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Di bolla in bolla. “Ma tu vuoi veramente sapere come stanno le cose?”. Noi sì.

Lo scriviamo da anni, lo diciamo da decenni, lo viviamo da sempre. Nasciamo uguali, sono come noi, cercano una vita, sono asilanti. Non c’è nessuna invasione. Li prendiamo a casa nostra. Quel modo di pensare “pezzi” e di distinguerli sulla base della pigmentazione della pelle è disumano. Sono una risorsa, portano figli, sono parte del nostro Pil… e così via. Le abbiamo tentate tutte. Dalla più difficile, una nuova idea di uguaglianza, alla più facile, ci “conviene” che arrivino. In ogni pagina, in ogni luogo, in ogni rapporto, persino in ogni trasmissione televisiva. Col rischio di sembrare ogni volta sciocchi. Con le ali. Sinistroidi senza midollo. Ci hanno preso in giro, ci hanno accusato di essere buonisti, ci hanno gridato di non pensare agli italiani, di dire solo “Non è vero, non è così”.

Sembravamo avere le ali troppo aperte e di essere troppo lontani dalla terra, anzi di averla dimenticata, mentre di terra i peggiori volevano urlare. Poi puff, la bolla dei neri e sporchi, dei pezzi, delle quote, dei bombardamenti ai barconi, della Merkel cattiva, dell’Italia in pericolo, della sicurezza perduta, dell’Is alle porte di Roma, si sgonfia. Come per incanto i nostri giornali… sì, i nostri soliti giornali pieni zeppi di pro e contro, di emergenze, di allarmi, di cifre a troppi zeri, entrano nella bolla vicina. Quella del bimbo riverso sulla spiaggia. Per giorni la bolla è stata: foto sì, foto no. Incredibile, i grandi della terra commossi avrebbero aperto le loro frontiere alla vista del bimbo. Riverso sulla spiaggia. Non siamo entrati nella querelle e tantomeno nella bolla. Siamo rimasti a guardare per capire ancora una volta cosa accadeva. Certi di tutto quello che avevamo scritto, conosciuto e pensato negli anni. Una foto o no. Una vita o no. Nessuna vita doveva essere persa. Questo è il punto. Per noi. Ci siamo andati a cercare conferme ufficiali, abbiamo intervistato il prefetto Morcone che ci ha spiegato che le promesse non valgono, che lui la violenza contro i migranti (che le impronte non le vogliono dare) non la usa e non la userà mai. Che Dublino III va cambiata e che è molto contento che la Merkel abbia “cambiato verso”. Siamo stati felici di ascoltarlo mentre ci raccontava di voler cambiare sistema, dai grandi centri di accoglienza (novelle carceri) al coinvolgimento dei Comuni, non solo i 500 attuali, ma tutti gli 8.100. Un’accoglienza lunga che costruisca integrazione perché loro sono il futuro «non c’è un problema di sicurezza in Italia, lo dicono i numeri, i reati sono diminuiti. I migranti ci aiutano. Sono un’occasione». Parola di Vi- minale, non di sinistroidi smidollati.

Nella bolla non ci entriamo, vogliamo rimanere all’erta. Lo chiediamo anche a voi di vedere bene. Perché grande e brava è la Merkel che accoglie i siriani e sospende – per loro – Dublino III ma è meno brava quando continua a voler imporre i centri di registrazione per rimpatri più veloci e la lista dei Paesi sicuri, perché pericolosa è la distinzione che c’è dietro. Asilanti diversi dai migranti economici. Che differenza ci sarà mai tra morire di fame o di guerra? È diverso il bimbo riverso sulla spiaggia di Bodrum da quello delle stive a largo di Lampedusa? No. Non è diverso. Quindi attenti alle bolle. Mediatiche e politiche. Ma anche culturali che ci stringono all’angolo tra buoni e cattivi. Leggete, tutto e tanto, noi siamo tornati in Siria per dirvi degli errori, e in Grecia per raccontarvi di come vivano gli afghani in fuga. Siamo tornati nelle scuole e a scrivere di un pezzo di Chiesa indigeribile. Di bimbi scienziati e di Ulisse, lavoratore stagionale scappato, come migliaia di altri, da una terra violenta. Il protagonista del racconto di Daniele De Michele (a puntate su Left) a cui viene chiesto: “Ma tu vuoi veramente sapere come stanno le cose?”. Noi sì.

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Venezia, Coppa Volpi a Valeria Golino. Che ci racconta il suo personaggio

Valeria Golino ha vinto la Coppa Volpi e Left, l’8 agosto, le aveva dedicato la copertina per parlare di Venezia, del Festival, del suo personaggio. Ve la riproponiamo, contenti che abbia portato fortuna

Settantacinque film e non sentirli. Non saprei come altro descrivere la sensazione di nessun “peso” addosso, di nessun artificio nella voce e nel pensiero. Valeria Golino è diretta, esige il tu, ti intervista mentre la intervisti. Ha una risata che ti mozza il fiato e delle pause infinite. Ti avvolge e ti porta via da ogni manierismo intellettuale, inconsapevole – quasi – di rompere ogni cliché possibile. Difficile con lei passare dall’ascolto della registrazionealla scrittura. Sembra che ogni sua “piega” umana si perda nella linea dello scritto, ma così è.

Figlia di una pittrice greca e di un germanista italiano è cresciuta tra Napoli e Atene e vissuta tra Stati Uniti, Italia e Francia. Oggi è la protagonista del film di Giuseppe Gaudino, Anna Ruotolo Per amor vostro, in concorso a Venezia. Una donna “ignava”, una gobbista della televisione, precaria, madre di tre figli e moglie di un usuraio. La storia di una donna che si perde, fino ad un gesto «folle» che la libera.

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Chi è Anna?

Anna sfugge alle definizioni. In questo senso è stato un personaggio molto rischioso per me, come per chiunque altro l’avesse fatto. Nel pensiero degli autori lei è tante cose allo stesso tempo: non puoi definirla una vittima, una buona, una cattiva, una triste o una allegra. Ci sono personaggi che hanno un profilo molto evidente, netto, invece lei è come se fosse mille donne.

Il regista la definisce una donna dominata dall’ignavia.

Quello sicuramente, è il tema del film.

Il riferimento a Dante è esplicito. Gli ignavi sono quelli che non fanno né bene né male, che «mai non fur vivi», che «visser senza infamia e senza lodo»…

Sì, è così. Gli ignavi sono quelli che passano sopra, che non vedono, che fanno buon viso a cattivo gioco, più o meno coscientemente. Di ignavia ci macchiamo tutti, credo, in vari punti della nostra vita. È una cosa molto umana.

Cosa vuol dire nel film liberarsene?

Per amor vostro è un film intimo, un percorso molto personale dove non c’è niente di eroico. Anna arriva a fare una cosa che la libera da una colpa, in qualche modo la redime, le toglie un peso, le fa vedere la sua corresponsabilità con i crimini altrui, da cui prima pensava di essere autoimmune. Smette di negare, è costretta a dire «io c’ero». Questo le permette di recuperare gesti, di ricrearli, cose lontane, dell’infanzia. E, per amore, appunto, di compiere un gesto folle, irrazionale, coraggioso.

Nel film la realtà è in bianco e nero, i sogni a colori. Perché?

Anna ha un rapporto con i sogni continuo, sia con quella dimensione del day dreaming, del sogno ad occhi aperti, che del sogno nel sonno. Anna è continuamente connessa a questa sorta di vita parallela che appartiene solo a lei e che la guida, la sollecita, la impaurisce…

Che peso ha quella fetta di vita nel sonno? È più importante della realtà del giorno?

Non so se sia più importante, ma decisamente è altrettanto importante della realtà del giorno. Anna è pervasa da immagini e da suoni. Ne è soggiogata, non è un personaggio realistico. Non è un film realistico.

È questo che ti ha attratto del film?

Mi sono aggrappata a questo personaggio, non ho mollato l’osso fino a che non mi hanno sputato fuori dal film. Nonostante tutto, nonostante sapessi di entrare in un bosco buio. Non era un film facile da nessun punto di vista. Ho voluto farlo a tutti costi, anche pentendomene mille volte.

Perché?

Perché per me, ma per nessuno di noi, da Giuseppe alla troupe, fino ai produttori, a tutti noi produttori, tra cui ci siamo anchenoi della Buena onda, che siamo entrati in corsa, con Riccardo (Scamarcio, ndr, il compagno della Golino) e Viola Prestieri, è stato un film facile. Mai. Abbiamo fatto tutto all’arrembaggio, in una situazione quasi sempre disperata. È un film fatto con pochissimi soldi, soprattutto per far fronte all’immaginario clamoroso e barocco di Giuseppe. Avremmo avuto bisogno di più tempo e più mezzi. E anzi, in un mercato normale, sano, Gaudino sarebbe un regista da proteggere, uno da mettere in condizione di poter fare le cose per bene. Non è un film minimalista, questo è certo.

E il festival di Venezia è un’occasione?

Certo che lo è. E intanto è la riprova che non abbiamo sbagliato. Ma è difficile per me essere oggettiva, perché ci sono momenti in questo film di bellezza assoluta. Mi è sembrato quasi di aver creato, insieme agli altri, qualcosa che prima non c’era. Il fatto poi di essere stati selezionati tra tutte le pellicole con questo piccolo film che ci ha tanto appassionato è già un premio. Farlo vedere, poterne parlare, è già un premio. Sono anni che stiamo dietro a questo progetto, e siamo molto contenti di andare a Venezia. Se fossi tiepida nel darti questa risposta, sarei ipocrita. È una grande cosa per noi.

Tu sei figlia di una pittrice greca…

Sono figlia di una greca, che tra le altre cose è anche pittrice. Anzi sono figlia di una ex pittri-

ce greca, perché ora non lo è più.

Come hai vissuto la crisi greca?

L’ho vissuta con grande apprensione, e continuo a viverla con grande disagio e senso di impotenza. Mi spiace anche di non riuscire a capirne veramente la complessità, le responsabilità. Cerco, di volta in volta, di farmi un’idea di quello che accade, ma è difficile.

Il paragone tra il nostro Sud e la Grecia è continuo. Tu li hai vissuti entrambi: somiglianze e differenze tra noi e loro?

Siamo popoli molto simili, abbiamo molte cose in comune, a partire dalla geografia. In comune abbiamo una benedizione, viviamo nel posto più bello del mondo, e poi c’è questa specie di stato d’animo, di pensiero anarchico. Anche se i greci – devo dirlo – hanno un senso della nazione più forte di noi. Molto più forte di noi.

A questo attribuisci il «No» così forte alla Troika?

Sì, sicuramente ha contato un orgoglio nazionale fortissimo che c’è sempre stato e che ora li mette persino a rischio. Con questo volere appartenere all’euro ad ogni costo, si sottopongono a tutta questa storia mortificante degli ultimi anni. Io comincio invece a pensare che dovremmo scappare e vorrei dirgli: «Via, via. Correre, lontano…».

Ti ho sentito dire che sei cresciuta «senza disciplina», tra Napoli e Atene, e che «il giorno più bello è quello in cui si è liberi». Hai sempre rotto tutti gli stereotipi possibili, cosa non semplice in Italia…. è questa la libertà?

Li ho rotti? Ogni volta? Non l’ho mai fatto ap-posta, giuro. Io non mi metto contro per carattere, semmai ho un senso forte di quello che è giusto per me in quel momento e per gli altri che mi sono davanti. Non l’ho mai fatto per provocare, semmai reagisco, alla ricerca del ben-essere mio e altrui, cercando di vivere in una specie di giustezza. Di armonia. Se come dici tu, ho rotto tutti gli stereotipi, vuol dire che spesso gli stereotipi non sono fonte di ben-essere (stacca dolce i due termini).

Hai protetto la tua vita privata e interpretato donne uniche come Grazia in Respiro di Cria-

lese, rischiando ogni volta. Anche con il tuo primo film da regista, Miele, la storia di una ragazza che aiuta a morire malati terminali, hai fatto una scelta coraggiosa, parlare di eutanasia, in una Paese come l’Italia in cui la presenza del cattolicesimo è pesante…

Come no… però anche lì, anche nel caso di Miele, scegliendo di trattare quel tema non l’ho fatto per protesta, non volevo farne una battaglia politica. Volevo che fosse una ricerca, una ricerca con e per, non contro. Non riesco proprio a pensare che le cose che voglio fare e che faccio siano aggressive, trasgressive, non è nella mia natura. Sono docile, io, per natura.

Left è l’acronimo di libertà, eguaglianza, fraternità e la T di trasformazione. Ti va di darmi

una risposta lampo su cosa siano per te?

(Silenzio).

Libertà è?

Libertà è anche non rispondere alle domande

lampo (ride).

No, la libertà per me è un’idea, una dimensione a cui si anela, ma è come l’amore insomma, è difficile da definire.

L’uguaglianza?

È quello che sento in continuazione, ogni passo che faccio, con gli altri. Quello che fa parte della mia vita, continuamente.

La fraternità?

Anche.

La trasformazione?

È necessaria e anche proprio una festa. È una festa, sì (ride. Vorrei che voi poteste sentire l’au-

dio di questa intervista).

Left vuole anche dire Sinistra. Cos’è per te la Sinistra?

Cos’era, forse. La Sinistra cos’era? Forse questa è la domanda? Ora non capisco davvero cosa sia. Siamo tutti lì che ce lo chiediamo, ma adesso secondo me la sinistra non c’è. Aihmé, dico, in questo caso c’è un’uniformità di pensiero, oramai lo stesso, fluido, che si modifica sempre a seconda delle circostanze, degli interlocutori e delle responsabilità. Non riesco più a definire cosa sia sinistra perché non la vedo. Non la vedo più.

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Ecco perché (se non si fosse capito) Eataly non è di sinistra

Ancora per un paio settimane dovrà “briffare” il presidente del consiglio sulle questioni economiche. Poi dal primo ottobre Andrea Guerra, ex ad di Luxottica e da fine 2014 consigliere di Renzi per le politiche industriali e la business community, passerà alla guida di Eataly. Il colosso farinettiano si prepara a sbarcare in Borsa e, nelle vesti di presidente, Guerra (che possiede anche il 5% delle quote) farà da traghettatore. La creatura dell’ex proprietario di Unieuro si sta espandendo in Europa – tra poco apre a Monaco il primo store extraitaliano nel Vecchio continente – e sempre più nel mondo (il colpaccio sarà il negozio al World Trade Center di New York con affaccio sul cratere dell’11 settembre: Eataly the Peace, si chiamerà).

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Quanto è buono il modello Eataly? E’ la domanda a cui cerca di dare risposta la copertina di Left in edicola sabato 12 settembre e già sullo sfogliatore


Oscar, il traffic builder
Oscar Farinetti è orgogliosissimo di essere un “traffic builder”, di godere cioè dell’apprezzamento degli immobiliaristi perché dove apre un punto Eataly tendono ad affiancarsi altri dettaglianti. Una crescita da multinazionale del food che costringe molti – addetti ai lavori e non solo – a ricalibrare il giudizio sulla “bontà” del suo modello. A questo tema, il numero di Left da domani in edicola dedica la copertina, proponendo una riflessione sulla effettiva sostenibilità (sociale, oltre che ambientale) della filiera, sulle ricadute economiche della “super-tipicità” predicata dal food-guru e sul tipo di offerta turistica che vuole diffondere lungo lo Stivale. Ma la domanda di fondo è: quanto c’è “di sinistra” nel modello Eataly?

Wolf Bukowski
Wolf Bukowski

La “gauche caviar” al supermarket
Nel libro “La danza delle mozzarelle” (Edizioni Alegre), Wolf Bukowski prende in esame la narrazione di Eataly, Coop e Slow food, un mix vincente (non a caso a Expo sono in pratica “padroni di casa”) fatto di capacità di reperire capitali, leadership nella grande distribuzione organizzata (Gdo) e conoscenza approfondita dei prodotti territoriali. Lo scrittore bolognese spiega come questi soggetti siano partiti a diverso titolo «fantasticando una trasformazione sociale a partire dal modo di fare la spesa e di cucinare», una «gauche caviar» che affida l’onere di una rivoluzione «impossibile» ai rebbi delle nostre forchette, ma solo se andiamo al centro commerciale “buono, pulito e giusto”.

Da Gramsci al super-tipico
A questo proposito, cita Marx e la critica di Gramsci all’assunto di Feuerbach per cui «l’uomo è ciò che mangia». E a Left dice: «Gramsci spiegava bene che sono i processi storici a determinare i gusti successivi nella scelta dei cibi e non viceversa». Non basta partire dalla robiolina o dalla coltura iperlocale per costruire una società più equa e sostenibile, dunque? «Quello della super-tipicità non è un modello che implica un cambiamento dei rapporti sociali, né tantomeno produce cibo accessibile a tutti» risponde Bukowski. «La pur meritevole promozione di piccole particolari produzioni è del tutto marginale rispetto alla necessità di costruire un modello basato ad esempio sull’agricoltura di prossimità, sul locale inteso non come tipicità ma come attenzione al benessere del territorio. Invece il modello Eataly è quello di un centro commerciale con prodotti destinati ai ricchi e nuovi ricchi del Pianeta».

Il marketing della rivoluzione
Oscar Farinetti sbarcherà in borsa mascherando con le parole d’ordine della “rivoluzione” una perfetta operazione commerciale e soprattutto di marketing, condita dal costante riferimento all’ottimismo e alla “follia”. (Alla Leopolda di due anni fa, lui e Matteo Renzi si sono scambiati attestazioni di stima dandosi del “matto”, qui il video; entrambi peraltro rivendicano di continuo la bontà del loro “fare” contrapponendolo al “gufare” altrui). Una delle parole “fagocitate”, spiega Wolf Bukowski riferendosi all’alleanza con “il gigante” Coop, è appunto “cooperazione”. «Ma non dobbiamo fare l’errore di respingere il modello in virtù della sua erronea applicazione, perché le idee di fondo erano buone. Anzi, l’analisi di questi fenomeni ci segnala l’urgenza di rivendicare e realizzare nuovi strumenti di cooperazione e mutualismo». Insomma, bisogna mettere al centro il rapporto tra il cibo che portiamo in tavola e la vita, il reddito delle persone. «Il problema – conclude lo scrittore – è che una distribuzione equa della produzione di valore nella filiera dev’essere garantita su tutti i prodotti e per tutti i consumatori». Solo così il nostro cibo sarà davvero “buono, pulito e giusto”.

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A Parigi il piano B di Varoufakis. Il testo del manifesto per una nuova sinistra europea

Yanis Varoufakis - Un piano B per L'Europa

Stefano Fassina, Yanis Varoufakis, il deputato francese Mélen­chon, già leader del Front de Gauche, e Oskar, l’ex mini­stro delle finanze tede­sco e fon­da­tore della Linke, a Parigi, alla Fête de l’Humanité presentano sabato un manifesto per la nuova sinistra europea. Si parte dall’assunto che quello di cui è stato vittima Alexis Tsipras sia un colpo di Stato, reso possibile anche perché la sinistra non si è fatta trovare pronta con un piano B, e l’uscita dall’Euro è diventata la minaccia fatta da Angela Merkel e non la leva con cui chiedere di rivedere i trattati.

Ecco il testo del manifesto che i quattro propongono di discutere insieme alle altre sinistre europee a novembre, con un nuovo appuntamento.

Un piano B per l’Europa

 Il 13 luglio scorso, il governo democraticamente eletto di Alexis Tsipras è stato messo in ginocchio dall’Unione Europea. “L’accordo” del 13 luglio è stato in realtà un coup d’état, messo in atto attraverso la chiusura delle banche greche indotta dalla Banca centrale europea, con la minaccia che non sarebbero state riaperte finché il governo non avesse accettato una nuova versione di quel fallimentare programma. Il motivo? L’Europa ufficiale non poteva tollerare che un popolo prostrato dalle sue politiche di austerità auto-distruttiva osasse eleggere un governo determinato a dire “No!”.

Ora, con più austerità, più svendite di beni pubblici, con politiche economiche sempre più irrazionali e politiche sociali improntate ad una sfacciata misantropia di massa, il nuovo Memorandum può servire solo a peggiorare la Grande Depressione in Grecia e a consentire che la ricchezza della Grecia sia saccheggiata a vantaggio di interessi privati interni ed esterni.

Da questo golpe finanziario dobbiamo trarre una lezione. L’euro è diventato uno strumento di dominio economico e politico da parte di un’oligarchia europea che si fa schermo del governo tedesco, ben contenta di lasciare alla cancelliera Merkel il lavoro sporco che gli altri governi non sono capaci di compiere. Questa Europa genera soltanto violenza nei paesi e tra di essi: disoccupazione di massa, brutale dumping sociale e insulti contro la periferia europea, attribuiti alla leadership tedesca ma in realtà ripetuti a pappagallo da tutte le élite europee, incluse quelle della stessa periferia. In questo modo, l’Unione europea è divenuta portatrice di un ethos di estrema destra e mezzo per rendere impossibile in Europa il controllo democratico sulla produzione e la distribuzione.

Che l’euro e l’UE difendano gli europei dalla crisi è oggi un’affermazione pericolosamente falsa. È un’illusione credere che gli interessi dell’Europa possano essere protetti entro la gabbia di ferro delle “regole” di governance dell’eurozona ed entro i Trattati vigenti. Il tentativo del presidente Hollande e del primo ministro Renzi di comportarsi come studenti modello, o piuttosto prigionieri modello, è una forma di resa che non porterà nemmeno alla clemenza. Il presidenza della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, lo ha detto chiaramente: “non può esserci scelta democratica che vada contro i trattati europei”. È la versione neoliberista della dottrina della sovranità limitata inventata da Breznev nel 1968: allora, i sovietici repressero la primavera di Praga con i carri armati; questa estate, l’UE ha represso la primavera di Atene con le sue banche.

Siamo determinati a rompere con questa “Europa”. È la condizione primaria per ricostruire la cooperazione tra i nostri popoli e i nostri paesi su nuove basi. Come possiamo mettere in atto politiche di redistribuzione della ricchezza, di creazione di opportunità di lavoro dignitoso, specialmente per i giovani, di transizione ecologica, di ricostruzione della partecipazione democratica entro i vincoli di questa UE? Dobbiamo sfuggire alla vacuità e disumanità dei trattati europei vigenti e rimodellarli in modo da levarci di dosso la camicia di forza del neoliberismo, abolire il Fiscal compact e opporci al trattato commerciale con gli Stati Uniti, il TTIP.

Viviamo tempi eccezionali. Stiamo affrontando un’emergenza. Gli stati membri hanno bisogno di uno spazio politico che consenta alle loro democrazie di respirare e avanzare politiche a livello nazionale, liberate dal timore di giri di vite da parte di un Eurogruppo autoritario e dominato dai paesi più forti e dai grandi poteri economici, o da parte di una BCE utilizzata come un rullo compressore che minaccia di schiacciare i paesi che non “cooperano”, come è accaduto con Cipro e con la Grecia.

Questo è il nostro piano A: lavoreremo nei nostri rispettivi paesi, e insieme in Europa, per una totale rinegoziazione dei trattati europei. Ci impegniamo a sostenere ovunque le lotte dei cittadini europei, con una campagna di disobbedienza civile contro le scelte europee arbitrarie e le “regole” irrazionali, finché tale rinegoziazione non sia ottenuta.

Il nostro primo obiettivo sarà porre fine all’irresponsabilità dell’Eurogruppo. Il secondo sarà rimuovere la finzione di una BCE “apolitica” e “indipendente”, quando in realtà essa è profondamente politica (nella forma più deleteria) e totalmente dipendente dagli interessi delle banche e dei loro rappresentanti politici, pronta come è a reprimere la democrazia con la semplice pressione di un bottone.

Anche i governi che rappresentano gli interessi dell’oligarchia europea, e che si nascondono dietro a Berlino e Francoforte, hanno un loro piano A: non cedere alla domanda di democrazia dei popoli europei e agire in modo brutale per piegare la loro resistenza. Lo abbiamo visto in Grecia lo scorso luglio. Come sono riusciti a strangolare il governo greco, democraticamente eletto? Dotandosi di un piano B: espellere la Grecia dall’eurozona nelle peggiori condizioni possibili, distruggendo il suo sistema bancario e uccidendo la sua economia.

Di fronte a questo ricatto, anche noi abbiamo bisogno di un nostro piano B, da opporre al piano B delle forze più reazionarie e anti-democratiche. Per rinforzare la nostra posizione negoziale di fronte al perseguimento di politiche che sacrificano gli interessi della maggioranza per favorire un’esigua minoranza. Ma anche per riaffermare il semplice principio che l’Europa è per gli europei, e le valute sono strumenti per promuovere la prosperità diffusa, non strumenti di tortura o armi per uccidere la democrazia. Se l’euro non può essere democratizzato, se insisteranno nel volerlo usare per strangolare i popoli, ci leveremo e, guardandoli negli occhi, diremo loro: “fatevi avanti, le vostre minacce non ci spaventano”. Troveremo un modo per assicurare che gli europei abbiano un sistema monetario che operi a loro vantaggio, non contro di loro.

Il nostro piano A per un’Europa democratica, supportato da un piano B che mostri ai poteri costituiti che non possono indurci alla sottomissione spaventandoci, è inclusivo e fa appello alla maggioranza degli europei. Ciò richiede un elevato livello di preparazione. Gli aspetti tecnici saranno definiti nel confronto reciproco. Molte idee sono già sul tavolo: l’introduzione di sistemi di pagamento paralleli, valute parallele, digitalizzazione delle transazioni, sistemi di scambio complementari community based, fino all’uscita dall’euro e la sua trasformazione da moneta unica in moneta comune.

Nessun paese europeo può operare per la propria liberazione in modo isolato. La nostra visione è internazionalista. Anticipando ciò che potrebbe accadere in Spagna, Irlanda – forse, a seconda di come evolverà la situazione, nuovamente in Grecia – e in Francia nel 2017, abbiamo bisogno di lavorare insieme concretamente al piano B, tenendo conto delle diverse caratteristiche di ciascun paese.

Proponiamo pertanto la convocazione di una conferenza internazionale sul piano B per l’Europa, aperta a chiunque sia disponibile, cittadini, organizzazioni ed intellettuali. La conferenza può aver luogo in tempi ravvicinati, già a Novembre 2015. Inizieremo il percorso sabato 12 settembre, durante la Fête de l’Humanité a Parigi. Unitevi a noi!
Stefano Fassina, parlamentare, ex vice-ministro dell’economa e finanze (Italia)

Oskar Lafontaine, ex ministro delle finanze, fondatore del partito Die Linke (Germania)

Jean-Luc Mélenchon, parlamentare europeo, co-fondatore del Parti de Gauche (Francia)

Yanis Varoufakis, parlamentare, ex ministro delle finanze (Grecia)

 

Destre in raduno, i numeri dell’anacronismo. Chi sono CasaPound e Forza Nuova

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Un weekend nero. Nerissimo. In Lombardia, dall’11 al 13 settembre, si tengono i due raduni delle principali organizzazioni di estrema destra italiane: CasaPound e Forza Nuova. Dopo la levata di scudi di Anpi e Palazzo Marino, non è Milano a ospitare l’ottava Festa nazionale di CasaPound, ma la cittadina di Castano Primo (11.000 abitanti e una giunta di centrosinistra), a pochi chilometri dall’aeroporto di Malpensa. La tensostruttura – negata dal sindaco e revocata dal prefetto a poche ore dall’inizio – è stata occupata: ai “no” capo Iannone ha risposto con un «lo faremo lo stesso», che ha tutto il sapore di «un moschetto e un menefrego dentro al cuor».

Gli ospiti che CasaPound ha chiamato a raccolta sono il giornalista Vittorio Feltri e il senatore leghista Raffaele Volpi. E ancora un altro esponente del Carroccio, l’eurodeputato Gianluca Buonanno, l’ex magistrato e ora parlamentare di Scelta civica Stefano Dambruoso e – udite udite – Lara Comi, europarlamentare di Forza Italia. I temi? Marò, stop all’euro, stop immigrazione e guerra all’Islam. Qualche chilometro più in là, a Cantù, in provincia di Como, si terrà il meeting internazionale di Forza Nuova: bande nazi-rock, spettacoli burlesque e un programma misterioso. L’una a poche decine di chilometri dall’altra. Le due forze si battono per acquisire la leadership del neofascismo italiano. Left le ha accomunate in questa analisi, scoprendo che non c’è partita, con CasaPound che appare più in forma. Ecco chi sono CasaPound e Forza Nuova. E perché dirsi antifascisti non è affatto anacronistico.

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nome
CasaPound Italia – Cpi

forma legale
associazione di promozione sociale, da giugno 2008

leader
Gianluca Iannone

numero iscritti
2.000

come si descrivono
«È vero, siamo fascisti. Ma del terzo millennio», Gianluca Iannone

giovanile
Blocco studentesco

il simbolo
una tartaruga stilizzata. Per tanti motivi, dicono. Da quello augurale, «è l’animale per eccellenza che rappresenta la longevità». A quello “di littorio orgoglio”, «perché significa anche Testudo, l’esercito di Roma dimostrò la sua grandezza conquistando il mondo allora conosciuto, dimostrando che la forza quando scaturita da un ordine verticale e da un principio gerarchico è destinata a dominare le  barbarie, anche se in numero inferiore»

in numeri
sedi su tutto il territorio nazionale, 15 librerie e 20 pub, 8 associazioni sportive, una web radio con 25 redazioni in Italia e 10 all’estero, una web tv, un mensile, Occidentale, e un trimestrale, Fare quadrato. Oltre 150 conferenze organizzate in tutta Italia con i più grandi nomi della cultura nazionale. Al 2010 – anno in cui si fermano i dati resi pubblici da Cp – a CasaPound Roma (principale occupazione dell’organizzazione) vivono 23 famiglie per un totale di 82 persone

breve storia
è nella seconda metà degli anni 90 che si rintracciano i primi semi di questa organizzazione: le serate al pub Cutty Sark di Roma. E con la fondazione degli Zetazeroalfa, band nata nel 1997, che ne produce la colonna sonora. Pochi anni dopo, nel 2002, il 12 luglio, la prima occupazione – che non porta ancora il nome di CasaPound – quella di Casa Montag, in via Tiberina 801, sempre nella Capitale. Lo stabile inaugura una serie di “Occupazioni Non Conformi (Onc)” – così le chiaman loro – di edifici disabitati: «La pratica esclusiva della sinistra è pugnalata a morte», esultano. Successivamente, Casa Montag sarà abbandonata dal gruppo originario e passerà tra le mani di diverse compagini politiche. Quel gruppetto originario si dedica al colpaccio: il 26 dicembre 2003 occupa lo stabile di via Napoleone III, al numero 8, nel quartiere Esquilino. Un’Occupazione a Scopo Abitativo (Osa), che prenderà il nome del poeta Ezra Pound. Si fa largo così CasaPound, tra le polemiche con la figlia del poeta – «mio padre non abita a CasaPound», ha ricordato per l’ennesima volta la figlia novantenne del poeta in un’intervista a La Stampa e sotto gli occhi della giunta di centrosinistra guidata da Veltroni. Tra un’occupazione, una distruzione (il Cutty Sark viene semidevastato da una bomba piazzata da anonimi) e uno sgombero, arriviamo al 2005: CasaPound “scende in campo” alle elezioni. Né di destra né di sinistra, dicono. Ma Germano Buccolini, detto Gerri, di Casa Pound, si candida alle Regionali del Lazio tra le fila di Francesco Storace. Così, CasaPound entra nella Fiamma Tricolore. Fino al 2008, quando ne esce e si costituisce in associazione di promozione sociale – CasaPound Italia – e punta all’intera nazione. Flirtando con Matteo Salvini.

 

identikit neofascista-01

nome
Forza Nuova

forma legale
partito politico fondato il 29 settembre 1997, dagli allora latitanti Roberto Fiore e Massimo Morsello. Il meeting, a Cave, in provincia di Roma, venne organizzato da Francesco Pallottino, leader della band Intolleranza

leader
Roberto Fiore

numero iscritti
n.p. (al 2001 ne risultano 2.500)

come si descrivono
«Definirci fascisti è un errore. Anche se non la riterrei una diffamazione», Roberto Fiore

giovanile
Lotta studentesca

il simbolo
san Michele Arcangelo, simbolo della Guardia di Ferro, braccio armato degli ultranazionalisti rumeni. Non a caso il giorno scelto per la fondazione è stato il 29 settembre

in numeri
all’inizio del 2001 conta 2.500 iscritti e 40 sezioni in Italia. Alle Politiche del 2001, si presenta in qualche collegio sparso ma non supera mai l’1%. Nel biennio 2003-2006 si allea all’Alternativa Sociale di Alessandra Mussolini creando il cartello “Alternativa Sociale”, si aggregano anche Libertà d’Azione e Fronte sociale nazionale. La coalizione si presenta alle Europee del 2004, alle Regionali del 2005. E alle Politiche del 2006, dove raggiunge l’accordo con la Casa delle Libertà del Cavaliere Berlusconi. Ancora una volta sotto l’1%, nonostante la coalizione. Dopo la deludente avventura elettorale, Fn torna in autonomia. Tenta un Patto d’azione con altri gruppetti di destra estrema, arranca. Fino al 2008: Alessandra Mussolini viene eletta alla Camera e Roberto Fiore scatta una poltrona in Europarlamento. Un anno a Bruxelles, l’anno dopo le nuove elezioni. Ma Fiore e la sua Fn restano fuori dall’Europarlamento. E continuano a collezionare gli “zero virgola”

breve storia
xenofobi e omofobi, contro l’aborto e contro l’immigrazione. Forza Nuova – che conta non poche denunce per atti di violenza tra i suoi militanti – nasce dal dissenso dentro Fiamma Tricolore. Dapprima “area” e “movimento di base”, poi la scissione – quando Pino Rauti osteggia la distribuzione del bollettino Foglio di Lotta di Fiore e Morsello – e la fondazione di un vero e proprio partito. A fondarlo (e finanziarlo) due nomi doc del neofascismo italiano: Roberto Fiore, fondatore di Terza Posizione, nel cv una condanna per reato di associazione sovversiva e banda armata nel 1985, e – dice la Commissione europea d’inchiesta su razzismo e xenofobia del 1991 – affiliato all’agenzia di spionaggio britannica MI6 sin dai primi anni 80. L’altro è il cantautore Massimo Morsello, che nel 1985 fu ritenuto membro dei Nuclei armati rivoluzionari e condannato per gli stessi reati del camerata Fiore. Entrambi latitanti dal 1980 – a seguito di una serie di mandati di cattura volti a fare luce sui fatti della strage di Bologna – poi ritenuti estranei alla strage dalla magistratura che conferma comunque la loro appartenenza ai Nar. Restano latitanti fino al 1999, quindi due anni dopo aver fondato il loro partito: i 66 mesi di carcere di Fiore sono prescritti e i 98 di Morsello inapplicabili, era in fin di vita per un cancro e morirà a marzo 2001.

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A Milano la mostra “Acqua Shock”, le foto Edward Burtynsky rivelano la geografia del petrolio bianco

Edward Burtynsky, 60 anni,  nato a St. Catharines, Ontario, da genitori ucraini, non è solo un fotografo, è prima di tutto un esploratore. Le sue raffigurazioni fotografiche di paesaggi industriali sono incluse nelle collezioni di oltre sessanta dei più importanti musei di tutto il mondo, tra cui la National Gallery del Canada, il museo d’Arte Moderna e il museo Guggenheim di New York, il Museo Reina Sofia di Madrid, e il Los Angeles County Museum of Art in California. Per realizzare questi scatti straordinari Burtynsky  ha scandagliato i quattro angoli del mondo dall’America alla Cina, dall’Italia all’India, visitando cave, miniere, giacimenti petroliferi, dighe in costruzione e centrali geotermiche. L’obiettivo era mappare con il suo lavoro gli effetti della mano dell’uomo sull’ambiente. Effetti che negli scatti di Burtynsky assumono la forma di segni diventati ormai cicatrici e ferite fra pianure, mari e montagne.

In occasione di Expo in città e fino al 1 novembre 2015, il Palazzo della Ragione Fotografia di Milano espone i lavori raccolti dall’artista canadese all’interno della mostra “Acqua Shock”.
Le fotografie, tutte riprese dall’alto, colpiscono per trame e colori e lo fanno ancor di più per la storia con cui Burtynsky le ha corredate. Una storia che è capace di trasformare l’iniziale impressione di meraviglia, nella possibilità di cogliere con i propri occhi l’incisività degli interventi antropici sull’ambiente. Con “Acqua Shock” emerge una nuova geografia del petrolio bianco e si punta l’attenzione sull’acqua, bene sempre più prezioso e in via di esaurimento. Infatti secondo i dati emersi da un report del World Resources Institute, molte parti anche nel mondo oggidentale dovranno aspettarsi una drastica riduzione delle risorse idriche che, nel 2040 andrà arriverà anche a superare l’80% in paesi come l’Italia, la Spagna o gli Stati Uniti.

>> GALLERY | Acqua Shock. Le immagini della mostra

 

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© Edward Burtynsky / courtesy Admira, Milano

Per informazioni su orari e biglietti: palazzodellaragionefotografia.it

 

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La scalata di Jeremy Corbyn

L’infografica qui sotto è la rappresentazione del traffico generato su Twitter da Jeremy Corbyn, probabile vincitore della corsa per la leadership del partito laburista britannico e dai suoi avversari elaborata da Kantar. E’ un massacro: nel periodo preso in considerazione, gli ultimi tre mesi, il candidato di sinistra batte 10 a 1 il secondo arrivato. E supera di un milione di tweet anche il premier Cameron. Con una differenza: il numero di account che hanno twittato Corbyn è circa la metà (268mila a 560mila) di quelli che hanno scritto del premier conservatore, indice, scrivono i ricercatori di Kandar, di una ampia base militante molto attiva sui social. Il rumore sui social, specie se prodotto da un gruppo di persone, non è necessariamente in linea con i risultati elettorali o di primarie. Ma è comunque un buon indicatore di successo e di capacità di saper stare al mondo, nel mondo della politica contemporanea, fatta anche di lavoro sui social media e in rete.


Un altro buon indicatore di successo della campagna del deputato londinese, militante pacifista dall’aria un po’ assente è la vittoria del suo alleato Sadiq Khan, ex ministro di Gordon Brown, deputato londinese di origine pakistana che ha vinto la corsa per la nomina a candidato laburista alla carica di sindaco di Londra. Sarà lui a sfidare Boris Johnson. Terzo indicatore è quello commerciale: decine di migliaia di T-shirts, spillette (esaurite), mousepad che hanno consentito al candidato con meno mezzi di costruire e organizzare una campagna coi fiocchi. Per la precisione, gli oggetti sono 75mila, le 10mila magliette e 400mila sterline, a cui vanno sommate le donazioni di alcune confederazioni sindacali (Unite, in particolar modo) e quelle online (a oggi 210mila sterline). Anche in questo caso, comunque vada è chiaro che Corbyn ha generato un movimento, una volontà di esserci a fare parte, mentre gli altri candidati non hanno prodotto né partecipazione, né grandi emozioni.tshirtLa efficace campagna di immagine e l’immane successo della persona (la Corbynmania) fanno un po’  a pugni con il messaggio ripetuto in maniera ossessiva dal 65enne Corbyn, che ci tiene a far sapere che la sua candidatura è figlia della volontà di far crescere la partecipazione politica e ridurre la personalizzazione («Non misuro i miei risultati personali, misuro quali risultati riusciamo a ottenere come società»). Il probabile leader della sinistra britannica ha anche spiegato che le decisioni importanti non saranno più appannaggio del gruppo parlamentare ma della base più ampia. Nel caso vincesse servirà una riforma dei meccanismi di funzionamento del Labour.

Ma non ci sono solo modernità della rete e marketing: molti media britannici hanno scherzato sul fatto che nel giorno in cui si sono chiuse le urne (giovedì) il candidato abbia tenuto il suo 100esimo comizio. Un po’ voglia di fare l’ultima apparizione nel proprio collegio, un po’ voglia di fare 100 e un po’ una sorta di dipendenza da incontri con la gente. Fatto sta che il fatto di aver percorso i quattro angoli del Regno Unito e aver riempito sale, pub e parchi ha probabilmente consentito a Corbyn di ascoltare, capire cosa cerca la base laburista disorientata dagli anni della crisi e dalla sconfitta di Ed Miliband. E poi i volontari, più di 15mila, che hanno voluto prestare del loro tempo per eleggere un candidato diverso, che non si presenta e non parla come uno che sta facendo calcoli politici.

Certo è che incontrando direttamente le persone e facendo un gran lavoro in rete, Corbyn è riuscito nell’impresa difficile di diventare il favorito in una corsa nella quale sembrava destinato a fare lo spettatore di successo, quello che raccoglie un buon risultato perché lo votano i giovani e i vecchi militanti di sinistra, ma che non può vincere. E invece, parlando di un welfare meno escludente, di chiusura del sistema missilistico nucleare Trident, di una nuova politica economica meno dipendente dal centro finanziario del mondo che è la City, Corbyn ha messo nell’angolo gli avversari.

In molti cominceranno a spiegare che vincere le primarie è un conto, ma le elezioni sono un’altra cosa, che si governa al centro. E’ una mezza verità: convincere i non elettori laburisti può essere difficile per chiunque, che ci si riesca solo essendo centristi non è una legge di natura. E non è affatto detto che una figura come quella di Corbyn non abbia la capacità di tenere assieme un po’ di quella Old England nostalgica dei tempi che furono e una generazione che è cresciuta negli anni della guerra in Iraq e della grande crisi e che dei fasti del blairismo prima maniera non sa che farsene. In caso di vittoria Corbyn dovrà imparare a fare alleanze, a parlare con il potere e a cercare le idee migliori. In questi mesi ha dimostrato di essere uno bravo a imparare e a posizionarsi.

Qui sotto il servizio di The Guardian sull’ultimo comizio di Jeremy Corbyn e sei domande secche e personali da Newsnight della Bbc



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#Apiediscalzi, le foto sui social della marcia per l’accoglienza

marcia #apiediscalzi

Le immagini sui social della marcia #apiediscalzi in favore delle politiche di accoglienza per i migranti.

Ulisse lavoratore stagionale

Questa è la prima puntata del racconto di Daniele Di Michele pubblicata su Left 31-32, la seconda la trovate in edicola dal 12 settembre su Left 35

Credetemi, ve ne prego.
Ciò che vi racconterò è effettivamente accaduto.
Vi parlerò di fatti oggettivi, riscontrabili. Potrei darvi, se me le chiedeste, informazioni certe su documenti storici, carteggi, immagini di repertorio, registrazioni telefoniche, fotografie.
Ma si è tra amici, confidenti. Ho una fiducia cieca in ognuno di voi e passare queste informazioni allo scanner per attestarne l’elemento di verità verrebbe a interrompere il rapporto di confidenza che si è creato tra noi.
Anche perché non mi è facile parlarvi di questa storia. Mi vede chiamato in causa personalmente, tocca nervi scoperti.
Proverò a raccontarvi ogni singola cosa nel dettaglio, vi racconterò per filo e per segno come siano andate effettivamente le cose e come questa storia abbia alterato la mia vita, per sempre.
Che poi, se ci si pensa, accadono in modo banale gli appuntamenti con il destino. Hanno l’aspetto distratto e ironico del caso.
Bevevo il mio caffè in piena estate torrida e mi passò davanti in quei quaranta gradi all’ombra, nel caldo umido, nella mattina che segue una nottata turbolenta, del si è svegli da poco, del mal di testa espiazione di uno, tanti, mille bicchieri di rosato di troppo che accadono quando si mangia pesce fresco, o quando il destino, ma questo me lo sono detto solo dopo, ha deciso di incontrarti nel tuo peggior momento.


Del quando sei fragile, senza difese, in fondo. Cotto a puntino.
In quei casi, succede, può succedere, di incappare, perdersi, nel passo leggero di una donna. Seguirne lentamente lo spostamento dell’anca verso l’avanti, vedere il piede quasi nudo se non fosse per quel sandalo di cuoio e quella catenina ad avvolgere, poi, aspettando di essere pronti alla verità, far salire lo sguardo inesorabilmente verso su e scontrarsi con il suo profilo, del suo corpo, del suo viso. Per poi, infine, vederlo ruotare quel profilo, per diventar occhi verdi, da lupa, leggermente socchiusi, per guardare te, esterrefatto, annebbiato.
La commistione del caldo, della tazzina di caffè fatta cadere maldestramente per troppa distrazione, la resaca, la sbornia, il profilo, diventano cosa complicata da gestire tutte assieme. È di quelle giornate che un’informazione alla volta è sin troppo difficile da trattare.
Fu in quel momento che ascoltai quella frase per la prima volta dopo decenni, o forse millenni. Detta da uno dei tre uomini anziani seduti al tavolo di fianco, con camicia aperta a scacchi e canottiera bianca di cotone, sigaretta appesa alle labbra. Quello del centro, con la birra nel taschino della camicia.
Un tempo, una pausa, l’uno guarda l’altro, il tempo di un sospiro, una leggera inclinazione della testa dal basso verso l’alto a indicarla, ormai quasi andata via.
Tutti guardano assieme, nello stesso istante. Poi si guardano. Un altro silenzio. Quello di centro allora dice: Ma quiddhra l’a ’ssaggiata la rucula te l’orte? (trad. Ma lei l’ha assaporata la ruchetta selvatica della Baia dell’Orte?).


Si guardano assieme all’unisono e ridono. Altra pausa. Le mani posate sulle ginocchia, un leggero scuotimento della testa da destra verso sinistra e da sinistra verso destra. Poi, il silenzio, inesorabile.
Guardai la macchia nera del mio caffè sul pantalone, guardai loro, nel loro scuotere in modo incerto la testa, affetti d’un tratto da un’incredibile malinconia, guardai lei uscire fuori dal mio campo visivo ed entrare nelle mura fortificate del paese e seppi, esattamente in quell’istante che avrei dovuto capire una volta per tutte il significato di quella frase. Che dovevo capire del perché nel mio paesino succedono le cose nel seguente ordine: una bella donna passa, i vecchi la guardano, si guardano, dicono la frase in questione, sorridono sornioni e infine si azzittiscono, perdendo d’un tratto, anche solo per un istante, ogni forma di difesa, senza possibilità di controllo.
Mi sfuggiva il nesso, soprattutto: una donna bella, una rucola che cresce selvaticamente e dal gusto particolarmente amaro, lo sguardo prima allegro e poi malinconico di quegli uomini.
Dopo aver capito, nell’istante stesso in cui lo realizzai, come avrei impiegato la mia vita futura, mi accorsi che avrei avuto un’opzione decisamente più sana, logica: inseguire piuttosto l’oggetto in questione, avendomi lei concesso la bellezza totalizzante, totalitaria, dittatoriale del suo sguardo, del suo sorriso, dell’attraversamento dello sguardo, ragione ultima del mio gesto maldestro dell’urtare la tazzina di caffè, e del conseguente versamento del contenuto sulla mia gamba e del suo sorriso, definitivo.
Ma ero stregato da quella frase, risalente a una vita fa, la vita di bimbo. Avevo bisogno di situarmi storicamente in un luogo, sapere di esserne figlio, sapere del perché sono così in fondo, sapere del perché della mia fuga da questo Sud.
Ho cercato me stesso, come direbbe qualcuno, nel momento in cui il caldo del caffè sulla gamba mi risvegliava dal torpore, o stato di grazia, in cui quella donna mi mise.

(continua in edicola)

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La mafia dell’antimafia che avevamo previsto

L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.

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A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”.

Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi.

Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo.

Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

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