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Hillary e le altre: perché parliamo tanto di cosa fanno le donne al potere?

Hillary Clinton corre per la successione a Barack Obama. E tutti a salutare quella che potrebbe essere (ma forse no, finendo per consegnare il governo alla destra americana) la prima donna alla guida degli Usa. È quasi una panacea per la questione femminile, Hillary, e poco importa se ciò avvenga sulla scia del marito Bill e col sostegno di Wall Street. Il valore è simbolico. Per le classi dominanti sono da celebrare le donne che acquisiscono, in perfetta continuità politica, ruoli storicamente appannaggio degli uomini. Fu su Margaret Thatcher che i conservatori puntarono per piegare le Unions e prosciugare il welfare state inglese, la cancelliera Angela Merkel è la depositaria del SuperEs dell’area Euro, per non parlare di Christine Lagarde, direttrice del Fondo monetario internazionale. Anche in Italia, con Matteo Renzi, è così.

Quante volte ha sventolato, il premier, le sue otto ministre, «l’altra metà del Consiglio dei ministri». Le italiane non hanno mai avuto accesso alla presidenza della Repubblica e del Consiglio, al ministero dell’Economia, alla guida della Corte costituzionale, ma vuoi mettere il passo in avanti? Le governatrici oggi sono Debora Serracchiani e Catiuscia Marini, questa ricandidata in Umbria nella tornata amministrativa che vede in pista altre due renziane: in Veneto l’europarlamentare Alessandra “ladylike” Moretti e in Liguria l’assessore alla Protezione civile Raffaella Paita, vincitrice delle contestate primarie contro Sergio Cofferati e indagata per la mancata allerta dell’alluvione di Genova. E così la presenza femminile distrae anche dai problemi etici, su cui il partito di Renzi non ha certo “cambiato verso” candidando in Campania Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per abuso d’ufficio. E chissà poi perché, nonostante governatrici e ministre, il Belpaese è al 69esimo posto nel Global gender gap report, la classifica del World economic forum che intreccia quattro parametri: politica, economia, salute e scuola. Per l’aspettativa di vita e l’istruzione la situazione è quasi in equilibrio, ma il divario resta netto nel mondo del lavoro: gli uomini sono il 71 per cento dei dirigenti contro il 29 delle donne e, in media, guadagnano 2.000 euro in più all’anno. Scatena spesso il sarcasmo di avversarsi ed ex alleati di coalizione, la presidente della Camera Laura Boldrini quando si impegna per la diffusione del linguaggio sessuato e denuncia le pubblicità che mercificano il corpo o insistono con gli stereotipi di genere.

Pensate che gli attacchi anche violenti che subisce la terza carica dello Stato dipendano dal suo supposto carattere ieratico? E se invece contassero qualcosa i meccanismi con cui le élite finanziarie selezionano lo streaming di informazioni per l’Homo consumens – per usare l’espressione coniata da Zygmunt Bauman? Se Hollywood spesso riproduce in forme edulcorate l’archetipo patriarcale, la televisione, qui appesantita dalla degenerazione berlusconiana, si conferma formidabile vettore di modelli diseducativi. La subcultura sessista si nutre poi di fenomeni nazionalpopolari come il calcio: basti pensare alla ghettizzazione del football femminile e alla notiziabilità delle atlete che finiscono nelle fotogallery dei più grandi siti di informazione quasi esclusivamente per fattori estetici.

Le statistiche danno invece ragione a Laura Boldrini. Secondo un’indagine Ocse (Programme for international student Assessment, 2015) ancora oggi le italiane in media svolgono lavori casalinghi per 6,7 ore al giorno contro le 3 degli uomini. La ricerca sottolinea quanto le ragazze di 15 anni ottengano già risultati migliori dei coetanei in abilità di lettura (con un punteggio di 510 contro 464) e scientifica (490 a 488), ma di questo capitale si può fare a meno, se la legge Fornero, ad esempio, applicata e non modificata, cementa (tra le altre cose) lo squilibrio nelle responsabilità familiari. Il ministro del governo Monti (una donna, ma al solito non progressista) ha introdotto, per il padre il congedo parentale obbligatorio. Ma è di un giorno nei primi cinque mesi dalla nascita del figlio, allungabile fino a tre, sottraendoli però al monte-giorni della madre. In Norvegia – per dire – Paese pioniere vent’anni fa, il congedo parentale è di quarantasei settimane a stipendio pieno, di cui dodici riservate al padre. Siamo in ritardo anche nel potenziamento di asili nido pubblici, nella deducibilità dei costi per baby sitter e badanti.

Politics - The Cabinet - 10 Downing Street Indira Gandhi brundtland2 Germany v Argentina: 2014 FIFA World Cup Brazil Final

 

(Dall’alto verso il basso: Margaret Thatcher e il suo governo, Indira Ghandi, Gro Harlem Brundtland, Dilma Roussef e Angela Merkel allo stadio)

E certo non aiuta la parità, la precarizzazione permanente del Jobs act. C’è poi il mondo delle imprese. In Europa, secondo i dati della Commissione, la presenza femminile nei consigli di amministrazione delle Spa in cinque anni è aumentata dall’11,9 al 20,2 per cento. Ad alzare la media sono la Norvegia, che ha raggiunto il 40, la Francia e la Finlandia che sono al 25. Spagna e Portogallo, invece, la abbassano, restando sotto il 10 per cento. L’Italia fa registrare un dignitoso 23 per cento, e lo fa grazie alla legge firmata dalle deputate Lella Golfo (Pdl) e Alessia Mosca (Pd) che stabilisce l’obbligo del minimo di un quinto di donne nei cda al primo rinnovo, un terzo per i due seguenti. Si sono anche dimezzate (al 7,9 per cento contro il 16,2 del 2010) le consigliere legate da rapporti direntela con uomini di potere: figlie di, mogli di, cugine di. Le donne in politica sono di più ma la riduzione del gap di genere si è realizzata per mezzo delle quote. Il Pd, ad esempio, ha introdotto il doppio voto di genere alle primarie, portando in Parlamento il 37,9 per cento di deputate e senatrici. Il sistema però consta di una gabbia che perpetua nomine correntocratiche e capilista bloccati nelle liste elettorali, le donne (come gli uomini) vengono cooptate solo se aderenti a un preciso schema in grado di assorbirle e, ove possibile, strumentalizzarle. I piccoli avanzamenti sono rivendicati da un marketing padronale che vuole significare la concessione dall’alto di un diritto naturale sancito in Costituzione. Matteo Renzi, sin da quando amministrava Firenze, compie scelte simboliche che il presenzialismo mediatico gli permette di capitalizzare.

Prima di lui però la sinistra non ha certo fatto meglio, perché ha conosciuto una sola leader di partito, Grazia Francescato dei Verdi. Già fondatrice di Effe, presidente del Wwf e animatrice del movimento new global, Francescato ereditò una base elettorale minima. In Germania – tanto per fare un paragone – gli ambientalisti e la Die Linke, guidati da Claudia Roth e Katja Kipping in coabitazione con pari grado uomini, superano entrambi l’8 per cento. In Francia, la socialista Ségolène Royal nel 2007 contese l’Eliseo a Sarkozy e l’anno seguente sfiorò la segreteria del partito per una manciata di voti. Nel Regno Unito, in vista delle politiche del 7 maggio, si è saldata una nuova alleanza tra donne: Natalie Bennett, leader dei Verdi, Nicola Sturgeon, premier scozzese a capo dello Scottish national party, e la gallese Leanne Wood del Plaid Cymru. Al termine del confronto televisivo dedicato alle opposizioni, le tre candidate si sono abbracciate sul podio della Bbc. La scena, tra l’isolamento di Nigel Farage dell’Ukip, all’estrema destra, e lo stupore del laburista Ed Miliband, è emblematica quanto il significato politico. Si tratta infatti di progressiste under 50 che hanno vincolato l’eventuale sostegno a Miliband ad una mutazione della linea del Labour dopo un ventennio di Terza via blairiana: il ritorno a sinistra. In Italia, a contendere una leadership, sono state Rosy Bindi nel 2007 contro il ‘creatore’ del Pd Walter Veltroni, e Laura Puppato, altra moderata cattolica, con chances di vittoria perfino minori, stretta nel 2012 tra Matteo Renzi, Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola e Bruno Tabacci. Di Maria Elena Boschi si dice che governi ogni riunione ma è perché «quando parla lei tutti sanno che a parlare è Renzi» confida a Left un membro dello staff di palazzo Chigi. Le donne – soprattutto se portatrici di valori progressisti – faticano non poco, nelle stanze dei bottoni. Almeno secondo la scrittrice e deputata del Pd Michela Marzano, direttrice del Dipartimento di Scienze sociali alla Sorbona e insegnante alla Descartes, che si è scontrata con un muro trasversale, quando ha proposto i diritti delle coppie omosessuali e la legge sul doppio cognome dei figli.

L’esperienza parlamentare ha traumatizzato Marzano, che ha deciso di non ricandidarsi: «Non ci si ascolta in aula e nemmeno durante le riunioni di partito. Ogni tipo di investitura risente dell’obbligo della fedeltà, di avere truppe nel contado, armi di scambio a disposizione». Cerchiamo però di andare alla radice del problema. La “governamentalità neoliberale”, prendendo in prestito la formula di Pierre Dardot e Christian Laval, autori de La nuova ragione del mondo, presuppone il controllo di tre blocchi distinti e interdipendenti: l’economia, la politica e i centri di diffusione del sapere. Dal momento che l’egemonia culturale è la pre-condizione, occorre interrogarsi sul meccanismo che regola le discriminazioni di genere così come si sono indagati le ingiustizie sociali e il razzismo. Non molti, ad esempio, sono consapevoli dell’esistenza di antiche società matriarcali. L’epica classica è ricca di venerazioni politeiste varianti della “Dea Madre” e numerosi reperti testimoniano la centralità delle donne nelle pacifiche comunità che vivevano di orticoltura e piccola cacciagione. Eppure è stato contrabbandato lo schema totalizzante che relega la femmina all’altruismo della cura e attribuisce al maschio le grandi imprese. Sul cacciatore che erige polis e fortezze per difendersi e conquistare, Rousseau diceva che la genesi dell’oppressione umana risale alla fase primordiale della divisione delle terre e del lavoro. Il sistema patriarcale, supportato dalle religioni monoteiste del “Dio Padre”, ha consolidato usi e linguaggio in codici e istituzioni che privarono le donne delle libertà sessuali, economiche e sociali. Non è difficile comprendere come tale contesto abbia favorito feroci persecuzioni in nome di religioni e superstizioni, in particolare nel Medioevo, e pratiche che affliggono ancora milioni di cittadine: mutilazioni genitali nell’Africa subsahariana, in condizioni aggravate da malnutrizione e malattie; lapidazioni delle adultere in Paesi governati da fondamentalisti islamici; in India spose-bambine e abusi sulle donne appartenenti a sottocaste. Alla base delle sopraffazioni, più dell’indigenza economica, vi è l’oscurantismo.

Lo si evince anche scorrendo gli occidentalissimi verbali di stupri, molestie e maltrattamenti domestici, o dall’ascolto di processi per femminicidio: il più delle volte lui reagisce all’emancipazione, quando lei si ribella o reclama semplicemente la propria indipendenza. Il fil rouge della violenza, dunque, riporta sempre all’egemonia che nei millenni ha garantito i rapporti di potere. Ben sapendo che il diritto del più forte diventa legge duratura se associa al controllo degli eserciti quello delle conoscenze. Biologi e genetisti, preservando il mito di Adamo ed Eva, hanno ignorato la primigenia del cromosoma X rispetto al maschile Y; scienziati si sono coperti di ridicolo affermando l’inferiorità dell’intelligenza femminile per via della minor ampiezza cranica; psicanalisti come Sigmund Freud hanno teorizzato l’invidia del pene. Ma la Storia diffonde il punto di vista dei vincitori. E, in ogni parte del globo, sono stati sviliti gli importanti contributi che le donne, malgrado le costrizioni, hanno donato al progresso umano e ambientale. Il socialista inglese William Thompson, nel 1825, pagò con l’ostracismo l’invito alla ribellione femminile: «La vostra schiavitù ha incatenato l’uomo all’ignoranza e ai vizi del dispotismo, così la vostra liberazione lo ricompenserà con il sapere, la libertà e la felicità».

Non è un caso che le riforme progressiste si siano ottenute in peculiari dimensioni di vuoti di potere provocati da guerre o rivolgimenti economici. Durante la Rivoluzione francese la girondina Olympe De Gouges, poi uccisa dai giacobini, diede alle stampe la Dichiarazione dei diritti della donna. Un’altra breccia fu aperta nel Risorgimento, mentre si faceva l’Italia a dispetto del potere temporale della Chiesa. Nel 1861, prima che John Stuart Mill avanzasse la proposta del diritto di voto, il deputato mazziniano Salvatore Morelli scrisse La donna e la scienza considerate come soli mezzi atti a risolvere il problema dell’avvenire. Democrazia reale, scuole normali per studentesse, divorzio, doppio cognome dei figli, tutela della prole illegittima: un sasso nello stagno, anche se i disegni di legge di Morelli vennero tutti bocciati, salvo la norma che riconosce alle donne la facoltà di testimoniare nei procedimenti civili. Il diritto di voto, anziché il suffragio universale maschile del governo Giolitti – ridicolo ossimoro elevato a illuminato liberalismo – fu imposto soltanto con la Liberazione. Durante la Resistenza le partigiane, 30.000 tra staffette e guerrigliere, ruppero l’abituale esclusione dalla vita pubblica partecipando alla fase costituente. Le energie sono andate via via sprigionandosi quando la contaminazione tra movimento femminista e sessantottino, sospingendo sindacati e partiti di sinistra, ha contribuito al “trentennio glorioso”: il servizio sanitario nazionale, l’obbligo scolastico a quattordici anni, lo Statuto dei lavoratori che prevede il divieto di licenziare le dipendenti incinte.

La lotta per la parità ha permesso la diffusione della contraccezione, l’accesso alle funzioni pubbliche, le leggi su divorzio e aborto, la cancellazione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore normati dal codice fascista. L’interazione si fondava sul comune convincimento che la libertà socio-economica fosse legata al percorso di emancipazione sessuale. E da qui dovrebbe ripartire la sinistra, coinvolgendo le donne che oggi forniscono visioni alternative in tanti campi della società. Il meccanismo dovrebbe essere opposto a quello della comunicazione mainstream che, alternando generici allarmi e impennate d’ottimismo, confina la questione femminile a mero calcolo di quote rosa. Il timore è sempre lo stesso: che donne e uomini si affranchino costruendo nuovi rapporti di spazio e tempo liberati, secondo i bisogni naturali di salute, consumo consapevole, conoscenza e creatività votate al benessere collettivo.

(da Left numero 15)

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Pillola libera tutti. Ritratto di Carl Djerassi padre dell’anticoncezionale

Il 30 gennaio scorso, nella sua casa di San Francisco, negli Stati Uniti, all’età di 91 anni, è morto Carl Djerassi. Professore emerito dell’università di Stanford, chimico valente, amava la scrittura e il teatro, ma conosciuto al grande pubblico soprattutto come il “padre della pillola”. E, di conseguenza, come lo scienziato che ha contribuito in maniera decisiva alla più grande rivoluzione del XX secolo, la rivoluzione sessuale.

Di origine ebraiche, Carl Djerassi era nato a Vienna il 29 ottobre 1923. Suo padre, Samuel, era un dermatologo, specialista di malattie sessuali. La madre, Alice Friedmann, era medico e dentista. Il ragazzo fu costretto a lasciare l’Austria nel 1938, quando Adolf Hitler impose l’Anschluss: l’annessione. E con essa le leggi razziali. Insieme con la madre, Carl raggiunse gli Stati Uniti, dove, nell’anno 1945, conseguì il PhD in chimica presso l’Università del Wisconsin. Iniziò poi a lavorare con la Ciba nel New Jersey. Quattro anni dopo si trasferì presso un’altra azienda, la Syntex, come direttore associato per la ricerca medica nei laboratori di Città del Messico. E proprio nella capitale messicana mise a punto quella che il settimanale The Economist ha definito “l’invenzione del secolo”. In realtà, i primi lavori a Città del Messico riguardano la sintesi del cortisone. Ma ben presto, con i suoi collaboratori, Carl Djerassi sintetizza il norethisterone, un progestinico che, insieme all’etinilestradiolo, è in grado di diminuire fin quasi ad annullare la fertilità  femminile in maniera reversibile.

È il 1951 e l’austriaco ha messo a punto il primo contraccettivo orale. In realtà occorre del tempo prima che la molecola messa a punto da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and George Rosengkranz, diventi “la pillola”. Verrà sperimentata clinicamente nel 1954 a Puerto Rico dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus. Occorre attendere il 1957 perché la Food and Drug Administration autorizzi la vendita del nuovo farmaco per scopi limitati e poi, nel 1960, come anticoncezionale con il nome di Enovid.

È solo a partire da questa data che la pillola inizia a essere distribuita negli Stati Uniti e in tutto il mondo, con effetti culturali e sociali molteplici e senza precedenti: sui costumi sessuali, sulla emancipazione femminile, sul controllo delle nascite. E già perché la combined oral contraceptive pill (Cocp) di Djerassi, più semplicemente “la pillola”, se assunta regolarmente da una donna – come spiega Carlo Flamigni in un suo libro, Il controllo della fertilità – ne inibisce l’ovulazione; modifica il muco cervicale, rendendolo ostile alla risalita dei nemaspermi; induce mutamenti endometriali rendendo più difficile l’impianto dell’embrione; altera il trasporto nelle tube dell’ovocita e dell’embrione. In pratica riduce drasticamente la fertilità della donna con diversi meccanismi indipendenti, il che rende “la pillola” un contraccettivo molto sicuro, molto più di ogni altro sistema usato in precedenza. Inoltre costa poco, è facile da assumere ed è sganciata dal rapporto sessuale.

È proprio quanto molte donne si aspettano, in un periodo, gli anni 60 del secolo scorso, in cui le società occidentali si accingono a profonde trasformazioni negli stili di vita e nella domanda di nuovi diritti di cittadinanza. È per tutto questo che la Cocp ha un immediato e clamoroso successo e diventa “la pillola”: nel 1961 negli Usa la assumono già 400.000 donne; che salgono 1,2 milioni nel 1962 e a oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo la assumono oltre 100 milioni di donne.

In realtà Carl Djerassi e molti degli scienziati che hanno contribuito alla sintesi della molecola e poi ai test clinici, guardano alla pillola come a uno strumento per il controllo delle nascite. Da molto tempo è attivo negli Stati Uniti un movimento decisamente preoccupato per la crescita della popolazione mondiale. Molti temono quella che definiscono, senza mezzi termini, “the population bomb” : una crescita demografica incontrollata che porterà al rapido esaurimento delle risorse sul pianeta. Una bomba che è già causa, pensano, di povertà e di miseria. E si danno da fare per disinnescarla, questa bomba. Tra i più attivi ci sono i membri dell’International Planned Parenthood Federation, presieduta da una signora molto attiva: Margaret Higgins Sanger. Ed ecco cosa scrive Margaret Sanger alla biologa Katharine Dexter McCormick: «Penso che nei prossimi venticinque anni il mondo o almeno la nostra civiltà dipenderanno da un contraccettivo semplice, economico e sicuro utilizzabile nei quartieri più provati dalla povertà, nella giungla, dalle persone più ignoranti».

Ecco, la pillola di Djerassi – come ha ricordato Elaine Tyler May in un libro del 2011: America and the Pill: A History of Promise, Peril, and Liberation – risponde esattamente a questa domanda presente nella società americana: il controllo delle nascite. La pillola corrisponde a pieno a queste aspettative. Contribuendo a un netto calo della natalità. In Europa, per esempio, il numero di figli per donna nel 1960 è di 2,6. Quarant’anni dopo è sceso a 1,5. Non è stata certo solo la molecola di Djerassi ha determinare questo cambiamento demografico, ma certo “la pillola” ha dato il suo contributo. Certo, né Djerassi né gli altri scienziati e medici avrebbero mai pensato che la pillola sarebbe diventata un fattore importante di emancipazione femminile. Ben presto – e anche superando una certa diffidenza dei movimenti femministi – la pillola si rivela, infatti, un fattore di liberazione. Un duplice fattore di liberazione. Un fattore di liberazione e di auto-determinazione della donna. Per la prima volta nella storia dell’umanità, le donne possono controllare in maniera piena la propria sessualità e la propria disponibilità alla riproduzione. Ne deriva, come conseguenza, non solo una maternità più responsabile – i figli sono voluti, e non giungono indesiderati – ma la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di impegnarsi nel lavoro, nella carriera, nella società. la pillola contribuisce ad aumentare gli spazi di libertà delle donne e, di conseguenza, contribuisce ad aumentare la consapevolezza dei propri diritti. La molecola di Djerasssi accompagna, così, la più grande rivoluzione del XX secolo, quella femminile, appunto.

Non è una molecola taumaturgica, naturalmente, quella di Djerassi. Non basta assumere la pillola per liberare la donna. Per molti anni le donne occidentali l’hanno presa di nascosto, per tema dello stigma che accompagna chi tra loro rivendica esplicitamente il diritto a una piena e consapevole e libera sessualità. E tuttora in molti Paesi sparsi per il mondo le donne assumono la pillola, ma restano in una condizione di subordinazione.

Non c’è determinismo, nelle faccende umane. Possiamo dire, tuttavia, che la pillola è un co-fattore di liberazione. E questa sua caratteristica emerge con buona evidenza nell’altra rivoluzione che accompagna quella demografica e quella femminile e, in parte almeno, si sovrappone loro: la rivoluzione sessuale. La molecola di Djerassi, infatti, consente di disaccoppiare completamente il sesso dalla riproduzione. E consente, così, di rendere attuale quella tensione potenziale che già animava, negli anni 60 del secolo scorso, le società occidentale. La domanda, non solo femminile ma soprattutto femminile, di vivere con gioia e in libertà la propria sessualità, rompendo i vincoli biologici.

Molti sono stati i co-fattori che hanno contribuito alla rivoluzione sessuale. Ma sarebbe un errore trascurare il ruolo, per molti versi decisivo, del contraccettivo semplice, economico e sicuro messo a punto nel lontano 1951 da Carl Djerassi.

Mai il chimico si sarebbe aspettato che quella sua molecola avrebbe avuto così vasti e clamorosi effetti. Lui non amava essere definito “il padre della pillola”. Ma la pillola ha cambiato anche lui. Lo ha costretto a ripensare la scienza e il ruolo sociale degli scienziati. Lo ha in qualche modo indotto a dedicarsi non solo alla chimica e alla carriera universitaria, ma anche alle lettere e al teatro. Giudicati strumenti essenziali per restituire gli scienziati e la scienza stessa al mondo. Non è un caso se in una delle sue numerose opere, An Immaculate Misconception, analizza tutti gli effetti sociali della contraccezione orale, lui che l’aveva presa in considerazione solo come antitodo alla “population bomb”. In un altro dei suoi lavori, per così dire umanistici, è il caso di Oxygen, scritto con il collega chimico Roald Hoffmann, Djerassi propone il teatro come una forma avvincente di vera e propria didattica della scienza. Non capita tutti i giorni che un grande scienziato diventi anche un grande scrittore e uomo di teatro. Né capita tutti i giorni che un rivoluzionario rappresenti in teatro la sua rivoluzione. Nella prefazione della sua autobiografia, del 1992, Carl Djerassi scrive: «Gli scienziati non devono essere necessariamente degli specialisti in senso stretto, che comunicano in un linguaggio incomprensibile nel chiuso dei loro laboratori alle prese con soggetti lontani dalle preoccupazioni quotidiane». Al contrario, gli scienziati «possono mostrare curiosità a tutto campo, ed essere ricercatori e pensatori in ogni dimensione intellettuale e, nel medesimo tempo, essere coinvolti sui temi sociali più caldi».

(da Left numero 8)

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”on” ][/social_link] @PietroGreco1

A tempo di libertà

Jovica Jovic musica tzigana

«La musica tzigana non si studia sugli spartiti, ce l’hai dentro fin dalla nascita, la ascolti in casa fin da piccolo e la impari a orecchio, sapendo che poi la tramanderai ai tuoi figli. È una musica che senti con il cuore e con l’anima. Prima piangi tu che la suoni, poi gli altri che la ascoltano. E questo ce l’ha lasciato Auschwitz». Sono le parole del maestro Jovica Jovic, fisarmonicista rom nato 61 anni fa a Mali Mokri Lug, vicino Belgrado, in Serbia. Da anni Jovic insegna la fisarmonica cromatica con il suo particolare metodo: a orecchio, senza teoria, basandosi sulla memoria visiva e sulla capacità d’ascolto.

Maestro Jovic, ha iniziato a suonare da bambino. E proviene da una famiglia di musicisti, che ricordo ha della sua infanzia?

Ricordi belli e brutti, come tutti del resto. Belli per quanto riguarda la musica e non basterebbe un libro per raccontarli. Brutti per le difficoltà, i miei erano poveri, eravamo cinque figli, ma ce l’abbiamo sempre fatta onestamente e questo mi rende orgoglioso. Ho iniziato a suonare fin da piccolo, quando avevo 6-7 anni, ricordo che mio padre vendette una mucca per comprarmi la mia prima fisa, e la gioia provata non me la dimenticherò mai. Tutti in famiglia suonavano, mio nonno, lo racconto sempre, è morto a 106 anni suonando il violino.
Ricorda la prima nota che ha suonato?
Non è possibile ricordare la prima nota… noi rom suoniamo a orecchio!
E viaggiate tanto anche.
A 18 anni ha lasciato la Serbia ed è andato in giro per l’Europa, giusto? Sì, ho girato e suonato nei locali di Austria, Germania, Francia, Belgio, Svizzera, Ungheria, Polonia… Fino ad arrivare in Italia, da cui vado e vengo da 30 anni, e dove ormai vivo.
Come tratta il suo popolo il nostro Paese?
Malissimo. Siamo gli ultimi degli ultimi, considerati peggio degli animali. E non vedo miglioramenti: impossibile avere i documenti, lavorare e vivere onestamente. Non voglio giustificare chi ruba, ma penso a quelli delle cooperative… tutti più o meno, e non solo a Roma, sono anni che rubano i fondi che avrebbero potuto aiutare il mio popolo ad ave- re una vita migliore.
Qual è l’importanza della musica e dell’arte per la sua cultura e la sua gente?

La mia gente ha la musica nel dna, forti tradizioni, racconti tramandati oralmente. Ma non ne percepisce l’importanza perché sono costretti a sopravvivere e hanno altro a cui pensare. Perciò sono felice se posso contribuire a diffondere i nostri valori.

(Da Left numero 11)

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/tizianabarilla” target=”on” ][/social_link] @tizianabarilla

La sinistra nel pallone

Sono mosche bianche, o meglio, rosse: si contano sulle dita di una mano i calciatori e gli allenatori professionisti italiani che hanno dichiarato di essere di sinistra. Dalle simpatie per le organizzazioni extraparlamentari, passando per il Partito comunista fino ad arrivare a Sel, c’è una costante che vale per tutti: mai rinnegare il proprio credo, anche al cospetto di un mondo che all’impegno politico ha sempre prediletto il luccichio dello star system e della moneta sonante. Nei giorni in cui la sinistra sembra essere sparita dallo scenario politico, da altre parti ancora persevera. A queste “eccezioni”, abbiamo chiesto cos’ha significato.
Paolo_SollierDi tutti Paolo Sollier, 67 anni, è stato forse il precursore. Cresciuto a Torino, ex impiegato Fiat a Mirafiori, fa della sua passione, il calcio, la sua professione. Esponente di Avanguardia operaia, a metà anni 70 gioca in serie A col Perugia e la domenica saluta col pugno chiuso i tifosi del Grifo e i compagni di militanza che lo seguono dagli spalti. «Quante polemiche per quel gesto – ricorda Sollier – ma erano anni di cambiamenti che un ambiente chiuso come quello del calcio faticava ad assorbire. Vedo però che le istanze legate allo statuto dei lavoratori, al movimento femminista e a quello ambientalista sono tornate prepotentemente d’attualità». Convinzioni politiche, quelle di Sollier, che non hanno mai inciso sul suo modo di giocare o di allenare: «Non c’è un modo di sinistra di essere calciatori, la squadra è di per sé una piccola comunità ma non sempre le carenze individuali nel gioco vengono sopperite dal collettivo». A chi gli ha rimproverato di predicare bene e razzolare male, ossia di guadagnare tanto, in barba al credo professato, Sollier ha sempre ribattuto con la cruda realtà: «Altri tempi, all’epoca al massimo guadagnavo come un buon impiegato. Comunque ho sempre messo a disposizione un po’ di soldi per iniziative politiche o per giornali che leggevo». Più del denaro, e di una popolarità ben lontana dagli strepiti d’oggi, ha sempre contato la coerenza: «È la forza delle idee che deve avere la preminenza. Guardate Sean Penn: è un’icona di Hollywood, ma non ha mai rinunciato alla battaglia».

Renzo Ulivieri, 74 anni, è il decano degli allenatori italiani: per lui pallone e impegno politico sono sempre andati di pari passo. Negli anni 60 ha ricoperto l’incarico di consigliere comunale e assessore del Pci a San Miniato, mentre oggi, sempre nella cittadina toscana, è il segretario del circolo di Sel, con cui s’è candidato al Senato alle politiche del 2013. Leggendario il busto di Lenin che custodiva in casa, simbolo di una convinzione che può anche tradursi in campo: «Soprattutto – spiega “Renzaccio” – nel modo di allenare e di rapportarsi con gli altri. Quando si guida una squadra di calcio si portano con sé esperienze, cultura e pensiero politico». La predica sui soldi se l’è dovuta sorbire anche lui: «Il segretario del Pci di San Miniato mi disse che avevo preso una strada troppo corta, e che l’avevo presa da solo. Aveva ragione, il sistema purtroppo è questo, ma il mercato comanda solo chi lo accetta acriticamente. Non si può imporre una propria logica di mercato, ma si può lottare affinché non incida sulla vita e sulla dignità delle persone». Difficile far sentire la propria voce in un mondo che, sottolinea Ulivieri, «ha tre obiettivi fondamentali: produrre risorse economiche, spettacolo e risultati», ma essere di sinistra e calciatori ha ancora un senso: «Senza problemi, magari per combattere quelle dinamiche di sfruttamento del lavoro che esistono anche nel mondo del calcio».

Luciano Zecchini, classe ‘49, giocava negli anni 70 per Torino, Milan, Sampdoria e Perugia e simpatizzava per Lotta continua. Tra- montata quella stagione non ha perso lo slancio: «Per me essere di sinistra è sempre stato normale – esordisce l’ex difensore – semmai il problema è nel nostro ambiente, troppo cristallizzato e amante dei “soldatini”». Una professione di fede che secondo Zecchini può anche riflettersi sul rettangolo di gioco: «È un’espressione di ciò che si è nel quotidiano, e per quanto non creda che un allenatore
possa dare un senso di parte all’impostazione di gioco, può costruire una squadra puntando molto sulla forza del collettivo». Il discorso economico non lo tocca più di tanto: «Io giocavo per passione, in modo sano e genuino. Criticare chi guadagna molto è una speculazione di basso livello. Chi è più bravo è giusto che venga premiato». Pur definendo il pianeta calcio «un ambiente misero, in cui l’etica non è certo diffusa», Zecchini crede nella rivendicazione dell’appartenenza ideologica: «Bisogna avere il coraggio di portare avanti le proprie idee, informandosi e tenendo conto dei problemi reali, senza farsi condizionare da denaro e popolarità».

Cristiano Lucarelli è forse il più noto di tutti. Trentanove anni, livornese, non ha mai na- scosto le sue simpatie di sinistra: «E più d’una noia l’ho avuta – racconta il bomber – perché il calcio è conformista e non accetta che si possa avere una coscienza critica. Essere di sinistra porta problemi, e magari salta l’ingaggio con il grande club o la convocazione in Nazionale. Conosco colleghi che hanno preferito non esporsi». In azzurro, con la maglia dell’Under 21, segnò nel ’97 una rete che fece scalpore: esultò mostrando una maglia con l’effigie del Che, simbolo delle Brigate autonome livornesi, la tifoseria organizzata della squadra amaranto. Apriti cielo, e per indossare di nuovo una divisa della Nazionale ha dovuto aspettare otto anni. Per vestire quella del suo Livorno, invece, undici anni fa accettò un’offerta inferiore di un milione di euro rispetto a quella del Torino. «Al calciatore si associano sempre tanti soldi, Ferrari e veline, ma oggi in Italia ci sono sessanta club professionistici su cento totali che pagano stipendi non superiori ai 1.500 euro al mese».
Tuttavia, pur non rinnegando il proprio pensiero, Lucarelli confessa che non consiglierebbe a un giovane calciatore di prendere posizione: «Meglio lasciar perdere, sarebbero solo problemi.Ma è bene avere sempre uno sguardo critico sul mondo, anche solo per prendere coscienza dei sacrifici che fanno i tifosi per seguirci dappertutto».

(Left numero 13)

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Ma quali nomadi! Ecco la classe media zingara

«Ma perché non vogliono abitare nelle case?»: ecco la domanda che rispecchia lo stereotipo più resistente da millenni a questa parte. Zingaro uguale nomade. Che, in quanto tale, “vive di espedienti”. E se così non fosse? Se un rom o un sinti facesse un lavoro “normale” sarebbe forse meno rom, solo perché non risponde all’immagine che noi abbiamo di loro? Se, per esempio, una rom facesse la regista, fosse italiana e vivesse a Torino come Laura Halilovic, che dell’essere rom ha fatto un film? Senz’altro verrebbe considerata un’eccezione. Così come Dijana Pavlovic, attivista e politica di origini rom candidata alle Europee per L’Altra Europa con Tsipras e ormai volto noto della cultura rom. Ma se queste eccezioni fossero una normalità che non conosciamo? Se un rom (che significa semplicemente “uomo”) fosse una persona “normale” e vivesse da anni (quasi venti per la precisione) in una città italiana che potrebbe essere Bologna, e da almeno la metà lavorasse con regolare contratto e contributi in un’azienda agricola? No, non sfruttato come quelli di Rosarno: gli “immigrati”, perfino se “zingari”, non lavorano solo sfruttati. Aghiran è romeno e assieme al suo amico Constantin ha fondato perfino un’associazione, Rom pentru Rom (i rom per i rom), proprio allo scopo di non doversi sentire stranieri in una terra che contribuiscono a rendere più civile.

E ancora: se costruissero sistemi di allarmi per le banche? O se facessero gli interpreti per la questura o il tribunale, dando una mano a stabilire un contatto fra le parti? O, magari, azzardiamo, facessero addirittura l’università e partecipassero a manifestazioni contro il governo o facessero parte di associazioni culturali universitarie con gli altri studenti di Scienze politiche?

Questa è la classe sommersa di rom e sinti che da generazioni abita l’Europa senza necessità di imporsi o sbraitare. Ancora una volta, la diversità non è un problema dell’altro, ma nostro. Nostro, ma che noi facciamo diventare loro.

numeri rom e sinti

(dal Rapporto 2014 dell’Associazione 21 luglio)

Elèna vive a Mantova e lavorava come mediatrice culturale. Ora, come tanti dipendenti delle cooperative del Belpaese, è in cassa integrazione. È di origini slave, vive in Italia da quasi trent’anni, ovvero poco più della sua età. Da qualche anno lavora in una scuola materna della provincia. Peccato che il nome sia di fantasia. Perché: «A scuola non se lo sognano nemmeno che sono una rom. Non ho paura di perdere il lavoro perché il contratto è sicuro». Più che altro la stima: «In questi anni mi hanno conosciuto per la mia puntualità e per la mia affidabilità: se un giorno sparisse qualcosa sarei l’ultima persona a cui penserebbero. Ma se sapessero che sono rom tutto si capovolgerebbe e penserebbero subito che sono stata io». Un mondo capovolto, quello in cui spesso vivono i rom, in cui più hai caratteristiche positive, più devi celare le tue origini: «A mio figlio (nato in Italia) non ho nemmeno insegnato la lingua». Al contrario di Bada, kosovara che vive a Vicenza e insegna romanì: «Sono la mamma di 5 figli; fino al 1998 ho vissuto in una modesta, ma bella casa in Montenegro con la mia famiglia. Purtroppo c’è stata la guerra nell’ex-Jugoslavia e ho dovuto abbandonare il mio Paese». A vivere in un campo per un periodo, ce l’abbiamo messa noi. Poi, lei e suo marito, una casa se la sono ripresa. Tra le altre cose, fa l’attivista per l’Associazione 21 luglio: «Il mio sogno è che un giorno tutti i rom e sinti vivano in una casa dignitosa e che i loro figli vadano a scuola, dove possano imparare tanto e avere tanti amici fino a laurearsi»: il sogno di tutti i genitori. Con una piccola sfumatura in più: «Sogno che vivano in una società dove non dovranno nascondere la loro etnia».

Il problema non è essere rom. Il problema, racconta sempre Elèna, con quell’orgoglio maltrattato che riemerge purissimo, è essere rom in Italia: «Guardo gli altri rom qui in Italia, e sottolineo, qui in Italia, e non mi sento come loro. Non c’è nulla da difendere in un certo stile di vita o in un modo di comportarsi. Ma per il mio paese, essere rom è una cosa normalissima. Lavoriamo tutti, e viviamo tutti in casa. Qui invece, se nessuno immagina che siamo rom tutti ci stimano». Potrebbe essere la nostra vicina di casa, Eléna. Ride, poi aggiunge: «Veramente sono io che mi scelgo i vicini di casa. Siamo molto schizzinosi. Se qualcuno ha fumato in ascensore, io non lo prendo». Viene da chiedersi chi dei due sia l’incivile. E naturalmente, come nella maggior parte delle case rom: via le scarpe appena si entra. La casa padovana di Desyjana e Giovanni (operaio pugliese non rom) è la più pulita che abbia mai visto, è quasi imbarazzante: «ma scusa, perché ti sorprendi? Per lavoro pulisco le case degli altri!». Giusto.

Gordo invece è montenegrino, vive a Roma. È un perito ferroviario, con una casa con mutuo a Morlupo e un lavoro alle Ferrovie dello Stato. Fra Gordo che fa il suo mestiere e la società nostrana, chiunque di noi avrebbe molti più motivi di insultare la seconda piuttosto che il primo. Ride, quando sente il tema dell’articolo: «Eh si: sono assolutamente normale». E aggiunge divertito: «La mia famiglia non sa nemmeno cosa sia una roulotte. Come non lo sapevo io quando sono arrivato in Italia. L’ho imparato da voi, cosa fosse». Anche lui però, preferisce non rivelare la sua vera identità. Buffo, se si pensa che una delle prime domande motivo di orgoglio per la nostra civiltà, consista nel dichiarare di che cosa ci si occupa. Loro, che lavoro fanno e come si chiamano, non possono dirlo, se dicono di essere rom.

Una che non ha mai fatto mistero delle sue origini, è la piccola Draga. Una “serba bolognese” che parla slang e dialetto del capoluogo felsineo dove frequenta Scienze della Formazione e divide la casa con altre ragazze. Ha 21 anni e due occhi neri giganteschi. Si laureerà a luglio ma già lavora come educatrice e come assistente al doposcuola con i bimbi delle elementari. È inarrestabilmente curiosa e intraprendente: «Abbiamo anche fatto partire un progetto per medie ed elementari con ragazzi che vengono dall’est e sono “zingari” come me. Lavoriamo sulla dispersione scolastica e partendo da un supporto scolastico cerchiamo di arrivare a un’integrazione tra pari. Perché questo siamo, bisogna che lo capiscano anche loro».

Anche Ivana fa l’università, Filosofia a Torino, è l’insegnante di danza: «Non gli dico subito che sono rom. Glielo dico dopo un paio di mesi: prima costruisco un rapporto che è come un muro contro il pregiudizio. Mi è capitato in un paio di casi che le persone non siano riuscite ad andare oltre, ma la maggior parte delle mie allieve è rimasta senza problemi». Ha 24 anni, Ivana, e abita con la sua famiglia in una casa popolare nel quartiere di Artom, un ex quartiere dormitorio nella periferia sud di Torino (zona Mirafiori), poi riqualificato tanto da aver ospitato i giochi invernali delle Olimpiadi del 2006. «Non ho problemi a dire chi sono, tanto nel mio quartiere siamo conosciuti: faccio volontariato da tre anni, con i ragazzi e con le donne. Il problema non è chi ci conosce, ma chi non ci conosce». Chi li conosce saprebbe che lei lavora anche come educatrice per «dare una mano come posso», la mamma fa lo chef in un ristorante italiano, e il papà l’aiuto cuoco, mentre il fratello, di due anni più grande l’artigiano: «e con le sue marionette fa spettacoli in giro per la città». I problemi sorgono quando si sveglia l’attenzione dei media, racconta: «Sentono qualcosa in tv, e il loro cervello si accende. Si ricordano di quelli che abitano nelle roulotte e partono minacce e insulti senza senso. Non fa nessuna differenza dove io abiti o cosa faccia: è proprio una questione di ignoranza». E dall’informazione che accende animi e allarmismi. Un esempio? «Guarda il caso Isis. Io non ricevo minacce normalmente. Poi scoppia il caos e finiamo nel cuore degli insulti. Mia mamma è musulmana, non portiamo il velo, ma automaticamente siamo attentatori». E per di più, «zingari di m…».

Un altro giovane che rivendica serenamente la propria appartenenza è Fiorello Miguel Lebbiati. E lo fa con accento spiccatamente toscano, essendo nato a Fucecchio. A trentatre anni, lui gli incroci li racchiude tutti: è italiano, rom e anche sinto. «Se lavoro? – ride – da sempre! Fin da giovane, ho iniziato a 16 in un calzaturiero della provincia: venivo pagato pochissimo perché ero piccino. Poi ho fatto il muratore, e tanti altri mestieri fino a quando non sono entrato in una bottega». Lì ha inizio quello che è un vero e proprio apprendistato rinascimentale: «Camminando per Roma, se alza la testa, lei vede quello che io ho imparato a fare. Noi lo chiamiamo “stucchino”: tutto quello che nelle chiese – dai capitelli agli zoccoli, bozzati delle case, colonnati, decorazioni – l’ho fatto o curato io». Fra i suoi restauri, tutta la prima fase del campanile di San Francesco di Lucca, o la chiesa di San Jacopo di Lammari: «Gli stucchi della volta erano del 1200: mi tremavano le gambe quando me ne sono accorto». Abita nella preziosa cittadina d’arte con la sua compagna, «convivo e paghiamo l’affitto come le persone normali», scherza. Compagna non rom così come la mamma della sua bimba. S., che ha 10 anni: «Ora è su che fa i compiti». Lei, seppur con un babbo attivista, non vive il disagio nel quotidiano: «Il problema è la televisione. Il disagio, per lei che è piccola e non ha difese, lo vive attraverso la mala informazione. A scuola S. è semplicemente S.». È molto orgoglioso delle sue origini e della sua famiglia, Fiorello. «Noi rom teniamo molto alla parentela», e ne ha ben donde perché la storia della sua famiglia racconta un pezzo della storia d’Italia: «Mia mamma è rom, nata a Empoli ma di origini montenegrine: mio nonno era fra quei bimbi rastrellati dai nazisti per i loro esperimenti e sopravvissuti ai campi di concentramento. Mio babbo invece è sinti, toscano anche lui e appartenente a quel ceppo in Italia dal Quattrocento. Andando a ripescare fra i cugini ci sono i partigiani che hanno fatto la Resistenza e uno zio appartenente all’Esercito italiano con medaglia al valore. Mi fa rabbia quando sento quei sedicenti nazionalisti dirci di andare “a casa nostra”: andate voi da qualche altra parte, perché l’Italia è anche mia». Riflette. Ci pensa un attimo, e aggiunge: «Anzi: lo dovrebbero sapere che ci sono dei rom e dei sinti che l’hanno resa libera da quelli come loro».

Intanto, a Napoli è nata una nuova identificazione per la residenza, o meglio sarebbe dire per l’etnia, giacché pare che la prima determini la seconda. Bello stampato sulla carta d’identità del piccolo, nato in Italia e al suo primo documento identitario alla voce residenza c’è scritto: Isolato Nomadi. A denunciare l’accaduto, la mamma, abitante del ghetto di Scampia in questione: «È nato in Campania e non si è mai spostato da Napoli, perché definirlo così? Tra l’altro nomade non è sinonimo di rom. Ora mio figlio ha vergogna di mostrare il documento, eppure doveva essere una gioia ricevere la sua prima carta d’identità». Figuriamoci quando sarà grande, a dichiarare che lavora.

(da Left numero 9)

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Galbraith&Kelton i gufi che spostano a sinistra Obama

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Lui, James Galbraith, è il consigliere di Obama più a sinistra, talmente a sinistra da non comparire nella foto di governo. Lei, Stephanie Kelton, capo Dipartimento di Kansas City, è stata nominata due mesi fa chief economist della Commissione Bilancio su indicazione dell’unico senatore americano dichiaratamente socialista, Bernie Sanders, candidato della minoranza democrats alle primarie 2016 contro la superfavorita Hillary Clinton. Tanto Galbraith quanto Kelton gravitano attorno alla Modern Monetary Theory, scuola di pensiero che riattualizza John Maynard Keynes e si rifiuta di intendere il bilancio dello Stato alla stregua di quello di un’azienda o di una famiglia. Secondo la Mmt l’aumento della spesa pubblica è un elemento di progresso, perché alimenta il circolo di consumi e produzioni tendente alla piena occupazione.

Il padre di James Galbraith, John Kenneth, fu consigliere di Roosevelt ai tempi del New Deal e avanguardia della squadra di JFK: con la pro- posta di nazionalizzare le corporations si guadagnò l’accusa di bolscevismo. Galbraith jr, docente di Public Policy in Texas, ha collaborato alla Modest purposal ed è fonte inesauribile di ispirazione per Yanis Varoufakis (come raccontato da Left nel numero del 14 febbraio). Galbraith è uno dei consulenti di Varoufakis nella rinegoziazione del debito greco, snodo cruciale per la possibile emancipazione dai dogmi dell’austerity dell’Unione monetaria imposti dal main-tream neoliberale. I nemici, dunque, sono gli stessi del padre, che aveva previsto molte cose scrivendo il discorso inaugurale di Kennedy, il 20 gennaio 1961: «Nessuno deve negoziare sotto la morsa della paura. E nessuno deve aver paura di negoziare».

Anche grazie all’influenza del mondo accademico postkeynesiano Barack Obama ha orientato le politiche espansive oltre l’emergenziale Quantitative Easing, sistema adottato di recente dalla Bce per iniettare liquidità alle banche. Mariana Mazzucato, studiosa italo-americana autrice del libro The Entrepreneurial State, esprime un giudizio positivo: «Nel 2009 Obama mise in campo un piano di stimoli da 787 miliardi di dollari destinati all’innovazione verde e allo sviluppo di infrastrutture moderne. Ed in effetti, mentre la recessione europea continua, crescita e occupazione stanno tornando negli Stati Uniti».
Stephanie Kelton, appena insediata in Senato, ha elaborato un grafico dal quale emerge la diversità strutturale tra le politiche dei governi di Barack Obama e di Bill Clinton. Al netto della peculiare condizione di negatività della bilancia dei pagamenti, permessa dal predominio del dollaro, sotto l’attuale amministrazione si è registrato un surplus per imprese e cittadini, in parte legato ai maggiori investimenti pubblici.

Il famigerato disavanzo dei conti dello Stato, incubo delle economie europee, nel 2009 è cresciuto fino al 10 per cento di Pil rispondendo alla crisi finanziaria con il progresso sociale.
Riforme fondamentali come quella sanitaria, malgrado l’ostruzionismo
dei repubblicani e delle lobby assicurative, stanno avvicinando gli Usa
 a livelli di welfare europei. Dal 2010 al 2012 la spesa per la Sanità pubblica è aumentata in media del 2,5%, più di quella privata e del Pil, che nello stesso periodo è cresciuto del 2,2%. Nell’ambito delle campagne per sensibilizzare i cittadini, nelle scorse settimane Obama ha realizzato un video divertente in cui invita a iscriversi al piano assicurativo entro la scadenza. Al completamento della riforma, si calcola che la copertura sanitaria sarà estesa a 30 milioni di americani. Nel periodo della presidenza Clinton, invece, middle e working class erano state colpite da tagli sociali e maggiori imposte. In un secondo tempo, l’ex premier democratico, piuttosto che rafforzare i salari e il welfare, intraprese la strada preferita dalle élite finanziarie e industriali: incentivò il credito con misure straordinarie come l’abolizione dello Steagall Glass Act, legge voluta da Roosevelt per distinguere tra banche commer- ciali e d’affari.
Per il giro della Modern Monetary Theory, Kelton ha coniato, non a caso, l’espressione «gufi del deficit», contrapposti ai bilanciofobici. Vi ricorda qualcosa? Matteo Renzi ne ha ribaltato il senso, ma l’espressione è la stessa.
Prende spesso in prestito ciò che gli suona bene, Renzi, senza andare troppo sul sottile per il con- tenuto. Ancora dall’amministrazione Obama, Renzi ha copiato il suo «Jobs act», che lì è però un provvedimento sulle start up e non una norma che trasforma anche l’ultimo contratto a tempo indeterminato in precariato permanente.


Con il deficit al 10 per cento gli Usa sono usciti dalla crisi. Matteo Renzi invece preferisce la Terza via di Blair e Clinton

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È d’altronde noto che Renzi per le sue politiche preferisca seguire il solco della “Terza via” di Bill Clinton e Tony Blair, con cui i governi occidentali hanno ammantato di moderno efficientismo e rigore moralistico la contrazione dei salari e la precarizzazione del lavoro, nonché la privatizzazione di reti, servizi e beni pubblici.
 L’alternativa è guardare ai gufi del deficit, sull’onda della resilienza di Syriza in Grecia, e a Mariana Mazzucato, di cui pure Renzi comprò il libro Lo Stato innovatore, ben attento a farsi fotografare alle casse della libreria. Mazzucato rovescia la prospettiva dal punto di vista culturale, postulando un sistema pubblico lungimirante, capace di sospingere e disegnare ex novo settori qualitativi come la green economy. Quando Kelton l’ha invitata via twitter a combinare le rispettive intuizioni per cambiare «davvero la partita», Mazzucato ha rilanciato il mantra: «Investimenti strategici e Kelton». Un perfetto mix. La contaminazione sperimentale tra le sponde progressiste dell’Atlantico evoca i due socialismi soltanto teorizzati da François Mitterrand: l’uno solidale e l’altro creatore di avanzamento sociale. Le politiche redistributive tramite la leva fiscale contro le rendite, cui fa riferimento anche Thomas Piketty ne Il Capitale nel XXI secolo, possono dunque risultare complementari alle policy post keynesiane dei “gufi del deficit” che sussurrano a Obama e alla Grecia.

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I neri, Sabbir e il “colabrodo” di umanità

immigrazione ilaria bonaccorsi

 Engadina, Svizzera. La tavola è ricca. Il gesto eloquente. Di quelli che abbiamo visto migliaia di volte, persino fatto migliaia di volte. Quando volevamo dire a qualcuno di andarsene, perché non era desiderato. Via. Con la mano destra il ricco costruttore svizzero fa il gesto di “sciò, via”. E con lo sguardo mi sorride mentre seduti alla tavola ricca, mangiamo. Gli avevo chiesto se anche lì risentissero delle ondate di migranti che affaticavano le coste del nostro Paese in quei mesi caldi. Nessuna parola, un sorriso tonto e un gesto. Via. Poi deve avermi visto interdetta, allora ha aggiunto “noi qui non li vogliamo”. E ha ripetuto il gesto. Via. Il cibo è buono, la tavola è ricca, il Paese è bello, il cameriere è portoghese. Lo capisco dall’accento morbido. “Sono i nuovi poveri qui”, mi spiega il costruttore. “Tutti i camerieri sono portoghesi, gli italiani ormai sono elettricisti, muratori…”. Tutto fila secondo lui. Tutto sta nelle cose del suo di Paese. Io però insisto “che vuol dire via?” Mi risponde, gentile “lei ha mai visto due neri insieme qui? Quelli che lasciamo entrare, li distribuiamo. Gli altri, quelli che non vogliamo, li lasciamo fuori”. In effetti penso ai miei anni lì. Non ho mai visto due neri insieme. Passeggiare come me. Li “distri- buiscono” e quelli che non vogliono, non li lasciano entrare.
Calabria, Italia. La tavola è ricca. Il gesto disperato. Di quelli che abbiamo visto migliaia di volte, persino fatto migliaia di volte. Quando volevamo dire a qualcuno che ci sentivamo soli perché avevamo perso qualcuno. Con la mano destra l’uomo mi mostra una foto e mi dice “è Sabbir”. E con lo sguardo mi cerca. Ha due figlie vicine ma mi racconta di un bimbo lontano. Bengalese. Adottato a distanza. “Per anni ho ricevuto le sue lettere e i suoi disegni, Sabbir vuole diventare medico”, mi racconta. Poi un giorno un’altra foto. Mi mostra anche quella. È una bimba, piccola, con una testa grande. In piedi. Deve avermi visto interdetta. E Sabbir? Insisto. “Non ho più notizie, sono preoccupato e se gli è successo qualcosa?”. E di nuovo il gesto. Le sue mani e la foto. Il cibo è buono, la tavola è ricca, diversamente ricca da quella del costruttore svizzero. Come sono ricche le tavole al Sud quando l’ospite è atteso. “Ho chiesto e richiesto” mi dice. “Nessuno mi risponde”.
Penso a questi giorni. Alle notizie che sembrano sempre uguali e invece sono sempre peggio. Penso che non si dovrebbero scrivere gli editoriali di sera tardi, perché la giornata pesa. E penso al giovane marocchino di 27 anni morto nella valigia soffocato perché voleva entrare in questa Europa che non lo vuole e lo lascia fuori. E ripenso ai miei giorni lì, in Calabria. Alla Sicilia di fronte, allo Stretto, al giovane sindaco che mi parla, alla bimba Costanza che scrive i racconti e ai molti neri che vedo per la città. Passeggiano insieme. Oggi, in 396 ancora, sono sbarcati a Reggio Calabria. “Da un po’ di tempo sono tanti”, mi spiegano. Non riescono a distribuirli, e neanche a lasciarli fuori. Forse non vogliono farlo.
E io sono sollevata. Anche ora a ripensarci. Sono sollevata perché li vedo. Tanti e insieme. Sono sollevata perché in quest’Europa fatta di frontiere sbarrate, di Eurotunnel disumani, di treni sigillati, siamo giudicati “un colabrodo”, così ha detto il costruttore svizzero. “Noi gli spariamo”, ha aggiunto scherzando. “Dovreste sparargli anche voi, come fanno in Spagna o a Malta, così non arriverebbero più”. “Il giorno in cui lo faremo ‘anche noi’ andrò via dall’Italia”, gli ho risposto. Vivere in un Paese “colabrodo di umanità”, pieno zeppo di gente che accoglie nonostante tutto, nonostante la crisi, le leggi stupide, le parole ignobili, il pensiero inceppato, mi rende più facile, più sopportabile tutto il resto dello spettacolo quotidiano. La Troika ad Atene, i tagli alla Sanità, le odiose parole di Renzi in risposta a Saviano, la Sinistra che non c’è. E tutto è più sopportabile perché la verità è questa. Quella di una umana uguaglianza e accoglienza. Di un collettivo sano che pensa e reagisce. La cui libertà “comincia”, non finisce, dove inizia quella dell’altro, come ha scritto Alessandro Portelli su il manifesto qualche giorno fa. La prossima settimana usciremo con un numero pieno di racconti e poi per qualche giorno proviamo a riprendere un po’ di fiato e un po’ di forze. Consapevoli che tutto rimane lì, che noi riprendiamo fiato mentre, come scrive Fulvio Vassallo, quest’Europa qui il fiato continua a toglierlo. Fiato e forze. Per tornare a raccontarvi, ancora di più, di quel “colabrodo di umanità”. Il nostro preferito. L’unico vero.

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La donna delle terre rare

Relight è l'unica azienda italiana a riciclare apparecchiature elettriche ed elettroniche in maniera virtuosa.

A Rho, a poca distanza dall’area dell’Expo 2015, c’è una miniera. Montagne di vecchi televisori, tubi catodici, elettrodomestici rottamati, computer abbandonati: un cimitero della modernità. La materia da estrarre è lì dentro e ha nomi da romanzo fantasy: ittrio, europio, gadolinio, terbio. Polveri sottilissime e preziose, che in natura si trovano unite ai minerali. Estrarle è difficile e dispendioso. Le hanno chiamate “terre rare”. La Cina ne detiene quasi il monopolio. E se non vogliamo soccombere, dobbiamo darci da fare per recuperarle dagli oggetti elettronici d’uso quotidiano che senza pensarci buttiamo via quando non ci servono più. Meglio andarsi a riprendere quelle polveri tra i rifiuti, quindi. Ma ci vogliono gli impianti giusti, la tecnologia e infine la cultura. Perché riciclare è un gesto collettivo e un’attitudine umana da coltivare, prima che un processo tecnico avanzato. «Credo molto nella condivisione di idee e conquiste raggiunte», spiega Bibiana Ferrari, la“tecnovisionaria” (il titolo glielo hanno conferito davvero) che quindici anni fa, rimasta senza lavoro, fondò la Relight, oggi azienda all’avanguardia nel riciclo di materiali elettronici. «Perciò, abbiamo pensato di offrire a chi viene a Milano per l’Expo una visita guidata alla nostra azienda: far conoscere quello che facciamo è il nostro contributo per nutrire il pianeta».

A Rho, l’imprenditrice ha cominciato con il recupero delle lampade al neon. E pochi mesi fa ha inaugurato l’ultima creatura, un impianto HydroWee realizzato su scala semi industriale, grazie ai fondi europei Horizon 2020. È lì che gli oggetti abbandonati nelle isole ecologiche, triturati e passati al setaccio, ridiventano polvere e materia prima da reinserire nel ciclo produttivo. A ritmo di 165 tonnellate l’anno. Custodi di questo regno hight- tech, dove il 90% di ciò che si rottama prende nuova vita, sono le donne di cui Bibiana si è circondata. Su 40 dipendenti, alla voce “uomini” si contano solo i 12 operai dell’impianto di riciclaggio (tutti stranieri), un manutentore e Daniele, 32 anni, che fa da ponte con la plancia di comando, dove ci sono solo donne e molte giovanissime, comunque “under 52”, età della fondatrice: «Sono io la senior da quando Francesca se ne è andata in pensione. Un distacco sofferto a cui siamo arrivate dopo riduzioni d’orario e part-time somministrati in dosi omeopatiche». Altro che Jobs Act: «Per un’azienda è importantissima la continuità. Formare una persona è un grande sforzo, ma alla fine hai un valore perché hai investito nel capitale umano e te lo tieni stretto». Il fatto che alla Relight questo capitale si declini quasi per intero al femminile ha rappresentato uno stimolo in più a essere alternative, con la “e” finale.

Qui tutto è declinato, anche il concetto di permesso o di orario ridotto: «Se hai bisogno di tempo per stare con i tuoi figli, te lo prendi e ti gestisci in autonomia, lavori da casa se vuoi, tanto siamo sempre tutti collegati. È il nostro socialismo reale», si schermisce la fondatrice. Un mix di flessibilità e responsabilità che fa molto azienda “rosa”: «Non vorrei sembrare una che discrimina però, ho solo messo su una squadra che lavora in armonia e il caso ha voluto che fossimo tutte di un certo genere». Anche se, accanto a questa, c’è un’altra forma di flessibilità che permette alla Relight di sopravvivere: la cooperativa di addetti di cui l’azienda si serve per gestire ritmi di produzione assai variabili da un periodo all’altro dell’anno. «Con il picco a gennaio, dopo le feste di Natale, quando le persone si disfano dei vecchi elettrodomestici». La crisi, ovviamente, si è fatta sentire anche da queste parti: «L’abbiamo affrontata rinegoziando il contratto d’affitto, chiedendo ai nostri autisti di rifornirsi solo nelle stazioni dove la benzina costa di meno, abbiamo introdotto un sistema per spegnere la luce quando non ci serve», spiega Bibiana. Una spending review senza toccare i posti di lavoro e continuando a investire in ricerca. È il modello Rho. Porte aperte per chi vuole conoscerlo.

Foto di Stefano D’Amadio 

(Da Left numero 6)

Angelo Branduardi: breve storia del “no” rivoluzionario di Franca Viola

Ieri un post di Angelo Branduardi ha fatto il giro di facebook. Il cantautore ha ricordato la storia di Franca Viola la prima donna italiana a rifiutare il matrimonio riparatore. Un simbolo di libertà e dello sviluppo civile e sociale nell’Italia del secondo dopoguerra e dell’emancipazione delle donne italiane. Anche grazie al gesto rivoluzionario di Franca, quel coraggio di dire “no”, si è innescato il cambiamento e si è arrivati il 5 agosto 1981 ad abrogare l’articolo 544 del codice penale che prevedeva in caso di violenza carnale di poter “rimediare” al reato sposando la vittima con un “matrimonio riparatore”. All’epoca infatti lo stupro era considerato un reato contro la morale non contro la persona. L’Italia dovrà aspettare il 1996 per vedere la violenza sessuale legalmente riconosciuta non più come un reato “contro la morale”, ma come un reato “contro la persona”.

 

 

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