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#MéxicoNosUrge, l’appello per fermare la violenza in Messico

appello #mexiconosurge

«Come giornalisti siamo in pericolo, non abbiamo protezioni minime ma, anche se in queste condizioni, aquí estamos, noi ci siamo, tenemos mucha fuerza, abbiamo molta forza, porque tenemos la verdad a nuestro lado, perché dalla nostra parte abbiamo la verità». Il fotogiornalista Rubén Espinosa Becerril il 12 giugno 2015 si rifugia da Veracruz a Città del Messico dopo essere stato minacciato da “persone non identificate”. Un mese e mezzo dopo, il 31 luglio, viene assassinato con l’attivista sociale Nadia Vera, anche lei fuggita da Veracruz, e tre donne che vivevano nello stesso appartamento nella colonia Narvarte. Rubén continuava a denunciare come la libertà di stampa in Messico viene violentata quotidianamente, in particolare nello stato di Veracruz.

«In questi ultimi cinque anni, durante il governo del priista Javier Duarte de Ochoa sono stati assassinati 15 giornalisti, tutti gli omicidi sono rimasti impuniti. Veracruz è la culla della violenza contro i giornalisti», denunciava. Fino al 31 luglio, quando un gruppo armato irrompe nell’appartamento in cui viveva a Città del Messico. Un giorno qualunque, in un quartiere alto borghese, delle persone entrano in una casa e, dopo aver violentato l’attivista Nadia Vera, la studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e altre due donne che si trovavano con loro, Nicole Simon e Alejandra, uccidono tutti.
Dopo la strage, che ricorda le dittature argentine e cilene degli anni 70, la domanda centrale è perché li hanno uccisi. La giornalista indipendente Catalina Ruiz-Navarro, in uno degli editoriali più interessanti scritti in questo periodo, afferma: «Li hanno uccisi perché hanno potuto. Nella vita reale, non possiamo fare niente se non abbiamo l’opportunità di farlo, e questa opportunità in Messico è strutturale: l’ingiustizia è lo Stato. Una mancanza di protezione e impunità quasi assoluta: per questi li hanno uccisi».

 

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Per Rubén e Nadia non è bastato rifugiarsi a Città del Messico, considerata finora un porto sicuro in cui ripararsi dalle aggressioni contro la libertà di stampa. Il messaggio è chiaro: non si è sicuri da nessuna parte. Rubén Espinosa è l’ultimo degli oltre cento giornalisti assassinati in Messico dal 2000 ad oggi.
Attivisti dei movimenti sociali, giornalisti, familiari delle vittime di femminicidio o di desaparición forzada che lottano per non lasciare impuni i crimini in Messico sono costantemente in pericolo. Tra gli attivisti e giornalisti minacciati ci sono anche cittadini italiani ed europei, che si sono uniti e hanno deciso di scrivere un appello, #MéxicoNosUrge, all’Unione Europea affinché interrompa le relazioni politiche e commerciali con uno Stato che viola costantemente i diritti umani. Nell’appello si chiede che il Parlamento Europeo esprima la sua preoccupazione rispetto alla grave crisi dei diritti umani che vive il Messico e che l’Italia e l’Unione Europea sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone.
Left aderisce e rilancia l’appello, proponendo sul numero in edicola da sabato 29 agosto un approfondimento sui desaparecidos e un reportage sulle condizioni dei migranti in Messico.

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L’illustrazione di Mauro Biani per l’appello #MexicoNosUrge

 

Per leggere l’appello: www.facebook.com/mexiconosurge

Per firmare scrivere a: [email protected]

La galera serve a chi sta fuori

Tutti parlano di reati. Reati commessi per davvero o inventati. Reati passati, ma anche futuri. Quelli che faranno appena escono. Se mettono i microfoni nelle celle ci danno l’ergastolo a tutti». Questo mi racconta un detenuto siciliano. «Quando m’hanno messo dentro ho detto al direttore: voglio stare in cella con un italiano! E quello m’ha fatto: sei di Palermo, ti metto con un catanese. Adesso sto tranquillo,   mi faccio la mia pena». Il detenuto siciliano parla così, ma non lo so se è vero quello che dice. Veramente ha parlato col direttore del carcere e quello l’ha trattato come un confratello massone?

Anzi sono sicuro che s’è vantato e basta. Mi ha detto solo scemenze che fanno il paio coi suoi muscoli pompati. «Qui siamo peggio delle femmine» mi dice un anziano che mi indicano come appartenente alla famosa banda della Magliana. Significa che ci tengono all’aspetto. Sbarbati, profumati, abiti puliti e possibilmente un po’ di marca. Niente di costoso perché qui sono quasi tutti senza   una lira, ma hanno una dignità che somiglia a quella di certi abitanti di borgata che girano in tuta da ginnastica, ma non quella scrausa del mercatino. Questa è gente che si stira le mutande con la moka scaldata sul fornelletto nell’angolo della cella accanto al cesso. Cos’altro dovrebbero fare durante il giorno se per loro lo stato spende quotidianamente poco più di 5 euro per il cosiddetto trattamentale?

Sarebbe un pezzo di quel lavoro che dovrebbe riportarli nella società, ma in quella banconota verdina ci devi mettere i trasferimenti da e per i tribunali, gli impacchettamenti e gli spacchettamenti per portarti in altre galere…

Appena entrano in carcere comincia il loro teatro. Si mettono un costume di scena e incominciano a recitare. I reati veri o finti sono parte della stessa recita. Il capello tagliato alla moda e la maglia colorata con la virgola della Nike, il tatuaggio impeccabile accanto a quello   fatto in cella con l’inchiostro della penna. Nella commedia del carcere ognuno ha il suo personaggio.


I detenuti al 30 giugno 2015 sono 52.754. Guardando sempre al mese di giugno i detenuti erano 31.053 nel 1991 (c’era stato da poco il provvedimento di amnistia, l’ultimo del dopo-guerra), sono cresciuti sino a 54.616 nel 1994 (dopo la riforma dell’ordinamento penitenziario e la preclusione all’accesso alle misure alternative per un gran numero di detenuti), 56.403 nel 2003 (all’indomani della legge Bossi-Fini sull’immigrazione), 63.630 nel 2009 (esito delle leggi sulle droghe e sulla recidiva), fino al triste record di 68.258 nel 2010 (che ci è valsa la condanna della Corte Europea nel 2013)….dal Rapporto Antigone 2015 di cui parliamo qui [divider] [/divider]

 

La società gliel’ha insegnato. Stanno lì dentro per recitare la parte dei cattivi. Serve a quelli che restano fuori che altrimenti non riuscirebbero   a sentirsi buoni.   L’articolo 27 è uno dei tanti che riempie le prime   pagine della Costituzione con i suoi geroglifici non decodificabili. In Italia quelle prime pagine   fanno ridere, figuriamoci in questo ghetto   sbarrato.   Chi sta in galerAbolire il carcere_Manconia conosce un’altra legge. Gli   chiedi ignorantemente “perché stai dentro?” e ti rispondono «per un errore. Un errore mio o  del giudice» e ridono. Ma il carcere lo conoscono meglio di tutti. Meglio dei cittadini pagatori di tasse che vorrebbero vedere tutti dietro al   blindato. Meglio dei politici che ogni tanto ci  finiscono e nonostante quest’esperienza non   imparano nulla e si sentono pure perseguitati (una volta i padri costituzionalisti si vantavano di aver conosciuto la prigione!). Meglio dei   giudici che ce li mandano e pure delle guardie che li controllano pensando che la prigionia sia tutta gestita da loro.

No, la galera è un fatto personale. Il detenuto se ne rende conto dopo poche ore. È fatta di  droga se ti serve e c’hai i soldi, psicofarmaci a pioggia, un po’ di sesso da solo o con qualcun altro se non ti fa troppo schifo. In cella cerchi di farti tutto, costruisci il frigo col ghiaccio della ghiacciaia comune e il tetrapack del latte. La grappa con la serpentina di penne Bic mezze squagliate, il vino con l’uva marcita. La cocaina e l’eroina arriva nei maglioni messi a mollo nell’acqua con la robba. Il parente te l’asciuga e tu te lo rimetti a mollo per fartela.

Chiedo a uno che in carcere c’ha passato una vita “ma la maggior parte si perde?” «No, per niente» risponde  lui indicandomi la percentuale stimata di robba recuperata. Pure la frutta e la verdura gli hanno sequestrato una volta perché la siringavano di acidi. La galera è così. Abolire il carcere è un libro da regalare a quelli che straparlano al bar con la preghiera di leggerselo per davvero e smettere di dire sciocchezze. Ogni riga ribadisce in maniera incontestabile l’inutilità di questa istituzione stupida  e nazista. Renzi sostiene che l’articolo 18 della  legge 300 è vecchio, lo paragona al gettone nell’era dell’iPhone. Figuriamoci la galera! Una robba inventata molto prima del telefono di Meucci. Perché il Renzi non se ne disfa come del gettone? Forse la galera gli serve. Serve a lui che ha il Paese dalla parte del manico e a tutti quelli, di destra e sinistra, che stanno fuori. Ammazzare la gente mettendola in queste tombe per i vivi serve ai cittadini per non sentirsi morti del tutto.

(da Left numero 18)

Uber, Airbnb e le altre: i lati oscuri della sharing economy

Dentro il Turco Meccanico un’ora di lavoro è pagata in media dagli 1 ai 5 dollari. La maggior parte dei Turkers – il nome dato ai partecipanti al sistema – completa dai 20 ai 100 Hit a settimana, per un salario pari a 20 dollari ogni sette giorni. Altri svolgono svariate migliaia di Hit, ottenendo nei casi migliori fino a 1.000 dollari al mese. Hit è l’acronimo di Human intelligence task, “un compito univoco e indipendente” la cui caratteristica fondamentale è quella di richiedere necessariamente l’intelligenza umana. Si tratta solitamente di compiti molto semplici e ripetitivi, come quello di identificare determinati oggetti in foto, organizzare dati, trascrivere registrazioni, partecipare a questionari, lasciare commenti in un linguaggio convincente: lavori che i computer ancora non svolgono più efficacemente delle persone.

Chiunque può partecipare al Turco Meccanico, e sulla piattaforma è possibile offrire e comprare servizi di questo genere, con almeno 300mila annunci attivi. Una volta scelto ed effettuato un determinato Hit, il lavoratore invia la sua risposta all’annuncio e ottiene il pagamento, meno una commissione del 10 per cento, ovviamente, trattenuta da Amazon – il colosso del commercio elettronico, con 74 miliardi di fatturato nel 2013, che possiede e sviluppa la piattaforma virtuale su cui avvengono le transazioni. In inglese, si chiama Mechanical Turk. «Tipicamente, per svolgere questo tipo di compiti le aziende assumono un numero molto ampio di lavoratori con contratti temporanei: un processo che fa perdere tempo, è costoso, e difficile da scalare oltre certe soglie», si ammette candidamente sul sito, che di conseguenza si propone per «offrire alle imprese accesso a una forza lavoro scalabile su richiesta ed eterogenea, e ai lavoratori una selezione di migliaia di compiti da completare quando gli è più comodo ».

Quello appena descritto è un tipo particolare, e innovativo, di outsourcing. Perché non si svolge attraverso un rapporto diretto tra chi offre e chi acquista il servizio, ma nel completo anonimato del peer to peer, permesso dalle tecnologie digitali. Il nome, Turco Meccanico, si richiama proprio a questa idea, poiché si ispira alla creazione dell’inventore austro-ungarico di fine Settecento Wolfgang von Kempel: una macchina automatica in grado di giocare a scacchi, un robot imbattile che per quasi 84 anni stupì le corti europee e le Americhe – finché si scoprì che, in realtà, la macchina era congeniata in modo da permettere a maestri degli scacchi di nascondervici dentro, dando solo l’illusione di essere in grado di giocare autonomamente. E nascosti dentro il nuovo Turco dell’epoca digitale ogni giorno almeno 500mila lavoratori in 100 Paesi completano, come formiche invisibili, i loro piccoli Hit. Se fosse una vera e propria impresa, si tratterebbe della sesta compagnia privata al mondo per numero di impiegati, dietro solo a una manciata di giganti come la statunitense Walmart, con i suoi oltre 2 milioni di dipendenti nella grande distribuzione, la cinese Sinopec, compagnia petrolifera con un milione di lavoratori, e dietro i 50mila della catena inglese di supermercati Tesco.cover icone

Ma benvenuti nel mondo della sharing economy, quella classe di attività economiche che fanno leva sulla tecnologica informatica al fine di costruire mercati virtuali in cui lo scambio di informazioni permette lo sfruttamento di beni e risorse sottoutilizzate. Uno dei primi sistemi digitali di “consumo collaborativo” a entrare nell’utilizzo comune è stato Ebay, che ha condotto a piena commercializzazione l’intuizione libertaria di cui siti come Craiglist e Napster si erano fatti pionieri, quella cioè di una collaborazione diffusa, e per questo fondamentalmente incontrollabile, delle reti sociali virtuali volta a una creazione diretta di valore, sotto la forma di una condivisione di beni e servizi, capace di tagliare fuori gli intermediari tradizionali, annullandone i guadagni. Negli ultimi anni, è però l’ascesa irrefrenabile di aziende come Uber, che sulla sua piattaforma fornisce trasporto automobilistico privato, e Airbnb, che offre l’affitto di case e appartamenti, a essere diventata il simbolo di ciò che è considerato il chiaro segnale di una tecnologia economica destinata a essere disruptive, a rompere cioè i vecchi modelli di produzione e offerta di servizi in determinati settori. La reputazione è meritata.

A fine 2014, senza che Airbnb avesse mai piantato un mattone, il numero di stanze disponibili hanno raggiungo il milione di unità, portando la app a superare nel giro di sei anni gruppi come Hilton, Marriot e InterContinental, ciascuna con circa 700 mila stanze in offerta nel mondo. Il numero di prenotazioni rimane ancora su livelli sostanzialmente più bassi, perché molte stanze non sono disponibili per tutto l’anno, ma il percorso di crescita esponenziale di Airbnb ha spinto gli analisti della banca d’investimento Barclay’s a prevedere che l’offerta triplicherà di dimensioni di qui al 2016, fino a raggiungere le 129 milioni di stanze-notte per anno. Già oggi Airbnb rappresenta il 17,2% di tutta l’offerta ricettiva di New York, l’11,9% di Parigi e il 10,4% di Londra. Una condizione che pone non irrilevanti problemi regolatori: in un duro editoriale intitolato “Il lato oscuro della sharing economy” il New York Times ha sostenuto che, dato il continuo aumento degli affitti e la stagnazione dei salari, «la città non può permettersi di avere ancora più appartamenti trasformati in hotel illegali», sottolineando che «ci sono buone ragioni perché il governo regoli gli alloggi: servono leggi per separare sviluppo alberghiero e residenziale, in modo che i turisti non invadano le città riducendo lo spazio per i residenti, e per assicurare che gli inquilini più poveri abbiano posti dove vivere», e non siano espulsi dall’aumento degli affitti. E anche Uber si è trovato a subire pressioni regolatorie. Dichiarato illegale in Germania, di recente anche in Italia l’app Uber-Pop è stata bloccata. Competizione sleale verso i tassisti – anche questi come gli albergatori non amatissimi dall’opinione pubblica -, dice la sentenza, perché questi, al contrario degli autisti Uber (occasionali, per Uber-pop, non Ncc professionisti come accade per Uber black), devono sottostare a una serie di leggi volte a tutelare la qualità del servizio e la sicurezza dell’utente. Quante ore può guidare, di seguito, ad esempio, chi vende passaggi su Uber-pop?

[divider] [/divider] La sharing economy è nelle mani dell’1% ricco della Silicon Valley: 12,7 miliardi di dollari sono stati investiti in 232 start up. 283 milioni su Spotify, 237 su Airbnb   [divider] [/divider]

Ma i confini della sharing economy sono labili e i suoi modelli di business in ampia parte ancora indefiniti. Oltre a Airbnb e Uber, e ai vari loro analoghi (HomeExchange, Vayable, Lyft, ZipCar), ci sono imprese in grande crescita come Netflix, Spotify, Pandora e Gamefly, attivi nella condivisione di video e musica in streaming, oppure RentForRunway e FashionHire, che permettono di prendere in affitto capi d’abbigliamento di alta moda. Anche il Turco Meccanico non è unico nel suo genere, e al suo fianco esistono competitors come TaskRabbit e SkillShare. Secondo le stime della società di consulenza PricewaterhouseCoopers (PwC), il giro di fatturato della sharing economy è destinato a crescere fino 335 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni. E questo considerando solo cinque settori: finanza peer-to-peer, online staffing, car-sharing, streaming di musica e video, ospitalità. Gli analisti di PwC si aspettano che il settore a più alta crescita sia quello dei prestiti e della microfinanza online, destinata ad ampliarsi del 63 per cento nel prossimo decennio. Seguirà il +37% dei servizi virtuali di allocazione del personale, e poi i tre settori che, già da qualche anno, sono in pieno boom: l’ospitalità peer to peer (+31%), il car sharing (+25%) e lo streaming di musica e video (+17%). È per questo che i venture capitalists statunitensi si sono lanciati in fretta sull’affare e – come ha fatto notare l’analista Jeremiah Owyang di Crowd Companies – in poco tempo la maggior parte della sharing economy è finita nelle mani dell’1% più ricco della Silicon Valley. In pochi anni, almeno 12,7 miliardi di dollari sono stati investiti in 232 start up del settore, con una media di 54 milioni per impresa. Tra questi spiccano i 283 milioni di dollari investiti per Spotify e i 237 di Airbnb, gli oltre 50 milioni di Rent the Runway e Uber, i 38 di TaskRabbit. Si tratta di una contraddizione in termini per imprese che sono nate brandendo uno spirito fondamentalmente anarchico e bottom up, dal basso verso l’alto, finendo invece per essere catturate da un’élite di miliardari e fondi d’investimento attirati dall’idea più vecchia del mondo: monopolizzare mercati in espansione e controllarne lo sviluppo. Infatti secondo Indy Johar, imprenditore digitale fondatore di Project00, la natura “social” di queste nuove imprese implica che il loro modello di business si basi su un processo di “lock in” dell’utente, a cui conviene partecipare solo nella misura in cui, e proporzionalmente alla misura in cui, il numero di altri utenti è sufficientemente elevato.

Non avrebbe senso un Ebay con una frazione del suo oltre un milione di venditori, un Uber in cui le macchine non si trovano mai, o Airbnb se la scelta di alloggi non fosse sufficientemente elevata da accontentare tutte le tipologie di utenti. A sua volta, questo implica che ognuna di queste imprese può sopravvivere solo se riesce ad agire in stato di monopolio, o di forte oligopolio. Il che ha un semplice significato: come ha sottolineato lo stesso Financial Times, dietro una patina d’innovazione il modello economico della sharing economy è sempre più simile a una sorta di feudalesimo digitale, in cui i pionieri del settore utilizzano il proprio tempo non a innovare ma a proteggere e “militarizzare” i territori conquistati. Con ogni mezzo. E in questo i magnati della Silicon Valley sono esperti, perché il loro successo nasce da una cultura imprenditoriale a circuito chiuso, legata allo sviluppo dell’industria militare finanziata dal governo statunitense nei campus universitari attorno a Stanford, in cui l’innovazione non è prontamente condivisa ma anzi protetta attraverso azioni legali e strategie di acquisizione d’impresa estremamente aggressive. È sufficiente la teoria economica di base per capire che un monopolista di questo tipo tenderà a coltivare e raccogliere la propria rendita, scaricando i rischi sui più deboli lungo la catena di creazione del valore. È più facile, nell’economia dello sharing. Ci sono vari escamotage, come, ad esempio, quello dell’autonomia del rapporto tra chi lavora e chi fornisce il servizio digitale. Pur avendo un parco di 160mila autisti, Uber aveva a inizio 2014 solo 550 dipendenti diretti. Allo stesso modo, Airbnb ha poco più di 600 dipendenti, contro gli oltre 300mila di una catena come Hilton Worldwide. La Siae, con i suoi 1.200 dipendenti, ha un numero di dipendenti più alto di quello con cui Spotify ha rivoluzionato il mercato musicale a livello globale. Dietro questo modello cui si nasconde uno spostamento integrale del rischio d’impresa, tradizionalmente sostenuto dai primi, verso i secondi, considerati “contractors” autonomi senza alcun rapporto diretto con l’impresa per la quale lavorano. Il Turco Meccanico, il campione, scarica ogni responsabilità persino sul contenuto dei lavori che la sua piattaforma offre, restringendo il proprio ruolo a quello di un “elaboratore di pagamenti che serve a facilitare le transazioni tra committenti e fornitori”, i quali utilizzano il sito “a proprio rischio e pericolo”. Dentro al Turco Meccanico, una forza lavoro globale produce per 24 ore su 24 e sette giorni su sette, senza pause, senza interruzioni, senza sindacati e senza orari né leggi di riferimento. Un committente può sempre decidere che un lavoro non è all’altezza dei suoi standard dopo averlo ricevuto, lasciando il lavoratore con le tasche vuote. La paga dipende almeno in parte dal curriculum del provider, del lavoratore per usare termini all’antica: si guadagnano punti in base a quanti Hit sono stati accettati e svolti in tempo, e anche solo un rifiuto può sporcare per sempre la “fedina”, in una sorta di graduatoria globale della buona condotta.

[divider] [/divider] Uber ha 160mila autisti ma solo 550 dipendenti. Airbnb ha poco più di 600 dipendenti con un milione di stanze. E il lavoro non ha orari né regole precise [divider] [/divider]

Come le patacche senza valore di Mao, che i lavoratori potevano appuntarsi orgogliosamente al petto ma non riempivano il piatto, anche il Turco distribuisce certificati di eccellenza. Dopo averne ricevuti tre e aver portato a termine oltre 100mila Hit, Rachael Jones, casalinga del Minnesota, è riuscita a guadagnare “ben” 8 dollari l’ora. A fine 2014, dopo aver svolto 830 mila Hit per una media di 20 centesimo l’uno, la 35enne canadese Kristy Milland ha scritto una email al Ceo di Amazon, Jeff Bezos: «Sono un essere umano, non un algoritmo», si è lamentata, senza ricevere risposta. È il rovescio della medaglia del capitalismo cognitivo. «Dobbiamo capire in che cosa gli umani sono insostituibili», ha detto di recente il Ceo di Google Eric Schmidt. Creatività, immaginazione, intelligenza emotiva sono le caratteristiche umane che i robot non possono replicare, e che fondano l’innovazione e la creazione di valore nel nuovo regime economico. Ma, accanto a queste, esiste un’altra fascia di capacità umane ancora impenetrabili all’intelligenza artificiale, come quelle richieste dal Turco Meccanico, che finiscono per creare un esercito di lavoratori simili come ingranaggi senza potere, per dirla con il docente di Berkeley Brad de Long, incatenati a schermi per tutta la loro vita. E se Airbnb nasconde dietro una brillante narrativa comunitarista il fatto di rappresentare il più puro modello di business della rendita capitalistica (i possessori di un bene immobile lo sfruttano per ottenere reddito eludendo regolamentazione e l’interesse pubblico che la motiva), Uber appare ancora di più come lo stereotipo del middleman. I suoi profitti sono possibili solo nella misura in cui vengono tagliati i margini di guadagno di chi vi lavora, e questo in anni recenti è stato fatto in due modi: fissando al ribasso i prezzi che gli autisti devono accettare per accedere al servizio e alzando la quota che finisce a Uber. Dei 10 miliardi di dollari di fatturato previsti per il 2015, Uber si terrà almeno 2 miliardi per il solo fatto che le transazioni avvengono sulla sua piattaforma. Anche i servizi di streaming musicale agiscono secondo un principio simile: dopo essere stata riprodotta per 168 milioni di volte nei soli Stati Uniti, la canzone di Avicii, “Wake me Up!”, ha generato attraverso Pandora royalty per soli 12mila e 359 dollari.

E le cose vanno ancora peggio per gli artisti più piccoli. Nella configurazione attuale della sharing economy, insomma, non è più l’impresa ma sono i singoli lavoratori a caricare sulle proprie spalle eventuali shock sulla domanda o sui prezzi, sono sempre i lavoratori a dover effettuare investimenti in capitale produttivo (gli autisti di Uber o Lyft utilizzano le proprie macchine, spesso acquistandole appositamente, chi offre case su Airbnb offre la propria casa), sono sempre i lavoratori a subire le possibili conseguenze criminali di quello che accade durante le transazioni, o a pagare i danni causati da catastrofi non prevedibili. È il trionfo della rendita attraverso lo sfruttamento del lavoro: appropriazione dei profitti ed esternalizzazione delle possibili perdite. Tanto che ormai emergono commercializzazioni persino di questo aspetto: è il caso di Peers.org, che vende agli autisti delle app di carsharing l’utilizzo di macchine alternative nel caso le proprie siano in panne. È un principio peraltro inefficiente dal punto di vista economico, come sottolineato addirittura dal Wall Street Journal, perché da un punto di vista evolutivo la società esiste proprio in virtù del fatto di essere in grado di assorbire meglio rischi e inconvenienti rispetto ai singoli individui, e il welfare state ha storicamente svolto esattamente questa funzione. Peccato che le imprese digitali vivano ancora oggi in un mondo di irresponsabilità fiscale che sottrae agli Stati potenziali entrate e restringe così gli spazi per una redistribuzione attraverso reti di protezione sociale. Dietro la patina dell’innovazione tecnologica si nascondono dunque una serie di rapporti che si possono studiare con categorie antiche: un mix di alienazione, sfruttamento del lavoro, sistematica elusione delle regole. In quanto tale, la sharing economy va normata e riconciliata con un principio di interesse pubblico, al di là delle difese corporative che, per la logica dello sviluppo tecnologico, sono altrimenti destinate a mostrare la corda.

(da Left numero 21)

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Uno scrittore al Cie di Ponte Galeria. Ancora una volta

Da martedì sera, Sunjay Gookooluk, si trova nuovamente al Cie di Ponte Galeria. Scrittore e attivista, con il suo diario ha denunciato a fondo il trattenimento disumano subito nel Cie, raccontando (anche su Left) di quei tre mesi.

11898558_1619246151686768_4863082117245617014_nCittadino delle Isole Mauritius e in Italia da più di vent’anni, Sunjay, come racconta anche nel monologo raccolto da Giulio Cavalli per Left, stava cercando di rifarsi una vita, a Roma. Ma «lunedì pomeriggio», racconta il giornalista Giacomo Zandonini, «ci siamo visti per prendere un caffè. Lo avevano chiamato per notificargli un atto alla questura di Trastevere e mi chiede di accompagnarlo, fiducioso che non sia nulla di grave. In effetti è il deposito di un ricorso relativo al gennaio 2013. Per ritirarlo serve però un documento: Sunjay tira fuori il bancomat, il codice fiscale, la fotocopia del passaporto delle Mauritius che ha perso… ma nulla. Bisogna portarlo alla questura centrale per un fotosegnalamento e, come dice più volte il sovrintendente di Polizia Ponzi, in qualche ora sarà fatta. Arriva una volante e il sig. Ponzi scambia qualche occhiata di intesa con gli agenti. Chiediamo più volte che Sunjay possa tornare domani o faccia una delega all’avvocato per ritirare i documenti. Ma no, “facciamo subito così non ci si pensa più”. Sunjay viene caricato sulla volante dopo una breve perquisizione e il sequestro del cellulare. Non è in arresto ma non potrà comunicare con nessuno per 26 ore, durante le quali sarà tenuto, in gran parte, in una stanza con aria condizionata e luce accesa, seduto per terra senza poter mangiare né assumere i medicinali per il diabete. Da lì riportato nel Cie, dove finalmente riusciamo a contattarlo. L’ennesimo abuso, per cui Sunjay è pieno di rabbia. Ma ha anche, incredibilmente, fiducia e voglia di combattere, anche con la scrittura, come aveva fatto già in passato, vincendo concorsi letterari e pubblicando su Left. Una fiducia che il Cie spesso ti strappa via lentamente. Ora, è urgente diffondere, far conoscere la sua storia, fare pressioni, denunciare».
«Dostoevskij scriveva che se avessimo il potere di decidere dove nascere, ognuno di noi avrebbe scelto di nascere in una famiglia vera, agiata o almeno benestante», ha scritto Sunjay in una delle pagine del suo lungo diario. «Ma tutto questo non è stato concesso da dio a noi comuni mortali: perciò ognuno deve sopportare il proprio fallimento, la propria croce. Anch’io desidero ricostruire una vita sana e onesta, basata sul lavoro».

per seguire la vicenda e l’appello: #FreeSunjay

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/tizianabarilla” target=”on” ][/social_link] @tizianabarilla

Divorzio, c’è sempre tempo per ripensarci. La nuova legge non cambia la sostanza

Niente: non riuscirete a liberarvi del vostro matrimonio così facilmente. Il divorzio breve rimane un miraggio. O meglio, il disegno di legge passa a grande maggioranza (228 a favore, 11 contrari e altrettanti astenuti) e i tempi per poter chiedere il divorzio effettivamente si accorciano: dai 3 anni si passa ai 12 mesi (se giudiziale, 6 se consensuale) dal momento della separazione legale. Ma essendo un divorzio breve all’italiana, la nuova legge – che ancora deve attendere la terza lettura e l’approvazione definitiva alla Camera – maneggia i tempi della separazione più che quelli del divorzio, e va a modificare una condizione che si potrebbe invece eliminare completamente, o quanto meno rendere facoltativa come in Spagna: la separazione legale.

Quella invece non si tocca. Fa niente se esisteva ed era stata ideata nei tempi arcaici preesistenti il divorzio al fine di sostituirlo, e fa niente se nel frattempo, la Chiesa non se ne abbia, il divorzio è passato e la separazione non ha più motivo di esistere – se non forse come residua speranza di un “ripensamento” (termine utilizzato per denominare questo periodo). In Italia l’immediatezza crea delle perplessità, quindi la possibilità di saltare questo passaggio è stata stralciata proprio al Senato: via il comma 2 dell’articolo 1 e con lui l’emendamento che introduceva il divorzio immediato. Più che di “divorzio” breve, si tratta di “separazione” breve, dunque. Una leggerezza comunicativa che fa la differenza. Ad accorciarsi infatti, sono i tempi dei quest’ultima più che quelli del divorzio vero e proprio, che invece resterà invariato. Anzi, non è mai stato oggetto di discussione. I tempi di quel divorzio che massacra uomini, donne e soprattutto i loro figli, che riscrive decenni di vita passata e trasforma risorse economiche in armi per abbattersi l’un l’altro, ecco: quello resta esattamente com’era. Semplicemente, inizierà due anni prima. Infinito, fatto di ricorsi e parcelle salate, il divorzio resterà immutato perché necessiterebbe, come molti altri campi, di una riforma della giustizia e soprattutto delle sue procedure.

L’unica vera novità della mini-riforma infatti, è che si riduce il termine del suddetto “ripensamento”, ovvero il margine che intercorre fra quando si decide di separarsi e quando effettivamente ci si troverà davanti al giudice per “ratificare” la separazione legale. Come a dire: ma siete sicuri-sicuri che volete separarvi? Sarebbero anche questioni private fra le persone, nelle quali lo Stato non dovrebbe intromettersi, se il nostro, di Stato, non fosse paternalistico. In ogni caso: se proprio siete decisi con questa storia del divorzio, ora almeno potrete risparmiare due anni e mezzo. Non male. Se si è d’accordo. E se non ci sono figli minorenni, non indipendenti economicamente o portatori di handicap. Anche se economicamente cambia poco perché, e questa è una novità importante, lo scioglimento della comunione dei beni inizia dal momento della separazione legale certificata dal giudice – o da un ufficiale di stato civile (il sindaco), come già introdotto dall’articolo 12 della riforma della giustizia civile del ministro Orlando entrata in vigore a novembre: la negoziazione assistita che ha comportato la possibilità di redigere accordi di separazione o divorzio in forma privata.

Ma di saltare questo passaggio non se ne parla. Il motivo? Ufficialmente quello di accorciare i tempi di approvazione della legge. Per il divorzio diretto comunque non preoccupatevi: se ne scriverà un’altra. Più avanti. A breve, ma più avanti. Ci vuole tempo anche a essere rapidi, in Italia. Tempo e altri soldi, se si pensa ai costi che comporta la stesura, le modifiche nelle commissioni, la discussione e la pioggia di controproposte ed emendamenti che puntualmente vi si accompagnano, le sedute in aula.

Nei fatti, ancora una volta dietro al blocco dello sviluppo della legge c’è la rappresentanza cattolica in Parlamento: Udc e Ncd, poi appoggiati immancabilmente dal Partito democratico sempre meno laico e da Forza Italia, avevano alzato le barricate rischiando di far saltare l’intero provvedimento. «Il Partito democratico troppo spesso lancia il sasso e ritira la mano. L’ha fatto con le adozioni, la stessa cosa sta facendo col divorzio diretto e così faranno anche con le unioni civili, che interesseranno solo le coppie omosessuali e solo in alcuni aspetti. Fanno accelerazioni per poi tornare indietro ed evitare così una spaccatura con la rappresentanza cattolica. Ma non ci fanno una bella figura. Paradossalmente chi è stato innovativo e sorprendente, qui, è proprio Ncd», ha commentato Diego Sabatinelli, segretario della Lega Italiana per il Divorzio breve. Il problema, secondo Sabatinelli, è che «sul divorzio diretto si sarebbe trovata una maggioranza trasversale, e questo fa paura al governo. Quindi s’impedisce che i senatori esprimano il proprio voto in maniera indipendente rispetto alle indicazioni di governo. In Paesi che hanno una tradizione democratica molto più forte della nostra, una cosa del genere non esiste: su questi temi di questo calibro, non esiste disciplina di partito ma libertà di coscienza». Non è l’unica differenza di civiltà, fra noi e l’Europa: «La fase della separazione legale è rimasta praticamente solo a Malta, in Irlanda del nord, in Polonia, e… in Italia», tutti i Paesi di forte impronta cattolica.

Ma perfino in Spagna, prosegue il radicale, «dove hanno una tradizione di tipo cattolico, hanno due binari, dando la possibilità di scegliere se fare la separazione legale o accedere direttamente al divorzio». Dalla modifica del codice civile del 2005, separazione e divorzio vengono considerate come due opzioni distinte alle quali i coniugi possono fare ricorso indifferentemente per far fronte alle vicissitudini matrimoniali. Alla base vi «è il rafforzamento del principio della libertà dei coniugi, che si realizza limitando il più possibile l’intervento giudiziale e lasciando il più ampio spazio alla libera volontà delle parti», si legge. Stessa cosa in Francia, dove il legislatore non ha prescritto l’obbligo di una successione temporale tra separazione e divorzio ai fini dello scioglimento del vincolo matrimoniale, soprattutto in presenza dell’accordo consensuale dei coniugi, e per la quale è necessaria una sola udienza.

Ma in Italia, no: «Abbiamo due giudizi per la stessa “colpa”», rincara Sabatinelli. Tra il sostegno alla scelta individuale da una parte e la tutela della sacra moralità dall’altra, ancora una volta la burocrazia in Italia si strutturerà per garantire la seconda, a scapito della facilitazioni per le quali invece i progetti di legge andrebbero invece pensati. «È in gioco l’esistenza stessa della famiglia!», hanno tuonato le associazioni familiari. «Una forma sociale stabile a rischio: esattamente quello che dicevano nel 1970 quando hanno introdotto il divorzio. Le obiezioni sono sempre le stesse», ribatte Sabatinelli. Siamo pur sempre il Paese dei panni sporchi che si lavano in casa, della famiglia che è una sola, meglio frustrati e sofferenti, piuttosto che liberi di scegliere. «Modificarlo con una norma ulteriormente innovativa come il divorzio lampo è un rischio», ha detto il capogruppo Pd Luigi Zanda: e in effetti già vediamo orde di feticisti del divorzio sposarsi solo per il gusto di separarsi velocemente. Senz’altro invitante. Innovazione? Non scherziamo.

(da Left numero 11)

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Fast food e salari da fame, come si organizzano i lavoratori poveri d’America

“Le proteste, gli scioperi, il lavoro sui social media compromettono l’immagine del gruppo e possono avere effetti economici negativi”. Quella che avete appena letto è la sintesi di alcune frasi contenute nel rapporto 2013 di McDonald’s agli investitori. Negli Stati Uniti da trent’anni è in corso un braccio di ferro: quello tra la grande ricchezza, le corporation, le banche e la finanza da un lato e la middle class e i poveri dall’altra. I primi per molto tempo hanno vinto quasi senza trovare resistenza. Poi è venuta la crisi e il clima politico è cambiato, è cresciuta la capacità della società di organizzarsi per modificare il contesto. Il lavoro mal pagato e senza diritti, né maternità, né ferie, né malattia, è cresciuto molto, sono aumentati gli addetti nelle pulizie, nelle cucine, nei megastore e nei grandi supermercati, nel lavoro di cura. Spesso con salari al di sotto della povertà. Lo scorso 15 aprile in centinaia di città americane, migliaia di lavoratori hanno manifestato per chiedere l’aumento della paga minima oraria fino a 15 dollari. Erano addetti alle pulizie, lavoratori dei fast food e delle catene di negozi, assistenti domiciliari. Da dove venivano e come è stato possibile che persone che lavorano in ambiti tanto diversi si siano organizzate e abbiano portato avanti una campagna tanto efficace e visibile?

Prendiamo le lavoratrici domestiche: impiegate che non vedi, completamente prive dei diritti di base e con salari talmente bassi – la media è 9 dollari l’ora – che il 30 per cento di che lo fa (quasi tutte donne) è costretto a ricorrere all’assistenza pubblica dei food stamps per avere abbastanza da mangiare. Ovvero lo Stato si fa carico di dare da mangiare ai working poors, perché i datori di lavoro scelgono di non pagare abbastanza. E poi ci sono gli abusi e le truffe: le immigrate pensano spesso di partire per gli Usa come insegnanti e si trovano con 10mila dollari di debito a badare a un malato terminale. È il caso di Lourdes Balagot, filippina, oggi membro della National domestic worker alliance (Ndwa). A leggere il rapporto della Ndwa, basato su 2100 interviste a lavoratrici, si capisce quanto sia difficile intercettare queste lavoratrici. L’unica è usare il passaparola, incontrarle nelle chiese e nelle comunità. 190 domestiche intervistatrici e 30 community organizers hanno condotto l’indagine in 9 lingue. Il lavoro di questa rete produce risultati legislativi e di visibilità: la leader della Ndwa Ai-Jen Poo è entrata nella classifica delle 100 persone più influenti di Time, nel 2012, la California ha adottato una legge di protezione del lavoro domestico, e i sindacati tradizionali hanno cominciato a riconoscere che quello è un campo su cui lavorare.

min wage epi

(Chi beneficerebbe dell’aumento della paga minima oraria?

dell’Economic Policy Institute,il think-tank che più fornisce argomenti scientifici alla battaglia per l’aumento della minimum wage) 

C’è voluto del tempo, però: i primi vagiti della campagna risalgono al primo Social Forum statunitense. Atlanta, giugno 2007. Campagne come queste devono usare strumenti vecchi e innovativi, andare a cercare il lavoratore in luoghi non scontati, comunicare, dialogare con le istituzioni. «Il livello di sindacalizzazione è così basso in questo paese, che gruppi comunitari, chiese, comunità locali che si organizzano sono cruciali, così come le campagne nazionali come Fight for 15, che chiede una paga federale oraria di 15 dollari l’ora», spiega a Left Erica Smiley, campaign director di Jobs with Justice, ombrello che raccoglie decine di gruppi di pressione: «Nel mondo del lavoro in cui viviamo, così diverso dal passato, servono istituzioni flessibili che consentano di porre richieste, firmare accordi collettivi, e determinare avanzamenti legislativi o qualsiasi altra cosa che faccia crescere i diritti e amplifichi la voce dei lavoratori non coperti dalla contrattazione sindacale tradizionale. Per questo il ruolo dei leader comunitari o di quartiere, dei religiosi o dei community organizers è cruciale».


 

Se il salario minimo orario avesse seguito l’aumento della produttività del lavoro registrata negli Stati Uniti tra il 1979 e oggi sarebbe di 18 dollari l’ora. Invece il salario medio è di 10,89 dollari l’ora, e quello minimo rimane intorno ai 7,25. Secondo i calcoli dell’Economic policy institute, in 30 anni le paghe più basse sono scese del 5 per cento, mentre quelle più alte sono salite del 41 per cento. Negli Usa, nel 2013, i lavoratori a paga minima oraria erano il 4,3 per cento del totale, il 14 per cento è impiegato nel commercio, metà nella ristorazione.

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 Come Martin Rafanan, pastore luterano e coordinatore di uno dei gruppi di lavoro di Jobs with Justice in Missouri, che ci spiega come la crisi abbia avuto un effetto dirompente sul segmento basso del mercato del lavoro e come le condizioni di vita siano peggiorate «e rimangano intollerabili per molti lavoratori». «Grazie alle campagne di questi anni abbiamo ottenuto progressi nella circolazione delle informazioni sulle discriminazioni sul lavoro e anche diversi aumenti del salario minimo orario a livello locale. Ciò detto, il lavoro da fare per Fight for 15 è ancora molto». Il lavoro di Rafarian, che organizza la mobilitazione della società a sostegno di chi decide di scioperare, spiega bene una delle caratteristiche di queste campagne: «I lavoratori spesso non sono organizzati e così, quando scioperano o chiedono un aumento hanno bisogno della protezione della comunità: se la loro protesta produce rappresaglie di qualche tipo, parliamo con i manager o organizziamo proteste e boicottaggi. Io organizzo il clero locale per svolgere questo lavoro». Per cambiare la situazione in America, insomma, servono la mobilitazione di chi lavora, una pressione sulle imprese che pagano poco, e una pressione sulle istituzioni perché impongano delle regole. E poi serve informare, fare in modo che l’opinione pubblica si renda conto di quanto grande sia la questione e di quanto poco serva per cambiare le cose.

Workers Rally in New York for Pay Raises and Fair Labor Practices Workers Rally in New York for Pay Raises and Fair Labor Practices

Sono azioni che richiedono capacità organizzative, figure professionali specializzate e leader locali appassionati. Sindacalisti, preti e pastori, professori, giornalisti. Community organizers. I soldi, per pagare uno staff, si trovano: sono soldi spesi per fare politica, sebbene fuori dalle istituzioni. L’organizzazione è fondamentale: piccoli gruppi che puntano in una sola direzione, con dei tempi dati, degli obbiettivi da raggiungere, un calendario che dura mesi se non anni. «Su alcuni temi si lavora da almeno 5 anni e siamo riusciti a creare un’idea diversa di cosa significhi “basta!”», ci dice ancora Erica Smiley, «prima Occupy, poi la battaglia dei lavoratori dei Fast Food Forward, ora Fight for 15, sono momenti in serie, diversi, che hanno generato un unico contesto». Il sistema è lo stesso di altre campagne di lungo periodo, vincenti, come quella sul matrimonio tra persone dello stesso sesso, legalizzato in Massachusetts nel 2004 e poi in 38 Stati (tanto che a fine mese la Corte Suprema potrebbe sancirlo come diritto costituzionale), e come quella sulla marijuana, legale per uso medico o ricreativo in ventitré Stati.

 

Ora è giunta la volta delle battaglie legate al lavoro cercando di tenere insieme i più diversi settori: «A San Francisco stiamo cercando di ottenere diritti per chi lavora nel commercio: chiediamo cose tipo comunicare gli orari almeno due settimane prima e, se questi cambiano in corsa, prevedere soldi in cambio di flessibilità. In quella città abbiamo ottenuto una legge che tutela i lavoratori del commercio e stiamo lavorando per fare in modo che esistano strumenti di monitoraggio sulla sua implementazione. In Florida stiamo lavorando per tenere assieme le esigenze di aumento della paga dei dipendenti dei trasporti, con quelli dei pendolari sulle tratte, gli orari, le tariffe». A parlare è ancora Smiley. Funziona. Il rapporto 2014 di Jobs with Justice è significativo: leggi sulla malattia retribuita in Massachusetts, aumento della paga minima oraria per i 12mila assistenti domiciliari del Missouri, proteste davanti a 90 megastores di Wal-Mart per chiedere aumenti delle paghe e diritti sindacali. Nel suo discorso sullo Stato dell’Unione 2015, anche il presidente Obama si è fatto portavoce delle istanze di queste campagne chiedendo al Congresso di alzare la minimum wage, di introdurre maternità e malattia retribuite. Anche Hillary Clinton ha sostenuto che sarebbe il caso di arrivare a un minimo di 15 dollari l’ora.

(da Left numero 22)

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Dal web alla trincea in guerra contro lo Stato Islamico

«Mi hanno dato un visto per il Kurdistan, aspetti che lo tiro fuori. Non ha un valore formale, perché la regione curda è in parte dell’Iraq, ma può evitarmi qualche problema durante il viaggio. E poi ho un nuovo nome, da combattente». Albert è un soldato di vocazione. Basco con passaporto francese e tedesco, a 20 anni è entrato nella Legione straniera francese, per combattere a fianco dei marines a Bassora, Iraq del sud. L’esplosione di una mina nei pressi di Kuwait City, appena liberata dalle truppe della coalizione Nato, gli ha portato via tre amici. Oggi, 24 anni dopo quella “lunga battaglia nel deserto”, sta per partire di nuovo. «Ho lavorato dieci anni per Lufthansa e adesso lascio tutto. Casa, famiglia, lavoro. Vado per la libertà di tutti noi, la mia, la vostra. Perché stare a guardare significa essere complici». Albert, il nome è di fantasia, è fra le centinaia di uomini – e alcune donne – che hanno raggiunto negli ultimi mesi i combattenti curdi, yazidi e assiri in lotta contro lo Stato islamico in Siria e Iraq. Europei, australiani, americani, uniti da un nemico comune. Non raggiungono i numeri dell’Is, che secondo il dipartimento di Stato Usa può contare su 18.000 foreign fighters, 3.000 dei quali occidentali, eppure sempre più persone aspirano alla prima linea contro gli uomini di Al-Baghdadi. E tra loro ci sono anche alcuni italiani. Gli occidentali entrano in contatto con i gruppi armati locali, proponendosi come volontari in quella che il basco Albert definisce «una battaglia contro forze maligne e oscurantiste, come nella guerra civile spagnola. Una rivoluzione in cui voglio lasciare la mia impronta, a costo della vita». «Vede qui? È una linea di quasi mille chilometri». Ali punta il dito su una vecchia mappa del Kurdistan. Siamo nella sede dell’Ufficio informativo del Kurdistan in Italia, un’associazione, spiega Ali, «che lavora per favorire la cooperazione fra l’Italia e i curdi turchi e siriani». La linea a cui si riferisce è il confine sud del “grande Kurdistan” che, per il momento, esiste solo nei desideri di molti di questi cittadini senza patria. L’instabilità degli ultimi anni e l’avanzata dello Stato islamico hanno sanato alcune storiche divergenze fra i curdi di Siria, Turchia, Iran e Iraq, dando maggiore legittimità internazionale alle loro aspirazioni autonomiste. Proprio la lotta contro l’autoproclamato Califfato ha reso fondamentali le forze armate curde. «A sud del Kurdistan iracheno e di quello siriano, nel Rojava (Occidente in lingua curda kurmanji, ndr) – racconta Ali – i curdi sono faccia a faccia con l’Is. In Kurdistan si riescono a schierare fino a 200.000 uomini, ma con poche armi pesanti e i soldati sono impreparati». Il Califfato, invece, da queste parti può contare su un numero minore di combattenti, probabilmente 30-40.000, ma ha armi sofisticate e finanziamenti cospicui dalla vendita di petrolio. «Possono pagare i combattenti anche 1.000 euro al mese», con- ferma Ali. mappa_kurdistan

Jordan Matson, un ex marine del Wisconsin, è stato fra i primi stranieri a raggiungere le Unità popolari di protezione ( Ypg), braccio armato del Partito democratico unito del Rojava. Pare sia stato proprio Matson, diventato oramai una star dei social network, a lanciare nell’autunno del 2014 la pagina facebook “The Lions of Rojava”, i leoni del Rojava, una community che invita a «unirsi alle Ypg per mandare all’inferno i terroristi e salvare l’umanità». Ed è con i “leoni” di Matson che, lo scorso febbraio, Kevin decide di entrare in contatto: 26 anni e un passato da cacciatore di taglie per lo Stato del Virginia. Dopo averci pensato per mesi, Kevin ha deciso che «non era più possibile stare seduti a guardare in tv quello che l’Is faceva a persone innocenti, ad amici degli Usa come i curdi. Ho iniziato a provare rabbia e tristezza, fin quando un giorno mi è ribollito il sangue. Allora ho contattato i Lions, che hanno promesso di formarmi e mandarmi sul campo». Così, decide di arruolarsi: «Sto mettendo da parte i soldi necessari per partire entro l’estate», ci dice al telefono. «Ho già 5.000 dollari, ma solo il viaggio ne costa circa 1.600, e voglio che mi resti qualcosa per quando sarò sul posto, anche se le Ypg offro- no quasi tutto il necessario. Se serve venderò la macchina». L’aspetto economico è uno dei primi ostacoli per gli aspiranti combattenti, che negli Usa aprono spesso pagine di crowdfunding, ovvero micro finanziamento via internet, per sostenere spese di viaggio, kit medici, giubbotti antiproiettile e altro. Oltre ai “Lions of Rojava”, le Ypg – che conta- no fra i 20 e i 30.000 combattenti, di cui il 30 per cento sono donne – ricorrono in alcuni casi a intermediari locali, appartenenti alla diaspora curda, che danno indicazioni sul futuro ai combattenti e ne verificano l’adeguatezza. Come è successo ad Albert: «Mi hanno chiamato per un incontro ad Amburgo – racconta -, hanno controllato che non avessi precedenti penali, che fossi in salute e che avessi le motivazioni giuste». Per Kevin, invece, la selezione è avvenuta online: «Ho inviato materiale su di me e dopo un po’ mi hanno comunicato che rientravo nelle linee guida».


Nel Wisconsin si fanno chiamare Lyons of Royava. Vogliono mandare all’inferno i terroristi. E salvare l’umanità

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La fase del reclutamento è fra le più delicate sotto il profilo legale, persino più del fatto di combattere. Nonostante unirsi a forze armate straniere sia un reato in diversi Paesi, non si ha notizia fino a oggi di procedimenti contro combattenti rientrati in patria. Negli Usa, confermano diversi fighters, Fbi e Cia contattano chi parte e chi rientra per motivi di intelligence, mentre una nota del Home office del Regno Unito, già nel settembre del 2014, ricorda come «combattere in guerre all’estero non è automaticamente un reato, dipende dal tipo di conflitto e dalle attività svolte». Una posizione adottata anche da altri Stati europei. Persino l’Australia, spesso dura contro i combattenti, ha rilasciato dopo poche ore Matthew Gardiner, ex leader laburista rientrato in patria il 3 aprile dopo alcuni mesi di militanza nelle Ypg. In Italia reclutare è più rischioso: il codice penale prevede fino a vent’anni di carcere, e alcuni degli intermediari contattati usano nomi fittizi, proteggendosi sul web dietro le sigle di forum e communities pro-Kurdistan. Così avviene per molti dei combattenti, che già prima di partire per il Rojava ricevono nomi come Shoresh, Heval, Berxwedana, ovvero rivoluzione, compagno e resistenza in lingua kurmanji.

Il viaggio è altrettanto delicato. «La Turchia va assolutamente evitata, così come la compagnia Qatar Airlines», sottolinea Albert. «Bisogna partire da Svezia o Germania, passare dalla Giordania e atterrare a Sulaiymanyah, nel Kurdistan iracheno. Qui ti aspettano altri combattenti occidentali delle Ypg, che ti portano nel Rojava passando da Erbil, dove hanno una base di addestramento». Ulteriori dettagli, per chi parte dagli Usa, sono forniti da un documento trasmesso a Left da alcuni aspiranti combattenti. Si tratta della risposta data da Peshmerga Frame – sigla che sta per “programma di registrazione, valutazione e gestione degli stranieri” – a chi chiede di unirsi alle truppe Peshmerga, ovvero all’esercito regolare del Governo autonomo del Kurdistan, regione dell’Iraq riconosciuta dalla costituzione di Baghdad. Secondo la comunicazione, dagli Usa si deve partire da Chicago con Royal Jordan Air, facendo sca- lo in Giordania, senza portare con sé elmetti o giubbotti antiproiettile, non autorizzati alla dogana e acquistabili in Kurdistan. Per il resto, 500-1.000 dollari sono sufficienti per mantenersi a lungo.

GALLERY | I volti dei foreign fighters

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Apparentemente più strutturati del Ypg sono i peshmerga, cioè “coloro che guardano la morte”, che contano 150-200.000 soldati, supportati secondo diverse fonti da alcune decine di volontari occidentali. Fra questi Ryan Gueli, unico contatto ad autorizzare l’uso del nome. Veterano della seconda guerra irachena, Gueli ha raggiunto i peshmerga a febbraio 2015: «Ricordo quel giorno – scandisce -, Is aveva forze superiori, ci localizza- va tramite droni, con tecnologie degne della Nato. Ci hanno accerchiato e un’esplosione mi ha fatto volare di diversi metri. Mi sono messo a correre con il sangue che colava lungo la coscia, in mezzo alle pallottole. Sono riuscito a buttarmi dietro un terrapieno. Pensavo fosse la fine, quando due soldati curdi sono venuti a prendermi, rischiando la vita». Insieme a Gueli sono partiti anche dieci suoi colleghi americani. «Avendo esperienza militare eravamo usati per operazioni speciali a cui i Peshmerga, che arrivano in battaglia dopo 20 giorni di addestramento, non sono preparati. Come tutti, mangiavamo riso e fagioli, e dormivamo per terra in baracche. L’esercito Usa in confronto è una vacanza». Un concetto confermato anche dal comunicato del Frame, che descrive la guerra contro come qualcosa di «simile al campo di battaglia della Prima Guerra Mondiale unito al Vietnam. Si avanza costruendo terrapieni e si viene colpiti da nemici invisibili, che appaiono e scompaiono da tunnel. Is sa come combattere, ha tiratori scelti e armi nuove». Oggi Gueli, dopo le prime cure in Kurdistan – «ricevute gratuitamente e con grandi pre- mure», sottolinea – è rientrato negli Usa per una riabilitazione fai da te, «visto che non ho l’assicurazione sanitaria». Ha molti anni di meno ma la stessa convinzione Robert, 16enne americano con il sogno di «fare il soldato per aiutare la gente. I Lions of Rojava mi hanno detto che per partire con loro dovevo avere 18 anni, allora ho sentito direttamente le Ypg, che invece accettano anche 17enni. Poi il Peshmerga Frame, che mi ha risposto. Spero di partire presto».


Robert, 16 anni: «I Lyons mi hanno detto che per combattere devo averne 18. Le Ypg invece mi hanno accettato. Spero di partire presto»

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Sono diversi i combattenti stranieri an- che tra le milizie cristiane assire, nate per difendere villaggi attaccati da Is in Siria e Iraq e in gran parte riconquistati da Ypg e peshmerga. Emanuel Khoshaba Youkhana, segretario del Partito patriottico assiro, a cui fa capo il gruppo Dwekh Nawsha (gli “auto-sacrificatori” in siriaco), spiega che «per ora abbiamo dieci volontari stranieri, di diversi Paesi, su 200 uomini armati, stanzionati a Baqofah, vicino a Ninive. Ogni giorno però ci arrivano decine di richieste, ormai ne ho accumulate 800. Ma non possiamo accettarle, non abbiamo posto né mezzi per sostenere queste persone». La crescita delle domande di volontari è confermata dagli addetti stampa di Ypg, che pur non rivelando il numero di stranieri presenti a oggi – circa 100 secondo Bbc – hanno garantito che «entro fine anno saranno 500, fra cui diversi italiani». Di un solo italiano, il marchigiano Marcello Franceschi, militante con le Ypg a Kobani, si conosce però fino ad ora l’identità.
La quasi totalità di chi parte ha già espe- rienza militare e molti, come Ryan Gueli, sono veterani delle guerre in Iraq e Afghanistan. «Nella mia unità operativa – conclude Gueli – in un solo mese gli stranieri sono raddoppiati. Sa, a noi americani piace fare la guerra, e poi non serve l’autorizzazione di un governo per battersi contro un male che minaccia tutto il pianeta». Mentre i raid aerei e gli scontri sul terreno continuano – lasciando sul terreno morti da entrambe le parti, tre dei quali fra i combattenti stranieri delle Ypg – su facebook crescono gli “how do I join?” (Come posso unirmi?) di centinaia di perso- ne, spesso ignare delle divergenze politiche e delle lotte di potere tra gli stessi gruppi con cui si battono.

(Da Left numero 13)

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Chi ha paura dei vaccini?

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Le vaccinazioni non provocano l’autismo. L’ennesima conferma è venuta da Anjali Jain e dai sui colleghi del Lewin Group, una società americana indipendente specializzata in ricerca medica pediatrica e consulenza sanitaria.
L’equipe della dottoressa Jain ha analizzato 95.727 bambini che, tra il 1997 e il 2012, sono stati vaccinati contro il morbillo, la parotite e la rosolia (Mpr). Il campione di bimbi comprende anche 1.929 soggetti (il 2,01% del totale) particolarmente a rischio, poiché fratelli e/o sorelle minori di un altro bambino autisti- co. I risultati della ricerca, pubblicati ad aprile sul Journal of American Medical Association, hanno dimostrato che non c’è alcuna relazione tra il vaccino MPR e lo spettro dei disordini autistici (Asd), che con un termine riduttivo viene generalmente chiamato autismo. Neppure tra i bambini a più alto rischio, puntualizzano Anjali Jain e i suoi colleghi.
Tutto era iniziato nel 1998, quando un medico inglese, Andrew Jeremy Wakefield, pubblicò su un’altra autorevole rivista medica, The Lancet, i risultati di una sua ricerca che invece mostravano una correlazione tra il vaccino Mpr, l’autismo e alcuni disturbi gastrointestinali. Per quattro anni i colleghi di Wakefield in tutto il mondo hanno cercato una conferma di questi risultati. Senza successo, com’è spiegato in un articolo pubblicato nel 2002 su British Medical Journal. Due anni dopo Brian Deer, giornalista del Sunday Times, avanzò l’ipotesi che Wakefield fosse non solo in palese conflitto d’interessi, ma avesse addirittura inventato di sana pianta i suoi dati. Nel 2007 il General Medical Council di Sua Maestà britannica avviò un’inchiesta che ha poi dimostrato la fondatezza di tutte le accuse nei confronti di Wakefield. L’uomo è stato così espulso dall’ordine dei medici del Regno Unito e i suoi lavori ritirati. Mentre una lunga serie di ricerche – ultima quella di Anjali Jain – ha dimostrato che i bambini cui viene somministrato il vaccino Mpr non corrono alcun rischio aggiuntivo di diventare autistici.
 Ma la mela avvelenata era stata gettata sul tavolo: la bugia di Wakefield ha raggiunto il grande pubblico e convinto moltissimi genitori, e la copertura delle vaccinazioni contro il morbillo, la pertosse e la rosolia sono diminuite in tutto il mondo occidentale. In Inghilterra come negli Stati Uniti. Come in Italia.
La faccenda è delicata. L’Oms (Organizzazione mondiale di sanità) ritiene che per evitare in futuro il rischio di epidemie di morbillo, parotite e rosolia occorra vaccinare almeno 95 neonati su 100. Obiettivo fatto proprio dal- le autorità sanitarie europee e italiane. In Italia siamo ancora lontani dal traguardo: nel 2013 è stato somministrata la prima dose del vaccino Mpr ad appena l’88,1% dei neonati e negli ultimi anni, secondo i dati del Ministero della Salute, la percentuale tende a diminuire. Dopo aver toccato un massimo del 90,6% nel 2010 la copertura è progressivamente scesa di 2,5 punti percentuali. Insomma, sono sempre più i genitori che non vaccinano i loro figli, non essendo la vaccinazione di fatto obbligatoria. E il motivo è la crescente diffidenza unito a un certo senso di sicurezza. Perché far correre rischi, per quanto piccoli, al mio bambino se queste malattie sono ormai rare e comunque facilmente curabili?
La mela avvelenata di Wakefield sta producendo i suoi effetti. Un dato sorprendente: la diffidenza verso i vaccini sta crescendo soprattutto nelle fasce più ricche e acculturate della popolazione. Non è un caso che la minore copertura Mpr, con appena il 68,9% dei neonati, nel 2013 sia stata registrata nella ricca e colta provincia di Bolzano. Questo atteggiamento non è a sua volta privo di effetti sanitari e sociali. Negli Stati Uniti sta facendo molto discutere un’epidemia di morbillo, la peggiore degli ultimi venti anni, che sta interessando la California. Nei primi quattro mesi del 2015 – dal primo gennaio al 24 aprile – i Centers for Diseases Control and Prevention (Cdc) degli Stati Uniti hanno registrato 166 casi di persone ammalate di morbillo nell’intera confederazione. Ebbene 117 di quei casi, il 70,5%, si sono verificati nel- lo stato californiano, a Disneyland e dintorni. Un’epidemia che ha avuto inizio col ritorno a casa di un cittadino americano da un viaggio in Estremo Oriente, probabilmente nelle Filippine o in Indonesia, dove il morbillo è ancora endemico. Questo cittadino non era vaccinato, e ha così avviato il contagio tra i non immunizzati.
Va notato che quasi tutte le recenti epidemie di morbillo negli Usa si siano sviluppate in stati come la California, Arizona e Illinois dove la copertura vaccinale non supera l’86% e scende in alcuni casi al 50%. Certo, i numeri americani sono piccoli e la malattia è facilmente curabile nei paesi occidentali. Ma il rischio di conseguenze gravi per qualcuno dei contagiati non è affatto da escludere.
Infatti, il Paramyxovirus, l’agente infettivo del morbillo, è particolarmente aggressivo: Stephen Cochi, responsabile della divisione immunizzazione globale dei Cdc, considera il morbillo la malattia più contagiosa conosciuta. Ed è anche una malattia letale: secondo l’Oms delle 250.000 persone contagiate nel 2013 in tutto il mondo, il Paramyxovirus ne ha uccise ben 145.700 (il 58%). La gran parte dei quali, bambini di età inferiore a 5 anni. Un numero che sarebbe sicuramente maggiore, se la maggior parte dei bambini che vengono alla luce ogni anno sul pianeta, non ricevesse almeno una dose di vaccino.
Per fortuna, la campagna di vaccinazione ha salvato in 14 anni 15,6 milioni di vite umane in tutto il mondo. Stando ai dati dell’Oms, la copertura dei neonati è passata dal 72% dell’an- no 2000 all’86% del 2013, mentre nello stesso arco di tempo le morti da morbillo sono sce- se del 75%. Una riduzione drastica che lascia ben sperare. L’Oms confida che, continuando la campagna sarà possibile eradicare del tutto la malattia entro il 2020.
A stemperare l’ottimismo dell’Oms ci pensa però la ricca e colta Europa. Tra ottobre 2013 e settembre 2014 secondo lo European Centre for Disease Prevention and Control, in Europa sono stati registrati ben 4.735 casi contro i 644 degli Stati Uniti: oltre sette volte di più. E chi è il Paese europeo col più alto numero assoluto di contagiati? Ma noi, l’Italia. Seppur al riparo dal rischio epidemia, con 2.060 casi (il 43,5%) primeggiamo in classifica, seguiti a distanza da Olanda (895 casi) e Germania (375 casi). La situazione europea rappresenta un’anomalia rispetto al resto del mondo. Nei paesi asiatici e africani in cui il virus è più diffuso sono i bambini al di sotto dei 5 anni, non vaccinati, a essere contagiati dal Paramyxovirus. In Italia e in Europa il virus contagia soprattutto persone giovani, tra i 20 e i 30 anni: ovvero quelli che, nati venti o trenta anni fa, non sono stati vacci- nati. Ora questi giovani non solo si ammalano e corrono dei rischi in proprio, ma diffondono la malattia, facendo correre rischi ad altri, e contribuendo così a sostenere una patologia che potrebbe essere totalmente sradicata.Il Paramyxovirus si trasmette solo da uomo a uomo, essendo sconosciuto tra gli animali non umani. Basterebbe vaccinare tutti per eliminarla.


La diffidenza verso i vaccini cresce soprattutto nelle fasce più ricche e acculturate della popolazione dove aumentano i casi di contagio da morbillo. Il primato è italiano

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L’Unione Europea si è data come obiettivo una copertura vaccinale del 100% della popolazione. Ma oggi solo 14 Paesi dell’Unione superano la soglia critica del 95%. In Italia siamo appena all’88%. Il morbillo non è che uno dei casi in cui la mancata prevenzione genera danni inaccettabili e tangibili. Secondo l’Istituto Superiore di Sanità il falso allarme nei mesi scorsi relativo al vaccino antinfluenzale Flaud, ha determinato un calo delle vaccinazioni compreso tra il 25 e il 30% e così oggi registriamo un aumento delle morti per influenza di alcune centinaia di persone: un danno enorme e inaccettabile.
C’è, dunque, molto da lavorare per creare una solida cultura della prevenzione. Occorre una grande opera di sensibilizzazione di massa. È una sfida anche di comunicazione: come convincere che le vaccinazioni offrono grandi vantaggi per tutti e pochi rischi per ciascuno?

(da Left numero 17)

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/pietrogreco1″ target=”on” ][/social_link] @pietrogreco1

Facebook piglia tutto

La sera in cui Facebook dichiarò guerra agli Stati Uniti tra gli argomenti di tendenza sul sito del social network troneggiava, inamovibile, la finale dell’ultima edizione di The Voice. Pareva che i 250 milioni di utenti statunitensi del sito non fossero interessati ad altro e non discutessero di altro, almeno a giudicare dalla homepage in cui erano mostrati,   in evidenza, i trending topic, cioè gli argomenti di tendenza del momento per guidare fin da subito gli utenti verso i temi   più dibattuti. Ovviamente, le maggiori testate nazionali e internazionali avevano coperto la notizia, non appena la dichiarazione di guerra fu pubblicata con un post messo in evidenza sulla pagina del padrone di Facebook, Mark Zuckerberg. Nessuna “bucò” la notizia. E del resto, come avrebbero potuto ignorare un fatto così eclatante come una dichiarazione   di guerra alla prima potenza mondiale? Ognuno a modo suo aveva cercato attraverso la propria pagina Facebook di dare la maggiore copertura possibile, con dirette audio o video, aggiornamenti in tempo reale, schede   di approfondimento, intervento di esperti di   ogni genere, dalla politica estera all’economia, dalla sociologia a internet. Eppure la notizia sembrava non filtrare al di fuori delle pagine Facebook delle televisioni, delle radio e dei giornali verso i profili degli utenti, su altre pagine, in gruppi di discussione. Le interazioni con i diversi post erano basse, bassissime. Pochi like, nessuno share, nessun commento.

I Facebook page manager delle diverse testate faticavano a capire cosa stesse succedendo e ogni sforzo di produrre post accattivanti, arrivando perfino a cercare di integrarsi nel flusso di notizie legate alla   finale di The Voice, era vano. Verso le 22.40 uno studente di Akron, nell’Indiana, che aveva sviluppato un algoritmo per monitorare le prestazioni di alcune pagine notò un andamento anomalo della pagina CNN: improvvisamente le interazioni e le impressioni di pagina erano crollate vicino allo zero. Incuriosito, aprì la pagina e, avviando il video della diretta che dava conto di quanto accadeva in seguito alla dichiarazione di guerra, decise di condividere il link sulla propria bacheca ed ebbe l’account sospeso per alcune ore, senza particolari spiegazioni. Più o meno contemporaneamente, un utente di Buffalo apriva la pagina del New York Times alla ricerca di un link che aveva visto passare sulla propria timeline alcune ore   prima e si accorse così di quello che stava succedendo. Non riuscendo, per motivi che non capiva, a condividere sulla propria bacheca uno degli articoli pubblicati dal quotidiano, decise di scrivere un post di suo pugno e aprì un gruppo di discussione a cui invitò i suoi più cari amici   per commentare insieme quanto stava accadendo. Il gruppo fu chiuso dopo pochi minuti per “violazione delle condizioni d’uso” e gli account di tutti i partecipanti sospesi. Lentamente, anche i post dalle pagine delle diverse testate iniziavano a scomparire. O meglio, non venivano censurati, né cancellati, ma l’algoritmo che regola quale contenuto appare e in che   modo su una pagina da tempo aveva preso a privilegiare i post con molte interazioni, ponendoli bene in evidenza sulla pagina,   a discapito di quelli meno seguiti, quindi meno interessanti. Quindi le notizie sull’imminente guerra tra Facebook e gli Stati Uniti finivano per scivolare sempre più in basso e sparire dalle pagine. Meno erano visibili in apertura, meno erano viste e più in basso scorrevano. Non c’era salvezza per una notizia condannata dall’algoritmo.

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© Illustrazione Antonio Pronostico

Il Facebook page manager del Washington Post aveva tentato anche di lanciare un’inserzione a pagamento, ma la richiesta era rimasta in sospeso e non veniva né approvata né respinta, mentre intanto il post scivolava nel limbo dei post pubblicati e ritenuti non interessanti. Era il decano tra i suoi colleghi e ricordava bene i tempi in cui la testata per cui lavorava aveva ancora un proprio sito internet, un account su Twitter, un canale su Youtube. Poco alla volta le cose erano cambiate. La possibilità di caricare i video direttamente su Facebook, aggiungendo call to action e tag, la relativamente maggiore facilità nel condividerli da parte dei lettori sulle proprie bacheche, lo spazio privilegiato che l’algoritmo di Facebook dava loro nel flusso di aggiornamenti aveva reso inutile il canale Youtube, che era stato progressivamente abbandonato e trasferito l’archivio sulla pagina   Facebook. Avevano abbandonato Twitter solo perché Facebook lo aveva comprato, ne aveva implementato alcune funzioni (tra cui quella dei trending topic) e lo aveva chiuso. Ricordava ancora la drammatica riunione in cui la redazione decise di chiudere il sito internet della testata. Da mesi, ormai, le visite al sito erano una percentuale infinitesimale rispetto a quelle della pagina Facebook e non sempre un link con un’alta interazione su Facebook si traduceva in effettive visite   all’articolo sul sito.

La tendenza che voleva, già a metà degli anni ’10 del secolo, i giovani informarsi sui social network era andata accentuandosi al punto che ormai nessuno   sapeva più che Washington Post, New York Times, Cnn e le altre corazzate dell’informazione avevano un proprio sito internet. E del resto, era l’idea stessa di “internet” ad essere opaca per la maggior parte delle persone, in particolare quelle nate dopo il 2000. Per molti di loro era normale dichiarare di essere abituali utilizzatori di Facebook, ma di non usare mai internet. In effetti, che bisogno avevano di uscire da Facebook, quando lì dentro potevano condividere   esperienze con i propri amici, comunicare con loro, con messaggi personali o di gruppo smettendo di usare l’email, informarsi,   perché l’informazione arrivava a loro senza il bisogno di andare a cercarla? Per i più giovani internet semplicemente non esisteva,   esisteva Facebook.   Il digitale aveva rappresentato una rivoluzione profonda nel modo di produrre, distribuire e consumare informazione. I ruoli avevano perso definizione: non esistevano più i produttori di contenuto da un lato e i fruitori dall’altro. Ciascuno era l’una e l’altra cosa allo stesso tempo. Modi e tempi di produzione e fruizione delle notizie erano rapidamente cambiati: si leggeva, si scriveva,   si commentava, si creavano relazioni tra   contenuti ovunque, da ogni genere di dispositivo, in qualsiasi momento. Questa rivoluzione fu così rapida che persino i più preparati e i più audaci faticavano a trovare nelle proprie sperimentazioni su forme e linguaggi   dei modi per trarre il profitto necessario a permettere alla macchina di continuare a girare.

Ed è comprensibile, quindi, che ad un certo punto l’offerta di Facebook – che aveva un disperato bisogno di contenuto per vivere,  e possibilmente contenuto di qualità – si fece così allettante che gli editori non poterono dire di no. Facebook era il luogo in cui centinaia di milioni di persone vivevano quotidianamente. Facebook era ormai diventato internet. Cedere alla tentazione di far diventare Facebook la propria casa in cui pubblicare in esclusiva   contenuti apparve come una necessità e i vantaggi sembravano di gran lunga compensare i limiti di una tale scelta. C’era chi sosteneva la necessità di sottomettere la scelta di aderire all’accordo all’impegno da parte di Facebook di fornire ai produttori di contenuto i dati degli utenti, con la consapevolezza che nel mondo digitale il valore deriva dalle relazioni e che nulla, come conoscere la propria audience, permette di aumentare il valore del contenuto che si produce. In realtà nessuno aveva così tanto potere da dettare condizioni a Facebook e nel giro di pochi anni tutti i maggiori organi di informazione avevano chiuso i propri siti, limitandosi a curare la propria presenza su Facebook, pubblicandovi articoli e inchieste.

A questo pensava il Facebook page manager del Washington Post quella sera in cui la più grande azienda al mondo dichiarava guerra allo Stato più potente e nessuno, a parte gli   addetti ai lavori, ne era al corrente. Fissando la parete di fronte a sé, indossando i suoi speciali occhiali Facebook, poteva immergersi nella   visione della finale di The Voice, circondato dai   suoi amici che commentavano in tempo reale quanto accadeva. Ma nessuno di loro sapeva cosa stava succedendo nel mondo, appena sfilati gli occhiali, e nessuno avrebbe potuto saperlo. Non c’era modo di rompere il muro creato dall’algoritmo, che decideva quali notizie sarebbero state lette e quali ignorate. Non esisteva più un luogo, fuori da Facebook, in cui distribuire contenuto, incontrare persone, discutere, a parte piccole e sparute comunità a cui Facebook rendeva la vita impossibile obbligandole   a usare parametri forniti da Facebook per ogni funzione. Era diventato impossibile non essere cittadini di Facebook. Per Facebook si lavorava, non percependo alcun compenso, producendo contenuto. Dentro Facebook si viveva, gestendo ogni aspetto delle proprie relazioni attraverso la piattaforma, il profilo rappresentava la propria carta di identità, fornendo ogni genere di informazione su di sé. E Facebook, l’azienda totale e totalizzante, si era fatto Stato e allo Stato aveva deciso di dichiarare guerra. Perché non erano bastati decenni di ignavia e di colpevole inazione dei governi, il liberismo voleva più libertà e l’unico modo per ottenerla era sostituirsi allo Stato, sbarazzarsene e riassumere in sé ogni potere. E quindi la guerra, improvvisa, inaspettata, incomprensibile. Ignorata, perché nessuno era più in condizione di sapere. Una guerra già vinta in partenza, da decenni, che per fortuna nessuno avrebbe dovuto combattere con le armi, dovendo prima capire da quale parte avrebbe dovuto stare. Il Facebook page manager del WashingtonPost spense i suoi occhiali e rimase solo nella redazione deserta. Mentre là fuori nessuna guerra stava per essere combattuta ripensò al giorno in cui, anni prima, durante quella riunione di redazione, fu votato di contribuire alla sconfitta, in quella sera di anni dopo.

(da Left numero 13)

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Gli anni 90, i telefilm e il nuovo sesso delle millennials

In principio fu Sex and The City. E fu una vera e propria rivoluzione. C’erano New York, gli accessori fashion e i locali altrettanto alla moda. Soprattutto c’era il sesso, raccontato per la prima volta in tv in modo schietto e diretto. È il 1998 e sul piccolo schermo, grazie alla serie lanciata da HBO, i personaggi femminili assumono un’altra dimensione: sono donne libere, emancipate e in carriera. Diventano reali, accattivanti, media friends e, in fondo, non sono poi così diverse da noi che stiamo a casa sedute sul divano a guardarle. Le quattro protagoniste – Carrie, Miranda, Charlotte e Samantha – lavorano, amano, sperimentano, piangono, si confidano, si consolano. Tra mille peripezie mostrano cose che, alla fine degli anni Novanta, evidentemente ancora non erano tanto ovvie: essere single non significa essere delle zitelle sfigate; una donna può non saper cucinare, lavare, pulire e stirare; parlare di autoerotismo, vibratori, ménage à trois non è un tabù; fare sesso può essere qualcosa che va al di là dell’amore romantico e, soprattutto: essere scarica- te può essere un dramma, ma non è mai una tragedia.

«Benvenuti nell’era dell’anti-innocenza: nessuno fa Colazione da Tiffany e nessuno ha relazioni da ricordare; facciamo colazione alle sette e abbiamo storie che cerchiamo di dimenticare il più in fretta possibile. Cupido ha preso il volo dal condominio»

È con queste parole che Carrie Bradshaw, ci accoglie nella sua scintillante Manhattan.
Nei primi anni Duemila Sex and The City, con le sue morali antiromantiche e le sue, altrettanto ciniche pillole di saggezza, è diventato un manuale di educazione sentimentale per le ragazze moderne e un galateo sessuale anche per le generazioni successive.

 

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Dopo il successo delle avventure di Carrie & co i palinsesti hanno cominciato a popolarsi di serie tutte al femminile, meno fortunate e graffianti dell’originale, ma sempre intenzionate a parlare con la stessa schiettezza di cosa significa essere donne. Ci sono stati Cashmere Mafia e Lipstik jungle, dove le protagoniste, che qualcuno definirebbe scabrosamente “con le palle”, tentano di coniugare vita sentimentale e carriera senza rinunciare a nulla; poi sono arrivati Mistress, Carrie’s diaries, il prequel che racconta la vita della Bradshaw ventenne, e finalmente Girls. A quasi vent’anni dalla messa in onda del primo episodio di Sex and The City, le cose sono molto cambiate. O meglio, sono le ragazze, con le loro vite sentimentali, a essere cambiate.

In Girls, a differenza di Sex and The City, non c’è traccia di quell’identità collettiva femminile che aveva lottato per l’affermazione di uno stile di vita diverso e manca totalmente il confronto fra identità maschile e femminile. La protagonista Hannah Horvath – interpretata da Lena Dunham una specie di enfant prodige che a soli 25 anni è sceneggiatrice, attrice, regista della serie e scrittrice di culto – non ha niente a che vedere con Carrie. È goffa, brutta, in sovrappeso, concentrata su se stessa, veste solo abiti vintage da mercatino dell’usato, non frequenta posti alla moda e il più delle volte la vediamo bighellonare sciatta in mutande per casa per casa o  mentre mangia junk food in pigiama. Ad Hannah e alle sue amiche capita di incontrare dei “Mr. Big”, ma non li trovano interessanti e li catalogano immediatamente come non attraenti. I Mr. Big infatti sono il prodotto di un’altra generazione, parlano un linguaggio diverso, e con “le ragazze” si capiscono a fatica. Se per Carrie erano scapoli d’oro, capaci di far innamorare anche la single più accanita, in Girls diventano semplicemente degli sfigati con un bel appartamento. L’educazione sentimentale di Hannah oscilla tra continui dubbi e incertezze, tra l’impegno e la fuga, tra l’amorale e il bigotto. Si mostra un mondo fatto di individualità e stranezze, irregolare e non convenzionale anche quando si parla di sesso e emozioni, al punto che per le protagoniste, a differenza di Carrie, è impossibile razionalizzare e trovare una qualche massima o un qualsivoglia galateo amoroso a cui aggrapparsi per definire la situazione e sapere come agire. A guidare le millenials nell’intricato groviglio dei sentimenti è l’istinto del momento e, se bisogna riconquistare il ragazzo che in quell’istante si è convinte di amare, ogni remora o pudore si cancella in un attimo. Tanto il tempo scorre veloce e le cose si dimenticano in fretta. Tutto passa e allora chi se ne frega se si manda un messaggio di troppo, ci si trasforma in stalker o ci si rende ridicole (vedi ad esempio Hannah che, nel cuore della notte, corre sotto casa di Adam vestita, o svestita a seconda dei casi, nei modi più assurdi).

 

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In Girls le protagoniste sono costantemente in preda al caos, alla paura di essere soli e di non essere più libere. Come se le ragazze del nuovo millennio avessero studiato e imparato le regole sui volumi della Bradshaw e ora si trovassero scisse tra la teoria e la pratica. Costrette a viversi giorno per giorno quello che accade, magari trovandosi a specificare, con un revival di bigottismo 2.0: «Non sono quel tipo di ragazza!», che, non a caso, è anche il titolo dell’ultimo libro della Dhunam. Nuova icona di un’intera generazione che non sa bene dove andare e passa la vita a “fare cose” e gironzolare. In pigiama o in mutande, dopo tutto è lo stesso.

(da Left numero 8)

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