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Festa del Cinema di Roma versione americana, a decidere sarà il pubblico

Il festival del cinema della Capitale compie dieci anni e cambia registro sotto la direzione di Antonio Monda (che succede a Marco Muller) , diventando una festa sul modello americano: via giurie e sezioni, il giudizio sui film spetterà solo al pubblico.

Dal 16 al 24 ottobre all’Auditorium ci sono 35 pellicole in concorso, tra anteprime mondiali e internazionali che quest’anno coinvolgono anche il MAXXI e altri spazi di Roma, dal Pigneto a Cinecittà. E molte vetrine di spettacolo live, in cui registi e attori si raccontano. A cominciare da William Friedkin, premio Oscar nel 1972 per Il braccio violento della legge. Mentre un regista cult come Wes Anderson dialogherà con il premio Pulitzer Donna Tartt avendo come tema la loro comune passione per la cinematografia italiana. Frances McDormand invece duetterà dal vivo con il marito, il regista e sceneggiatore Joel Coen . E Paolo Sorrentino, il regista italiano che più corrisponde allo stereotipo italiano amato oltreoceano, presenterà in anteprima mondiale 15 minuti del suo nuovo progetto.

Wes Anderson
Wes Anderson

Americanissimo è anche il film d’apertura della rassegna, il thriller politico Truth opera prima dello scenoggiatore James Vanderbilt, che ha scritto The Amazing Spider-Man e Zodiac di David Fincher. Il film che ha come protagonisti niente meno che Robert Redford con Cate Blanchett è tratto dal libro Truth and Duty: The Press, the President and the Privilege of Power, della giornalista e produttrice televisiva Mary Mapes, che da cronista della CBS nel 2004 lanciò il caso Rathergate denunciando il trattamento di favore che il giovane George W. Bush avrebbe avuto quando finì nella Guardia nazionale piuttosto che andare al fronte in Vietnam. L’inchiesta che fu lanciata due mesi prima delle presidenziali americane provocò le dimissioni della Rather e il licenziamento di Mapes.

Si muove su un filo sottile fra spettacolarità e industria da sempre il regista Robert Zemeckis, autore della trilogia Ritorno al futuro. E tanto più lo si può dire nel caso del suo ultimo film che sarà presentato alla Festa del cinema: Walk-3D racconta l’impresa di un grande funambolo, Philippe Petit, che camminò su un filo d’acciaio teso fra le twin towers . Il film interpretato nel film da Joseph Gordon-Levitt si basa sul libro The Walk. Fra le Twin Towers, i miei ricordi di funambolo scritto dal francese Petit e pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie, così come l’altro suo libro, Trattato di funambolismo.

 

Il cinema italiano è rappresentato dalle prime come quella del nuovo film di Sergio Rubini Dobbiamo parlare ( film su una doppia crisi di coppia con Ragonese e Bentivoglio che sarà presentato il 21 ottobre) e  da Alaska di Claudio Cupellini con Elio Germano. E poi il ritorno dello sceneggiatore Ivan Cotroneo. E il fantasy italiano Lo chiamavano Jeeg Robot. Spazio anche alle retrospettive: particolarmente interessante quella dedicata ad Antonio Pietrangeli, regista ingiustamente dimenticato in Italia, ma non dal MoMa di New York che, dopo la Festa del cinema, gli dedicherà una retrospettiva. E poi l’antologica del cineasta cileno Pablo Larraín, che ha raccontato ascesa e declino della dittatura di Augusto Pinochet con un punto di vista decisamente inedito in Tony Manero (2008), Post Mortem (2010) e No – I giorni dell’arcobaleno (2012) con Gael García Bernal, che è stato candidato all’Oscar come miglior film straniero. Come lo è ora il suo El Club (2015) , che ha preso l’Orso d’argento a Berlino.

Infine, quasi un festival dentro il festival, ecco Alice nella città (qui i trailer e il programma), la rassegna di film young adult che si tiene in concomitanza della Festa del cinema  di Roma. Quest’anno Il programma della XIII edizione propone 13 opere nel concorso, 3 film fuori concorso e 4 eventi speciali, programmati all’interno dell’Auditorium. Fra gli eventi speciali segnaliamo  Pan – Viaggio sull’isola che non c’è, di Joe Wright con Hugh Jackman, Amanda Seyfried e Rooney Mara. Il film è una nuova trasposizione cinematografica  di Peter Pan  e sarà dato in prima nazionale domenica 18 ottobre. Lo stesso giorno, fuori concorso ci sarà Belle e Sebastien – l’avventura continua diretto da Christian Duguay, secondo capitolo della saga con Belle, il cane dei Pirenei, già protagonista non solo dell’omonimo cartone animato e di un film campione d’incassi nel 2014. Infine Il piccolo principe, l’adattamento cinematografico del libro di Antoine de Saint-Exupéry diretto da Mark Osborne con le voci italiane di Toni Servillo, Paola Cortellesi, Stefano Accorsi, Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann e altri.

Le nuove avventure di Peter Pan
Le nuove avventure di Peter Pan

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Sindacati a congresso a Parigi a caccia di una dimensione europea

Dalle colonne del Corriere della sera del 28 settembre arriva un interrogativo: il sindacato sta morendo? Una domanda che in molti, e da molto tempo, si pongono. La firma è del giornalista Dario Di Vico, esperto di sindacato che ci spiega che l’organizzazione di tutela dei lavoratori sta per essere spazzata via, svuotata nel suo ruolo più importante – quello delle trattative ai tavoli – da un welfare aziendale sempre più organizzato ed efficiente. Che le cosiddette relazioni industriali stiano mutando non è un mistero, ma siamo certi che siano i sindacati di categoria e aziendali il naturale e auspicabile successore? Certo quel sindacato che abbiamo conosciuto fin qui – il corpo intermedio che rappresenta il lavoro – non è più sufficiente. Però, il sindacato confederale ha finora svolto non solo un decisivo ruolo di trattativa, ma ha anche avuto una visione di interesse generale del lavoro e dei lavoratori. Di tutti i lavoratori. Quella “corporativa” sarebbe indubbiamente una riduzione, se non una retrocessione, degli organi di rappresentanza. In altre parole, un viottolo che rischia di portarci dritti dritti alla legge del più forte. Se è quindi vero che le giovani generazioni di precari, figlie della crisi dei diritti e delle politiche di austerità, non sono mai state rappresentate, questo non cancella l’esistenza del resto, del mondo del lavoro tradizionale che ancora c’è. Ma, anzi, fornisce una ragione di più per ritenere che sia arrivato il momento di trasformare il sindacato, affinché torni a rappresentare i lavoratori. Tutti.

Spostiamo lo sguardo fuori dai confini nazionali, senza nemmeno andare troppo lontano, e scopriamo che all’interno dell’Unione si fa stringente la necessità di rinvigorire il ruolo sindacale a livello europeo. Proprio in questi giorni – dal 29 settembre al 2 ottobre – l’eurosindacato va a congresso per eleggere un segretario italiano e darsi nuove strategie di contrasto alle politiche di austerità. Con lo slogan “Mobilitazione solidale per i lavori di qualità, diritti dei lavoratori e una società equa in Europa”, Parigi ospiterà il 13esimo congresso della Confederazione europea dei sindacati (Ces). Maison de Mutualité sarà popolata dai rappresentanti di 90 organizzazioni sindacali di 39 Paesi europei e 10 federazioni sindacali di settore: i 600 delegati eleggeranno i nuovi organismi, a partire dal segretario generale l’italiano Luca Visentini, unico candidato in lizza. Sarà lui a succedere alla francese Bernadette Ségol, lo ha deciso lo scorso marzo l’esecutivo riunito a Bruxelles. Visentini non è nuovo al sindacalismo europeo, 46 anni, dirigente della Uil, è già componente della segreteria della Ces. Chi c’è dall’altra parte della barricata? L’interlocutore principale dell’eurosindacato sono la Commissione europea e le grandi multinazionali. E i sindacalisti di tutta Europa, durante il loro congresso, chiederanno loro un piano straordinario di investimenti per la crescita e l’occupazione e il coinvolgimento nelle scelte del semestre europeo. In un’Europa priva di un quadro dei diritti di chi lavora, urge definire un meccanismo salariale minimo di livello europeo, che contrasti il dumping sociale e punti a eliminare le differenze di trattamento.

Come l’Unione europea può affrontare il flusso continuo e imprevedibile di rifugiati che chiedono asilo in Europa? Come convincere la Banca centrale europea a promuovere la piena occupazione e la crescita sostenibile? Come rivendicare una nuova direttiva europea sui redditi minimi che sia comune a tutti gli Stati membri? Come ottenere una fiscalità più equa, tra cui una tassa del 25% minimo per le imprese in tutta l’Unione? Come mettere fine agli abusi che riducono i salari e le condizioni di lavoro all’interno del mercato unico? Come organizzare l’opposizione ad accordi commerciali internazionali che concedono speciali privilegi agli investitori stranieri, indeboliscono i servizi pubblici o non rispettano i diritti dei lavoratori, vedi Ttip? E, infine, come ottenere una nuova legge europea che richiede una rappresentanza dei lavoratori nei consigli di amministrazione delle aziende europee?

Tutto questo si chiederanno i sindacati d’Europa a Parigi in questi giorni, anche quelli italiani. Perciò no, il sindacato non è affatto morto.

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All’Onu, Obama e Putin giocano a scacchi sulla crisi siriana

Due concezioni delle relazioni internazionali, due visioni del mondo, condite da retorica diversa e interessi spesso contrastanti. Sebbene con i toni alti, come si conviene all’Assemblea generale dell’Onu, i discorsi di Putin e Obama, che poi hanno discusso in maniera più diretta e franca nell’incontro bilaterale che hanno avuto a partire dalle 11.30 ora italiana, non avrebbero potuto essere più diversi. Il braccio di ferro è su Ucraina e, soprattutto, Siria. A fine incontro è chiaro che le posizioni sono distanti, ma con ogni probabilità si andrà a un maggior coordinamento delle azioni militari e delle missioni aeree anti Isis. L’Occidente mette meno l’accento sulla questione Assad, la priorità, il nemico pericoloso e in espansione oggi è l’ISIS.

Da un lato il presidente Usa è tornato sull’importanza del multilateralismo, su alcuni valori che – pur ammettendo tutte le differenze culturali e storiche possibili – sono il cuore della missione delle Nazioni Unite. Che gli Stati Uniti intendono difendere con più diplomazia possibile – il presidente Usa cita Iran e Cuba. Ci sono invece coloro che credono che gli obbiettivi del multilateralismo Onu siano finiti, «che il potere sia un gioco a somma zero nel quale i più potenti impongono l’ordine con la forza» ha detto Obama alludendo alla Russia – che in questi mesi all’Onu ha molto usato il suo potere in Consiglio di sicurezza. Critiche a Mosca anche per la vicenda Ucraina, gestita a colpi di unilateralità.

Diverso il tono del suo omologo russo che ha fatto leva sulla storia recente – l’ordine mondiale unipolare scaturito dopo la fine della guerra fredda (“siamo tornati” sembra voler dire) e scherzato sulla primavera araba che gli Stati Uniti di Obama hanno incoraggiato.

«La gente cercava il cambiamento, ma in cosa si è trasformato? Un’eccessiva interferenza internazionale ha distrutto le istituzioni nazionali e invece di democrazia e progresso abbiamo violenze, povertà e disastri» e nessuno chiederà il conto per quelle politiche internazionali basate sulla supponenza e sulla convinzione nella propria eccezionalità, dice Putin. Da quei disastri (la Libia e la Siria e in parte l’Iraq) sono cresciute zone di anarchia dove si è infiltrato il terrorismo. Contro questo, Putin chiede la formazione di una coalizione anti-terrore simile, nello spirito, a quella che sconfisse il nazismo. Contro il male assoluto non ci si può girare dall’altra parte – come fanno gli Usa, è il sottinteso – e non si può non offrire un posto in questa coalizione al legittimo governo siriano. Quello di Bashar al Assad. Che poi, come ha detto il presidente russo in un’intervista Tv a 60 minutes, trasmissione informativa di punta di CBS, la storia delle armi chimiche è propaganda orchestrata dall’opposizione al dittatore.

Di tutt’altro avviso Obama, che ritiene che il dittatore siriano debba uscire di scena. Il presidente Usa ha detto di non cercare una nuova Guerra fredda, di essere pronto a collaborare. Ma riguardo ad Assad ha detto: quando un dittatore massacra decine di migliaia di suoi cittadini non è una questione interna. E lo stesso quando un gruppo terroristico decapita i suoi prigionieri. Con l’IS gli Stati Uniti non trattano. Ma se la forza militare è necessaria, questa non basta: serve un accordo vero. «Siamo pronti a lavorare con chiunque, compresi Russia e Iran (altro amico di Assad). Ma dopo tanti massacri non si può tornare allo status quo pre-guerra.» Accordo vero, significa anche trovare una via di uscita per Assad, un accordo anche con il regime siriano.

In questi giorni le carte più pesanti le ha Putin, che è il promotore di un gruppo di contatto che comprende Mosca, Washington, Teheran e poi Arabia Saudita, Egitto e Turchia (potenze regionali con posizioni diverse nei confronti di Assad). Dal gruppo fuori europei e Cina, dentro nessuno con cui Washington non abbia avuto problemi negli ultimi tre-quattro anni. L’Iran di Rouhani, che ha fatto molti incontri e pronunciato un discorso impegnativo in assemblea, è forse il miglior interlocutore degli Stati Uniti. Una scommessa scivolosa per Obama.

Se l’iniziativa di Mosca funzionasse, Putin sarebbe riuscito a rompere l’isolamento che è seguito alla crisi in Ucraina e dare un colpo all’IS. Gli Usa probabilmente aumenteranno le incursioni aeree per mostrare di esserci (come ha fatto Hollande), ma dovranno vedere le carte di Putin. Che dovrà a sua volta convincere Washington di non stare barando.

Qui sotto il discorso di Obama
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Verso il meeting delle etichette indipendenti/1 Alessandro Fiori

Dall'1 al 4 ottobre, a Faenza, si terrà come di consueto l'appuntamento con la musica indipendente italiana. Left e la rivista musicale ExitWell, aspettano il #nuovoMei2015 con una serie di interviste ai protagonisti di questa edizione. Ecco la prima chiacchierata, con Alessandro Fiori

Alessandro Fiori è uno degli artisti ormai “storici” del panorama indipendente italiano musicale: polistrumentista, fondatore dei Mariposa alla fine del Millennio e solista dall’inizio di questo decennio – Premio Pimi (al miglior artista indipendente) 2013 come “miglior solista” -, in duo con Marco Parente nei BettiBarsantini (la cui opera prima, eponima, è uscita nel gennaio dell’anno scorso). Ha fondato di recente la Ibexhouse, una nuova e interessante etichetta discografica indipendente.

Torni a suonare dal vivo come solista dopo i concerti con i BettiBarsantini. E con una nuova formazione per i concerti di questo autunno: con chi ti vedremo al Mei di Faenza?

Al Mei era previsto che venissi in quartetto, ma per più motivi ho dovuto rimescolare le carte e allo stato attuale – ma chissà, può sempre succedere qualcosa frattanto – sarà una formazione in duo, io e Lorenzo Corti, chitarrista di tantissimi progetti, tra cui ad esempio quello con Cristina Donà. Siamo già molto rodati insieme, ma è pur sempre un prototipo del progetto.

Cosa dobbiamo aspettarci, ci regalerai qualche sorpresa? 

Mi piacerebbe vivere questo concerto in maniera istintiva, come fosse un piccolo rito. Al momento di dischi nuovi in uscita non ne ho, ma chi mi ha visto dal vivo sa che a ogni concerto si creano sempre mondi diversi, in relazione al mood del momento, e anche in base al pubblico che mi ascolta. Ho una gran voglia di suonare dal vivo, visto che son fermo da un po’. Di stare con e tra le persone e di mettere su un vero spettacolo.

Negli ultimi due anni hai avuto comunque un gran daffare. Lavori in veste di produttore artistico e progetti il nuovo disco dei BettiBarsantini. Come procedono le cose?

Sì, il nuovo disco dei BettiBarsantini è in cantiere e ci stiamo lavorando attivamente. È un momento di passaggio per me, d’altronde: come produttore artistico ho tante cose in ballo, con l’etichetta IbexHouse stiamo preparando tanti progetti, come il nuovo disco di Mangiacassette, il primo LP degli Stres, una nuova band sulla quale sto puntando molto; a ottobre avremo la prima tourneé.

Insomma, ormai sei tanto un musicista quanto il responsabile di un’etichetta discografica. Come ti trovi a scovare, promuovere e sviluppare i progetti di artisti emergenti?

È molto emozionante e gratificante, è una veste che mi impegna completamente. Dapprima credevo fosse solo un’appendice rispetto al lato creativo e artistico, invece sta diventando un gioioso lavoro. Esattamente un anno fa abbiamo messo su questo marchio, IbexHouse, per andare incontro ad alcune mie necessità di autogestione. Poi, da semplice marchio per autogestirmi è diventata una vera e propria etichetta: è uscito il primo disco di Solki, una band molto interessante, abbiamo prodotto il primo LP per l’Italia di un trio di Denver, Homebody, progetti nati spontaneamente, facendo confluire in un unico luogo personalità piacevoli, competenti e stimolanti. Ricordo che 15 anni fa, quando venimmo al Mei con i Mariposa muovevamo i primi passi con l’etichetta Trovarobato che era appena nata. Adesso mi ritrovo a essere il responsabile di un’etichetta che riesce a smuovere un bel po’ di cose nel mondo della musica e dell’arte. Il che è molto entusiasmante.

Dai tempi dei Mariposa a oggi, com’è cambiato il concetto di “indipendente” secondo te?

Prima c’era una dicotomia più sensibile tra major e indipendenti. C’era chi firmava contratti, che magari ti permettevano anche di “sfondare”, ma talvolta si potevano rivelare problematici. Adesso questa cosa si è come spalmata, le stesse major hanno iniziato ad affacciarsi al mondo sia stilistico che gestionale dell’underground. E, d’altronde, anche alcune etichette indipendenti hanno iniziato a utilizzare le stesse dinamiche – a volte gli stessi contratti – delle major, con la differenza che non c’erano nemmeno quei due spiccioli che potevi trovare dall’altra parte. Resistono le speranze sognanti degli artisti, resistono le furberie nel mondo dei lavoratori della canzone, ma non si capisce più se ci si trova da una parte o dall’altra, si sono rimischiate le acque.

Si è creato un nuovo spazio, tra il grande studio e la cameretta: il piccolo studio a dimensione d’artista. È la dimensione che avete scelto all’Ibexhouse, perché?

Credo ci sia nell’aria la presa di coscienza che ci siamo fatti un po’ abbindolare da ciò che succedeva nel mondo anglosassone e dalle esperienze italiane più importanti. Ci siamo resi conto che i veri valori non stanno nel provare a fare il salto ma nel provare a relazionarsi in maniera reale tra di noi, per conoscerci davvero. Io sto vivendo bene l’esperienza di Ibexhouse, c’è un luogo e ci si incontra, si parla di musica, ci si consiglia dei dischi, si registrano cose e si distribuiscono magari in rete. Siamo in una fase in cui dobbiamo relazionarci con qualcosa che è finito, o che sta finendo, e questa mancanza di eccitazione ci rende più umani. Le relazioni sono sane, a vantaggio del prodotto artistico.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ExitWell” target=”on” ]https://twitter.com/ExitWell [/social_link] vicedirettore di @ExitWell

Assemblea Onu, la sfida del clima tra gli Obiettivi del millennio

Diciassette “goal” da raggiungere investendo 3.000 miliardi di dollari entro il 2030. Nel 2000 le Nazioni Unite avevano lanciato gli Obiettivi di sviluppo del millennio e oggi, dopo 15 anni di risultati spesso deludenti, rilanciano. Gli obiettivi passano da 8 a 17 con 169 sub-obiettivi, stavolta con un maggiore coinvolgimento della società civile globale ma ancora – spiegano le voci critiche – senza predisporre programmi operativi che calino il piano nella realtà, né forme di “vincolo giuridico” o sanzioni per i Paesi inadempienti.

Al Summit Onu per lo sviluppo sostenibile che si è svolto nel fine settimana si è tentato di far ripartire i motori coinvolgendo Paesi ricchi e Paesi poveri, e valutando le nuove priorità: la cancellazione della povertà estrema e il miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie sono i goal della nuova Agenda 2030 considerati più a portata di mano, mentre tra quelli più ardui c’è senz’altro il contenimento dei cambiamenti climatici.

Il tema è tra quelli al centro dell’Assemblea generale che apre oggi, assieme alla questione migranti, al terrorismo internazionale, alla guerra in Siria e alla stessa riforma dell’Onu. Il segretario generale Ban Ki-Moon ha annunciato che i leader mondiali hanno espresso il loro sostegno al raggiungimento di un accordo che consenta di contenere sotto i due gradi centigradi l’aumento della temperatura globale, puntando sull’investimento in energie pulite e sull’abbandono delle fonti fossili come petrolio e carbone nei cicli produttivi. L’assemblea generale, come ogni anno, sarà anche teatro di intense trattative diplomatiche ai massimi vertici. L’incontro Obama-Putin sulla Siria – i due non si vedono da tre anni – è probabilmente uno degli snodi cruciali in questo senso. Altro incontro bilaterale è quello tra Hollande e il presidente iraniano Rouhani, che pure hanno parlato di Siria.

«I leader hanno convenuto che Parigi deve essere il pavimento, non il soffitto dell’ambizione collettiva» ha detto Ban Ki-Moon a proposito delle attese legate al vertice sul clima di Parigi (Cop21) del prossimo dicembre. «La stessa volontà che ha prodotto la rivoluzione industriale e quella digitale può produrre una rivoluzione energetica» ha detto Obama promettendo impegno a Parigi. Staremo a vedere.

Il presidente Usa interviene a pochi giorni da un confronto – che si annuncia decisamente aspro –  sul bilancio federale, dal quale Obama ha chiesto di stanziare 500 milioni di dollari per i 2016 a beneficio del Green Climate Fund, un fondo per la mitigazione degli effetti del riscaldamento globale considerato centrale per il buon esito della Cop21 di Parigi. La somma, peraltro, rappresenta un sesto del conferimento totale promesso dagli Usa: 3 miliardi di dollari destinati a sostenere i Paesi più poveri nella transizione verso le ecoenergie e per l’adattamento alle conseguenze del global warming.

Nel suo intervento al vertice dello sviluppo sostenibile il presidente Obama ha evidenziato il legame tra i cambiamenti climatici e la crisi dei migranti. «Tutti i nostri Paesi saranno colpiti dal “climate change” – ha detto –, ma le persone più povere del pianeta porteranno il fardello più pesante, dall’innalzamento del livello dei mari all’aumento della siccità. E vedremo sempre più rifugiati del clima».

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Catalogna, chi ha vinto, chi ha perso e che succede adesso?

Indipendenza o riforma costituzionale? Dopo il voto catalano di ieri la partita è aperta e la discussione è destinata ad avere un impatto enorme sul futuro della Spagna e, nel breve termine, sul voto politico del prossimo 20 dicembre.

Che cosa è successo?

Catalonia regional elections

(i leader della CUP Antonio Banos e David Fernandez festeggiano)

La lista che radunava tutti gli indipendentisti di centrodestra e centrosinistra, Junts pel Si, ha vinto le elezioni, ottenendo il 39,6% dei voti e 62 seggi. Sei in meno della maggioranza. Gli indipendentisti di sinistra del CUP (Candidatura d’Unitat Popular) ne ottengono 10 (+7). Assieme avrebbero la maggioranza nell’Assemblea catalana, ma non la maggioranza assoluta dei voti (47,8%). La CUP ha invitato a disobbedire alle leggi nazionali spagnoli e sostiene che il cammino per l’indipendenza prosegue. Ma al contempo chiede la testa di Arturo Mas, che invece è il candidato più probabile a succedere a se stesso alla presidenz adella Generalitat de Catalunya. Tra i partiti non indipendentisti i socialisti tirano un sospiro di sollievo e sopravanzano il PPE, Ciudadanos (la versione centrista di Podemos) ottiene il 17,1%, mentre Podemos, che non si era schierata né per l’indipendenza, né contro, si ferma all’8,9% subendo chiaramente l’avanzata della CUP.

Cosa succede adesso?

Convergencia i Uniò e Esquerra Republicana (i due partiti che formano Junts pel Si) hanno tracciato una mappa del dopo voto con la quale si sono presentati alle elezioni, il “percorso catalano unitario verso la sovranità” che si concluderebbe tra 18 mesi con lo svolgimento di un referendum su una Costituzione, non sulla secessione. Dopo quella si passerebbe alla costruzione delle istituzioni nazionali. Se è vero che i vincitori sono loro e che il fronte non-indipendentista è frammentato, resta la difficoltà di convergere su un governo e trovare una maggioranza solida capace di avviare un processo costituzionale. Gli indipendentisti intendono anche trattare con Madrid, ma il voto del 20 dicembre complica le cose. Se Rajoy e il PPE sono tra i più strenui difensori della centralità di Madrid e hanno rifiutato un nuovo patto fiscale tra Spagna e Catalogna proposto nel 2012 da Mas, una maggioranza diversa potrebbe avere posizioni differenti. Certo il governo di centrodestra ha poche carte se non la speranza di un ruolo della Corte costituzionale, che nel 2014 bocciò la dichiarazione di sovranità del parlamento catalano e il referendum – che si fece lo stesso e che gli indipendentisti stravinsero ma con una partecipazione al voto attorno al 40%. Un nuovo intervento della Corte, così come è successo con la politica di Rajoy in questi anni, non potrebbero che far crescere la spinta indipendentista. Il capolista di Junts Raul Romeva ha dichiarato: «Abbiamo un mandato che dobbiamo attuare. Se ci saranno trattative con lo Stato spagnolo, tutto sarà più facile. Ma in assenza di volontà da parte dello Stato, faremo la proclamazione di indipendenza).»

 

Come risponde Rajoy?

Il premier spagnolo ha tenuto una conferenza stampa e si è detto aperto al dialogo, segnalando però come gli indipendentisti non abbiano la maggioranza dei voti della società catalana. «Ieri si è constatato che la Catalogna è plurale, voglio chiedere al governo catalano di governare per tutti i catalani, di superare le distanze e di sostituire il monologo e l’imposizione delle scelte con un dialogo costruttivo.» Una posizione molto debole con qualche punto di ragione: la presidenza catalana ha spesso spinto sull’acceleratore giocando al gioco dei fatti compiuti. Nei mesi passati Rajoy aveva cambiato la legge, assegnandosi il potere di rimuovere i presidenti delle autonomie e sulla necessità di rispettare le legge è tornato: Madrid non accetterà che «venga messa in discussione la sovranità nazionale o la sovranità spagnola».

 

Pessimo risultato per Podemos, il trionfo di Ciudadanos

Catalonia regional elections

(Ines Arrimadas)

Il raggruppamento guidato da Pablo Iglesias si presentava assieme a una lista in cui c’era anche Esquerra Unida, versione catalana di Izquierda Unida. L’8% non è un buon risultato, non solo perché pochi mesi fa la lista simile che candidava Ada Colau alla poltrona di sindaco aveva preso il 25%. Podemos ha scontato una campagna elettorale tutta centrata sulla domanda “indipendenza Si, indipendenza No”, alla quale non dava una risposta. Come nota El Pais, ora Iglesias deve reinventare una strategia elettorale per il voto di dicembre. Ad oggi, infatti, Podemos aveva ottenuto ottimi risultati sempre e ovunque e questa è la prima vera battuta d’arresto. Ripartire senza un’immagine vincente è più complicato. La versione moderata di Podemos, anch’essa schierata con forza contro la vecchia politica, è tra i veri vincitori di queste elezioni: la sua capolista, Ines Arrimadas, 34 anni, che non è catalana ma andalusa (come molti spagnoli che vivono in Catalogna), si è presentata sul palco per festeggiare con le bandiere catalana, spagnola ed europea. Il leader Albert Rivera, 35 anni, catalano, ha dichiarato: che l’era della vecchia politica bipolare è finita, chiesto le dimissioni di Mas, che ha attaccato duramente. La sua incapacità a dialogare «ha consegnato il destino della Catalogna agli anti-sistema della CUP» ha detto.

 

Contro chi giocherà il Barcellona l’anno prossimo?

E’ una delle domande ripetute con più frequenza. Il Barca, il cui presidente, molti giocatori e l’ex allenatore Pep Guardiola sono pro-indipendenza, rischierebbe, senza un accordo, di trovarsi a giocare in un campionatino regionale, perdendo palate d’oro dei diritti Tv della Liga spagnola. Sarebbe un disastro per il club azulgrana.

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Berlusconi, l’ennesimo stanco ritorno

Dite la verità, siete preoccupati. Il centrodestra è allo sbando. Sì, c’è Giorgia Meloni, sì, c’è Matteo Salvini. Però l’emorragia di parlamentari verso il gruppo dei verdiniani (e quindi verso Matteo Renzi) continua. E dov’è Berlusconi? Da Putin o ad Arcore, in silenzio. «Voglio e devo ritornare a battermi per la democrazia solo quando sarà restituito al pieno splendore dell’innocenza dalla Corte di Strasburgo», diceva fino a poche ore fa. Poi però qualcosa è cambiato. Qualcuno gli ha detto che la Corte di Strasburgo non si esprimerà prima del 2016. «Troppo tardi», dice lui, che sperava in questo ottobre. E allora eccolo, potete stare tranquilli. «Volevo tornare una volta sicuro dello splendore di una piena e totale innocenza. Ma i tempi sono precipitati», è costretto a scrivere in piena domenica: «Oggi la situazione mi impone di tornare come sempre e come prima in mezzo a voi. Quindi torneremo ad essere quello per cui siamo scesi in campo, un popolo di italiani che amano la libertà, la democrazia e gli altri italiani».

Volevo tornare una volta sicuro dello splendore di una piena e totale innocenza. Ma i tempi sono precipitati. Oggi la…

Posted by Silvio Berlusconi on Domenica 27 settembre 2015

La scelta è veramente improvvisa. Perché giusto poche ore prima, ad Atreju, l’annuale raduno dei giovani fan di Giorgia Meloni, l’atteggiamento era quello del padre nobile costretto un po’ ai margini. Tant’è che non è riuscito a eccitare le folle. E persino Francesco Storace – uno non certo di primissimo pelo – ha potuto mostrarsi irriguardoso: «Berlusconi sta spiegando ad Atreju come vincere le elezioni. Del 1994», ha ironizzato.

Berlusconi però ora vuole tornare. Anche se il copione – questo sì – non è nuovissimo. Sorvolando come al solito sulla natura parlamentare della nostra Repubblica (i governi li fa il parlamento, anche se le ultime leggi elettorali puntano molto sull’indicazione di un “candidato premier”), «siamo in una situazione di non democrazia», ripete Berlusconi, «perché questo è il terzo governo consecutivo non votato». Sorvola, Berlusconi, anche sul fatto che i due precedenti governi, Monti e Letta, erano in carica anche grazie ai voti di Forza Italia.

Siamo in una situazione di non democrazia, una situazione grave, perché questo è il terzo governo consecutivo non votato…

Posted by Silvio Berlusconi on Domenica 27 settembre 2015

Ad Atreju Berlusconi – un po’ stancamente – aveva saluta soddisfatto gli ultimi transfughi, tentando di rigirare a suo favore la trasfusione: «Deo gratias», ha detto, ripetendo la formula già usata per Raffaele Fitto, «hanno lasciato Forza Italia i mestieranti della politica che la avevano presa come un taxi». E proprio dal nuovo taxi arriva però l’avvertimento dell’ex forzista Saverio Romano, indispettito dai commenti su Denis Verdini, dei vari berluscones. Quella del senatore sembra proprio una minaccia – anche se lui poi smentisce ogni cattiva intenzione: «Invito gli amici di Forza Italia ad usare cautela parlando di Denis Verdini. Egli è galantuomo, conosce la loro biografia e mantiene riserbo»

Da un’altra falla in Forza Italia, per Berlusconi arriva poi la replica di Raffaele Fitto, intervistato da Giuseppe Alberto Falci su Repubblica: «La stagione politica di Silvio Berlusconi è finita, ma lui non vuole accettarlo», è il verdetto, «continua a raccontare cose nelle quali non crede più nemmeno lui».

Fitto, poi, annuncia che nei prossimi giorni presenterà una proposta di regolamento per le future primarie del centrodestra. Primarie che vuole anche Meloni, e che vuole Salvini. Primarie che Berlusconi – tornato sì, ma assai poco in forma – deve ormai almeno ipotizzare. Non senza una stoccata: «Sono plausibili», dice l’anziano leader, «solo quando non c’è un leader riconosciuto, se ci sono in campo seconde file».

Ingrao, un politico che parlava al cuore di ciascuno

Pietro Ingrao incarna in modo esemplare la figura del politico “esistenziale”, capace di collocare ogni problema sociale e politico sullo sfondo dell’esistenza umana. E anche perciò capace di parlare al cuore di ciascuno. Non così Berlinguer, che – occorre pur dirlo in tempi di beatificazione – la mia generazione non ha mai amato: la sua serietà, discrezione e ritegno mi apparivano felicemente antitaliani ma il linguaggio era sclerotizzato, privo di qualsiasi immaginazione, a volte elusivo e perfino fumoso.
Torniamo a Ingrao: c’è un articolo bellissimo, che troviamo in La Tipo e la notte, scritti sul lavoro 1978-1996 (Ediesse) che riassume perfettamente la sua vocazione “esistenziale”. Alla Fiat nel 1994 intendono mettere il terzo notturno (notturno) ma lui lo percepisce come rottura del ritmo vitale. E soprattutto difende la sosta, il diritto all’ozio, l’idea di un tempo che gli orologi non misurano, contro la vita a una sola dimensione: nell’indugiare, nella lentezza inutile c’è infatti qualcosa di necessario e incalcolabile.
La collana “Carte di Pietro Ingrao” della Ediesse, curata da Marisa Luisa Boccia e Alberto Olivetti, si impegna meritoriamente a ripubblicare gli articoli a scritti dispersi di Ingrao, fondamentali per chiunque abbia a cuore il patrimonio ideale della sinistra nel nostro paese. Ora è uscito un altro volume, Crisi e riforma del Parlamento (con un saggio di Luigi Ferrajoli) dove troviamo un prezioso scambio epistolare sulle istituzioni con Norberto Bobbio.

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In particolare si soffermano su un punto decisivo, il concetto di democrazia. Da una parte vorrei mettermi tutto dalla parte di Bobbio. E dunque l’importanza delle procedure, delle regole, e soprattutto il valore centrale del conflitto, della discordia che è dinamismo, contro qualsiasi concezione organicistica (e forse l’intera storia del Pci appare segnata da una ossessione unitaria, da una vocazione alle grandi intese). Dall’altra parte però Ingrao mette l’accento sulla democrazia di massa (o di base), e ci ricorda che non c’è parità reale di voto tra Agnelli e un suo operaio. La tradizione liberal-democratica fa bene a ricordare che il conto dei voti è l’unica verifica di un’egemonia, però resta insensibile alla questione dell’equità e dell’uguaglianza reale tra le persone (un caso clamoroso è stato al riguardo quello del governo Monti).
Dunque occorre secondo Ingrao promuovere la partecipazione, la cittadinanza attiva, l’associazionismo, per rendere effettiva la democrazia e incamminarsi – quasi senza saperlo – per il lungo, travagliato cammino verso il socialismo.

Intercettazioni, che cosa prevede (e perché non piace) la delega al governo

Il disegno di legge di riforma del processo penale approvato il 23 settembre alla Camera contiene una delega al governo per disciplinare diversamente l’uso che magistratura e mondo dell’informazione fanno delle intercettazioni. Il provvedimento è ora in attesa del via libera del Senato, ma intanto non si sono fatte attendere le contestazioni dai banchi dell’opposizione e dal sindacato dei giornalisti.

 

Cosa prevede la delega
Vediamo che cosa prevede l’articolo 29, quello che contiene la cornice entro cui il governo – che ha già annunciato l’intenzione di convocare una commissione ad hoc composta anche da magistrati, avvocati e giornalisti – intende regolamentare le intercettazioni. Il riferimento costituzionale è ovviamente l’articolo 15 sulla inviolabilità della segretezza di corrispondenza e altre forme di comunicazione, da cui è possibile derogare soltanto «per atto motivato dell’autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge». L’obiettivo che la legge affida al futuro decreto governativo è di introdurre il divieto di pubblicare «comunicazioni non rilevanti a fini di giustizia penale» e tutelare la privacy delle persone intercettate e coinvolte nel processo «occasionalmente».

 

Reclusione per le riprese fraudolente
La delega prevede la possibilità di condannare al carcere (da sei mesi a 4 anni) chi diffonde riprese o registrazioni “fraudolente” «al fine di recare danno alla reputazione o all’immagine altrui». La condanna alla reclusione è però esclusa quando le immagini costituiscano strumento per l’esercizio del diritto di difesa, prova nel processo o rientrino nel diritto di cronaca. Il Movimento 5 stelle però non si accontenta di questa esclusione esplicita e parla di “legge bavaglio”, perché comunque la norma prevede una sanzione per chi diffonde le riprese o registrazioni “fraudolente”.

 

L’udienza filtro
La legge non prevede più,  invece, la cosiddetta “udienza filtro”, nel corso della quale le parti, davanti al giudice, esaminano le intercettazioni per stabilire quali siano rilevanti ai fini del processo ed escludendo i contenuti ritenuti irrilevanti. Un emendamento della presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti (Pd), l’ha cancellata con il disappunto del sindacato dei giornalisti. Il motivo, spiegano dalla maggioranza è che in casi come quello di processi con più imputati l’ascolto delle intercettazioni sarebbe accessibile a tante persone, facendo venir meno la motivazione della tutela della privacy. Dopo le proteste dei giornalisti e dell’Anm (l’Associazione nazionale magistrati ha bollato come incoerente e disorganico l’intero testo della riforma), il ministro della Giustizia Andrea Orlando si è però detto disponibile a valutare nuovamente l’introduzione dell’udienza filtro.

 

Le critiche di Fnsi
Il segretario generale della Fnsi Raffaele Lorusso ha accolto positivamente l’apertura di Orlando e ha spiegato come «lo strumento della delega in tema di libertà di stampa sia di per sé pericoloso». Pur riconoscendo l’esigenza di sanzionare gli eccessi, Lorusso ha annunciato la mobilitazione della categoria se non viene riconosciuto «il diritto di diffondere le notizie rilevanti per l’opinione pubblica, anche quando non hanno alcuna rilevanza penale».

Ius soli: trovata la maggioranza, ma a che prezzo?

Via libera della commissione Affari costituzionali della Camera al testo del ddl sulla cittadinanza. Il provvedimento sarà all’esame della Camera domani, 29 settembre. Se approvato nella nuova versione concederà la cittadinanza ai figli degli stranieri nati in Italia (con il vincolo che almeno uno dei due genitori sia in possesso di un permesso di soggiorno di lunga durata) e a chi è nato all’estero (a patto di aver frequentato e portato a conclusione un ciclo scolastico in Italia). Quelle tra parentesi sono le condizioni fissate dai due emendamenti accettati in Commissione, proposti da Nuovo centrodestra e Scelta civica. L’accordo di maggioranza in commissione arriva sul disegno di legge C. 3264, presentato il 29 luglio scorso alla Camera dalla deputata del Pd Marilena Fabbri, e andrebbe a modificare la Legge n. 91 del 1992 in materia di cittadinanza, in particolare dei minori stranieri.

Un compromesso è stato dunque raggiunto, ma a che prezzo? Lo sblocco in Commissione Affari costituzionali del ddl è costato forse troppo. I due emendamenti apportati da Sc e Ncd fissano «condizioni discriminanti», secondo il mondo delle associazioni. In attesa del testo definitivo, ecco i punti della discordia.

Lo ius soli. Carta di soggiorno di 5 anni invece della residenza legale

L’emendamento di Ncd riguarda il requisito del permesso di soggiorno europeo per lungo soggiornanti (ex carta di soggiorno) – di 5 anni – per i genitori dei bambini che nascono sul suolo italiano. E, ancora, deve essere dimostrata la disponibilità di un reddito minimo non inferiore all’importo annuo dell’assegno sociale e la non pericolosità sociale del cittadino straniero per l’ordine pubblico o la sicurezza dello Stato. «È chiaro che questo restringe la platea ma si è ritenuto che il requisito garantisse maggiormente il rispetto del radicamento della famiglia sul territorio italiano e che si trattasse di una presenza più di prospettiva, visto che il permesso è a tempo indeterminato», ha spiegato la prima firmataria del ddl, la democratica Marilena Fabbri. Che ha poi ammesso: «Per noi è un compromesso al ribasso, ma i compromessi sono sempre compromessi. E la valenza è la stessa anche per chi lo legge da destra e non avrebbe proprio voluto accettare l’idea dello ius soli».

Lo ius culturae. Promossi alla scuola primaria e residenza legale dei genitori

Paletti in più anche per chi è nato in Italia da genitori non in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo, o per chi arriva entro il 12esimo anno di età (cioè per i minori che non hanno diritto allo ius soli). Per loro, è previsto il cosiddetto ius culturae, cioè la frequenza di un ciclo scolastico di almeno 5 anni. Nel nuovo testo, però, si richiede il «superamento con successo» della scuola primaria. Quindi, nel caso in cui il bambino nato in Italia o arrivato entro i 12 anni venga bocciato in quinta elementare, per richiedere la cittadinanza dovrà aspettare fino alla successiva promozione. Non solo, ma per fare richiesta di cittadinanza, ottenuta secondo il criterio dello ius culturae, si dovrà dimostrare anche la residenza legale dei genitori.

La questione irrisolta della retroattività

Tra le questioni ancora irrisolte, quella della retroattività. Chi ne avrà diritto? Il provvedimento si rivolgerà ai nati e gli arrivati in Italia al momento dell’entrata in vigore della nuova legge o varrà anche per chi è nato o arrivato in Italia anni prima – e magari oggi è maggiorenne – ma possiede i requisiti richiesti?

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Le reazioni

Insorgono le associazioni e insorge pure un pezzo di politica. L’Italia sono anch’io, è la campagna per i diritti di cittadinanza che mette insieme molte organizzazioni nazionali: dall’Arci alla Caritas, dalla Cgil a Libera e altri che si battono per i diritti dei migranti. È da questa campagna che tutto ha inizio, da quando – il 6 marzo del 2012 – sono state depositate alla Camera oltre 200mila firme per sostenere una proposta di legge di iniziativa popolare sulla cittadinanza. Oggi, che lo ius soli arriva a essere dibattuto alla Camera, i promotori non hanno dubbi: questa versione del ddl è un compromesso al ribasso. Anche Sel, con la deputata Celeste Costantino, definisce «molto stringenti» le condizioni fissate e sottolinea che «tra i requisiti necessari figurano anche particolari condizioni economiche e standard abitativi penalizzanti».
 Mentre sul fronte democratico si prova a stemperare, il deputato Pd Kalid Chauki definisce «un ottimo risultato questo accordo di maggioranza».

La parola passa all’Aula.

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