di centomila abitanti della provincia a maggioranza curda di Şırnak, il 4 settembre l’esercito turco ha lanciato un’operazione contro un focolaio dell’insurrezione armata ripresa alla fine di luglio, con un bilancio finale di almeno 20 vittime tra i civili. Per otto giorni la città è stata accerchiata dall’esercito, è stato imposto il coprifuoco e nell’isolamento totale, si sono consumati scontri durissimi fra militanti del PKK, aiutati da 200 giovani e soldati. Dopo una settimana dalla revoca del coprifuoco a Cizre, la Turchia è stata scossa dall’attentato di Dağlıca, il più sanguinoso nella storia del conflitto fra esercito e PKK, dove hanno perso la vita 16 soldati. E poco dopo 13 poliziotti sono morti in un altro attentato vicino a Iğdır. Questo scenario di continua tensione tra le parti ha un costo altissimo per la popolazione: intere province militarizzate e un aumento delle vittime civili. Né l’esercito e il governo né il PKK sembrano intenzionati a fermarsi. E il PKK riesce a controllare sacche di territorio intere, così come riesce a reclutare molti giovani, rendendo la sua presenza capillare sul territorio.
L’HDP alle elezioni di novembre
In questo scenario, l’HDP potrebbe svolgere un ruolo di mediazione tra il PKK, e il governo ad interim, nel quale l’HDP ha scelto di entrare e che deve portare la Turchia alle elezioni anticipate dell’1 novembre. Una mossa difficile, che rischia di deludere parte del suo elettorato, soprattutto quello curdo, se non riesce a trovare un compromesso con l’AKP di Erdogan, il cui unico obiettivo è non far arrivare il partito pro-curdo alla soglia del 10%, eliminandolo così dalla competizione politica. L’aspetto più preoccupante è che gli appelli di Demirtaş al PKK per un cessate il fuoco unilaterale sono caduti nel vuoto. E nelle sue ultime dichiarazioni Demirtaş è sembrato poco disposto a cercare compromessi a oltranza, tradendo un’insofferenza di fondo che non tarderà ad esplodere: «Cizre è la Kobane turca», ha affermato. La legittimità politica del suo partito è messa in pericolo dallo sviluppo del conflitto. L’HDP si trova a dover bilanciare tra il netto rifiuto della lotta armata, grazie al quale si è ritagliato un ruolo di mediazione fra stato e PKK, e la necessità di difendere la causa curda per non perdere consensi preziosi.

Lo scrittore inglese Cartwright :«L’era della Thatcher è finita solo ora, con la vittoria di Corbyn»

Questa intervista è comparsa sul numero 33 di Left – che abbiamo dedicato alla campagna di Jeremy Corbyn. Lo scrittore britannico sarà in Italia oggi a Ferrara al Festival di Internazionale e poi a Pisa al Pisa Book Festival.

Cresciuto in una cittadina della Black Country inglese, a Dudley,  Cartwright ha indagato la stagione del thatcherismo in una tetralogia di romanzi, potenti, arrabbiati, vitali, in cui le lotte e le sconfitte della working class sono raccontate attraverso lo sguardo di personaggi non arresi. Da Afterglow, a Heartland, fino al nuovo, Il giorno perduto, scritto con Gian Luca Favetto e pubblicato in Italia dalla casa editrice 66thand2nd, non di rado è il calcio a offrire a Cartwright una prospettiva inedita per illuminare le dinamiche sociali e uno sguardo profondo sulla propria generazione, cresciuta negli anni Ottanta e Novanta. E se in Heartland la vicenda culmina in una tesa partita in cui si affrontano una squadra locale e quella della moschea, nel nuovo romanzo che rievoca la strage dell’Heysen (anno 1985, 39 morti sugli spalti prima dell’inizio della finale di Coppa dei Campioni, Juventus-Liverpool) il crollo dello stadio e lo show che non si ferma diventano una dolorosa metafora degli ultimi trent’anni di storia operaia inglese. Lo scrittore ne parla il 4 ottobre ( alle 14,30) al Festival di internazionale poi al Pisa Book Festival (dal 6 all’8 novembre).

Anthony Cartwright, l’Inghilterra sta ancora pagando il prezzo della stagione thatcheriana?
Ne stiamo ancora pagando il prezzo, eccome! È come se i conservatori in quegli anni fossero riusciti a inserire un cuneo nel tessuto sociale, nei rapporti, nella quotidianità, lacerandoli. Ho sentito l’esigenza di raccontare la distruzione di ogni dimensione collettiva, l’ingiustizia sociale e la disuguaglianza causate dalle politiche thatcheriane. La popolarità di Jeremy Corbyn è una reazione a tutto questo, apre all’idea che ci si possa liberare della velenosa eredità thatcheriana.
In un suo romanzo dal titolo emblematico, I killed Margaret Thatcher (2012), la figura della Lady di ferro sembra incarnare lo Zeitgeist degli anni 80…
Sì, e continua a esserlo in questo nuovo romanzo, Il giorno perduto: l’Inghilterra che Christy lascia nel 1985 per andare alla finale allo stadio di Heysel, a Bruxelles, muta rapidamente, si va degradando davanti ai suoi occhi. Una della vittorie più grandi della Thatcher è stata l’atomizzazione della working class. Spezzare i legami fra i lavoratori ha segnato la morte delle forme organizzative che la classe operaia si era data fino a quel momento. Poi, però, dopo le illusioni e le conseguenti delusioni degli anni di Blair, penso ci si sia finalmente resi conto delle terribili disuguaglianze che esistono nel nostro Paese. Da qui nasce il nuovo slancio che hanno preso politiche più egualitarie, come quelle proposte dal leader del Labour party Jeremy Corbyn.
Alcuni anni fa giovani manifestanti a Londra accusavano Blair di aver fatto pagare la guerra in Iraq agli studenti con un incremento esponenziale del debito universitario. Anche per questo Corbyn ha fatto della scuola pubblica uno dei punti qualificanti del proprio programma, insieme alla difesa del sistema sanitario?
Negli anni il sistema formativo e l’assistenza sanitaria sono state soggette a una crescente privatizzazione. Penso che i sostenitori di Corbyn (fra cui ci sono anche io) vogliano tornare al principio che sanciva i diritti della persona dalla nascita alla morte, recuperando e ottimizzando i successi del Labour nel dopoguerra. Allora fu un tentativo di creare una società più giusta in cui tutti avessero uguali possibilità di accesso alla formazione e alle cure mediche. Anche chi è di destra non può negare l’evidente inefficienza e ingiustizia del nostro sistema scolastico e sanitario.
Ma c’è chi accusa Corbyn di essere un ingenuo ottimista quando propone di ri-nazionalizzare di risorse e servizi come quello dei trasporti o quello sanitario.
Personalmente non penso che proporre una gestione e un controllo pubblico sia una cosa naif. Di recente, per esempio, si è dovuto rendere di nuovo pubblica la gestione della linea ferroviaria East Coast, perché quella privata aveva fallito. E ora è molto più efficiente. Mettere le linee di trasporto a disposizione del profitto di pochi ricchi, a spese della collettività è economicamente fallimentare, oltreché ingiusto.
Guardando dall’esterno si ha la sensazione che il Labour party negli ultimi anni abbia solo rincorso la destra sul suo terreno. Anche per questo ha perso le ultime elezioni?
Il Labour si è spostato sempre più a destra negli anni, sì. Questa è un’altra vittoria della Thatcher. Sia la leadership di Gordon Brown che quella di Ed Milliband sono state fortemente influenzate dalle forze di destra. Il partito si è chiuso in politiche sempre più pragmatiche, materialistiche, dal respiro corto. Alcuni laburisti dicono di rappresentare le “aspirazioni” di una parte sociale «moderata», che è un modo eufemistico per dire “rappresentare gli interessi di chi pensa solo a palazzi e auto di lusso”. La grande sfortuna di questo Paese è che il Labour party ha stravolto la propria identità per poter legittimare un’oligarchia economica.
«Votate chiunque eccetto Corbyn» andava ripetendo Blair la scorsa estate. L’ala moderata del Labour non ha saputo trovare argomentazioni convincenti per fermare l’ascesa di Corbyn?
È stato un bene che Tony Blair abbia parlato così. Più parlava più la gente si rendeva conto. Più Blair attaccava, più cresceva la popolarità di Corbyn. Blair ci ha traditi tutti, non solo sull’Iraq e sulle conseguenze della guerra. Ha tradito la gente che racconto nei miei romanzi. Personaggi come Christy de Il giorno perduto sono escluse dal sistema. Ma come Tom Catesby dice in Heartland «siamo ancora qui». Le situazioni cambiano. È cambiata l’economia, l’industria. Ma gli esseri umani ci sono ancora. In questo senso penso che Jeremy Corbyn offra una speranza di riscatto che è ciò che cercano i personaggi dei miei romanzi. Una speranza “precaria”, certo, perché gli interessi di parte e corporativi delle destre si muovono per spezzarla. Ma forse è più difficile distruggere questa speranza, che non la Thatcher e i suoi seguaci. Forse finalmente apriamo gli occhi e ci rendiamo conto che siamo ancora qui, più vivi di prima!

Anthony Cartwright Classe 1973, dopo aver lavorato in un impianto di inscatolamento carni, nei pub, al mercato di Old Spitalfields e per la metropolitana di Londra, ha insegnato inglese in diverse scuole dell’East London e del NottingHamshire. Con il suo romanzo d’esordio, The Afterglow, si è aggiudicato il Betty Trask Award. Poi è venuto Heartland e il terzo romanzo How I Killed Margaret Thatcher, nel 2012. Da pochi mesi è uscito in Italia ll giorno perduto, scritto con Gian Luca Favetto e pubblicato da 66thand2nd.

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Konduz, Hebron e Roseburg, le foto della settimana

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Neffa: «Non mi svelate il trucco della musica»

L’intervista con Neffa è pubblicata sul numero 38 di Left in edicola

«Tanto nel mio stereo c’è un blues che mi salverà», canta Giovanni Pellino, in arte Neffa in “Sigarette”, fortunatissimo singolo estivo che ha anticipato la recente pubblicazione di Resistenza. Un album nuovo, con tredici brani inediti, stavolta in versione blues, svelato anche dalla radiofonica “Colpisci”, che vede Valentina Lodovini protagonista del videoclip. Salernitano di nascita e milanese d’adozione, Neffa, sin dagli anni Novanta, solo o in compagnia (con i Negazione e i Sangue misto), con alcuni colleghi (Sud Sound System e J-Ax), da produttore o anche da autore (per Emma e Chiara), si è sempre espresso con diverse personalità sonore. Adesso lancia un grido alla collettività, per resistere. E lo fa al tempo di blues.

Di che resistenza parli?
Di resistenza umana, soprattutto. Quella di un uomo, di un cantante, che attraversa il tempo e le mode, rimanendo con la propria velocità. E resistenza dell’umanità al tipo di vita che la comunicazione moderna ha instradato, molto competitiva, troppo tecnologica.

A cosa dobbiamo resistere oggi?
Appunto, all’avanzamento della tecnologia. Ci sono cose che hanno ancora bisogno del discernimento umano; dobbiamo resistere al desiderio di essere più tecnologici per non essere vuoti.

Cosa manca nella nostra collettività?
La capacità di capire che certe cose, come il pensiero, non possono stare dentro i sistemi tecnologici, dentro i social. Penso all’informazione, ai libri, agli e-book, alla fine mi sembra che tutto questo abbia portato la gente a leggere meno e a essere non informata. La metà dei miei testi (che, tra l’altro, sono nella copertina del cd) sono su internet, ma sono sbagliati. Questa perdita di cognitivismo non fa bene, ricordo di un tour che feci ad Amsterdam con i Negazione, arrivammo lì senza un navigatore, non c’eravamo ma stati, ma è stato bello fermarsi, chiedere alla gente, incontrare persone nuove. Non dico che era meglio prima, ma se tutto ti viene messo davanti risolto non hai più la capacità di risolvere.
La tua voce spesso è un mezzo di denuncia: ti piace esporti, dire la tua?
Vengo da ambienti molto politicizzati e trovo importante fare musica con un certo “atteggiamento politico”, che è quello di dialogare, riuscire a toccare la vita delle persone. Certo non mi fido della musica con gli slogan dentro, ma di quella che, quando la sento, mi fa sentire una porzione di cuore. Viviamo in un mondo nuovo, più libero, ma questa libertà non la sappiamo sfruttare. Si guarda alla forma, non ai contenuti. Prendi le campagne elettorali americane… contano più gli scheletri nell’armadio che le politiche di riforma, basta guardare Trump.

 

Come pensi a ciò che vuoi raccontare nelle tue canzoni?
Qualcosa arriva improvvisamente, io la chiamo “essere aperto”: mi pervadono suoni che aprono scenari nuovi. Questa musica mi dà un tono dentro e arriva ciò di cui voglio parlare. Poi, arrivano le parole. A me piace scrivere canzoni che abbiano un significato profondo che, magari, neanche io colgo subito.
Hai esordito nell’hip hop passando poi alla veste del guaglione rap in “Aspettando il sole”. Poi la musica leggera e il soul. E oggi a una nuova personalità sonora.

Significa questo “essere aperto”?
Sì. Quando da bambino pensavo che fosse bello conoscere i trucchi dei maghi, oggi penso che i trucchi dei maghi sono belli perché non li conosci. Allo stesso modo, non voglio svelare a me stesso il trucco della musica, non sono un trasmettitore di musica ma un’antenna, un ricettore. Mi è sempre piaciuta quella sorta di “negritudine”: Mina, Vanoni, Bennato, Daniele. Allora non capivo ancora che era la presenza del blues e del soul a piacermi, poi ho visto il film The Blues Brothers e ho capito un po’ di più.

Come si trascrive, poi, una scoperta su uno spartito?
Innanzitutto scegliendo bene i musicisti. Nella sua autobiografia, Miles Davis ha scritto che, a seconda del suono che intendeva fare, chiamava il musicista giusto. Quando ho fatto Sigarette, sapevo che il mio chitarrista doveva essere Paolo “Puddu” Albano, perché la sua chitarra aveva il suono che cercavo. Resistenza è un album molto blues, ma ha anche una matrice popolare, come in “Lampadine”, in “Ma Jolie” o in “Occhi chiusi”, che hanno melodie italiane senza tempo. Insomma questo disco l’ho fatto quasi senza accorgermene, me ne sto rendendo conto adesso.
Cos’è stata e cos’è la musica per te? Nell’adolescenza ha riempito tanti silenzi, il vuoto lasciato da alcune domande senza risposta, poi mi ha dato gli amici, un posto nel mondo, un lavoro, una passione, una carriera, un senso insomma. Ho un patto segreto con la musica, per quei silenzi che ha riempito, per cui ogni volta che qualcuno provava a “guastare” io cercavo di preservare la musica. Se togli la musica, è un mondo triste.