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Il papa ha incontrato la funzionaria anti matrimonio gay. Ecco perché

Ambiente, povertà, pena di morte, immigrazione. Il viaggio di papa Francesco è costellato di discorsi importanti a folle entusiaste o a un pubblico spesso restio  – i repubblicani in Congresso non vogliono sentir parlare di ruolo umano nel riscaldamento del pianeta e i candidati alle primarie gareggiano tra loro su chi, una volta entrato alla Casa Bianca, rispedirà più gente a casa. Nel complesso Bergoglio ha evitato di mettere il dito nella piaga di vecchie controversie etico religiose (il matrimonio gay, l’aborto, la sperimentazione su cellule staminali) e non ha nemmeno esagerato nella critica al capitalismo selvaggio. Sia ultraconservatori che sinistra sono rimasti un po’ delusi. Più di una volta, in altri contesti e occasioni, Francesco si è lasciato andare a critiche del sistema con toni che, fatte le dovute proporzioni e la differenza di ruoli, ricordano Occupy Wall Street.

I liberal della sinistra americana saranno anche molto delusi dalla notizia dell’incontro privato tra il papa e Kim Davis, funzionaria del Kentucky finita in carcere per essersi rifiutata di firmare certificati di matrimonio tra persone dello stesso sesso dopo che una storica sentenza della Corte Suprema lo ha reso legale in tutti gli Stati Uniti. La notizia è stata diffusa da un comunicato del Liberty Council, organizzazione per la libertà religiosa (tradotto: per la difesa della religione cristiana contro i maledetti peccatori di Washington) che ha organizzato il meeting privato. Kim Davis e il marito hanno incontrato Bergoglio, che ha elogiato la donna per la sua forza, le ha regalato un rosario da lui benedetto e ha chiesto di pregare per lui – ha fatto lo stesso con lo speaker repubblicano e cattolico Boehner che il giorno successivo si è dimesso.

Quello con Davis, che è stata sposata quattro volte e si è convertita aderendo alla Chiesa apostolica pentecostale nel 2011 mentre un figlio era in ospedale, è un atto privato ma tutto sommato politico di Bergoglio. Negli Stati Uniti il papa ha infatti incontrato anche le Little sisters of the poor (le piccole sorelle dei poveri), che si erano rifiutate di fare un’assicurazione sanitaria per i propri dipendenti che includesse anche la contraccezione – la riforma Obama prevede anche quella assicurazione e multa chi non la fa, ne è nato un caso nazionale.

Cosa stava facendo il papa? Difendendo il diritto all’obiezione di coscienza: se la legge dell’uomo è contraria a quella di dio, come si dice, è la seconda che va rispettata. Bergoglio ne ha parlato anche sull’aereo che tornava a Roma: «Non mi vengono in mente tutti i casi possibili, ma, sì, posso dire che l’obiezione di coscienza è un diritto, un diritto umano. Si tratta di un diritto.» Ecco, il tema è questo.

Un tema contraddittorio: il problema in questo caso non è praticare un aborto o officiare un matrimonio tra persone dello stesso sesso in chiesa, ma obbedire alle leggi dello Stato, ratificando un passaggio già avvenuto o garantendo alle persone il diritto di fare pianificazione della maternità. Qui non c’è l’obbligo di sposarsi tra persone dello stesso sesso o l’obbligo di prendere la pillola. E quindi, forse, il diritto all’obiezione non c’entra.

Perché il papa non ha fatto di questa questione un tema generale della visita negli Usa? Per non fare troppo dispiacere a nessuno: Francesco è un gesuita e ha studiato che occorre saper stare al mondo. Matteo Ricci, il gesuita spedito alla corte dell’imperatore conosceva la lingua e i costumi e affascinava la corte con la sua sapienza, non con i vangeli. E grazie a quella venne ammesso alla città proibita, primo occidentale della storia. E come lui, il papa evita di esagerare. Parlando indirettamente delle grandi guerre culturali che hanno animato gli Stati Uniti e la politica americana negli ultimi anni – e di cui l’incarcerazione di Kim Davis è solo un episodio minore – Bergoglio ha detto che occorre evitare i toni aspri, la tentazione di tornare al passato. Insomma, ha detto ai vescovi di evitare di combattere guerre di religione combattute durante i pontificati di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Del resto, quelle guerre, i vescovi e gli evangelici le hanno perse.

Bene, verrebbe da dire. Ma allora perché incontrare Kim Davis? La funzionaria del Kentucky è infatti l’esempio perfetto di crociata che si batte sotto il vessillo di dio. Un’evangelica estremista che ha condotto la sua battaglia e si è fatta usare dalla politica. Il giorno della sua liberazione sul palco allestito per festeggiarla, c’era Mike Huckabee e in platea Ted Cruz, il più religioso (evangelico) e il più di destra dei candidati repubblicani alle primarie. Va bene essere gesuiti e parlare con tutti, ma forse se davvero si vogliono mettere alle spalle le crociate, certi personaggi sarebbe anche il caso di lasciarli in Kentucky.

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Le firme non bastano, niente referendum per Civati

Non consegnerà proprio le firme, Giuseppe Civati, sugli otto referendum promossi dal suo movimento, Possibile: «L’ultimo weekend», scrive sul blog, «ha prodotto risultati eccezionali, visibili a tutte e a tutti, e però ha anche causato un comprensibile ritardo non solo nel conteggio, ma anche nelle certificazioni e quindi nell’invio». Non viene fornita, quindi, almeno per il momento, alcuna cifra, quanto distante siano le 500mila firme necessarie per depositare i quesiti in Cassazione.

Civati lamenta ovviamente la scarsa copertura mediatica, e però l’esito non è così inatteso. La campagna referendaria è nata sotto una cattiva stella, senza riuscire a unire il fronte a sinistra del Pd. Il movimento dei docenti contrari alla Buona scuola, la Fiom di Landini, la Cgil e Sel, critici sui tempi e sui modi più che sul merito, non hanno partecipato alla raccolta, se non con alcuni singoli militanti o dirigenti. Solo l’ultima settimana hanno firmato i quesiti Nicola Fratoianni e Marco Pannella, e lo stesso vale per gli ex compagni di partito di Civati, rimasti nella minoranza dem, come Corradino Mineo. Anche per questo Civati non si sottrae all’ennesima stoccata polemica: «Resta il rimpianto di non dare agli italiani e alle italiane la possibilità di votare sulle riforme di questo governo», scrive, «e su questo ognuno, a partire da chi non ha voluto partecipare, si prenda le sua responsabilità».

E mentre i renziani gongolano su twitter con l’hashtag #ImPossibile, resta così da capire come avanzerà (e se avanzerà) il progetto unitario a sinistra. «Ne parliamo dopo i referendum» aveva detto Civati, aggiungendo però «siamo meno uniti di prima».

Dismaland trasportato a Calais diventa un centro di accoglienza. L’ennesima provocazione di Banksy?

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È di ieri la notizia che alla chiusura di Dismaland, il distopico parco divertimenti creato dall’anonimo street artist Banksy, infissi e legnami delle installazioni verranno trasportati a Calais per costruire centri di accoglienza per i rifugiati che attualmente vivono in un area soprannominata “Giungla”, accampati in attesa di riuscire a espatriare verso il Regno Unito. L’annuncio è stato dato sul sito web dell’anomalo parco con la consueta forma ironica:

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La notizia è rimbalzata sulle principali testate mondiali, addirittura secondo l’agenzia italiana Ansa, evidentemente colpita dall’immagine pubblicata sul sito: «Il castello di Cenerentola, attrazione principale di Dismaland, verrà inviato al campo profughi di Calais per fornire protezione ai rifugiati».

 

un documentario sulla “Giungla” di Calais, mostra la realtà del campo rifugiati

La notizia però sembra piuttosto paradossale e lascia dubbi sulla sua veridicità. Sia perchè a fronte di un ricavato di circa 20 milioni di sterline sarebbe un aiuto troppo “povero” e di cattivo gusto per essere preso sul serio. Sia perché in evidente contrasto con la stessa filosofia sulla quale Banksy ha dato vita al progetto, ovvero la necessità di sottolineare i paradossi delle società occidentali in cui divertimento e miseria vengono costantemente mescolati sui media generando indifferenza piuttosto che una riflessione sulla realtà.


 A fronte di un ricavato di circa 20 milioni di sterline sembra un aiuto troppo “povero” e di cattivo gusto per essere preso sul serio, oltre a essere in evidente contrasto con la stessa filosofia sulla quale Banksy


 

Questo intento è evidente proprio in alcune delle installazioni del parco realizzato dall’artista britannico, una su tutte quella in cui è possibile diventare scafisti e telecomandare finti gommoni carichi di migranti.

E proprio questi elementi rendono verosimilmente l’idea di realizzare un centro di accoglienza con il malandato castello di Cenerentola recuperato da Dismaland  l’ennesima provocazione di Banksy, già famoso per avere più volte in passato preso in giro con questo genere di iniziative istituzioni e media.

GALLERY | Le foto del party di chiusura di Dismaland

All’evento di chiusura del parco hanno suonato anche le Pussy Riots che, tanto per restare in tema, hanno presentato la loro nuova canzone “Rifugiato”.

 

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60 anni dalla morte di James Dean. 11 foto e 11 fatti per ricordare l’eroe gentile

Oggi, 60 anni fa moriva a soli 24 anni in un incidente d’auto in California a bordo della sua Porsche Spyder 550  James Dean.

Secondo Martin Sheen voce narrante del documentario James Dean, Forever Young: «in ogni attore, se non in ogni uomo, c’e’ traccia di James Dean». Sicuramente Dean rientra, nonostante la tragica fine, nel pantheon di quelle star e miti dalla fama immortale. Il giovane ribelle girò solo 3 film: “La valle dell’Eden” del 1955 diretto da Elia Kazan, “Gioventu’ bruciata” del 1955 diretto da Nicholas Ray e “Il gigante” 1956 diretto da George Stevens. Film che, seppur girati nel breve arco di 18 mesi, rivoluzionarono non soltanto la vita di milioni di teenagers, ma anche lo stile di recitazione degli attori del cinema anni cinquanta.
Dean con il suo stile ha ispirato e ispira anche oggi moltissime star hollywoodiane diventando una vera e propria icona al pari delle colleghe attrici Audrey Hepburn e Marilyn Monroe.

11 foto e 11 cose che probabilmente non sapete su James Dean

1. «Jimmy si veste come un letto sfatto»

Nonostante dalle foto sembri sempre iper curato, Dean amava uno stile trasandato, poteva tranquillamente presentarsi a pranzi e cene eleganti senza scarpe e con addosso dei jeans sporchi. A volte i suoi vestiti erano talmente usurati che sembravano sul punto di cadere a pezzi. Di lui un critico cinematografico disse: «Jimmy si veste come un letto sfatto».

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2. Un avvocato mancato

Durante il liceo dimostrò un grande talento per il discorso in pubblico e i dibattiti, riusciva a inventare argomentazioni per difendere una causa nel giro di pochissimo.

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3. L’amore non corrisposto per Marlon Brando

Dean ammirava molto il collega Marlon Brando diventato famoso con il film “Un tram chiamato desiderio” e cercò in tutti i modi di fare amicizia con l’attore che però per il carattere scontroso e introverso non volle mai instaurare un rapporto amichevole.

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4. Collega di Reagan

Dean prima di fare il grande salto nel mondo del cinema lavorò molto spesso in televisione. Qui ebbe l’occasione di incontrare il futuro presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, allora attore come lui. Durante uno show James fece perdere la battuta a Reagan abituato a uno stile di recitazione molto meno spontaneo del giovane ribelle.

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5. Il rapporto con il padre

Dean ebbe un pessimo rapporto con il padre, dopo la morte della madre fu infatti spedito da quest’ultimo a vivere dagli zii e divenuto adulto Jimmy non parlò mai più con lui.

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6. Apprendista mago

James Dean era un appasionato di magia e dilettava gli amici con una serie di piccoli trucchi magici che riuscivano sempre a stupire. Il suo trucco più riuscito consisteva nel mettere in bocca una sigaretta e fare ricomparire accesa.

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7. Denti finti

I due incisivi anteriori dell’attore erano finti. Dean li perse in un incidente avvenuto quanto era più giovane in un fienile e li rimpiazzò successivamente con un ponte dentale.

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8. Nomination postuma

Fu il primo a ricevere due nomination agli Oscar come miglior attore dopo la sua morte. La prima nel 1955 per La valle dell’Eden, la seconda nel 1956 per il ruolo di protagonista ne Il Gigante. Sfortunatamente non vinse in nessuno dei due casi, ricevette però un Golden Globe sempre dopo la sua morte.

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9. La passione per la musica

La sua canzone preferita era “When Your Lover Has Gone” e secondo le testimonianze degli amici il suo album preferito era  “Songs for Young Lovers” di Frank Sinatra. Ma Dean non amava solo la musica pop degli anni 50 e il jazz, apprezzava anche la musica classica e quella Afro-Cubana al punto che adorava suonare il bongo.

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10. Il senso di colpa di Rock Hudson

Dean e Rock Hudson furono co-protagonisti sul set de Il Gigante, ma  a quanto pare non scatto mai una vera alchimia, anzi tra i due ci fu una vera e propria antipatia. Alla morte di James Hudson si sentì estremamente in colpa per non aver instaurato un buon rapporto con il giovane attore.

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11. Una morte annunciata

Dean era solito dire agli amici che non sarebbe vissuto oltre i 30 anni, questi in genere rispondevano facendogli notare che sicuramente la sua passione per le auto da corsa era piuttosto rischiosa, ma James aveva anche in questo caso la battuta pronta: «Quale modo migliore per morire? È veloce, pulito e te ne vai in un tripudio di gloria».

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L’account Twitter di Snowden spopola. Segue solo la NSA

Quasi un milione di followers in poche ore, diversi tweet e un solo account seguito, quello della NSA, la National Security Agency, della quale ha rivelato il sistema di spionaggio planetario. Edward G. Snowden ha aperto un suo account su Twitter e la risposta è stata confortante.
Questo il primo tweet, chiede, Mi sentite? (è un po’ un gioco di parole, la sua rivelazione sulla NSA riguarda proprio il fatto che l’agenzia monitorasse le telefonate di milioni di persone).

Il secondo parla dell’acqua su Marte e scherzando si chiede: ora che l’hanno scoperta, sapete se alla frontiera controllano i passaporti? Secondo scherzo, Snowden è nascosto in qualche posto in Russia e in attesa di trovare un posto che gli conceda asilo. L’account porta sullo sfondo le prime pagine dei quotidiani del giorno in cui il programma di spionaggio della NSA è stato dichiarato illegale. Anche Twitter ha dato una mano a diffondere l’account con questa GIF che mostra la risposta del mondo alla decisione di Snowden di comunicare direttamente attraverso il social network da 140 caratteri.


Snowden descrive se stesso dicendo: lavoravo per il governo ora lavoro a Freedom Press, che più che un’organizzazione è un sito per la promozione della libertà d’espressione – la libertà di diffondere notizie anche se riguardano segreti di Stato – che fa campagne per difendere i whistleblowers, le gole profonde. Per Freedom press lavorano o fanno da testimonial anche Daniel Ellsberg, che passò i Pentagon papers al New York Times nel 1971, Green Greenwald, giornalista che si occupa di temi di sicurezza e che ha contribuito alla diffusione delle rivelazioni di Snowden su The Guardian e l’attore Jon Cusak. Freedom press fornisce tra l’altro strumenti tecnici ai giornalisti che vogliano criptare il loro traffico o che consentano loro di ricevere materiali in forma anonima e sicura. La campagna su cui si spende Freedom Press in questo momento è quella per la liberazione di Chelsea Manning (già Bradley), l’analista militare che ha passato milioni di documenti su Iraq e Afghanistan a Wikileaks. Manning è stata condannata a 35 anni e FreedomPress raccoglie fondi per consentirgli di fare appello.

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Caso Glossip, confermata condanna a morte. Oggi l’esecuzione

Condanna a morte Richard Glossip innocente

Lo Stato dell’Oklahoma sta per mettere a morte un uomo innocente. Mentre la Georgia, nella notte appena trascorsa, ha messo a morte Kelly Gissendaner, da 70 anni una donna non veniva mandata dal boia. Pianificò l’assassinio del marito assieme al suo amante, l’esecutore materiale, condannato all’ergastolo. L’appello del papa al Congresso sulla pena di morte non è stato ascoltato granché: l’ambasciatore della Santa Sede si era appellato alle autorità della Georgia chiedendo di commutare la pena.

Richard Glossip doveva essere giustiziato mercoledì 16 settembre, ma, dopo che un vero e proprio movimento di persone, fra cui l’attivista Helen Prejean e Susan Sarandon, si era mobilitato per chiedere alla Corte d’appello di analizzare nuove prove che dimostravano l’innocenza di Glossip, la sentenza era stata sospesa fino al 30 settembre per valutare i nuovi elementi.


LEGGI ANCHE:

Storia di come un uomo innocente è stato condannato a morte in Oklahoma


 

Ora, due settimane dopo questa concessione che faceva sperare nella grazia, la Corte d’appello del tribunale penale dell’Oklahoma ha respinto tutti gli appelli sottoposti dal team di avvocati che si erano offerti di lavorare pro-bono al caso di Glossip. La condanna è stata quindi confermata e verrà eseguita oggi alle 15.00 (circa le 22.00 italiane).

Secondo la Corte infatti:

anche alla luce delle nuove prove presentate la testimonianza di Sneed (l’esecutore materiale del delitto) – decisiva nell’incastrare Glossip e a detta della difesa infondata – rimane attendibile. Nessuno dei testimoni del processo ha inoltre ritrattato la propria testimonianza e Glossip non ha presentato alcuna prova credibile che i testimoni siano colpevoli di falsa testimonianza.

Il procuratore generale e il governatore dello Stato dell’Oklahoma, entrambi repubblicani e quindi tendenzialmente favorevoli alla pena di morte, si sono detti concordi con la decisione della Corte che, a loro opinione, farebbe finalmente giustizia.

«Ora, tutta la nostra attenzione e il nostro sostegno vanno alla famiglia di Barry Van Treese, che ha aspettato 18 lunghi anni che venisse fatta giustizia per questo brutale omicidio» ha dichiarato il procuratore generale Scott Pruitt. Secondo il governatore Mary Fallin: «Glossip ha avuto più processi, ben 17 anni di ricorsi in appello e 3 sospensioni dell’esecuzione per riesaminare il caso. E la corte ha respinto tutte le prove e gli argomenti presentati più e più volte».

Non sembra invece della stessa opinione la figlia di Sneed, esecutore materiale dell’uccisione che ha evitato la pena di morte proprio accusando Glossip di essere il mandante dell’omicidio.
Il 23 ottobre dello scorso anno la donna inviò addirittura una lettera per tentare di convincere la corte dell’Oklahoma a rivedere la sentenza. «Sono fermamente convinta che Richard Glossip sia un uomo innocente condannato a morte – scrive – una vita innocente è già stata spenta dalle azioni di mio padre. Una seconda non dovrebbe fare la stessa fine».

>> Per saperne di più | Infografica

pena di morte negli stati uniti

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Verso il meeting delle etichette indipendenti/2 Michele Maraglino

Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Ecco la prima chiacchierata, con Michele Maraglino

Michele Maraglino è un cantautore tarantino, classe 1984, di base a Perugia oramai da molti anni. A febbraio è uscito il suo  full-lenght Canzoni contro la comodità, dopo secondo al suo disco d’esordio I mediocri (2012). Entrambi i lavori sono pubblicati per l’etichetta fondata da lui stesso, “La Fame dischi”.

Sbarchi al Mei mentre sei già in pieno tour dove, sicuramente, le tue canzoni hanno avuto modo di maturare ed evolversi. Quanto è cambiato il tuo ultimo disco nel corso dei live?
Le canzoni hanno preso una bella spinta rock. Oltre a me e Daniele Rotella, che è il produttore e arrangiatore dell’album, nei live si sono aggiunti anche Francesca Lisetto e Michele Turco. L’impronta musicale si è rivelata forte e d’impatto, ha giocato la sua parte completando l’impianto lirico delle canzoni. Detto questo, dal vivo ci divertiamo moltissimo.
Con Canzoni contro la comodità sviluppi ulteriormente un temi a te caro, l’attivarsi per non lasciarsi schiacciare dalla banalità del quotidiano. Tici eri già avvicinato con I mediocri, segui coscientemente un percorso o è una direttrice subliminale che ti guida?
Sì, effettivamente i miei dischi si sono sviluppati intorno a questi temi. La mediocrità nel primo disco e in questo mi sono soffermato sulle “comodità” che hanno annebbiato i miei coetanei, che si “accontentano” senza puntare a una vera felicità. Le mie canzoni parlano del non accontentarsi e del provare a esser felici veramente, rimboccandosi le maniche. Sono tempi in cui ti dicono che tutto è accessibile e facile e che occorre trovare delle scorciatoie… in realtà, se non vivi almeno un po’ di inferno non potrai godere appieno della vita, si riduce tutto a un “esistere” che non è vivere.
In “Felicità mediocrità comodità” scrivi: «La mediocrità è solo un modo per non star soli/ la comodità è solo un modo per aver ragione». La musica può rompere questa monotonia, aiutarti a cercare quella felicità che è «un modo per stare un po’ soli»?
Fino a un certo punto ho pensato che sarei diventato felice solo se fossi arrivato al grande successo. Poi, crescendo, ho imparato che si può essere felici da subito se si vuole. Per fare musica ti servono un palco e un pubblico, questo ti basta se sei mosso da un sentimento puro, dal provare a dire la tua e quello che senti dentro. Avrei potuto continuare ad aspettare il giorno in cui qualcuno mi avrebbe portato al successo ma quel giorno non sarebbe mai arrivato se non mi fossi rimboccato le maniche io. La musica è il modo mio per sentirmi vivo, per dire qualcosa di vero secondo me. Ce ne sono tante di persone che amano solo la fama. Sono tempi difficili, perché la comodità regna sovrana.
Tra il mainstream e il mercato indipendente ci sono punti di contatto possibili?
È cresciuta l’attenzione del pubblico verso l’ambiente indie e se i due mondi si mischiassero non sarebbe male. Bisogna, però, essere in grado di restare fedeli a se stessi quando si arriva a un pubblico maggiore, non perdersi. Il mainstream è un mondo dove bisogna arrivarci bene, preparati, se si viene schiacciati da quel mondo si perde la purezza del progetto. L’ideale sarebbe che chiunque potesse arrivare grande pubblico, indipendentemente dal produttore o dalla casa discografica. E in questo un grande ruolo lo giocano i network radiofonici, che però schiacciano il mondo indipendente e trasmettono sempre le stesse cose.
C’è un problema di “mediocrità” e “comodità” anche da parte degli ascoltatori, dei fruitori musicali?
Sì, c’è un problema culturale e comunicativo in Italia. Si passano sempre le stesse canzoni e i non appassionati o i giovanissimi non hanno modo di sviluppare una curiosità. Il privilegio di essere un artista “indipendente” è quello di poter ancora ritrovare e conoscere persone vive, che pensano con la loro testa. Siamo rimasti in pochi forse, ma ci siamo.
Non a caso, allora, è nata la tua etichetta, La Fame dischi. È appagante gestire altri artisti, completa il tuo essere artista e musicista?
La Fame dischi è nata da una mia idea nell’estate del 2011. Cercavo di registrare il mio primo disco e non trovavo un’etichetta, così ne ho fondata una io e ho continuato a lavorarci per me e poi anche per altri. È utile e anche bello, forse la parte più bella è quando si riesce a creare un book d’artisti che sono uniti, che portano avanti il gruppo più che il singolo. La nostra etichetta è partita dal basso, spinta dalla passione. E in quattro anni abbiamo capito chi siamo, dove vogliamo andare e come fare, stiamo imparando un mestiere. Alla fine abbiamo raccolto i consensi sia dalla gente che dagli addetti ai lavori.
Sembra che la Fame dischi abbia una sorta di “missione ideologica” per combattere la comodità. Tra le altre cose, infatti, promuovete un concorso, “Le canzoni migliori le aiuta la fame” che è già al suo quarto anno.
Il concorso è un modo per aiutare qualcuno a iniziare. Prima di essere interessante per qualcuno, devi aver lavorato di tuo e aver creato “un giro”. Serve a spingere gli artisti agli esordi, con una buona comunicazione e con dei soldi, che al momento è una cosa piuttosto rara. Promuoviamo non solo i vincitori ma tutti quelli che meritano, nelle tre edizioni precedenti hanno partecipato gruppi oggi molto attivi e che iniziano ad avere un pubblico sempre maggiore.

Salutiamoci con un po’ di novità, come artista e per l’etichetta.
Oltre il tour, in questa settimana pubblicheremo una cover di “M’importa ‘na sega”, cover dei Csi, che sarà presto in free download. Poi inizierò a lavorare al nuovo disco,  verso l’estate prossima. Per La Fame dischi è uscito il singolo dei Terzo Piano, che ha vinto il concorso l’anno scorso e il prossimo 28 ottobre pubblicheranno il disco registrato qui a Perugia. Infine, nei primi mesi del 2016, pubblicheremo il grande disco d’esordio di Marazzita. E poi, forse, il grande ritorno di una band… ma non posso ancora anticipare niente.

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Per il renziano Anzaldi: «Rai Tre è un problema da risolvere»

È bufera su Michele Anzaldi, deputato del Pd, membro della commissione di vigilanza Rai. A scatenarla sono le sue parole raccolte dal Corriere della Sera: «C’è un problema con Rai3 e con il Tg3, sì», dice, «ed è un problema grande, ufficiale. Purtroppo non hanno seguito il percorso del Partito democratico: non si sono accorti che è stato eletto un nuovo segretario, Matteo Renzi, il quale poi è diventato anche premier. Niente, non se ne sono proprio accorti! E così il Pd viene regolarmente maltrattato e l’attività del governo criticata come nemmeno ai tempi di Berlusconi».


 Anzaldi non si è proprio trattenuto: «Si sono chiesti a Rai3 perché Renzi è andato due volte da Nicola Porro a “Virus” su Rai2? E perché, se dobbiamo spiegare una legge, preferiamo che i nostri parlamentari vadano da Bruno Vespa?». Perché lì – è la risposta – stanno più comodi.

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Anzaldi ce l’ha con Bianca Berlinguer, direttrice del Tg3 da cui evidentemente si aspetta un trattamento di favore per il governo, che pensa di non ricevere, e soprattutto con il direttore della rete Andrea Vianello da poco convocato proprio dalla commissione di vigilanza. Il Pd a Vianello rimprovera gli ascolti non eccellenti, ma in particolare le interviste di Ballarò ai 5 stelle, «inaccettabili». Anzaldi non si è proprio trattenuto, spiegando anche quale parametro spinga Renzi a scegliere le sue comparsate televisive: «Si sono chiesti a Rai3 perché Renzi è andato due volte da Nicola Porro a “Virus” su Rai2? E perché, se dobbiamo spiegare una legge, preferiamo che i nostri parlamentari vadano da Bruno Vespa?». Perché lì – è la risposta – stanno più comodi. Le parole di Anzaldi scaldano un clima già teso, in vigilanza e direttamente in Rai, tra dirigenti e redazioni, dove è imminente un giro di nomine. C’è in ballo il ruolo di Vianello, appunto, la direzione dei Tg e delle altre reti, radio e tv, e della concessioria pubblicitaria. C’è in ballo l’approvazione definitiva della riforma della Rai, poi, che Renzi vorrebbe entro l’anno. A quel punto le nomine sarebbero più che giustificate e i poteri tutti in mano all’attuale direttore generale Campo Dall’Orto, nominato dal governo con la legge Gasparri (che Renzi aveva giurato non avrebbe mai applicato, dando poi la colpa alla lentezza del processo legislativo e alla scadenza del Cda). E se nei giorni scorsi si susseguivano voci di anonimi (riportate dal Fatto e dal Foglio) sulle intenzioni bellicose dei renziani, oggi le opposizioni e minoranza interna hanno titolo per mostrarsi incredule.


 Non è la prima volta che Anzaldi critica la Rai. Fu lui a censurare l’imitazione che la comica Virginia Raffaele fece di Maria Elena Boschi, sempre su Rai3, a Ballarò.  «Mi chiedo se sia da considerare servizio pubblico» disse in merito.

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«Insomma il Partito Democratico ora dichiara guerra a Rai 3 e alla redazione del Tg3», dice il coordinatore di Sel Nicola Fratoianni: «Dopo Renzi e gli insulti di De Luca, ora è la volta di Michele Anzaldi». Fratoianni fa riferimento alla battuta del presidente della Campania che, indispettito dalle attenzioni di Report, ha sostenuto che Rai3 faccia «giornalismo camorristico». «Roba che nemmeno Berlusconi e i berlusconiani più accesi», prosegue il coordinatore di Sel, «avrebbero espresso pubblicamente negli anni del loro strapotere». «C’è da augurarsi che i vertici del Pd prendano le distanze dalle sconcertanti dichiarazioni di Michele Anzaldi», dice invece il democratico Alfredo D’Attore: «Si tratta di posizioni incompatibili con la storia del Pd».

Il senatore del Pd Andrea Marcucci, anche lui renziano, per il momento difende invece Anzaldi, in particolare dalle critiche che arrivano anche dai 5 stelle (effettivamente sopra le righe, come sempre i toni di Beppe Grillo). Ma Anzaldi – già portavoce di Francesco Rutelli – non è la prima volta che critica la Rai. Fu lui a censurare l’imitazione che Virginia Raffaele fece di Maria Elena Boschi, sempre su Rai3, a Ballarò. Poteva non piacere, ovviamente, ma Anzaldi disse proprio «mi chiedo se l’imitazione di Maria Elena Boschi sia da considerare servizio pubblico».

Anche la deputata Alessia Morani, vice presidente del gruppo Pd alla Camera, difende il collega: «Le offese dei 5 stelle ad Anzaldi, oltre che ingiuste, sono un vero paradosso», dice, «arrivano infatti da quelle stesse persone che si sono distinte per la caccia al giornalista nemico e per un’occupazione di sapore squadrista della sede Rai di Viale Mazzini, con tanto di minacce ai giornalisti secondo loro non abbastanza ossequiosi. Sono, poi ingiuste, perché in Anzaldi non c’è alcun intento lottizzatorio ma solo la preoccupazione di garantire la qualità e l’indipendenza del servizio pubblico. Una preoccupazione che Anzaldi dimostra con coerenza».

 

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Migrazioni e morti in mare, i numeri dell’Oim

Quanti sono i migranti che attraversano il Mediterraneo? Da dove vengono e quanti ne muoiono? L’Oim, Organizzazione internazionale per le migrazioni ci fornisce dei numeri aggiornati, paragonando, tra le altre cose, la quantità di morti nel mare che bagna le nostra coste con quelli che annegano o muoiono di sete nel golfo del Bengala o nel deserto che separa gli Stati Uniti dal Messico. Il Mediterraneo è nettamente in testa a questa classifica macabra: 2892 morti contro i 460 del Golfo del Bengala e i 133 de la frontera Usa-Messico.

Dalle grafiche e dai numeri OIM scopriamo anche come il numero di sbarchi in Italia sia nettamente in calo rispetto a quanto capita sulle isole greche. Il motivo è semplice, i flussi di profughi siriani, nel 2015, fanno storia a se. In Italia arrivano soprattutto eritrei, nigeriani e somali. In Grecia un numero spaventoso di siriani, e poi afghani e pakistani. Le rotte africane portano in Sicilia, mentre quelle che attraversano la Turchia, finiscono sulle isole greche.

Più di mezzo milione hanno attraversato il Mediterraneo, mentre i morti, sono già oggi pochi meno che in tutto il 2014.

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Il primo discorso di Jeremy Corbyn alla conferenza Labour

Aggiornamento: cosa ha detto Jeremy Corbyn alla conferenza del Labour

Con Jeremy Corbyn inizia una nuova era, quella del Labour che si affida a una politica gentile e che rifiuta la teoria dell’uomo forte al comando come sola risposta possibile ai problemi. Nel suo discorso centrale il passaggio in cui il nuovo leader del Partito Laburista si appella ai “valori universali” che hanno fatto del Regno Unito un grande Paese.

«Gioco leale per tutti, solidarietà, e non scappare dall’altro lato della strada quando gli altri sono nei guai. Rispetto per le opinioni altrui. Questo senso del “gioco corretto”, questi sono i valori condivisi dalla maggior parte degli inglesi e sono la ragione fondamentale per cui amo questo Paese e il suo popolo. Questi valori sono ciò per cui sono stato eletto: una politica più gentile e una società capace di prendersi cura degli altri. E questi sono i valori del Labour e del nostro Paese. Noi riporteremo questi principi nel cuore della politica di questo Paese”

I tanti gli applausi in sala per il nuovo leader dimostrano quanto sia forte la voglia di cambiamento tra la base del partito e quanto sia percepita come fondamentale questa svolta verso la “politica gentile”.

 

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La diretta del primo discorso di Corbyn:

Il neo-segretario del partito laburista Jeremy Corbyn parla per la prima volta al suo partito e ai britannici dal palco di Brighton, dove si svolge in questi giorni la conferenza annuale del Labour. E’ un’occasione per presentarsi all’elettorato in maniera diretta, la prima da leader e non da candidato sui generis, e anche per tentare di conquistare quella parte importante del suo partito a cui il trionfo (che di questo si è trattato) del candidato di sinistra alle primarie non è andato giù.

Diversi media britannici parlano di una rivolta sotto traccia, ad esempio alcuni deputati potrebbero decidere di votare a favore di un’eventuale missione aerea contro l’IS assieme ai conservatori per manifestare la loro distanza.
Altri hanno incalzato Corbyn dal palco della conferenza, sostenendo che i test delle elezioni locali di Londra, dove si voterà per il sindaco, in Scozia e Galles siano test cruciali per valutare la sua leadership.
Corbyn parlerà dell’impegno a non rilanciare il programma nucleare Trident, della necessità di ri-nazionalizzare le ferrovie, mentre il suo Cancelliere dello scacchiere ombra ha sostenuto la necessità di incalzare le grandi corporation e costringerle a pagare più tasse per i profitti fatti in Gran Bretagna.
Le anticipazioni del discorso fatte dai media britannici – che ne hanno ricevuto una copia – indicano come una parte cruciale dei circa 45 minuti in cui Corbyn sarà sul palco della conferenza saranno dedicati alla risposta alle critiche per non aver cantato l’inno nazionale alla commemorazione annuale della Battaglia d’Inghilterra (sul nazionalismo britannico non si scherza). «Io amo questo Paese e la sua gente – dirà Corbyn – perché è solidale e non si gira dall’altra parte quando c’è qualcuno in difficoltà».
Il neo leader laburista parlerà delle opportunità che si aprono per un nuovo modo di fare politica: la partecipazione alle primarie, i nuovi iscritti sono una chance di rimotivare la base e aumentare la presenza nella società. E ribadirà che non intende mettere a tacere il dissenso: «Non intendo imporre la linea della leadership. Non credo che nessuno abbia il monopolio della saggezza. Tutti noi abbiamo idee e una visione di come le cose possono essere migliori. Voglio un dibattito aperto. Io ascolterò tutti. Credo fermamente che la leadership sia anche ascolto», si legge nelle anticipazioni pubblicate da Guardian.

Il 65enne deputato di Islington ricorderà però di avere un mandato importante: «Mi è stato dato dal 59% del nostro elettorato che mi ha sostenuto, ed è un mandato per il cambiamento. Si è trattato di un voto per il cambiamento nel nostro modo di fare politica, nel partito e nel Paese. Più cortese, più inclusiva, dal basso verso l’alto. Aperta a un dibattito reale e non fatta di disciplina». Di questo Corbyn parla anche nel messaggio video qui sotto, registrato per presentare la conferenza.

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A Corbyn, Left ha dedicato una copertina e diversi approfondimenti Web:
Corbyn il socialista che guarda al futuro
; La scalata di Jeremy Corbyn; La sinistra britannica discute della vittoria di Corbyn.

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