Segnali di vita in una città sfigurata dalla guerra. A Kobane, simbolo al contempo di macerie e di lotta, da un quarto di secolo c’è un forno che sei giorni su sette produce il pane per i 365 villaggi del circondario e per la città curda a nord della Siria. Cinquanta persone animano una sorta di rituale giornaliero tenendo in vita l’unico forno della città siriana, rimasto aperto durante 7 mesi di assedio, che continua a lavorare a pieno ritmo per garantire pane gratis e una quotidianità che invece costa ancora troppo.
Da oggi e per i prossimi dieci giorni, a Roma, presso l’Associazione Culturale Pocaluce (in via dei Marsi 59), questo “prodigio” che si ripete ogni giorno è raccontato da una mostra fotografica di Maria Novella De Luca. Abbiamo chiesto alla fotografa, che ha maturato una lunga esperienza in quelle che definisce le “terre dimenticate” del pianeta, di accompagnarci dentro quel forno per farci assaporare questa particolare forma di resistenza.
Come hai trovato il forno?
Quasi per caso. Lo scorso marzo, dopo giorni di attesa a Suruc – la città resa nota dal terribile attentato – e permessi negati, abbiamo deciso nottetempo di entrare a Kobane. La città era semideserta: c’era sono un ristorante aperto e poco altro. Mi ha sconvolto in gran silenzio e la polvere. Poi ci siamo ritrovati davanti a questo edificio nel quale c’era un viavai di persone: 40, 50 operai che lavoravano lungo la catena che dal magazzino della farina passava per il forno, e poi sul nastro trasportatore fino all’imbustamento.
Dove vanno poi quelle buste?
All’epoca dei camioncini portavano nei villaggi circostanti quel pane fatto con la farina coltivata in quelle stesse zone, almeno finché il conflitto ha reso possibile l’accesso alle terre. Credo che chi lo produce riceva una forma di sostegno governativo per poterlo distribuire gratuitamente. Ora che la città si sta ripopolando, molte famiglie vanno direttamente al forno a ritirare la loro busta con le pagnotte.
In un contesto così provato, che cosa ti ha convinta a fermarti a fotografare proprio lì?
Avevo trovato un’attività come se ne possono trovare ovunque in un posto quasi unico per la tragedia che stava vivendo. Se senti nominare Kobane pensi giustamente ad armi e guerra: grazie a quel forno potevo fotografare una storia diversa, con un risvolto positivo, di speranza.
Poi questa storia è diventata una mostra. Com’è accaduto?
Sono stata a Kobane anche durante le elezioni, e conto di ritornarci presto. Il Kurdistan mi ha un po’ accolto. L’idea della mostra è nata un po’ per caso, ma sicuramente anche dall’esigenza di raccontare con una prospettiva diversa quella terra e quella gente: se è vero che ha imbracciato le armi per resistere, è altrettanto vero che preferisce la farina alla polvere e impastare una pagnotta di pane piuttosto che imbracciare un’arma.
Confesso che leggere Scalfari è diventata una scommessa facile. Ogni domenica faccio finta di chiedermi “anche oggi parlerà di Francesco?” e poi inizio a leggere. Di solito non supero neanche la metà della seconda colonna per “vincere”. L’elogio sperticato dell’unico leader universale che il fondatore de La Repubblica riconosca, fa la sua epifania. Confesso anche che domenica scorsa Scalfari mi ha di gran lunga superato. Ha travolto qualsiasi mia scommessa facile, ha invaso ogni singola riga, sin dal titolo, con il “suo” Francesco e lo ha fatto usando parole chiave per noi di Left: «Libertà, eguaglianza, fraternità: sono questi i tre valori che tre secoli fa l’Europa rivendicò ed è su di essi che si sta realizzando l’incontro tra la Chiesa di Francesco e la modernità laica. Un Papa dal linguaggio profetico e rivoluzionario come Lui non s’era mai visto prima: gesuita fino in fondo, francescano fino in fondo, che ha saputo unificare la parte migliore di questi due Ordini della Chiesa, in apparenza molto lontani tra loro. La loro storia è diversa, ma la loro ispirazione ha le medesime finalità della Chiesa missionaria di Francesco: ama il prossimo tuo come e più di te stesso». Dunque per il buon Scalfari le parole della Rivoluzione francese sono quelle con cui Francesco incontra la modernità laica e compie la sua rivoluzione: «ama il prossimo tuo come e più di te stesso». Dice anche che sono “quarant’anni” che lo predica e che ora, sul soglio di Pietro, siamo al suo culmine. Ed in effetti siamo al culmine, è vero. Mai vista tanta spettacolarizzazione di un pontefice, si arriva persino a falsificare ciò che dice in funzione di ciò che si vuol dire. Solo nei miei secoli bui (del Medioevo studiato per anni) ricordo simili cose. Allora faccio piccole precisazioni utili (o inutili), tanto per tenere “fede” alla Storia.
Di quale “libertà” parlerebbe Francesco e la sua Chiesa? Il cristianesimo (figuriamoci poi il cattolicesimo) non ha mai fatto nessuna distinzione tra Dio e Cesare (il potere temporale): il mondo deve essere cristiano, Cesare per primo. Anzi, Dio e Cesare non agiscono più ciascuno per suo conto: Dio pesa su Cesare e Cesare deve rendere a Dio ciò che è di Dio. Cosa intende allora per libertà Francesco e la sua Chiesa? Scalfari può rispondermi?
E di quale “eguaglianza” parlerebbe Francesco e la sua Chiesa? Il cristianesimo (figuriamoci il cattolicesimo) non fu portatore di alcuna rivoluzione sociale: Gesù non è stato il primo socialista e il socialismo non “trae le conseguenze” dalla carità cristiana. La verità storica è che il cristianesimo non pose neanche fine alla schiavitù, non lo aveva come obiettivo. Non aveva nulla da cambiare in questo mondo, semmai sempre nell’altro. “Perché l’importante è lo spirito e non il corpo”, come scriveva Lattanzio (uno dei padri della Chiesa). La verità della fede di Francesco è che non saremmo neanche umani se non ci venisse donata l’anima con il battesimo. Saremmo delle bestie “disuguali”.
E di quale “fraternità” parlerebbe Francesco e la sua Chiesa? Quella che piange i morti in mare? Che assiste i poveri nel mondo? Che regala ombrelli se piove o fa la barba ai barboni? O quella dello slogan “terra, casa e lavoro per tutti”? Ci pensate mai a cosa hanno fatto dell’amore i cattolici? Una vita di proibizioni, peccato, dolore, interposito lino, disuguaglianza, discriminazione della donna (madre e moglie), regole e credenze. Ma Scalfari insiste: «Francesco è stato accusato di simpatie “comuniste”. È un’accusa volutamente e ingiustamente aggressiva, alla quale Francesco ha risposto cristallinamente: “Io predico il Vangelo; se i comunisti dicono le stesse cose, sono loro che adottano il Vangelo». Io, cristallinamente, qualche anno fa scrivevo: «Assurdo a mio avviso tornare, specie se la ricerca è quella di una “alternativa” al socialismo, a ipotetici valori originari di un cristianesimo buono raccontandosi e raccontando la favola di Gesù buono e della Chiesa cattiva. Importante invece è costruire un umanesimo ateo consapevole. Con la certezza che oggi un ribelle geniale, generoso, che lotta per la libertà, l’uguaglianza e la fraternità non sarebbe cattolico. E neanche cristiano». Facciamo che alla “modernità laica” di Scalfari preferisco (ancora e ancora) l’umanesimo ateo.
A Faenza, è in corso l'appuntamento con la musica indipendente italiana, fino al 4 ottobre. Left e la rivista musicale ExitWell, hanno aspettato il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Chiudiamo in bellezza con il vincitore del SuperMeiCircus, Giovanni Truppi
Un concentrato di ironia, dolore, tenerezza e sorpresa che sfreccia nella sua testa. E, attraverso la sua voce, arriva dritta alla tua pancia. Giovanni Truppi è una raffica di pugni nella bocca dello stomaco. Che, però, ti piace. E non appena ha finito, tu hai già voglia che lui ricominci da capo. Cantore del dentro e del fuori di testa, Truppi ha tre dischi all’attivo: C’è un me dentro di me (Cinico Disincanto, 2010), Il mondo è come te lo metti in testa (I Miracoli – Jaba Jaba Music / Audioglobe, 2013) e Giovanni Truppi (Woodworm / Audiglobe, 2015). Napoletano, classe 1981, è uno dei protagonisti della nuova edizione del Mei, dove oltre a esibirsi verrà incoronato “capo freak” del Super Mei Circus.
Tu ti chiami Giovanni e il tuo nome «è un plurale», canti in “Il mondo è come te lo metti in testa”. «Siamo tantissimi qui dentro. E più lo capisco, più mi rassegno allo sgomento». State tutti bene?
(ride) In questo momento non c’è male. Sai, essendo così tanti è facile che qualcuno di noi possa avere qualche problemuccio, ma poi si riesce a trovare sempre un equilibrio, in modo che il malessere di uno non pesi sugli altri.
Quando ti ascolto mi chiedo: quel modo diretto e preciso di leggere la realtà, dentro e fuori dalla testa, è ragionato o ti viene proprio di pancia?
Entrambe le cose, ci sono contemporaneamente questi due “colori”. Nei testi, uno dei colori che mi piace molto usare è la colloquialità. Quando mi accorgo di aver fatto dei ragionamenti pesi cerco di metterci un elemento che stemperi, al contrario quando registro pensieri spontanei ci lavoro un po’ per non lasciare la cosa alla semplice colloquialità.
Sei al tuo terzo disco, ognuno dei quali sembra avere un’impronta e un’atmosfera diversa. È così?
Il primo disco mi fa sempre pensare a una tesi di laurea, come quando cerchi di far vedere che hai imparato delle cose, e io studiavo la canzone, com’era fatta e come si poteva fare. Ci sono cose alle quali sono molto affezionato, ma in generale è un disco che mi crea un po’ di problemi perché lo considero un po’ troppo scolastico e un po’ poco coraggioso. Il secondo disco è completamente opposto al primo. Se nel primo avevo cercato di stare dentro le regole, nel secondo ho cercato di fare il contrario: non di cambiare appositamente alcune regole, ma di fare come mi pareva. Per il primo album ho lavorato tanto in studio – che poi era a casa mia – per gli arrangiamenti e l’editing, per far quadrare le cose. Invece il secondo è stato registrato in presa diretta in una settimana, anche meno. Dal punto di vista tecnico-musicale è una cosa molto diversa, e anche abbastanza impegnativa. Ricordo che sapendo cosa dovevo fare, quando arrivai in studio, avevo molta paura di non portare a termine il lavoro.
E il terzo album è una via di mezzo?
Sì, rimane una certa libertà però recupera dal primo il gusto di lavorare sugli arrangiamenti.
I dischi si pensano, si scrivono, si arrangiano e poi si devono pure produrre. Tu come hai fatto?
Il primo album ha avuto una gestazione di anni, ci ho potuto lavorare tantissimo grazie all’aiuto di amici, molti amici. Avere tanto tempo e tanti amici mi ha permesso di portare a casa il disco e questa cosa si sente, si sente che è un disco casalingo. La seconda volta, la scelta artistica di avere due strumenti registrati in presa diretta mi ha permesso di abbattere i costi. Diciamo che preferisco scegliere di avere meno cose ma di qualità.
Usciamo dalle sale di registrazione. Nel tour 2013-2014 hai tenuto più di 100 concerti in due anni. Sembrerebbe che il live sia il tuo punto forte, è così?
A me piace molto stare anche in studio. Forse la cosa che mi piace meno è stare a casa a scrivere, è la parte più faticosa perché non so mai dove andare, quindi a volte mi dispero. Poi, però, penso che questo è necessario per i creativi, che sono come degli esploratori, devono scoprire quindi è normale che si perdano.
Tu, il pianoforte e la chitarra, sul palco, siete una cosa sola.
Ho cominciato a suonare il pianoforte a sette anni, ricordo che veniva il maestro a casa. E l’ho studiato per una decina d’anni, privatamente, ma devo dire di non essere stato un allievo molto brillante, non mi piaceva studiare. La chitarra, invece, eccetto un paio di lezioni, l’ho studiata da me, ho cominciato a 14 anni e l’amore non si è mai spento.
La copertina dell’ultimo album – firmata da Cristina Portolano – illustra una sorta di foto di gruppo dei personaggi di cui narri le storie. Reali, immaginari, autobiografici, chi sono?
È una mischia di tutto quello che hai detto, alcuni reali, altri inventati, altri ancora metaforici. E in realtà, poi, si mischiano anche tra di loro. Prendi lo stesso Giovanni, io non sono poi così come mi dipingo. Nelle canzoni hai così poco tempo che i personaggi sono per forza di cose ridotte, diventano bidimensionali, sloganistici. Ognuno di noi è multiforme e questo in una canzone non lo puoi rendere.
Difficile, ma non impossibile. Qualche volta ci sei riuscito, prendiamo, per esempio, il protagonista di “Ti voglio bene Sabino”. Chi è Sabino?
Un mio collega di lavoro. Mi sorprendeva il fatto che mi stessi affezionando a una persona semplicemente perché la vedevo con frequenza, in quel momento con lui non ci parlavamo nemmeno, ma mi accorgevo che dentro di me accadeva un processo strano. E mentre mi accorgevo di questa cosa, il fatto che vedessi un estraneo più delle persone che amavo e amo mi faceva innervosire. Quindi quella canzone è venuta fuori in maniera del tutto spontanea.
A Faenza verrai incoronato come “capo freak” del Super Mei Circus. Laddove c’erano le etichette adesso cosa pensi di trovare?
Non sono d’accordo sul fatto che le etichette non ci sono più, ho pubblicato l’ultimo disco con un’etichetta è per me è stato importantissimo. Fondamentale come contributo logistico, economico, mi ha permesso di fare cose che non avrei potuto fare.
Che vuol dire per te “indipendente”?
Ieri Cesare Basile rispondeva alla stessa domanda di un giornalista, dicendo che «indipendente è una minchiata». Non so bene che dirti, per me l’indipendenza è artistica, a prescindere dallo scaffale economico e dalla filiera lavorativa dove ti vai a inserire. E l’indipendenza, sia artistica che economica, va garantita anche contrattualmente. Ma, davvero, il termine è così ampio che spesso non so nemmeno di cosa si parla. Una cosa è certa, c’è un grande equivoco: dire che l’indipendenza è un genere musicale è un errore gravissimo, intellettualmente, linguisticamente, esteticamente.
Ci vediamo a Faenza, “Stai andando bene Giovanni”.
Certo, qualcuno sta notando l’eccessiva vicinanza, ma è il solito senatore Gotor, bersaniano, abbastanza in solitudine. “Prove tecniche del partito della nazione”, titola un suo post su facebook. Ricorda di aver votato l’articolo 1 con «convinzione», «perché sono state accolte le richieste che avevamo posto a luglio con il documento dei 25». «Credo però», aggiunge, «che siano del tutto impropri i toni trionfalistici utilizzati in queste ore perché ho provato un sincero imbarazzo nel dover constatare che le scelte parlamentari del Pd fossero difese e sostenute in aula con zelo ed entusiasmo dai senatori Falanga e Barani del gruppo di Verdini, come se la riforma del Senato fosse l’occasione per assistere in diretta alle prove tecniche della nascita del Partito della Nazione».
Gotor, però, dovrà abituarsi. Perché se è vero che Verdini – l’ultima volta alle telecamere di Piazzapulita, la7 – dice «Bersani non deve preoccuparsi, l’unica cosa certa è che io nel Pd non entro», è vero anche che proprio l’apporto di Verdini permette al governo di stare tranquillo, di forzare il dibattito con “canguri” vari, e di non temere troppo neanche qualche voto segreto. Il perché lo spiega bene Marcello Sorgi, giornalista de La Stampa.
La novità dei franchi tiratori a favore del governo: per questo al Senato l’opposizione preferisce non partecipare alle votazioni segrete.
A temere i voti segreti – quei pochi che si affronteranno nell’approvazione della riforma costituzionale – sono più le opposizioni, per paradosso. Nel gruppo misto, così come in Forza Italia, qualcun potrebbe esser tentato dall’anonimato. Tanto più che Forza Italia, per esempio, pur chiedendo alle opposizioni di concordare un comportamento unitario – e contrario – in vista del voto finale, dice pure di essere comunque in attesa «di un segnale dal governo sull’Italicum». Se il segnale ci fosse – ma per ora non sembra – tutto cambierebbe. Questo rende ancora più penosa l’opera di ostruzionismo, che comunque, pur stancamente, i 5 stelle e le altre opposizioni stanno conducendo. Girando per il Senato la sensazione che più si raccoglie è quella di una sconfitta. L’accordo con Verdini ha funzionato, a spinto a rientrare la minoranza Pd e ha blindato il disegno del governo. Non resta che sperare nel referendum e nel mentre divertirsi a tenere qualche ora in aula i colleghi. Anche se divertente non è per tutti. Non lo è per i giornalisti, sicuramente. E non lo è per Corradino Mineo, ad esempio. Quando il senatore del Pd ha annunciato un suo voto in dissenso su un emendamento all’articolo 2 della riforma è stato contestato dai suoi colleghi di partito. «Fuori, vai fuori», gli hanno urlato. «Il gruppo è una pentola a pressione», dice Mineo a Left, «io continuo a fare la mia battaglia».
Senza polemica e fuor di battuta, non c’è più alcuna ragione politica per cui Corradino Mineo resti nel Pd e non si unisca a Civati.
Un francese e un italiano vanno a lavoro in bicicletta: uno riceve un incentivo (25 centesimi di euro per chilometro percorso), l’altro non viene neanche risarcito se si fa male durante il percorso. Quale dei due è l’Italiano?
Già, la risposta è purtroppo quella che vi asoettavate. Mentre in Francia – traendo spunto da una sperimentazione su ottomila persone che ha dato risultati incoraggianti – il ministro dell’Ambiente Ségolène Royal promette di estendere il bonus a tutto il Paese, in Italia la discussione è ancora ferma ai buoni propositi ed è ancora troppo diffusa l’idea che la bici sia un veicolo per il tempo libero e non un mezzo di trasporto indispensabile per migliorare la mobilità urbana.
Lo dimostra la sopravvivenza di una norma, confermata di recente dalla Cassazione, sul cosiddetto infortunio in itinere. In pratica, la legge protegge e risarcisce il lavoratore anche nel caso di un incidente accorso nel tragitto casa lavoro e viceversa, ma nel caso questi abbia usato un veicolo privato dovrà dimostrare che l’uso del veicolo fosse “necessitato”. In pratica, se decidi di andare al lavoro in bici ma avresti potuto optare per andarci comodamente a piedi o con i mezzi pubblici non sarai rimborsato in caso di infortunio.
E il principio vale anche se si arriva al lavoro pedalando su una pista ciclabile o in zone interdette ai veicoli a motore: l’Inail ha provato a considerare risarcibili queste ipotesi, ma le pronunce della Cassazione di cui sopra (n. 7970/12 e n. 15059/12) l’hanno costretta a fare marcia indietro.
La speranza ora è riposta in un intervento normativo ad hoc. E potrebbe arrivare dal collegato ambientale alla legge di Stabilità 2014, licenziato alla Camera a novembre 2014 e appena approvato “con modifiche” in commissione Ambiente a Palazzo Madama. Il testo prevede bonus per chi va al lavoro in bici e con i mezzi pubblici e copertura Inail in caso di infortunio sulle due ruote. Ora si tratta di capire se e quando sarà discusso e approvato in Senato per poi fare ritorno nell’Aula di Montecitorio.
Dalla Nigeria al Kenya, dall’India al Bangladesh, dagli Stati Uniti alla Spagna. Attraversa più continenti il lungo viaggio intrapreso da Martìn Caparròs per raccontare «lo scandalo del nostro secolo»: la fame, che ogni giorno uccide migliaia di persone. Per rompere il silenzio su questo stillicidio quotidiano il romanziere e giornalista argentino ha scritto una sorta di «opera mondo», un volume di oltre 800 pagine intitolato La fame pubblicato da Einaudi, in cui l’inchiesta sul campo si nutre di dialoghi, racconti, vividi spaccati di vita, ma anche di flash back di carattere storico e di molti riferimenti letterari.
Esule in Francia e in Spagna durante gli anni della dittatura argentina (1976-83), lo scrittore ha studiando storia alla Sorbona e appartiene alla grande scuola della crónica, sudamericana. Che non ha niente a che fare con quel che intendiamo noi per cronaca, ma fonde reportage e letteratura. Un genere portato ai più alti livelli da Rodolfo Walsh, giornalista argentino desaparecido nel 1977, autore di Operazione massacro (La Nuova Frontiera) in cui ricostruiva la storia di una strage di civili compiuta dalla prima giunta peronista. È stato uno scrittore «di grande spessore umano e culturale», ricorda Massimo Carlotto nella prefazione di Variazioni in rosso che raccoglie un trittico di racconti firmati da Walsh uscito in Italia grazie alle edizioni Sur.
Il rigore, il coraggio, d’investigare passando, se occorre, dal giornalismo alla fiction, è anche ciò che contraddistingue il lavoro di Martìn Caparròs, da No velas a tus muertos, in cui ha raccontato l’Argentina del ‘79 fino a Non è un cambio di stagione (Edizioni Ambiente 2011), in cui smascherava iniziative ecologiche politically correct, messe in atto solo per avere la coscienza a posto. E se trattando un tema “verde” Caparròs metteva in primo piano le esigenze delle persone rispetto ad una astratta ed estetizzante tutela dell’ambiente, ne La fame, smaschera potentati economici e politici che usano la fame come strumento di ricatto. Oppure considerano un «accidente collaterale» che milioni di persone muoiano di fame e ben 805 milioni di esseri umani la patiscano ancora oggi.
Così un tema duro, scomodo, per giunta adulterato dalla demagogia delle charity e da rockstar in cerca di auto promozione, diventa in questo nuovo libro di Caparròs materia incandescente, un flusso narrativo di oltre 700 pagine da cui è difficile staccarsi. La denuncia delle responsabilità del ricco Occidente emerge dai dati, dalle testimonianze, dalle analisi ma anche da una scrittura viva e serrata che non concede nulla al luogo comune. «Evitare ogni demagogia e i luoghi comuni era nelle mie intenzioni, ma non è stato facile» dice lo scrittore argentino nei giorni scorsi a Perugia per partecipare al festival Encuentro (dedicato all’eredità letteraria di Marquez). «Perché la fame pare proprio uno dei più triti luoghi comuni. Dietro i quali ci nascondiamo per difenderci dalla verità. Ma per fortuna ciò che più mi piace fare è ascoltare. E se vai in un posto, magari lontano, le persone hanno voglia di parlare con chi li ascolta davvero. Certo non volevo fermarmi a questo. Perché questo libro fosse utile, incisivo, sortisse degli effetti dovevo mixare queste storie con dati oggettivi e approfondimenti che ti facessero sentire che stai cominciando a comprendere e ti dessero la voglia di saperne di più».
«La fame non fa notizia», lei scrive. Fanno notizia le carestie, ma non lo stillicidio quotidiano delle morti “silenziose” per fame…
Non rendersene conto è facile, perché non si tratta di un evento, è qualcosa che accade ogni giorno. Apparentemente non c’è nulla da dire, «è la norma». Ma sono esseri umani come noi ed è inaccettabile far finta di niente. È questo chiudere gli occhi che volevo tentare di impedire scrivendo questo libro. Nella storia la fame del popolo è stata usata dal potere. Nell’antica Roma, come sotto il fascismo, le distribuzioni di derrate servivano per tenere buono il popolo. L’opulenza e lo spreco del banchetto del Satyricon di Petronio andava perfettamente a braccetto con il suo opposto. È ancora vero tutto questo?
Ovviamente tante cose sono cambiate. E abbiamo pensato che la fame fosse una questione risolta in Occidente. Ma ci stiamo dolorosamente accorgendo che non è così. Per esempio in Spagna, con la crisi, il problema sta drammaticamente riemergendo. Negli ultimi cinque anni è ridiventata un tema politico, mentre fin qui era un problema confinato alle questioni “umanitarie”. Invece le emergenze umanitarie sono le questioni politiche più stringenti.
Abbiamo parlato di uso politico della fame ma c’è anche un uso religioso. Nel suo libro lei denuncia la rassegnazione favorita, per esempio, dall’induismo e dalla religione cattolica
La religione approfitta delle persone che soffrono la fame: la fede in qualche modo serve a sopportare la fame. La religione ti offre facilmente un rifugio, non aspetta altro. Nel libro cito una frase di Madre Teresa di Calcutta che da questo punto di vista mi sembra straordinariamente chiara: «E bellissimo vedere i poveri che accettano la loro sorte, che la subiscono come la passione di Gesú Cristo. La loro sofferenza e di grande aiuto per il mondo». Lo ha ripetuto più volte. Ecco trovo veramente inaccettabile questo incoraggiamento alla rassegnazione. Restare poveri, morire di fame, rassegnarsi è bene perché la ricompensa è nell’aldilà. Questo è ciò che la religione vorrebbe imporci di pensare.
Premio Nobel per la pace nel 1997, Madre Teresa riceveva finanziamenti milionari e ascolto internazionale, ma come denunciò Christopher Hitchens nel libro inchiesta La posizione della missionaria (Minimum Fax) teneva questi soldi in conti esteri privati. Nel suo libro lei racconta di aver visto il suo “moritorio” dove la gente poteva morire in modo ordinato…
Sono stato a Calcutta nel 1994, lei era molto famosa. E anche se aveva già fondato molti conventi nel mondo, non aveva costruito nessun ospedale. Nel suo “quartier generale” non offriva alcuna attenzione medica alle persone malate che aveva raccolto per strada. Anzi nel suo“moritorio” le persone morivano di patologie per le quali da anni non si muore più. E questo accadeva per la sua ideologia. Ciò che era importante per lei, era che tu morissi bene non che tu vivessi bene. E questo è davvero spaventoso. Madre Teresa usava l’aura di santità che era riuscita a ottenere: i santi possono dire quello che vogliono, dove e quando vogliono. Usava quel biglietto da visita per portare avanti le sue campagne: in primis la lotta contro l’aborto e la contraccezione. Nonostante tutto questo ricevette fiumi di premi, donazioni, sovvenzioni per le sue imprese religiose. E non rese mai pubblici i conti della sua impresa.Ma è più facile chiudere gli occhi. Tanta gente preferisce pensare che fosse tanto buona. Oggi accade qualcosa di analogo con papa Bergoglio, che per altro è assai piú potente. Così l’ex cardinale peronista, “tanto buono”, cerca di risollevare un’istituzione in caduta libera.
Venendo all’ultima parte del suo libro in cui lei racconta la dura realtà del Bangladesh, ma anche gli effetti di certo neoliberismo Usa, potremmo dire che ci sia un interesse economico nel mantenere situazioni di fame? Per dirla con una sua citazione da Amarthya Sen, come possiamo fare per non essere gli invitati al banchetto di Nerone?
Non c’è un interesse economico nel mantenere la fame ovunque. In molti casi, nella maggioranza direi, la fame è un “effetto collaterale”. Non è nemmeno una cosa cercata, semplicemente “accade”. E nessuno ci bada. E questo, se vogliamo, è ancora più spaventoso. Se sei a Chicago e vuoi fare affari, speculando, alzi il prezzo del mais e non ti preoccupi se milioni di persone per questo soffriranno la fame, non ci fai caso, è un aspetto secondario. Noi occidentali ricchi viviamo in un modo che fa sì che molti altri muoiano di fame, ma non sprechiamo cibo apposta, non ci organizziamo la vita in modo che accada. Ma è vero anche che ci sono casi in cui la fame è determinata ad hoc, questo è il motivo per cui sono andato in Bangladesh. Volevo documentare questo fatto: è lo spauracchio della fame a far accettare un lavoro di dieci ore al giorno per sei giorni la settimana alle donne, ottenendo 20 euro al mese, e i padroni se ne approfittano .È ciò che è accaduto per lungo tempo anche nella nostra storia. Non possiamo far finta di niente.
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«Serve almeno un miliardo di euro per garantire il diritto allo studio e per assumere giovani ricercatori. Altrimenti l’università italiana muore». È il professor Gaetano Manfredi, rettore dell’Università Federico II da poco eletto alla presidenza della Crui (Conferenza dei rettori delle università italiane) a lanciare l’ennesimo appello per salvare la formazione universitaria in crisi (sul numero di Left in uscita il 3 ottobre un ampio servizio). Ingegnere, 51 anni, Manfredi propone anche soluzioni per la formazione tecnica superiore, un modo per agganciare gli studenti degli istituti tecnici e professionali.
Professor Manfredi quali sono le maggiori storture nel sistema universitario italiano?
Il primo punto è il numero molto basso dei giovani che si iscrivono all’università. Purtroppo è un dato molto sconfortante se confrontiamo l’Italia con altri Paesi industriali.
Siamo all’ultimo posto in Europa anche per numero di laureati.
Si e agli ultimi posti anche per iscritti. Tutto questo è preoccupante perché significa che siamo un Paese che non fa un investimento sul capitale umano.
Quali sono le soluzioni?
Sicuramente si tratta di incidere sul diritto allo studio: noi abbiamo un sistema troppo frammentato e diseguale a livello nazionale. E nelle regioni con più sofferenza sociale ci sono meno risorse, il che è un vero paradosso. Bisogna quindi garantire la borsa di studio a tutti gli aventi diritto. È assurdo che ci siano gli idonei senza avere la borsa. Oltre al diritto allo studio c’è poi un altro tema che mi sta particolarmente a cuore.
Quale?
Parto dalla mia esperienza di una università come quella di Napoli che si trova in una grande area metropolitana e in una regione con 6 milioni di abitanti. Per evitare i fallimenti, soprattutto al primo anno, bisognerebbe intervenire su alcuni aspetti che riguardano la filiera che va dalla scuola superiore all’università. Perché c’è sempre più distanza tra le abilità con cui i ragazzi escono dalle scuola di secondo grado e la domanda dell’università. Occorre quindi un orientamento attivo nell’ultimo anno delle superiori, in modo da cercare di colmare questo gap, soprattutto là dove i sistemi scolastici sono più deboli.
L’università deve intervenire nelle scuole superiori?
Finora abbiamo considerato la formazione per compartimenti stagni: l’università, o ha guardato poco o non ha guardato affatto alla scuola, e quest’ultima, da parte sua, ha fatto altrettanto nei confronti dell’università. Bisogna mettersi attorno a un tavolo e cercar di lavorare insieme perché è lo studente a dover essere al centro di ogni progetto formativo.
Esiste poi un altro divario, perché tra gli iscritti all’università si registra sempre di più un calo degli studenti dei tecnici e dei professionali.
È una gravissima perdita. Noi dobbiamo dare una risposta sull’offerta dell’università, magari guardando anche agli esempi delle scuole tecniche tedesche. Oggi abbiamo un po’ saturato l’idea di università tradizionale, orientata verso profili cosiddetti teorici. Dobbiamo puntare anche a profili un po’ più professionalizzanti che si potrebbero mettere meglio in relazione con gli istituti tecnico-professionali.
Lei si riferisce ai settori tecnologici?
Mi riferisco anche alle aree umanistiche: si tratta di pensare lauree triennali che siano più vicine ad una applicazione pratica. Ci sono tanti giovani che vogliono crescere anche con una formazione di questo tipo.
Veniamo alla ripartizione delle risorse. Cosa pensa del divario esistente tra atenei del Nord e quelli del Sud? Il suo, è tra gli ultimi quanto a ricambio del turnover.
Prima di tutto occorre aumentare il finanziamento alle università. Oggi c’è chi ha meno e chi di più ma il problema è che l’università è il settore della pubblica amministrazione più tagliato, quello dove il blocco dl turnover è stato più severo. Se non si aumenta il finanziamento, non ce n’è per nessuno, né per quelli competitivi né per quelli in difficoltà. Ora, se per la qualità della formazione universitaria non possiamo fare deroghe perché non possiamo ammettere che esistano università a due velocità, nella ripartizione delle risorse non si deve tener conto del valore assoluto ma dei miglioramenti relativi di quegli atenei che partono in condizioni di maggior svantaggio. In questo modo si potrebbe aiutare realtà che hanno ereditato un passato molto difficile e che ora stanno facendo sforzi per cambiare.
Su Left vi spieghiamo perché queste classifiche sono drogate dalla quantità di fondi a disposizione
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Cosa è importante: premiare le eccellenze o ripartire le risorse un po’ a tutti?
Le due cose non sono incompatibili, sono necessarie. Le eccellenze vanno alimentate perché sono il traino di tutto il sistema e, tra l’altro, ci consentono di competere a livello internazionale. Ma dobbiamo far sì che si alzi anche la qualità media. Quindi sono validi entrambi i percorsi che non possono essere considerati alternativi.
Lei prima ha parlato di aumentare il finanziamento, Quanto sarebbe necessario? Tenendo conto che adesso l’Italia spende 7 miliardi e la Germania 27, quanto occorrerebbe per rimettere in piedi l’università italiana?
Dobbiamo fare i conti con le condizioni della nostra finanza pubblica, ma perlomeno dovremmo avere quello che ci è stato tagliato. Un miliardo di euro consentirebbe all’università di ritornare agli standard precedenti che avevano comunque percentuali basse, ma almeno cominciamo a ragionare. E’ vero che noi italiani siamo bravi anche con pochi soldi ma facendo una dieta dimagrante eccessiva si muore. Io sognerei di avere i 27 miliardi della Germania, però mi accontenterei di avere il miliardo che ci è stato tolto. Servirebbe ad assumere i giovani ricercatori perché una università vecchia è un’università morta. Consentirebbe poi il ripristino degli scatti stipendiali e il sostegno del diritto allo studio.
Lei in un’intervista al Sole 24 ore ha detto che sarebbe necessario eliminare i vincoli burocratici acquistando più autonomia. Questo significa che l’università è fuori della Pa?
Non credo che la soluzione sia uscire dalla pubblica amministrazione che mi sembra più uno slogan che un’applicazione pratica. Penso però che l’università sia un comparto che ha le sue specificità. Due esempi: per le missioni geologiche o archeologiche, ci sono troppi vincoli oppure se esistono limiti agli straordinari, non posso aprire le aule o le biblioteche agli studenti. Noi bisogna garantire formazione e ricerca, non facciamo pratiche burocratiche.
Lei appena è stato eletto presidente della Crui ha parlato con il ministro dell’Istruzione Giannini, cosa le ha detto del futuro dell’università? Le ha dato rassicurazioni sul miliardo?
Non abbiamo parlato di quantità, ma il ministro mi ha assicurato che c’è un forte impegno anche da parte sua e di tutto il governo e dello stesso Renzi per dare risposte partendo dai giovani. Si è parlato di diecimila posti in modo da ristabilire la situazione precrisi e di far rientrare i giovani dall’estero. Si è parlato anche di interventi sul diritto allo studio e poi mi auguro investimenti nelle università, ripristino scatti e nuove tecnologie.
Lei è ben determinato a sfatare anche campagne che delegittimano lo studio universitario?
Si sono dette tante sciocchezze, ma tutti i dati dicono che una laurea è il miglior viatico per avere un posto di lavoro, è sempre stato così e continuerà ad essere così. Il fatto che la laurea non serve è un luogo comune. L’università è cambiata, c’è stato un ringiovanimento, i rettori hanno quasi tutti la mia età… I baroni? Ma dove stanno? Forse un tempo c’erano ma oggi si cercano con la lanterna. L’università è molto cambiata, bisogna dare fiducia a questa altra immagine che c’è. E si rafforza inserendo più giovani, più merito e qualità.
Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Ecco la chiacchierata con Paolo Zanardi
Paolo Zanardi è un cantautore pugliese, romano d’adozione, nato il 9 gennaio 1968. Inizia a suonare nel 1994 con i Borgo Pirano – che vincono il premio Ciampi nel 1996 e il Premio Città di recanati nel 1998. Inizia, poi, la sua carriera solista nel 2005 con Portami a fare un giro, seguito da I barboni preferiscono Roma del 2007 e Tutte le feste di domani del 2011. È prevista, per il 10 ottobre, l’uscita del suo nuovo album solista per Lapidarie Incisioni, Viaggio di ritorno.
Zanardi, dove vai e da dove ritorni?
Ho scelto quel titolo perché alla mia età, ormai, il “viaggio” è al contrario. È di ritorno verso “casa”. Questo è un disco “urbano”, molti brani parlano dei posti dove vivo, di Roma e delle sue periferie multietniche. È il compendio degli ultimi tre o quattro anni vissuti in vari appartamenti e in varie periferie della Capitale. Sono come delle puntate sparse di un film mai realizzato.
Abbiamo aspettato quattro anni per l’uscita di un tuo nuovo disco, come mai tanto tempo?
Tendo a prendermela comoda… la maggior parte dei brani era pronta già tre anni fa. Quelli del prossimo album sono già pronti, ma magari usciranno tra anni. Perché è difficile, ogni volta, trovare qualcuno che investa in un artista, ma per questo disco ho trovato il supporto di un’etichetta romana, Lapidarie Incisioni.
“Arca di Noè”, il primo singolo in anteprima, è un brano denso di significati, alcuni subliminali: la fine del Mondo, Noè – e quindi Dio – come Salvezza, l’Amore come mezzo “clandestino” per sopravvivere. Qual è la genesi del brano?
È nata di getto. Un mio amico fissato con la macrobiotica e la salvezza del pianeta mi parlava spesso dei ghiacciai in scioglimento, e volevo scrivere da anni qualcosa di ironico a riguardo, poi il pezzo è andato in tutt’altra direzione. Se c’è qualcosa di mistico non è certo qualcosa di teologico o divino, ma più teso verso la Natura, massacrata dagli uomini. Pur non essendo un ecologista amo molto gli animali. Per il resto, per me l’ideale è quando una canzone è aperta e ognuno può cercare il proprio significato.
Un altro pezzo, “C’è splendore in ogni cosa”, lo hai dedicato a Piero Ciampi. Perché hai scelto lui?
Sì, l’ho dedicato a lui, anche se non l’ho neanche scritto sul cd perché ormai va di moda “usare” Piero Ciampi. Lo ammiro molto e lo ritengo inimitabile nel panorama musicale. L’omaggio in realtà è venuto dopo aver scritto il brano, avevo utilizzato nella canzone un verso da “Te lo faccio vedere chi sono io” (brano di Ciampi del 1973, ndr) e volevo quasi risarcirlo. È un omaggio sentito e molto personale, per questo ho evitato di manifestarlo sul disco.
Nei tuoi brani rifuggi drasticamente dalla retorica dei giorni d’oggi, dalla pretesa di far poesia con le canzoni. Trovi cambiato il linguaggio musicale nei tuoi oltre vent’anni di attività?
Quando un mio brano scade nella retorica lo ritengo un fallimento. Punto ad andare contro una certa musica underground, quel cosiddetto “indie rock italiano” che abbonda di testi spesso fintamente poetici, che trovo sconfortanti. Una volta essere “indipendente” era motivo di orgoglio, c’erano musicisti liberi per davvero e non travestiti da “sanremesi” repressi che non vedono l’ora di farsi vedere da mamma e papà. Io sono legato alla musica che ascoltavo nella mia adolescenza, i Diaframma, i Cccp, gli Avion Travel, musica molto più valida.
Una volta… e adesso cosa vuol dire essere “indipendente”?
Il termine “indipendente” oggi mi sembra inflazionato. Non ti nascondo che ho più confidenza con il concetto di “dipendenza” in generale: sono drammaticamente dipendente da tutto, dai rapporti, dalle persone. In tutto tranne che nella musica, lì sono il più indipendente di tutti. Ma oggi “indipendente” significa solo non avere soldi e adattarsi.
E il mercato, invece, com’è cambiato?
La discografia ormai è un’opinione, i dischi si fanno a fondo perduto e forse tra qualche anno non si faranno più. Per me è un dramma. Il disco è un oggetto bellissimo, che compravamo anche solo per la copertina, e io sono ancora molto legato al vinile. Dal cd a oggi la svalutazione della musica è costante, fino ad arrivare allo streaming e al digitale che hanno ucciso i diritti d’autore. Soldi non ce ne sono più e quindi si rischia sempre di meno, l’unico modo per tirare su qualche soldo è fare concerti. È una forma di delirio organizzato: la prossima volta che vado al supermercato mi porterò la chitarra e proporrò di pagare la mia spesa con uno stornello!
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A sentire Matteo Renzi è «l’unico settore dove si sta incrementando». Per il ministro Lorenzin «non esiste che c’è un taglio di prestazioni». Allarme rientrato dunque? La sanità pubblica è al sicuro da riduzioni di budget?
Procediamo con ordine: ieri alla Camera il presidente del Consiglio ha ricordato che «nel 2002 erano 75 i miliardi del Fondo sanitario nazionale, quest’anno 110, l’anno prossimo 111. Questo per essere chiari che questo Paese non sta tagliando sulla sanità». «La cosa buona è che è comunque aumentato, ma ci vuole di più sicuramente» ha confermato il ministro della Salute parlando del Fondo e della necessità di «un incremento graduale ma costante».
Secondo Claudio Cricelli, presidente della Società italiana di medicina generale e delle cure primarie (Simg), «non è vero che il fondo sia stato aumentato come sostiene Renzi. Oggi si aggira attorno ai 109 miliardi. La sanità è stata sottoposta alla spending review e noi sappiamo che ci sarà una riduzione del finanziamento». (L’intervista completa assieme a servizi e altre interviste su Left in edicola)
Altro capitolo: il cosiddetto “decreto inappropriatezza”, quello con cui il ministro della Salute mette sotto osservazione i medici imponendogli di ridurre all’essenziale una serie di esami clinici (208 per la precisione). «Su quelle si chiede al medico di agire con appropriatezza» ha minimizzato Lorenzin. «Abbiamo in Italia il record delle risonanze magnetiche: ne facciamo più del resto d’Europa. Eppure qui da noi la qualità della vita è tra le più elevate, quindi qualcosa non torna».
I medici contestano le sanzioni e l’evidente limitazione alla loro libertà. Ma non hanno da temere, a sentire il ministro. «Lo scopo di questa norma non è la sanzione» spiega: a suo avviso saranno pochissime. L’obiettivo è «dare un aiuto ai medici dandogli una lista di percorsi diagnostici che vengono dalle best practices».
Soltanto allarmismo dunque? Claudio Cricelli non la pensa così. «Il decreto inappropriatezza fa pensare a medici iperprescrittori, ignoranti e sperperatori del denaro pubblico. Ma questa non è affatto la realtà. I professionisti in questo Paese sono molto più attenti e preparati di quanto pensi questo governo», replica il presidente di Simg. «Il rischio è che la medicina diventi astensiva, che i medici prescrivano sempre meno e i pazienti siano costretti a rivolgersi al privato. Ma non tutti se lo possono permettere».
“O mio Dio, qualcuno sta sparando all’interno del college”. Queste le parole di Kayla Marie su Twitter. La stessa ragazza, poco dopo dirà che sta bene. Nove morti e una ventina di feriti, alcuni gravi. L’ultima strage è capitata in un College di Roseburg, una piccola città nel sud dell’Oregon. Si chiama, Umpqua ed è uno dei 17 community college dell’Oregon conta circa tramila studenti e circa 200 docenti. A uccidere una sola persona, il 26enne Chris Harper Mercer, non sono chiare le cause, come se ce ne potessero essere. Aveva tre pistole e un fucile semoiautomatico e sembra che abbia chiesto “di che religione siete” a degli studenti prima di aprire il fuoco. Tre giorni fa aveva caricato su un profilo social un documentario sulla strage di Sandy Hook.
Ucciso dalla polizia durante una sparatoria dopo che le pattuglie erano accorse sul posto. Si era parlato di arresto, ma lo sceriffo della contea ha confermato la morte e ha parlato di un maschio di 20 anni. Qui sotto l’audio della radio della polizia.
Questa è la quarantinquesima volta nel 2015 che capita una sparatoria in un edificio dedicato all’istruzione. I casi sono mlto diversi gli uni dagli altri: ci sono i quartieri dove circolano troppe armi tra i ragazzi (di solito afroamericani) e i casi in cui i ragazzi trovano le armi in famiglia. E poi altre tipologie: il professore licenziato, ecc. In rete circola questa possibile minaccia lasciata in una chat room di 4Chan: “Alcuni di voi sono bravi ragazzi, non andate a scuola domani se abitate nel nord-ovest” l’Oregon è nel nord ovest. Vedremo se è una di quelle piste false della rete.
Ma perché in America si uccide tanto e circolano tante armi senza che le autorità facciano nulla? La risposta semplice è in questo grafico qui sotto: su un asse il numero di armi per mille abitanti, sull’altro il numero di vittime. Gli Usa non temono rivali.
Il presidente Obama ha rilasciato una dichiarazione ed è apparso furioso: «Questa è diventata una routine e ogni volta io esco e da questo podio ripeto che preghiamo e siamo addolorati. Ma non basta, non conforta il dolore delle persone e non ferma queste stragi. Ce ne sarà un’altra tra una settimana o due mesi. Non sappiamo chi sia stato, possiamo supporre che si tratti di una persona malata, ma non siamo l’uico paese al mondo dove ci sono persone con disturbi. Siamo gli unici dove non preveniamo queste stragi….Sento già qualcuno spiegarci che per prevenire queste stragi servono più armi…davvero c’è qualcuno che crede a queste cose? Altri diranno che queste mie parole cercano di “politicizzare la questione”. Bene, politicizziamo. Chiedo ai media di mostrare agli americani i dati sui morti per terrorismo e confrontarli con quelli sulle morti per armi, non li darò io». Qui sotto la dichiarazione di Obama.