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Gioco d’azzardo, lo Stato incentiva e le mafie incassano

Slot machine, sale bingo, distribuzione di caffè e corse di cavalli. Ma soprattutto un clan, quello dei Casalesi, che tenta di riorganizzarsi militarmente e non solo. L’operazione della Direzione investigativa antimafia di Napoli che questa mattina ha portato all’arresto di 44 persone, conferma che dopo la disarticolazione dell’ala militare e delle sponde politiche, ad assumere un ruolo centrale nel clan negli ultimi mesi è la famiglia Russo. Tra gli arrestati ci sono infatti Corrado e Raffaele Nicola Russo, fratelli del braccio destro di Francesco “Sandokan” Schiavone, Giuseppe detto Peppe ‘o padrino, arrestato nel 2003 in Germania, dove era latitante, e ora al 41 bis.

Sono 3.200 le macchinette sequestrate in centinaia di locali tra Campania, Lazio e Toscana. E a quanto pare l’investimento delle mafie del settore, oltre che molto redditizio, è funzionale alla costruzione della loro “filiera” criminale. Slot macchine e videolottery – spiega l’ultima relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) – rappresentano «la base finanziaria attraverso cui, per un verso, vengono pagati gli stipendi ai numerosi affiliati detenuti, per altro verso, vengono effettuate attività di reimpiego di capitali». Riciclaggio di denaro proveniente da altre attività illecite, come il traffico di droga, dunque. E anche controllo del territorio attraverso il ricorso a prestanome incensurati (molti dei 44 arrestati oggi lo sono), ai quali affidare la gestione dei locali con le macchinette e delle aziende che le noleggiano.

Il business è incentivato dalla tassazione di favore mantenuta da tutti i governi a partire da Berlusconi, con il pretesto – giudicato infondato alla luce dei fatti dalla stessa Dna (nella relazione 2013) – che favorire il gioco legale avrebbe sottratto terreno al gioco illegale controllato dalle mafie. Queste ultime, invece, si sono buttate nell’affare più di prima, come sempre accade quando la legislazione offre incentivi (vedi le indagini degli anni passati sugli interessi mafiosi nell’eolico). L’inchiesta campana ne è la conferma: il clan Schiavone-Russo aveva il monopolio delle slot machine e dei videopoker nei bar in provincia di Caserta e in molte aree del Napoletano.

I cosiddetti Casalesi sono i primi, come spiega la Dna nella relazione 2013, ad aver «sviluppato adeguate professionalità specializzando, per così dire, alcuni affiliati» e stretto alleanze con imprenditori che hanno fiutato le potenzialità del settore. Lo “specialista” per conto del clan si chiama Mario Iovine, detto Rififì, che dopo essersi fatto le ossa a Modena ha piazzato le sue macchinette in buona parte della Capitale. Ed evidentemente l’arresto e le condanne di Rififì non hanno fermato gli investimenti nel settore, che interessa – e spesso vede alleate – anche ‘ndrangheta e Cosa nostra.

La Guardia di Finanza, primo gruppo di Roma, ha calcolato un fatturato del mercato illegale dell’azzardo che si aggira attorno ai 23 miliardi di euro soltanto per il 2013, mentre lo scorso anno il settore “legale” ha fatto registrare una raccolta complessiva 84,5 miliardi. All’erario il business è fruttato 8,291 miliardi, molto meno che ai clan.

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Giù le mani da Pertini

Due volte. Sono riusciti a citarlo a sproposito, in una sola giornata, ben due volte. Non era facile. Due dei “nostri” leader, entrambi in ruoli che forse gli hanno oscurato le capacità comparative – uno è presidente del Consiglio, l’altro emerito comico – si sono paragonati al Presidente della Repubblica più amato della storia del nostro Paese, Sandro Pertini.

Per averlo emulato? No di certo, siamo seri. Almeno noi.

I due goliardi, lo hanno strappato a ben più degne memorie per giustificare due esondazioni della loro personalità. Il primo, Matteo Renzi, doveva giustificare il fatto di essere andato a nostre spese (nonostante fiumi di dichiarazioni sui tagli) a piazzare il suo faccione sulla vittoria di una delle due italiane alla finale del Grande Slam degli Us Open di New York, un viaggio che mai si sarebbe sognato di fare, se ci fosse stata la ben che minima possibilità che l’Italia perdesse (sapete com’è, giocando Italia contro Italia era dura perdere). E siccome era dura anche che le due atlete azzurre ci facessero fare una figuraccia, il leader del Pd nonché capo del Governo italiano, ci ha pensato lui. E, sempre tronfio e baldanzoso risponde e raddoppia: «Critiche populiste. Questa gente avrebbe chiesto a Pertini il computo del viaggio a Madrid» (ai mondiali dell’82, ndr).
No, “caro” (nel senso che troppo ci costa) Renzi: non avremmo criticato Pertini. E con somma pazienza, ci tocca farlo, spieghiamo perché.
Perché Pertini volava in Spagna, ma si precipitava anche in Irpinia, dopo il terremoto, in una situazione in cui lo Stato non stava facendo bella figura.
Perché si trattava di una figura che si era meritata tutt’altro rispetto istituzionale. Intanto perché era il Presidente, si, ma della Repubblica italiana, e poi perché nel suo caso, persona e personaggio coincidevano. La sua presenza portava sostegno, dignità e impegno. Per la sua storia personale e politica, che si può dire differisca in tutto, ma proprio in tutto, da quella di Matteo Renzi. Insomma, era difficile beccare un paragone più lontano. Un po’ come se Grillo si paragonasse a Mandela…

Si, Matteo, lo sappiamo: essere lì significava essere inquadrati più volte, e per giunta col pollicione alzato all’americana. Si: era una figura che assolutamente non ci si poteva lasciar scappare. Però, la prossima volta, magari provi a dire: “mi piace alzare il pollicione”. Così. Tanto per rispettare almeno il passato di questo Paese. Visto che col futuro la vediamo grigetta.

Passiamo all’altro grande statista. Beppe Grillo. Il leader del secondo partito d’Italia, si è paragonato anche lui al Presidente (testuale: «Io come Pertini» e si, ebbene si, ci ha messo di mezzo pure il povero Mandela) per giustificare una condanna a suo carico per diffamazione aggravata. Lui insulta, i giudici lo condannano, e lui, sempre nel rispetto istituzionale che lo caratterizza, sbraita. Beh, dai, non balza all’occhio? Come Pertini, uguale-uguale, stessa persecuzione. E stesso motivo per cui dovrebbe farsi la galera (un anno. Forse.).
Cosa volete che siano quei 10 anni di carcere e la spicciolata al confino che Pertini si fece grazie al Tribunale speciale fascista (mantenendo, per inciso, sempre “altezzoso contegno”)?
Al di là delle motivazioni della sentenza del comico, che ancora non conosciamo (e francamente…potrebbero anche sfumare nell’oblio, tutto considerato), conosciamo quelle della condanna a Pertini: essere antifascista.
Che è quella “colpa” che ha fatto sì che la Repubblica esistesse, con una Costituzione, dei principi, dei limiti (presente, cari leader? Li-mi-ti, è facile). È quell’atteggiamento di rispetto nei confronti della vita dell’altro, del lavoro, del senso dello Stato inteso come qualcosa a cui voler bene perché è fatto dalle persone. Che meritano dignità. Tutte (a meno che non la perdano da soli).

Ecco, no Beppe: non sei come Pertini. Come Pertini e come alcuni politici di un tempo, eleganti, riservati, che si sapevano imporre senza strabordare, autorevoli perché il Paese l’avevano difeso con la pelle e non con le parole, non ce ne sono più.

Quindi per favore, giù le mani da Pertini e dalla nostra Storia. Almeno da quella.

Muro e nuove leggi sull’immigrazione, in Ungheria si arrestano i rifugiati

Lo avevano detto e lo hanno fatto: migliaia di rifugiati entrati in Ungheria dalla Serbia sono stati arrestati la scorsa notte dopo che sono entrate in vigore le nuove  norme sull’immigrazione. «Inizia una nuova era», ha detto il portavoce del governo ungherese Zoltan Kovacs poco dopo la mezzanotte di ieri, «fermeremo l’afflusso di immigrati clandestini alle nostre frontiere verdi».

Dalla scorsa notte in Ungheria chi passa il confine illegalmente rischia fino a 3 anni di carcere stesso destino tocca a chi danneggia il muro eretto al confine meridionale con la Serbia. Trenta i giudici che sono stati assegnati solo per fare applicare la legge. La barriera di lamette e filo spinato lunga 175 chilometri e alta 4 metri, fortemente voluta dal premier Viktor Orbán, è stata ultimata con le braccia e il lavoro di decine di detenuti delle carceri ungheresi e ben 4.300 militari ungheresi sono stati dispiegati lungo il confine serbo.

Nuove regole, il premier ungherese Viktor Orbán le aveva annunciate a margine dell’approvazione del Parlamento, il 3 settembre a Budapest. A partire dal 15 settembre, aveva detto, «passo dopo passo», riprenderemo «il controllo delle frontiere». E aveva anche annunciato «un nuovo pacchetto di regole». Regole sui richiedenti asilo, sui trafficanti e i Paesi vicini, su come si può e come non si può entrare in Ungheria. E ieri, parlando alla polizia spedita alla frontiera, ha detto: «L’Ungheria è un Paese con 1.000 anni di cultura cristiana. Noi ungheresi non vogliamo un movimento globale di  queste dimensioni nel nostro Paese». Più chiaro di così.

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«Mettere i rifugiati sui treni suscita ricordi del periodo più buio del nostro continente»

Werner Faymann, cancelliere austriaco

 

Orbán non fa un passo indietro e mantiene la linea dura anti-migranti. Intanto l’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha reso noto che 432.761 migranti sono arrivati in Europa attraverso il Mar Mediterraneo nel 2015. Ennesimo record. La nuova cortina di ferro non fermerà certo il flusso in ingresso nell’Unione, ma creerà nuove strade e lascerà migliaia di persone in un limbo giuridico a vagare per le strade ai confini dell’Unione europea.

 

«O continuiamo a costruire confini e a trattare la gente con brutalità, schierando l’esercito e mettendoli nei campi di detenzione, oppure accettiamo il fatto che i richiedenti asilo continueranno a provare a venire in Europa e devono essere trattati in maniera umana e poter esercitare il loro diritto d’asilo»

Peter Bouckaert, direttore di Human Rights Watch

 

Il 14 settembre circa 10mila persone hanno manifestato per le strade di Budapest in solidarietà nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo. E contro il governo di Viktor Orbán, invocandone le dimissioni per ché accusato di fare leva sulla crisi migratoria per allargare la base di sostegno dell’estrema destra e spostare l’attenzione dell’elettorato dagli scandali di corruzione.

A Bruxelles, intanto, l’opposizione del blocco dell’Est (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia) blocca un accordo sulla redistribuzione delle quote. Il vertice ministeriale di ieri ha ratificato la distribuzione di 40mila persone, cosa già decisa  a luglio, ma non le quote obbligatorie proposte da Juncker. Se ne riparlerà a ottobre. In teoria la decisione può essere presa con una maggioranza qualificata, ma sarebbe un segnale di scarsa unità dell’Unione che la Commissione preferirebe evitare. Difficile capire come si potranno convincere i Paesi che usano la crisi dei rifugiati siriani per fare propaganda interna.

Save the Children : Italia a rischio di povertà educativa

«Secondo la mitologia greca, l’uomo deve a Prometeo le chiavi della conoscenza e della saggezza. Per aver favorito il genere umano disubbidendo a Zeus, il povero titano sarà condannato a un destino atroce: dovrà vivere incatenato a una rupe per l’eternità mentre un’aquila gli divora il fegato. Guardando al mito nel 2015 dalla prospettiva dei diritti negati dell’infanzia, l’immane sacrificio di Prometeo sembra essere stato vano». Sono queste le parole introduttive del nuovo rapporto Save the Children “Illuminiamo il futuro 2030 – Obiettivi per liberare i bambini dalla povertà educativa”, che non fornisce un quadro confortante della situazione scolastica in Italia. Per povertà educativa i ricercatori dell’organizzazione internazionale intendono «la mancanza delle competenze necessarie per uno sviluppo adeguato e per farsi strada nella vita».

Una vera e propria «mina innescata sul futuro di milioni di bambini e adolescenti italiani» dunque, che rischia di trasformarsi in un destino ineluttabile a causa di contesti familiari, economici e culturali svantaggiati. La conseguenza è che quasi il 25% dei quindicenni presenta gravi lacune nelle nozioni base di matematica, mentre quasi 1 su 5 non arriva a soddisfare le competenze basilari di lettura e comprensione della lingua.
Il rapporto mette in stretta relazione la povertà educativa e povertà economica le quali, come sottolinea il rapporto,«si alimentano a vicenda» fino ad arrivare, nel Sud Italia, a una totale compenetrazione e a livelli desolanti.

 

Il quadro è però impietoso anche sotto altri fronti: ben il 45% dei minori fra i 6 e i 17 anni non ha letto nessun libro nell’arco del 2013, anno preso in esame dal rapporto; mentre il 37% non ha praticato alcuno sport e il 29% non ha usato internet per aggiornarsi o per svolgere altre attività. La percentuale cresce se parliamo di famiglie con scarse risorse economiche.

Un altro dato negativo è quello che riguarda l’interesse per i musei e per le arti ricreative: una percentuale minima del 65% non ha mai visitato un sito archeologico e circa la metà non ha mai fatto visita a un museo.

 

 

Il rapporto poi, attraverso un’analisi dei dati elaborati dall’Istat, mostra come la disparità persista nel confronto fra i due sessi, con i maschi che, per una volta nelle statistiche, sono indietro rispetto alle femmine.

 

e in relazione alla provenienza geografica dei genitori. Se questi sono entrambi migranti di prima generazione, le percentuali di lacune nelle nozioni base di matematica e italiano sono altissime, ben il 41%, e più o meno omogenee fra maschi e femmine. Le percentuali sono invece più basse nel caso di genitori non migranti, circa il 19%, o comunque migranti di seconda generazione, attorno al 30%.

Gli obiettivi che si pone Save The Children con la sua campagna “Illuminiamo il futuro” sono arditi, data la situazione attuale, ma non irraggiungibili. Consistono infatti nel consentire ai minori di apprendere, sperimentare, scoprire, sviluppare talenti, capacità e aspirazioni.

«Gli Obiettivi 2030 indicati nel Rapporto sono realistici e raggiungibili”, afferma Raffaela Milano, Direttore Programmi Italia-Europa di Save the Children. “La misura più urgente resta l’adozione di un piano di  contrasto alla povertà assoluta dei minori con misure di sostegno al reddito delle famiglie, accesso gratuito alle mense scolastiche e ad altre opportunità di tipo educativo. Auspichiamo che siano varati i decreti legislativi della riforma della scuola – particolarmente cruciali in primo luogo per quanto riguarda la riforma dei servizi per la prima infanzia – e che siano effettivamente realizzati, con la messa a disposizione delle risorse necessarie ed un monitoraggio serrato, alcuni obiettivi quali l’ampliamento del tempo scolastico, la digitalizzazione, il potenziamento dell’offerta educativa.

Gli interventi per contrastare la povertà educativa non devono in ogni caso riguardare solo le scuole, ma è tutto l’ambiente di vita dei bambini e degli adolescenti a dover giocare il ruolo di “comunità educante”. In questo senso, un banco di prova fondamentale riguarda l’utilizzo delle risorse della nuova programmazione europea, per lasciarsi alle spalle la stagione degli interventi spot, una tantum e frammentari e definire un utilizzo strategico integrato con le risorse ordinarie. E’ di grande importanza anche il tema della riqualificazione degli spazi urbani degradati, affinché i bambini  e i ragazzi possano usufruire di spazi per il gioco, lo sport , le attività culturali e artistiche.».

 

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Primo giorno di “buona scuola”, ecco il quadro (per nulla rassicurante) dopo la riforma

primo giorno di scuola proteste

Ci siamo. Anno scolastico al via, e mai come quest’anno si accendono i riflettori sul popolo della scuola: otto milioni di studenti e 800mila docenti per circa 8mila istituti pubblici. D’altra parte è naturale, dopo dodici mesi passati all’insegna della battaglia sulla Buona scuola che è diventata la legge 107. Che ha sollevato, bisogna ricordarlo, una mobilitazione mai vista negli ultimi decenni, nemmeno ai tempi della legge Gelmini che pure ha tagliato otto miliardi di finanziamenti all’istruzione pubblica. Ecco il quadro al suono della campanella dell’anno scolastico 2015-2016.

Assunzioni, la montagna partorisce il topolino

Le tanto sbandierate assunzioni “epocali” dei precari – 150mila all’inizio , poi scese a 103mila – in realtà finora sono solo 38mila. La fase B, decisa da un algoritmo del Miur, caduta in piena estate, tra l’angoscia dei prof e il disinteresse dei cittadini in vacanza, alla fine è stata la classica montagna che ha partorito un topolino: 8.532 le cattedre assegnate, su 8.776 a disposizione. Anche in questo caso, la scadenza era di notte, tra l’11 e il 12 settembre: hanno rinunciato in 244. Niente di epocale, dunque, sono stati nominati i docenti delle cattedre più richieste: italiano, sostegno ecc. Gli altri precari, continueranno a fare i supplenti fino al prossimo anno, sperando nella fase C, altre 55mila assunzioni sulle quali però aleggia il mistero più assoluto. Insomma, per ora le nomine sembrano più ricalcare il naturale turn over che rappresentare una vera  strategia di stabilizzazione che fin dal’inizio è stato lo specchietto per le allodole della Buona scuola. Vi ricordate Renzi: “Ma come? Assumiamo 150mila persone e questi protestano?”.

 

Caos per i comitati di valutazione

La situazione, per quanto riguarda l’applicazione della legge 107, non è delle più chiare e cambia di scuola in scuola. Uno dei nodi del contendere è la composizione del Comitato di valutazione, che, secondo la Buona scuola, comprende anche genitori e studenti e deve scegliere i docenti più meritevoli a cui andrà un bonus in denaro. Probabile il boicottaggio all’interno del Collegio docenti, soprattutto laddove c’è una divergenza di opinioni tra il preside-manager e gli insegnanti. La gara del prof più bravo è uno dei punti più contestati della Buona scuola, perché lede la cooperazione e la collaborazione tra i docenti, elemento fondamentale per una didattica di qualità e soprattutto per la relazione tra docente e studente. Insomma, oltre alla scelta del prof dall’albo provinciale – che entrerà in vigore dal 2016 – il bonus è un altro attacco alla libertà d’insegnamento. Ma non è finita qui.  Ci sono scadenze che incombono, come la definizione dei Piani dell’offerta formativa, da decidere entro il 31 ottobre, da cui dipenderà poi il numero di insegnanti,il fatto che mancano presidi  (circa 1700), la questione dell’alternanza scuola-lavoro con le imprese da cercare per gli stage – per i tecnici si tratta di 400 ore, e non sono bruscolini.

 

Mobilitazione degli studenti

Sarà il 9 ottobre il giorno della protesta in almeno 100 città con lo slogan “Vogliamo potere”. «Significa – afferma Danilo Lampis dell’Uds – molte cose, vogliamo poter studiare ma anche poter contrastare la precarietà con politiche sul reddito minimo e soprattutto poter avere la democrazia nella scuola che con la figura del preside manager è minacciata». La mobilitazione dell’Uds insieme a Link e Rete della Conoscenza va oltre i confini delle aule scolastiche per abbracciare nodi più generali, «anche in vista della giornata del 17 ottobre contro la povertà». Le associazioni studentesche hanno partecipato all’assemblea di ieri della Coalizione sociale così come hanno preso parte alla riunione dei comitati del 6 settembre a Bologna. Il percorso sembra comune: referendum abrogativo.

 

Il referendum? Meglio non andare da soli

Era stato deciso a Bologna (qui il documento finale), è stato ribadito – anche se più timidamente – all’assemblea della Coalizione sociale: va intrapresa la strada di un referendum abrogativo che coinvolga il maggior numero di cittadini e che sia all’insegna dell’unità, come ha detto Marina Boscaino del Comitato Lip parlando all’assemblea al teatro Ambra Iovinelli (qui il video). «La democrazia scolastica deve essere discussa da tutti i settori della società» e deve andare di pari passo alla riflessione sulle leggi sul lavoro e le riforme costituzionali. Un altro appuntamento in cui si farà il punto sul percorso referendario sarà l’8 novembre a Roma. L’idea è quella di abbinare i quesiti sulla scuola insieme a quelli sul Jobs act e sullo Sblocca Italia.

Ma perché non vengono presi i considerazione i quesiti di Possibile di cui uno riguarda la scuola e la figura del preside manager? «Personalmente penso che l’intero pacchetto messo in campo da Civati sia una reale necessità. Il punto è che come si costruiscono i referendum e se si incentiva la partecipazione, e in questo caso non mi sembra che sia avvenuto», afferma Danilo Lampis che sottolinea due elementi negativi: improponibile la raccolta di firme entro il 30 settembre e poi è necessario che esistano comitati ampi nei territori.

 

Due Regioni contro la Buona scuola

Sono stati i consiglieri M5s a muoversi nei consigli regionali rispettivamente di Veneto e Puglia. E così le due giunte regionali hanno approvato il ricorso alla Corte Costituzionale. In Puglia si tiene a precisare che non è una contestazione della legge 107, ma che è solamente una questione tecnica che riguarda il conflitto di attribuzioni tra Regioni e Stato. «La motivazione non è fondata su una critica di natura politica, ma sul mero intento di tutelare la Regione Puglia su alcuni aspetti del dimensionamento scolastico ed esclusivamente, dunque, riguardo il contenuto dell’articolo 117 della Costituzione», si legge in una nota della Regione. Insomma, mentre dal Governo si getta acqua sul fuoco e i media in genere assecondano la strategia rassicurante di Giannini,  nelle scuole – e fuori – la legge 107 si presenta in un clima di tensione. E gli effetti si faranno presto sentire.

>>GALLERY | Il primo giorno di scuola (e di protesta)

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foto concesse da UdS – Unione degli Studenti
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Cave e rifiuti tossici nelle Apuane: è la prova che nelle istituzioni c’è molto da cambiare.

alpi apuane rifiuti criminalità

In Toscana sono attive 35 organizzazioni mafiose secondo dati della Fondazione Caponnetto e del Consiglio regionale toscano. Una buona parte di queste imprese malavitose sono nel business dei rifiuti tossici e operano nella zona delle Apuane. Ve ne avevamo già parlato qui, raccontandovi della lunga, documentata, inchiesta che ha svolto Giulio Milani e pubblicata da Laterza con il titolo La terra bianca. Sul tema ci è arrivata la lettera di Andrea Balestri, direttore dell’Associazione Industriali di Massa Carrara, nella quale ci scriveva: «Non ho letto il libro e non posso recensirlo. […] L’intervista rilasciata su left.it a Simona Maggiorelli, tuttavia, ha confermato l’impressione del libro che ne avevo ricavato in stazione, ovvero di un teorema improbabile, di una ciclopica forzatura per mettere insieme una accozzaglia di cose molto diverse tra loro, di un corredo di dati pieno, questo sì, di “fole”, di una astiosa tracimazione di acredine verso il territorio dove lavoro».
Per fare chiarezza abbiamo quindi chiesto di fare il punto sulla situazione ad Anna Marson, ex-assessore all’Urbanistica della Regione Toscana che è stata la vera “levatrice” del Piano paesaggistico regionale:

 

Ho letto il romanzo-inchiesta di Giulio Milani inizialmente per curiosità, come faccio sempre con i libri che parlano di Toscana, e poi, via via, con crescente attenzione e interesse. Non avevo mai riflettuto, occupandomi di Alpi Apuane con il Piano paesaggistico regionale, sulle relazioni tra lavoro in cava e lavoro nell’industria chimica, anche se la relazione tra nocività in fabbrica e problemi ambientali nel territorio m’era ben nota, se non altro per aver a lungo vissuto e lavorato a Venezia dove l’esperienza dell’assemblea autonoma di Porto Marghera e degli sversamenti di diossina in laguna erano fino a qualche anno fa ancora ben vivi.

I fili e le trame tessute dall’autore sono piuttosto ardite – la forma del romanzo lo consente – muovendosi nel tempo e nello spazio degli ultimi ottant’anni di storia apuana e italiana, cesellando sul tema ambiente e lavoro pagine che non lasciano appello. Nella ricerca delle connessioni, personali ed emotive da un lato, collettive e politiche dall’altro, tra partecipazione degli anarchici apuani alla Resistenza, lotte contro le industrie inquinanti in fabbrica e sul territorio, istanze ambientaliste e mancata regolazione dell’escavazione del marmo sulle Apuane ho trovato ben delineate questioni e vicende che mi erano note, e appreso altre cose ignote. Non riesco a dare una valutazione sull’attendibilità delle pagine relative alla presenza delle organizzazioni criminali nell’area di Massa e Carrara, ma posso dire che i racconti sull’inseguimento dei camion che nella notte trasportano rifiuti cambiando bolle di consegna e altro coincidono perfettamente con altre testimonianze relative ad esempio all’Acna di Cengio.
Ciò che forse mi ha più colpito, come cittadina che ha da poco concluso un’esperienza di governo regionale in prima persona, è l’accusa rivolta alle istituzioni di essere ancor oggi pienamente conniventi con gli interessi di pochi. Se le istituzioni toscane, ai diversi livelli territoriali, riflettono quest’immagine, condivisa purtroppo dai molti che alle recenti elezioni regionali hanno scelto di non andare a votare, e da diversi fra coloro che militano nelle associazioni ambientali e civiche, non si può che concludere che c’è molto da cambiare nelle istituzioni per renderle più trasparenti e affidabili per i cittadini di cui dovrebbero essere espressione.
Purtroppo non si notano particolari segnali in questa direzione, anzi. E interrogarsi pubblicamente su quale sia oggi il modello di sviluppo utile e praticabile per le diverse comunità territoriali rimane pratica assai rara, anche se proprio a cavallo tra Lunigiana e Garfagnana sembra prendere attualmente corpo, per iniziativa di alcuni sindaci poco legati agli interessi che il libro descrive così puntualmente.
Devo invece contraddire ciò che Giulio Milani sostiene, non nel libro ma nell’intervista a Left, in merito al Piano paesaggistico di cui sono stata non la “madrina”, ruolo onorifico in cui poco mi riconosco, ma più materialmente la levatrice nel corso d’un travaglio lungo e faticoso. Milani scrive che il piano approvato “non solo non ha cambiato la situazione, ma l’ha peggiorata”. Così avrebbe in effetti rischiato di essere, se l’accordo con il Mibact intervenuto al termine dei lavori in Commissione, e prima del voto in aula sul piano, non avesse consentito di superare una serie di emendamenti al piano già votati. La valutazione su quanto la versione del piano approvata riuscirà nella pratica a migliorare la tutela del paesaggio apuano è ciononostante almeno in parte aperta, poiché dipenderà anche da come le sue norme saranno applicate. Scrivere che il piano peggiora la situazione mi sembra tuttavia sinceramente surreale, non fosse altro alla luce dei ricorsi presentati dalle imprese di cava contro di esso. Chiedo quindi a Giulio Milani di informarsi meglio a questo proposito.

 

* Anna Marson è ex – Assessore all’Urbanistica per la Regione Toscana e Professore ordinario di Tecnica e pianificazione urbanistica presso la Facoltà di Pianificazione dell’Università IUAV di Venezia

 

 

Migranti, al via l’ennesimo vertice che non deciderà nulla

vertice europeo immigrazione

La Germania chiude le frontiere, la Germania apre le frontiere. Se non ci andasse di mezzo la vita di migliaia di persone sembrerebbe quasi un gioco. Questo pomeriggio – 14 settembre – a Bruxelles si terrà l’ennesimo vertice straordinario sull’immigrazione. I ministri dell’Interno dei Paesi dell’Unione si incontrano per discutere il nuovo piano Juncker: 160mila (40mila subito e 120mila in seconda battuta) posti e sanzioni per gli Stati membri che si oppongono alle nuove direttive. C’è poco da rallegrarsi però, dall’incontro non arriverà nessuna certezza. Ne è certo il prefetto Morcone, capo del dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione del ministero dell’Interno: «Sarà, ancora una volta, un passaggio interlocutorio, poi servirà aspettare la decisione dei capi di Stato e di governo», avverte il prefetto. «Apprezziamo lo sforzo rispetto al passato più recente, però sia chiaro che le regole – anche relativamente alle identificazioni e ai rimpatri – valgono nel momento in cui sarà disponibile il resto. Nessuno pensi che si possano mettere in piedi gli hot spot, le identificazioni e i rimpatri, “promettendo” la solidarietà».


Insomma tra un «passaggio interlocutorio» e l’altro i Paesi di primo ingresso – tra cui l’Italia – continuano a registrare centinaia di arrivi, ogni giorno. Esseri umani che non si possono certo respingere, ricorda Morcone: «Gli altri Paesi hanno un confine terrestre, possono lasciare le persone fuori dalla frontiera. Qui arrivano per mare e non li possiamo respingere perché sarebbe una violazione della Convenzione di Ginevra. Solo se garantisco a quei cittadini che possono, legittimamente, raggiungere il luogo dove vogliono andare, saranno più aperti a fornire le generalità». Non di respingerli ma di registrarli ci chiede l’Europa – e soprattutto Merkel, con il suo pallino della “lista dei Paesi sicuri” di provenienza –  perciò l’Ue non cessa di chiedere all’Italia l’apertura di hot spot, ovvero di centri di registrazione. Ma, taglia corto il prefetto Morcone, «gli hot spot partiranno, se ci vengono imposti, solo contemporaneamente alla effettiva riallocazione delle persone in altri Paesi». Il braccio di ferro continua e una sola certezza: non c’è muro che possa impedire a questa gente di muoversi. Chiusa una rotta, se ne fa un’altra. Come ci ricorda uno di loro, Abdelkahar, intervistato dal New York Times:

 

Vorrei davvero andare in Germania, ma se non mi lasciano passare considererò altre opzioni,
come restare in Austria o cercare di andare in un altro Paese. Non mi fermerò

Abdelkahar Sherzad, 28 anni, afghano, dopo aver sentito la notizia sulle nuove restrizioni ai confini imposta dalla Germania

 

Di questo e tanto altro abbiamo parlato con il prefetto Morcone anche sul numero in edicola di Left che potete trovare anche in digitale qui

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La lettera di Andrea Balestri, Direttore dell’Associazione Industriali di Massa Carrara sul libro “La Terra Bianca”

Pubblichiamo qui di seguito l’intervento di Andrea Balestri, Direttore dell’Associazione Industriali di Massa Carrara, in risposta all’articolo di Simona Maggiorelli sul libro di Giulio Milani La Terra Bianca, apparso sul sito di Left lo scorso 9 settembre.

 

Roma Termini. Libreria Feltrinelli. Prendo in mano La Terra bianca (laterza); ne ho letto la giulebbosa recensione di Tommaso Montanari; si tratta evidentemente di un libro “contro” ma, da funzionario dell’Associazione Industriali di Massa Carrara, non posso non comprarlo, come ho fatto per Il contro in testa, opera di quello che credo sia un amico di Milani, Marco Rovelli.

Leggo la controcopertina; sfoglio l’indice e mi soffermo, random, su alcuni capitoli; tanto basta per riporlo lentamente, e con le punta delle dita, sullo scaffale. Non ho letto il libro e non posso recensirlo; ho perso anche la “chiamata in causa” che Giulio Milani ha rivolto all’Associazione Industriali dalle colonne de La Nazione il 9 luglio.

L’intervista rilasciata a Simona Maggiorelli, tuttavia, ha confermato l’impressione del libro che ne avevo ricavato in stazione, ovvero di un teorema improbabile, di una ciclopica forzatura per mettere insieme una accozzaglia di cose molto diverse tra loro, di un corredo di dati pieno, questo sì, di “fole”, di una astiosa tracimazione di acredine verso il territorio dove lavoro. No, non ho comprato il libro.
Ci sono pagine nella storia della industrializzazione locale che hanno lasciato ferite; ci sono ancora nodi da sciogliere, come le bonifiche; che le attività estrattive siano impattanti non lo scoprono certamente le inchieste “militanti”. Ma perché, mi chiedo, imbastire un improbabile fil rouge tra sospetti di infiltrazioni mafiose, discariche, “grumi di avidi massoni”; perché costruire iperboli velenose per infangare un territorio e la comunità che vi vive con evocazioni della Terra dei fuochi, lontana comunque mille miglia.

È chiaro che abbiamo una diversa visione del mondo; che, prima ancora dei dati di fatto, ci divide il modo in cui li rappresentiamo, li etichettiamo, li inseriamo nei rispettivi schemi mentali. Poco male. Ci sta che la mia visuale sia quella di attività gestite da persone immerse nelle comunità locale, svolte in imprese familiari dove tutti si conoscono e controllano reciprocamente, dove si parla praticamente solo in dialetto, dove l’organizzazione della vita è regolata da un elevato capitale sociale, e che invece Milani vada alla ricerca di 35 imprese toscane, concentrate soprattutto nella zona delle Alpi Apuane, sospette di infiltrazioni mafiose, di una potente Spectra massonica-mafiosa che lavora ai danni della collettività.Detto questo, chiunque conosca il mondo delle cave non può non trovare risibile l’affermazione che “l’escalation delle attività estrattiva nelle cave di marmo apuoversiliersi per inseguire il business dei rifiuti”: oltre quello delle istituzioni, su tutto quanto avviene nelle cave c’è un forte controllo sociale; a parte i ravaneti e qualche residuo meccanico, nelle Alpi apuane non arrivano camion di rifiuti portati da fuori; la comunità sente come proprio il marmo e quando una ventina di anni fa fu ventilato l’acquisto delle concessioni da parte di un imprenditore siciliano ci furono proteste e interrogazioni parlamentari.

A Massa Carrara ci sono circa 20.000 imprese; nessuno può escludere che su alcune di queste abbiamo messo le mani persone poco raccomandabili ma nessun territorio è al riparo da questo rischio e nessuno è legittimato ad associare l’economia locale alle infiltrazioni mafiose. Non mi sorprende che nella narrazione di Milani il Comune di Carrara, asservito ai soliti potenti, abbia dilapidato 120 milioni per costruire la strada dei marmi indebitandosi fino all’osso del collo quando, dati alla mano, negli ultimi 12 anni gli oneri che le aziende hanno corrisposto al Comune superano abbondantemente questa cifra. E lo stesso vale per la correlazione tra le responsabilità del settore marmo e l’alto tasso di disoccupazione o i posti di coda nella classifica della qualità della vita: riesce difficile pensare che senza i circuiti di reddito e di attività del settore marmo la ricchezza, l’occupazione e la qualità della vita del territorio (il cui vero problema è di non avere abbastanza imprese) sarebbero migliori.

Noto solo che sul corredo di dati statistici il gioco si fa decisamente più facile: potrei sbagliarmi ma sono “vere fole” i 9 milioni di tonnellate annue per farne carbonato di calcio (il dato reale, comprensivo della produzione di materiali ornamentali, è più vicino alla metà); la proporzione dei detriti non è 3/4 ma 2/3; le 60 discariche censite sono una più frutto di cattivi costumi collettivi che di abusi di imprese, ecc…, ma queste sono valutazioni che richiederebbero più spazio.
La Terra Bianca sembra aver riscosso successo; mi auguro solo che ne abbia avuto più fuori che dentro il nostro territorio; non credo, infatti, che la nostra comunità possa compiacersi di un lavoro che getta, senza ragione, discredito e fango sulla sua immagine.
Andrea Balestri
Direttore Associazione Industriali Massa Carrara

 

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Le insolite alchimie di Iosonouncane

Iosonouncane, al secolo Jacopo Incani è l’artista indipendente dell’anno 2015, ex aequo con Cesare Basile. «Due artisti diversissimi sul piano stilistico ma accomunati dall’impegno, dal rigore e dal talento, oltre che da una particolare attenzione all’uso della parola e al suo inserimento nel contesto di musiche sempre coraggiose e mai stereotipate», le motivazioni. Le premiazioni avverranno nell’ambito del Mei, il Meeting dell’etichette indipendenti, in programma nei primi quattro giorni di ottobre a Faenza. Per l’occasione, Left pubblica l’intervista musicale di ferragosto proprio a Iosonouncane. Tratta dal n. 31-32 del 15 agosto.

 

Una suite di 38 minuti. Dove fluttuano suoni di un tempo mai vissuto e insieme quelli di ogni giorno. Si presenta così il secondo album di Iosonouncane. Die è una successione di 6 brani: nella burrasca, un uomo in mezzo al mare teme di morire mentre una donna guarda al largo dalla terra ferma nel terrore di non rivederlo più. È la colonna sonora di una manciata di secondi, un disco a-storico e a-sociale, in cui immerso nell’estasi psichedelica riemerge un sorprendente canto a tenore sardo. E nella progressione elettronica si fanno strada echi minimal e cori a più voci. Nel moto ondulatorio di semi-incoscienza, ascoltare Iosonouncane potrebbe rivelarsi un ottimo esercizio di raccoglimento. O almeno così è stato per lui. Jacopo Incani, nato nel 1983 in un comune di appena mille anime del Sulcis, a Buggerru, a 18 anni si trasferisce a Bologna. È in Sardegna che torna per scrivere la sua musica ed è nella sua seconda città che quella musica prende forma materiale, grazie alla Famosa etichetta Trovarubato, che ha già editato per lui l’album di esordio La macarena su Roma (2010). Jacopo ascolta e analizza i dischi degli altri; legge, prende appunti, riformula e trascrive i suoi schizzi. E lo fa quotidianamente, da anni. Poi «addiziona le parole alle melodie». Possiamo definirlo un cantautore? A noi non basta, perciò lo abbiamo chiesto a lui.

Nell’era di iTunes e dei singoli, hai scelto di scrivere una suite. Perché?

È venuta istintivamente, non si è trattato di una scelta. Ho deciso di assecondare alcune intuizioni, quando ho iniziato a scrivere mi sono reso conto che non pensavo a delle canzoni finite, ma a un flusso. L’unica scelta è stata quella di non farmi spaventare dal fatto che potesse essere in controtendenza.

Come le inedite combinazioni sonore. È una scelta artistica oppure “sociale”, volevi tenere dentro le tue radici?

Artistica. Per me suona naturale il canto a tenore sardo in quella dimensione sonora. E niente questioni sociali… me ne sono altamente fregato. Di quale società parliamo e di quale pubblico? Sono domande che se inizi a portele ti rendi conto che sono inconsistenti.

A-storico e a-sociale, sembri un po’ sospeso in aria. È così?

Sospeso in aria o anche immerso completamente nella terra. Sono due cose complementari o sono probabilmente la stessa cosa… L’a-storicità e l’a-socialità sono una cosa estremamente voluta. I testi sono isolati rispetto a quello che si sente oggi in Italia, senza riferimenti di attualità di nessun tipo. Ma è pur vero che una cosa tanto più è arcaica, tanto più è futuribile… il mio intento è quello: arrivare a una forma arcaica, per poter essere perennemente attuale essendo perennemente fuori moda.

In Sardegna per scrivere, a Bologna per registrare. È lo specchio della tua vita?

Quello che mi riesce di fare meglio in Sardegna è mettere a fuoco le idee. È come se lì avessi la possibilità di far calmare l’acqua per vedere in trasparenza il fondo. Riesco a raccogliermi. Poi ho bisogno di tornare a Bologna per intraprendere la fase operativa, quella più tecnica, che richiede anche una certa frenesia. Sicuramente queste sono due facce del mio metodo e anche della mia persona.

Se dico: «Buongiorno, sono Jacopo, in che cosa posso esserle utile?», cosa ti viene in mente?

Mi viene l’ansia se mi dici così (ride). Ho lavorato per anni in un call center, ed è un lavoro disumano. Ti viene chiesto un livello di concentrazione altissimo per produrre una manciata di operazioni meccaniche. È terrificante, arrivi a fine giornata, dopo otto ore, in cui hai preso circa 120 chiamate e vuol dire che per 120 volte nell’arco di una giornata hai detto sempre le stesse frasi di rito, come quella che mi hai fatto tu. Sei un software umano.

E quando te ne accorgi ti licenzi, come hai fatto tu.

Io sì, ma la grande maggioranza, comprensibilmente, non lo fa. È difficile tornare a casa dopo 8 ore di telefonate e trovare le forze per connetterti a internet e cercare un altro lavoro. Io l’ho fatto in modo spregiudicato ma perché sapevo da sempre che avrei fatto il musicista.

Nonostante il passaggio dentro quella specie di macchina ammazza creatività?

Sì, i testi del mio primo disco li ho scritti tra una chiamata e l’altra a lavoro, quindi nel mio caso è stata una spinta. In quella situazione di costrizione, di compressione, mi veniva la “fusione molecolare”.

Dicono che la tua voce ricorda Battisti, ma anche Dalla e anche Gaber. Tu che dici?

Che quando le somiglianze son tante vuol dire che va bene (ride). In fondo, ogni voce nasce imitando un’altra voce.

Come ti senti addosso la definizione di cantautore?

Molto stretta. Poi ogni definizione va letta nel contesto in cui si esprime. In Italia il concetto di cantautore è molto reazionario, consolatorio e conservatore. Proprio di quella sinistra culturale italiana che si rifugia nell’idea del passato come unica forma di bello possibile. Il mio disco non assomiglia a nessun disco precedente. Sono un musicista che si dedica con pignoleria alla scrittura e poi interpreta ciò che scrive e arrangia. Mi si può anche chiamare cantautore… so che giornalisticamente serve un lessico condiviso, quindi non tiro su barricate. Diciamo che non mi interessa.

Ultima domanda. Perché sei un cane?

Con il mio primo disco, avevo in mente tanta satira sociale, ma non volevo puntare il dito contro nessuno, perché non sapevo bene contro chi puntarlo. L’unico bersaglio immobile che riesco a mettere a fuoco sono io. Perciò…

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Volti dello Zambia in mostra a Milano

Paolo Solari Bozzi© - On the train from Mazabuka to Kitwe #1, Zambia
Paolo Solari Bozzi© - On the train from Mazabuka to Kitwe, Zambia

Il volto dello Zambia di oggi raccontato attraverso una serie di intensi ritratti del fotografo Paolo Solari Bozzi, che per quattro mesi, nel 2014, ha attraversato il Paese africano con un fuoristrada. Muovendosi liberamente, insieme a sua moglie Antonella. Il risultato di quella avventura è ora in mostra alla Libreria Hoepli di Milano, fino al 22 settembre. 

 

 Paolo Solari Bozzi© - Grat East Road #1, Zambia
Paolo Solari Bozzi© – Grat East Road #1, Zambia

 

Paolo Solari Bozzi© - Near Lusaka , Zambia
Paolo Solari Bozzi© – Near Lusaka , Zambia

 

E nel frattempo è diventato un libro pubblicato da Skira. Contiene il racconto per immagini realizzato coprendo oltre diecimila chilometri, per lo più su strade sterrate e spingendosi fino alle zone più remote e sconosciute di questo affascinante Paese, comprese le paludi del Bengweulu, dove i viaggiatori stranieri non arrivano. Con macchine fotografiche meccaniche di medio formato e grandangoli, Solari Bozzi ha ritratto quasi centocinquanta persone, in bianco e nero, cercando di cogliere la loro storia attraverso lo sguardo e l’espressione del loro volto, più che dai dettagli narrativi e di contesto. Cercando un linguaggio poetico per restituirne la bellezza.

 

Paolo Solari Bozzi© - Livingstone, Maram ba Market, Zambia
Paolo Solari Bozzi© – Livingstone, Maram ba Market, Zambia

 

 

Paolo Solari Bozzi© - Kalumbila, Sentinel copper mine (Beauty), Zambia
Paolo Solari Bozzi© – Kalumbila, Sentinel copper mine (Beauty), Zambia

 

Paolo Solari Bozzi© - Zambian Portraits
Paolo Solari Bozzi© – Zambian Portraits

 

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