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Il consumo di suolo avanza. Ma la proposta di legge giace

Tic tac. Per ogni secondo che passa otto metri quadrati di terra vergine vengono asfaltati o cementificati. Un consumo di suolo che negli ultimi 50 anni ha avuto un ritmo di 90 ettari ogni giorno. L’emergenza ambientale la ricorda il geologo Mario Tozzi sul quotidiano La Stampa di ieri. È un’emergenza che supera di intensità persino il fenomeno dell’inquinamento, da amianto e da traffico. Secondo i conti riportati di Tozzi, e già denunciati dal Wwf a febbraio, di questo passo, nei prossimi 20 anni saranno perduti 660mila ettari. Come se asfalto e cemento inghiottissero una regione grande due volte la Valle d’Aosta.

Il consumo di suolo in Italia - Edizione 2015

No, preoccuparsene non è una roba da hippy. Le conseguenze di ciò sono il danneggiamento dell’equilibrio idrogeologico, quello di cui ci ritroviamo a parlare ogni qual volta un fenomeno naturale travolge o annega le nostre case, le nostre auto, le nostre città. Per non parlare poi del paesaggio e dei danni che questo disastro provoca alla nostra salute.

E infatti il mondo intero – dalla Green Grid di Londra al Green Infrastructure Plan di New York – parla di shrinking cities (città in contrazione), di land grabbing (accaparramento della terra) di come potenziare la biodiversità nelle aree urbane, di come progettare il verde. E infatti l’Europa, nel 2011, ha già fissato una “tabella di marcia” con l’obiettivo di un consumo netto di suolo pari a zero per il 2050.

In Italia, in Parlamento, c’è una proposta di legge per ridurre il consumo di suolo (e puntare al consumo di suolo netto zero entro il 2050). L’ultima versione del testo di legge è aggiornata al 20 gennaio 2015 e potete scaricarla cliccando qui. Che fine ha fatto? Giace da più di due anni in Parlamento.

Tic tac. Otto metri quadrati per ogni secondo. Anche in questo, secondo.

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I Peanuts compiono 65anni oggi

Sugli autobus delel grandi città campeggiano già le pubblicità del film in 3D in uscita a novembre. Ma 65 anni fa oggi, la striscia di Schulz faceva la sua prima apparizione. Charlie Brown, Linus, Snoopy e Lucy e il grande cocomero (che naturalmente è una zucca, quella di Halloween) entreranno pian piano nell’immaginario collettivo del pianeta come poche altre strisce. Prima in quello degli adulti, che di una striscia per adulti si tratta, e poi con il successo planetario, anche per i bambini. Qui sotto alcune tra le prime strisce pubblicate, dove si nota una differenza con l’evoluzione successiva del tratto di Schulz e il trailer del film.

 

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Peanuts, 65 anni fa il primo fumetto di Schulz

Se mi tagli, mi uccidi. La sanità pubblica minacciata

tagli alla sanità pubblica

Non è vero che la nostra sanità è fonte di sprechi. Anzi, i servizi sanitari italiani sono tra i più efficienti al mondo. È vero invece che tra i Paesi dell’Ocse l’Italia è uno dei pochi che riduce la spesa per la sanità e che laddove – come la Lombardia – è stato scelto un approccio privatistico, questo sì, fa produrre sprechi e ipermedicalizzazione. Sul prossimo numero di Left Pietro Greco analizza a fondo la situazione della Salute pubblica dimostrando l’incongruenza del decreto Lorenzin che prevede tagli a esami clinici importanti come le Tac, le risonanze o le semplici analisi del sangue. Con questo provvedimento, la prevenzione verrebbe colpita e si creerebbero diseguaglianze sociali ancora più gravi di quelle già esistenti. In più, il decreto mina il rapporto tra il medico e il paziente, visto che a decidere se alcune prescrizioni sono “appropriate” sarà un funzionario della Asl che avrà il mandato di sanzionare il medico “disobbediente”. «La sanzione è di per sé uno strumento che mal si adatta alla professione medica, che si basa su un rapporto umano di fiducia», afferma a Left l’oncologo Umberto Veronesi. Mentre il presidente della società italiana di medicina generale Claudio Cricelli contesta duramente il decreto temendo che «una parte dei medici faccia un passo indietro, e per cautela, rimandi le prescrizioni. Insomma, una medicina che passa da preventiva ad astensiva».

Se la sanità pubblica è minacciata dai tagli, anche la formazione non sta bene. Anzi, se non si prevedono risorse, l’università italiana è destinata a scivolare nel baratro. Mentre si attendono provvedimenti del governo, su Left la radiografia degli atenei italiani, ultimi in Europa per numero di laureati e per finanziamenti pubblici.

Left non può non ricordare Pietro Ingrao, attraverso il racconto di Andrea Satta, voce dei Tête de bois, che hanno curato la colonna sonora del film di Filippo Vendemmiati sulla vita del grande politico appena scomparso Non mi avete convinto. Quello che emerge è il ritratto di un vecchio compagno e di un poeta «sospeso fra la Luna e Lenola».

E ancora: l’incontro con Corradino Mineo che a 360 gradi parla di riforma Rai, del Pd e del Parlamento che «non conta più nulla». E poi un’inchiesta sull’industria della musica, uno dei tanti aspetti del Mei (Meeting delle etichette indipendenti) di Faenza, a cui partecipa anche Left.

Negli esteri il punto sul nuovo governo Tsipras tra memorandum da rispettare e uomini dell’ex Pasok che stanno cambiando il volto di Syriza. Fino alla Spagna dove Iglesias deve fare i conti con il voto in Catalogna che ha visto Podemos in netto calo. Umberto De Giovannangeli racconta tutti i muri del mondo,  poi la storia – fatta anche di autoscatti – di Nasim, un giovane afghano che dopo un interminabile viaggio ha trovato una vita in Germania. Si trova in un «corridoio tra America e Italia» Gabriele Muccino, il regista italiano che piace a Hollywood e che ha appena girato il film Padri e figlie. Dalle logiche commerciali del cinema americano alla crisi della famiglia, il regista ribatte «non mi sto americanizzando». Per la letteratura, parla di mare, di migranti e di libertà, Björn Larsson, lo scrittore svedese celebre per La vera storia del pirata Long John Silver, mentre Adriano Prosperi recensisce il libro 24/7 Il capitalismo all’assalto del sonno di Jonathan Crary. Per la scienza, il punto della sociologa Marina Mengarelli sull’operato del ministro Lorenzin in tema di fertilità dove eccede il paternalismo. E infine per gli spettacoli un’intervista a Neffa sul suo ultimo album Resistenza in chiave soul.

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Siria, la nuova frontiera dello scontro Russia-Usa

Il Grande Medio Oriente è il terreno di confronto-scontro fra gli Stati Uniti e la Russia, tra un presidente in fuga dalle responsabilità (Barack Obama) e uno “zar” che ha fatto della più esplosiva area del mondo, il campo d’azione per rinverdire le ambizioni di potenza globale di una Russia che l’inquilino della Casa Bianca aveva cercato di mettere all’angolo nella crisi ucraina. Lo spauracchio dello Stato islamico non basta per riproporre una “Grande coalizione” antiterrorismo che veda dalla stessa parte della barricata Washington e Mosca.

Ciò che sta avvenendo in Siria è la rappresentazione di questa nuova frontiera dello scontro di potenza russo-americano. La Siria, dove da tempo ormai una guerra che ai suoi albori vedeva un regime, quello di Bashar al-Assad, rispondere con le cannonate a manifestazioni di pazza che s’inserivano nella scia della stagione, ormai tramontata, delle “primavere arabe”; ora, almeno da tre anni, quella combattuta in Siria è una guerra per procura, nella quale ogni attore regionale – Turchia. Egitto, Arabia Saudita, Iran, Qatar – ha scelto i propri referenti sul campo da finanziare e armare, con l’obiettivo praticato, se non dichiarato, di far vivere un proprio Stato satellite – le quattro Sirie – sulle macerie di uno Stato unitario fallito.

In questo “risiko” devastante, il “Califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi è solo una pedina di un gioco più grande. E se oggi lo Stato islamico è ancora insediato in un territorio, fra Siria e Iraq, grande quanto l’Italia (isole escluse) non è per l’invincibilità delle sue armate – che non esiste, come testimonia l’eroica resistenza dei peshmerga curdi – ma per le contraddizioni interne a quella “grande coalizione” assemblata dall’America. Basta pensare all’Arabia Saudita: Riad è, formalmente, dentro la coalizione anti-Isis ma allo stesso tempo, e il discorso vale anche per la Turchia di Erdogan, non vuole assolutamente che la sconfitta dell’Isis si traduca in un rafforzamento dell’odiato alauita Baashar al-Assad: ecco allora i finanziamenti e le armi che le petromonarchie del Golfo continuano a far affluire alla filiera siriana di al- Qaeda, il Fronte al-Nusra.

Riad sa di poter contare in questo suo doppio gioco su importanti alleati europei, con i quali fa affari miliardari nel settore degli armamenti e dell’industria militare, prima fra tutti la Francia del “Napoleone del Terzo Millennio”, al secolo Francois Hollande. I raid aerei francesi, un ininfluente spot militare, servono soprattutto per lanciare un segnale alla dinastia Saud: Parigi c’è, agisce sul campo (o meglio nei cieli), fregandosene delle perplessità degli altri Paesi dell’Ue, l’Italia in primis, e non permetterà che la Siria diventi una propaggine mediorientale dell”impero persiano”.

 

 

 

In questo caos armato, c’è spazio per lo “show” di Barack Obama, Barack l’indecisionista, l’ondivago, un giorno diplomatico e l’altro (falsamente) muscolare, che fa la voce grossa contro la Russia ma poi colleziona figuracce sul campo (ultima in ordine di tempo, l’addestramento, costo 500 milioni di dollari, di un centinaio di ribelli anti-Assad non jihadisti, che appena entrati in Siria si sono consegnati, con le armi nuove di zecca made in Usa, ai miliziani qaedisti di al-Nusra). L’inquilino della Casa Bianca si cimenta in una improvvida, e impossibile, quadratura del cerchio: sdogana l’Iran ma al tempo stesso si tiene buoni, o prova a farlo, i regnanti sauditi, usa parole durissime contro il dittatore di Damasco ma non agisce di conseguenza.


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Soldati Russi in Siria. Come e perchè stanno cambiando gli equilibri in Medio Oriente


 

Ad approfittarne è “Zar Vladimir”. Putin ha scelto con chi stare e ha perseguito con determinazione la sua strategia di penetrazione in Medio Oriente: ha puntato sul regime baathista siriano, ha rafforzato i legami di Mosca con Teheran, ha portato dalla propria parte il governo iracheno. Al capo del Cremlino importa poco o nulla del destino personale di Bashar al-Assad: in Siria, la Russia difende i suoi interessi geopolitici – la base di Tartus sbocco cruciale nel Mediterraneo – e vuole avere voce in capitolo nella determinazione del dopo-Assad. In questa chiave, Mosca è pronta a fare ciò che l’Occidente non farà mai: mettere “gli scarponi a terra”, combattendo contro l’Isis e per mantenere in vita un regime che può continuare ad essere utile (agli interessi russo-iraniani) anche dopo l’uscita di scena (negoziata nei tempi e nelle modalità) di Assad e del suo clan.

Tra l’indecisionista di Washington e il cinico calcolatore di Mosca, c’è un popolo in ostaggio, in fuga, terrorizzato dai tagliagole di al-Baghdadi ma che sa bene che Assad non rappresenta il “male minore”, perché è sua, più di chiunque altro, la responsabilità di aver ridotto la Siria ad un cumulo di macerie, e quello siriano in un popolo di profughi.

Senato, il “canguro” fa infuriare le opposizioni

«Boia», «traditore», «servo», «la democrazia è morta anche oggi». Pietro Grasso se ne è sentite dire di ogni colore, nelle ultime due giornate di discussione al Senato. Le ore più calde sono quelle che hanno preceduto l’approvazione dell’emendamento Cociancich, che riscrive per intero l’articolo 1 – cui è stata finora dedicata la discussione in aula – facendo così decadere tutti gli emendamenti delle opposizioni. Si tratta dell’ormai celebre “canguro”, escamotage già sperimentato più volte in questa legislatura, come sull’Italicum, quella volta con un emendamento a firma Stefano Esposito, ben contento di avere il suo ennesimo momento di gloria (Esposito è il SìTav ora anche assessore ai trasporti a Roma).

La maggioranza non ha avuto problemi ad approvare l’emendamento, anche perché è ormai costante il supporto dei senatori che rispondono a Denis Verdini. Sono infatti 177 i sì, 57 i no (Lega e 5 stelle non hanno votato), 2 gli astenuti. Il dibattito comunque è ancora lungo. Ma se la maggioranza continua con queste forzature non dovrebbe aver problemi ad approvare tutto entro la scadenza fissata per il 13 ottobre.

Grasso ha cercato di difendere il suo modo di presiedere l’aula: «È due giorni che discutiamo», ha detto, «e ancora siamo all’articolo 1». Per le opposizioni – 5 stelle in testa, dotati di formidabili ugole – non è così. E se seguire la seduta in diretta (sconsigliamo vivamente!) vi spingerebbe a dar ragione al governo, e anzi a dire – come ormai dicono in molti nelle opposizioni – che a questo punto è veramente molto meglio del pasticciato Senato riformato da Renzi, abolire proprio la seconda camera. Si segnala a tal proposito l’intervento di Giulio Tremonti che ha ricordato come il bicameralismo, quando vuole, «approva le leggi ritenute fondamentali in meno di 60 giorni».

Per abolire il Senato, comunque, si farebbe ancora in tempo. Non sono stati accogli gli emendamenti che lo proponenvano intervenendo sull’articolo 1 della riforma, ma ce ne sono altri che propongono la stessa cosa intervenendo sull’articolo 2 o sul 7. Non ci sarebbe più il problema di come eleggere i senatori part-time, né di quali competenze dare a un Senato delle autonomie che rischia di non avere neanche il compito di vegliare sull’operato delle regioni. Ma, il tutto, rientra nelle battaglie d’aula. Nulla di percorribile, spiace deludervi.

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Primarie Usa: Trump rispedirebbe i rifugiati in Siria, Sanders incalza Clinton anche nella raccolta fondi

«Se vinco io i rifugiati siriani tornano a casa». Donald Trump, in lieve difficoltà nei sondaggi, ma sempre saldamente in testa per la nomination repubblicana, torna a toccare la corda più estrema che ha, quella dell’immigrazione. Chi torna a casa sono i rifugiati siriani che il governo americano ha promesso di accogliere nei prossimi due anni (circa 200mila). «Sono quasi tutti uomini, potrebbero essere gente dell’ISIS e questa potrebbe essere una strategia» è la ragione per cui è meglio non accoglierli data durante un comizio in New Hampshire.

Il fatto che la dichiarazione sia incoerente e faccia a pugni con un’altra frase detta dallo stesso Trump, non conta. Nei giorni successivi alla commozione planetaria per la morte di Aylan Kurdi, lo stesso Trump aveva più o meno detto: non sono entusiasta, ma ci sono momenti in cui bisogna fare qualcosa. Il miliardario costruttore picchia duro e non cerca coerenza: un giorno solletica le corde della pietà, perché la gente davanti agli schermi è commossa, e il giorno dopo torna sul tema che ha contribuito a farne il front-runner: l’immigrazione, stavolta condita dalla guerra al terrorismo e dal pericolo musulmano. Nello stesso comizio, Trump ha anche ricordato di quando Eisenhower rimpatriò centinaia di migliaia di persone.

La sua è una campagna populista oltre il populismo, Trump dice quel che la base repubblicana militante (quella che partecipa alle primarie) vuole sentirsi dire, rassicura su un ritorno a tempi che furono, spiega che sarebbe giusto tassare di più i ricchi, ma, la sua proposta del sistema fiscale non avrebbe effetti sulle tasche dell’1%. E questa è una costante di tutti i candidati repubblicani, fatto salvo Marco Rubio.

Trump parla per la maggioranza silenziosa – che è una minoranza, probabilmente anziana – preoccupata per il futuro e che non si riconosce nell’America che cambia. Una costante di una parte della società Usa che in questi anni ha votato repubblicano e che non si sente rappresentata dall’establishement del partito a Washington, giudicato allo stesso tempo non abbastanza combattivo, da un pezzo della destra, e incapace di produrre risultati e rispondere ai bisogni della gente. L’outsider che spara a zero contro tutti, continua a funzionare e Trump cavalca l’onda. Anche se, come si evince dai grafici qui sotto, l’opinione americana nei confronti degli immigrati non è poi così negativa, il 51% ritiene che daranno forza al paese, mentre soli 1l 41% pensa che siano un peso (molto peggio l’Italia, dove l’opinione pubblica è la peggiore tra quelle indagate dal Pew research Centre per questa indagine). Il primo dei due grafici è relativo a un’indagine condotta in questi giorni: gli americani approvano l’idea di accogliere più rifugiati (ma non i repubblicani, e Trump parla con loro).

U.S. Response to Migrant Crisis
Views of Immigrants in Europe and the U.S.
 


 

Sondaggi, lo stato della corsa repubblicana

Quanti sono i candidati repubblicani e cosa li caratterizza? Da dove vengono e dove si collocano nello spettro politico? Qui la nostra breve guida alle primarie del Grand Old Party

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Sul fronte democratico la notizia è quella della forza di Sanders. Il finanziamento ai candidati ha scadenze fisse e a ogni scadenza i candidati devono produrre un rapporto. Gli ultimi dati, alla vigilia dei rapporti, indicano che il senatore del Vermont, Bernie Sanders, ha quasi raggiunto Hillary Clinton per quantità di donazioni: 28 milioni per la candidata in vantaggio nei sondaggi, 26 per l’inseguitore. La differenza tra l’ex first lady  e il socialista è che il secondo raccoglie una miriade di piccole donazioni, ovvero ha un movimento simile a quello di Obama nel 2008 a sostenerlo. Sanders ha ricevuto già un milione e 300mila donazioni da 650mila persone, nel 2008, a questo punto della corsa, Obama ne aveva ricevute un milione.

I dati sulla raccolta fondi sono l’ennesimo pessimo segnale per Clinton, che dopo settimane passate a parlare delle sue email, oggi si trova titoli che spiegano come, nonostante l’organizzazione migliore, le amicizie influenti, non riesca a scrollarsi di dosso il vecchietto del Vermont. Sulla corsa democratica incombe poi la possibile candidatura di Joe Biden. Il vicepresidente ha più volte detto di considerare l’idea e anche, specie in una commovente intervista rilasciata a Stephen Colbert, di sapere che dopo la recente morte del figlio Beau, non sa se sarebbe in grado di condurre una campagna per la quale servono tutte le energie a disposizione. I rumors riportati dal New York Times dicono anche che Clinton stia facendo di tutto per portare pezzi di partito dalla sua parte e cominciando a lanciare messaggi al vice di Obama. In una campagna che per i democratici si sta connotando molto a sinistra e fortemente critica nei confronti della finanza e delle banche, il fatto che Biden, prima di fare il vicepresidente, sia stato per decenni senatore del Delaware (il paradiso fiscale d’America), non è un buon lasciapassare. E la campagna Clinton sta facendo molto per ricordarlo al partito.

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Marte, l’acqua non basta: sette motivi per cui viverci è impossibile

Va bene, il nostro lo stiamo usurando, consumando, smembrando, e quindi impariamo a conservarlo un pochino, questo mondo? Mannossignori, non diciamo sciocchezze: pensiamo a cercarne un altro e varcare i confini dell’Universo, piuttosto.

E dunque, dopo la filosofia sull’amore che attraverserebbe dimensioni e universi di Interstellar, solo l’ultimo di una lunga filmografia fantascientifica, ci prepariamo “seriamente”: vita in un altro pianeta? Quasi quasi… magari prima o poi i nipoti dei nipoti dei nostri nipoti potranno davvero scegliere, come si trattasse di una quartiere della città, in quale pianeta abitare «si, preferisco Plutone, più silenzioso», oppure «Giove, decisamente più centrale anche se un po’ trafficato», o: «Preferisco le zone calde, Mercurio ha degli appartamentini vista sole meravigliosi».

Ciò detto, oggi ci s’interroga sul nostro vicino, Marte.

Sul pianeta rosso si è scoperto che c’è l’acqua, fronte primaria, assieme all’ossigeno, di vita per noi bipedi. Ruscelli che compaiono zampillanti nella stagione calda, corsi d’acqua liquida e salina strierebbero il terreno.

Eppure, eppure, ci sono ben sette motivi stando al Time, per cui la vita sul quarto pianeta del nostro sistema solare sarebbe ardua.

1) Le radiazioni. Un problemino non proprio secondario, in effetti. E sarebbero di due tipi: quelle derivanti dalle particelle solari e quelle dei raggi cosmici. Entrambi «means truble», significano guai: solo il viaggio, di 180 giorni, verso Marte esporrebbe un uomo a radiazioni pari a 15 volte la soglia di guardia dai lavoratori delle centrali nucleari. A cui si aggiungerebbero quelle del viaggio di ritorno e naturalmente la “dose” da permanenza (500 giorni).

2) La temperatura. La media sul pianeta rosso si aggirerebbe attorno ai -63°C. In effetti un po’ troppi anche per chi ama l’inverno. Le temperature marziane possono raggiungere in estate anche i 30°C, ma: con la luna piena e all’equatore. Quindi non diciamo che non è il caso di farci affidamento.

3) L’atmosfera. Un altro dettaglio: quella sulla terra sarebbe a malapena 100 volte più densa di quella del nostro vicino. Senza contare ciò che le compongono rispettivamente: scordatevi ossigeno o azoto. Sul pianeta rosso l’atmosfera è decisamente velenosa: il 96% è diossido di carbonio.

4) La gravità. Su Marte, la gravità sarebbe al 38% rispetto alla terra. Peccato che il nostro organismo sia costruito e “messo a punto” per vivere al 100% di gravità, senza la quale l’intero sistema – cardiovascolare, scheletrico e muscolare – si sgretolerebbe.

5) I microbi. È questa la ragione principale per cui potremmo non gradire l’ospitalità (involontariamente) offerta dal pianeta: i batteri spaziali. Uno dei principali motivi per cui andremmo a posare il nostro piedone con relativa impronta, su Marte, è quello di scoprire se ci siano forme di vita alternative. Ma cosa succederebbe se scoprissimo che per noi sono letali? L’allarme era talmente preoccupante, che all’equipaggio dell’Apollo erano stati imposti 21 giorni di quarantena dopo ciascun allunaggio per disfarsi di eventuali “germi spaziali”

6) Le infrastrutture. Nei piani di esplorazione, sarebbe compresa l’idea di costruire “serre spaziali” nelle quali coltivare vegetazione. Solo un dettaglio: l’umidità sarebbe talmente fuori controllo, e le piante sprigionerebbero talmente tanto ossigeno, che le esplosioni sarebbero all’ordine del giorno. Niente giardinaggio dunque, e certo non un Paese per vegani. Non solo: non si fanno i conti con il possibile danneggiamento dell’attrezzatura, senza la quale i coloni marziani (secondo stime del Mit), morirebbero 68 giorni dopo l’arrivo.

7) Lo stato mentale. Il senso di isolamento e contemporaneamente di affollamento dovuto a un viaggio di 8 mesi sola andata, e la solitudine scaturita da orizzonti infiniti nei quali la terra è solo una delle tante stelle nel cielo, metterebbero a dura prova la nostra tenuta mentale. Che arriverebbe già decisamente danneggiata dalla nostra era…

Un’ultima curiosità. L’annuncio del rinvenimento idrico è arrivato con tempismo perfetto da parte della Nasa, che ha reso nota la scoperta giusto giusto in contemporanea con l’uscita del nuovo film di Ridley Scott, The Martian (del cui copione la Nasa ha scritto quasi 50 pagine). Il povero astronauta Matt Damon però, sul “suo” Marte, non potrà usufruire del progresso, perché la Nasa non aveva ancora scoperto o avvertito il regista del ritrovamento. E dunque, dell’acqua, sul Marte di Scott, non v’è traccia. Eppure in un video pubblicato su twitter il “marziano” Demon sembra aver preso più che bene l’annuncio:

 

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Corto Maltese, il ritorno. Una nuova storia sulle tracce di Jack London

È ancora lui, il volto squadrato, l’orecchino, il cappello da marinaio, le basette lunghe e lo sguardo profondo. Con il profumo della libertà che spunta da ogni tavola. Ritorna Corto Maltese, a vent’anni dalla scomparsa di Hugo Pratt, il geniale disegnatore  morto nell’agosto del 1995. Il 1 ottobre, sceneggiata da Juan Dìaz Canales, già scrittore della serie noir Blacksad, e disegnata da Rubén Pellejero, a suo tempo co-creatore con Jorge Zentner di Dieter Lumpen, esce per Rizzoli-Lizard la nuova avventura di Corto Maltese. Si intitola Sotto il sole di mezzanotte ed è un nuovo racconto di viaggi e di scoperte, di infiniti orizzonti e di incontri.

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Corto Maltese, il marinaio misterioso e affascinante che aveva iniziato a vagare per i quattro angoli del mondo con Una ballata del Mare Salato disegnata da Pratt nel 1967, questa volta invece affronta nel 1915 il gelo e il freddo del Nord America sulle piste di Jack London, un personaggio che in qualche modo gli assomiglia. O meglio, che fa parte dell’immaginario di Hugo Pratt che fin da piccolo si era nutrito di romanzi d’avventura. Ovviamente insieme a Corto ritroviamo, come nella prima avventura, l’amico-nemico-alter ego Rasputin.

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(Juan Dìaz Canales e Rubén Pellejero)

I due autori della trentesima avventura di Corto Maltese hanno dichiarato di essere rimasti fedeli “filologicamente” al tratto e al carattere del personaggio di Pratt. Anche loro hanno divorato i romanzi di Conrad e di Kipling (Canales) e si sono ispirati al segno di Sergio Toppi e di Dino Battaglia (Pellejero). Un filo che non si interrompe, nonostante 27 anni di lontananza. La storia di Corto Maltese riprende proprio dove si era interrotte con Mu, la città perduta del 1988.

Sotto il sole di mezzanotte esce in contemporanea in Olanda e in Francia dove il 2 ottobre a Louvain-la-Neuve (Belgio). Grazie e buon lavoro! al museo Hergé si inaugura la mostra Hugo Pratt, Rencontres et passages che rimarrà aperta fino al 6 gennaio 2016.

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Verso il meeting delle etichette indipendenti/3 Antonio Gno Sarubbi

Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Ecco la prima chiacchierata, con Antonio Gno Sarubbi

 

«Le turbolenze derivate da un mercato del disco ormai fatto di piccoli numeri e la difficoltà di emergere in mezzo a un numero estesissimo di realtà più o meno concorrenziali non ci spaventano». Parola di Antonio Gno Sarubbi, classe 1988, label manager di Maciste dischi, l’etichetta milanese nata 11 mesi fa e che oggi conta già 100 concerti, 8 dischi e un’artista a X-Factor, Sara Loreni. Racconta il suo progetto con «incredula felicità», Antonio. E noi gli abbiamo chiesto il segreto di questo successo.

 

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Maciste Dischi è una giovane ma agguerrita etichetta indipendente, “con il cuore sempre in erezione” (come da motto). Com’è nata l’idea di creare la Maciste Dischi e come affronta le turbolenze del panorama musicale contemporaneo?

Siamo un’etichetta discografica che da subito si è voluta configurare come strutturata nei minimi dettagli. Tengo a precisare che oltre me la squadra è composta da Ette, produttore artistico di esperienza, Roberto, persona qualificata che si occupa di distribuzione e contratti, da un ufficio stampa interno e da un editore fidato.

Tra i vostri artisti ci sono anche GaLoni e Jonny Blitz: molto promettenti, validi e tanto diversi tra loro. Cosa vi convince a investire tempo e risorse?

Cerchiamo credibilità, prima di tutto. Non importa il target, non importa il genere. Ogni estetica sonora e ogni genere musicale hanno un pubblico di riferimento, tocca capire di che pubblico si tratta, è un procedimento che avviene col tempo. Un artista “costruito” è un mezzo artista. Partendo da questo presupposto, la seconda cosa che cerchiamo sono “le canzoni”, può sembrare banale ma è così. Avere la consapevolezza di cosa rappresenti la forma canzone è un patrimonio raro. La terza e ultima caratteristica è la fiducia nel team di lavoro, la capacità di lavorare con costanza, capendo la gradualità che un percorso vero, necessariamente, deve avere.

Rimanendo sulla scia della domanda precedente, nell’era del web 2.0, dei new media e di facebook, quale pensi debba essere il ruolo di un’etichetta discografica? In cosa un’etichetta può far davvero la differenza?

Il ruolo di un’etichetta discografica è quello di valorizzare il presente e il potenziale di una band o di un singolo artista. Sovraesponendo ogni traguardo, anche piccolo, sui propri canali. Di pari importanza è gestire il budget di cui l’artista dispone, trovando le soluzioni economiche e strategiche migliori per la produzione e il lancio. Ma non esiste. e non deve esistere, che un’etichetta discografica non investa realmente risorse economiche sul progetto. Farlo è molto rischioso, ma è anche uno dei migliori modi per differenziarsi dalla concorrenza.

Che atteggiamento bisogna avere nei confronti dell’incontenibile fuoriuscita di lavori – spesso amatoriali – da parte dei musicisti emergenti?

Il lo-fi deve essere un punto di partenza utile per farsi conoscere o – a seconda di casi estremi – un punto di arrivo. Ma mai una scorciatoia. Le produzioni amatoriali meriterebbero ambizioni amatoriali, ma questo è un pensiero personalissimo. Vuoi un suono marcio? Vuoi un sound sporco? Vuoi la voce in fondo al mixer e le batterie che sembrano padelle? Se è una scelta artistica bisognerà essere credibili anche in questo. Se è un’esigenza dovuta ad altri fattori, ci si scontrerà con la realtà: il disco, anche se piace al pubblico generalista, non è prodotto bene e sarà un’occasione persa. Beck ha registrato dischi con la batteria a 8 metri dal microfono. Ma quella si chiama ricerca, non superficialità.

Tu sei anche un musicista, ad aprile è uscito l’EP di Le Grandi navi ovali, la tua band. Come procede con Micidiale?

Suoniamo poco e quasi esclusivamente nei periodi di vacanza. Io ho deciso fin da subito, dal punto di vista manageriale, di non occuparmi di nulla all’interno del progetto: date, recensioni e uscite arrivano tutte dall’esterno o le cercano loro. Ci piace essere punk nello spirito, beffardi nei testi, diretti e senza fronzoli nella musica, ma cerchiamo con umiltà di non lasciare nulla al caso o alla banalità.Per il resto, Le Grandi navi ovali rappresenta per me il bello di salire su un palco, la libertà di espressione e la complicità magica che ho con Dave e Davide, gli altri membri della band. Lavoriamo tutti nella musica, anche se in ambiti assai diversi, e abitiamo a 100 km di distanza.

Essere anche un produttore  aiuta un po’ a muoversi, no?

I due mondi si toccano davvero in poche occasioni. Tutto ciò che ho imparato del rapporto artista/manager lo devo comunque al mio cammino artistico. A oggi, però, non ho il tempo materiale di dedicarmici come vorrei, perché Maciste Dischi rappresenta per me un’ossessione onnisciente, fatta di sacrificio e dedizione, quasi maniacale. Stiamo comunque scrivendo un disco e visto il feedback ricevuto ai concerti, nessuno ci impedisce di sussurrare: “chissà”.

Al Mei di Faenza parteciperai a un incontro di discussione dal titolo “Leggere attentamente l’etichetta”. Di cosa si tratta?

Sono davvero orgoglioso che lo storico Mei di Faenza abbia deciso di invitarmi. Discuteremo di come gestire un’etichetta discografica ai giorni nostri, quali sono i ruoli, le responsabilità e i rischi di chi vuole fare questo lavoro in maniera seria, oltre ad analizzare i punti di contatto tra indies e mainstream, tra etichette indipendenti ed etichette major. Personalmente vivrò l’esperienza come uno stimolo importante, per l’imminente futuro.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ExitWell” target=”on” ]https://twitter.com/ExitWell [/social_link] vicedirettore di @ExitWell

Un anno fa a Hong Kong la rivoluzione degli ombrelli per chiedere elezioni democratiche

rivoluzione-ombrelli

Ecco le foto dei migliaia di manifestanti che, esattamente un anno fa, si riversarono nelle strade di Hong Kong con i loro ombrelli multicolore, dando il via ad una protesta pacifica che durò più di due mesi. La “rivoluzione degli ombrelli” fu un movimento giovanile nato dal basso al grido di più democrazia e meno autoritarismo. Gli ombrelli colorati divennero il simbolo della non-violenza e lo strumento che permise ai manifestanti di difendersi sia dal sole cocente sia dai lacrimogeni e dagli spray urticanti della polizia. I giovani di Hong Kong chiedevano elezioni a suffragio universale in vista delle elezioni del governatore e protestavano contro il controllo delle candidature da parte cinese. Il sistema elettorale della città vedeva le candidature, in particolare quella per l’elezione del Chief Executive, sottoposte a un vaglio preventivo da parte di un comitato di Grandi Elettori composto da rappresentanti dei vertici economici e notoriamente allineato sulle posizioni del governo cinese. La scelta degli amministratori locali non era prerogativa del popolo. Chiedevano anche che il governatore in carica Leung Chun-ying, ritenuto anch’esso troppo vicino al governo centrale, si dimettesse. Dopo 75 giorni di occupazione e sit-in studenteschi nelle strade nevralgiche del quartiere degli affari di Admiralty, la polizia smantellò le tende, le sale di studio, gli ombrelli, le opere d’arte e tutti i grandi e piccoli luoghi simbolici della più lunga contestazione democratica vista tanto a Hong Kong come nella Cina metropolitana negli ultimi 30 anni.

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Kin Cheung)

Hong Kong Democracy Protest (AP Photo/Vincent Yu)

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Vincent Yu)

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Vincent Yu)

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Kin Cheung)

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Vincent Yu)

Hong Kong Democracy Protest(AP Photo/Vincent Yu)

 

Hong Kong marks peaceful anniversary of street protestsEPA/ALEX HOFFORD