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L’incontro Renzi-Putin e il ruolo strategico dell’Italia su Mediterraneo e questione ucraina

«Per noi siete un grande partner in Europa». Così esordisce Putin in visita ad Expo in occasione della Giornata nazionale della Russia e continua: «Tra Italia e Russia esistono stretti rapporti da oltre 500 anni e insieme cooperiamo nell’arena internazionale, nell’interesse dei rispettivi paesi». La retorica del discorso potrebbe essere riassunta in “Russia-Italia una faccia una razza” per riprendere una celebre battuta di Mediterraneo di Salvatores. La ragione, come si intuisce, è squisitamente diplomatica. Lo “czar” Putin, dopo essersi fatto aspettare da Renzi per ben un’ora sotto il sole, non perde occasione per rimarcare i legami con il nostro Paese e il sostegno, per cui forse si aspettano un contraccambio in vista dei Mondiali in Russia previsti per il 2018: «Siamo stati fra i primi a sostenere la domanda italiana di poter ospitare l’edizione 2015 dell’Expo. E dall’Expo tutti insieme dobbiamo far ripartire la tradizionale amicizia tra Italia e Russia, per affrontare le sfide in cui abbiamo posizioni divergenti e quelle dove siamo insieme».

 

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A documentare l’incontro sui social l’immancabile foto di Filippo Sensi, portavoce del Presidente del Consiglio, conosciuto sul web come @nomfup

Nel frattempo Strasburgo gela all’idea di questa amicizia, perché Mosca «non è più un partner strategico dell’Ue», come si legge oggi in un rapporto sullo stato delle relazioni fra l’Unione Europea e la superpotenza sovietica. Al centro della questione ci sono la questione ucraina e le sanzioni, sulle quali Putin ha discusso con Renzi e dichiarato: «Abbiamo progetti insieme, le sanzioni ci impediscono di lavorare. Compagnie italiane che hanno vinto le gare di appalti per realizzare infrastrutture in Russia alla luce delle sanzioni non possono farlo. Bisogna trovare un altro modo».

L’altro focus riguarda invece le coste del sud Italia, il premier italiano ha sottolineato infatti l’importanza strategica dell’Italia e «la priorità dell’emergenza mediterranea», legata alla necessità di arginare i rischi del terrorismo.

Parole d’amicizia dunque che servono principalmente a ribadire chiaramente i due orizzonti principali della politica estera europea: Ucraina e Nord Africa. E il ruolo dell’Italia che punta ad accreditarsi come intermediario di fiducia dell’Ue sulle due principali aree di frizione.

 [social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/GioGolightly” target=”on” ][/social_link]  @GioGolightly

Sì al Ttip. Stop Ttip. Slitta il voto sul Ttip. Ma cos’è il Ttip?

Quando i nomi sono complicatissimi, in genere, non c’è niente di buono. Potremmo chiamarla Uon, Unione dell’Occidente neoliberista, quella a cui, da tre anni, il governo degli Stati Uniti e la Commissione europea lavorano, in gran segreto. È il Transatlantic trade and investment partnership (Trattato transatlantico di liberalizzazione di commercio e investimenti, Ttip), una vera e propria rivoluzione per le vite dei cittadini europei e statunitensi. Si tratterebbe del più grande mercato unico mai esistito, per trovare qualcosa di simile forse toccherebbe scomodare Carlo V. I mercati di Usa e Ue, infatti, sommati, fanno il 50 per cento del Pil mondiale.

Paventato da Barack Obama e Cecilia Malmstrom come un’imminente soluzione alla crisi, in realtà l’accordo appare ancora lontano e complicato, come dimostrano gli slittamenti che si susseguono da Washington a Bruxelles. Proprio oggi, 10 giugno, infatti, il Ttip doveva essere discusso e votato al Parlamento europeo, ma il voto è stato rinviato. Un rinvio dovuto agli oltre 200 emendamenti presentati e alle numerose richieste di voto disgiunto. Perciò – riporta l’Ansa – al presidente dell’Europarlamento Martin Schulz non è rimasta altra scelta che rinviare.

Ma cos’è questo Ttip? L’accordo commerciale ha lo scopo di creare un mercato unico per merci, investimenti e servizi tra Usa e Ue: abolizione dei dazi, uniformazione di leggi e regolamenti internazionali. E, soprattutto: segretezza. Il Ttip, infatti, contenendo i dettagli strategici dei mercati Usa e Ue, è stato secretato. Quello che si sa si sa grazie a Wikileaks o alle associazioni “portatrici di interesse” accreditate che possono partecipare ai dialoghi con la Commissione. Nemmeno i parlamentari possono assistere.

Le criticità sono tante. E riguardano la salute e il controllo dei prodotti alimentari, settori in cui in Usa e in Ue vigono leggi e regolamenti diversi. Chi si uniforma a chi? Uniformare le leggi vuol dire abbassare l’asticella dei controlli? Sul tema delle Pmi (piccole e medie imprese) italiane, uniformare e abbattere i dazi significa occasione di esportazione o affossamento del made in Italy? Per qualcuno potrebbe andarci di mezzo persino la sovranità dell’Unione europea, con lo svuotamento del potere decisionale dei Parlamenti in favore delle multinazionali. Le domande sono tante. Le risposte sono ipotesi e segretezza. Perciò, oltre 300 organizzazioni e migliaia di persone, hanno creato una rete dal basso tra Stati Uniti e Unione europea, sotto il nome di StopTtip. Per monitorare e informare sullo svolgimento dei negoziati. Proprio perché «non è un semplice accordo commerciale come altri, ma è una scelta strategica e culturale per l’Unione». Parola di Matteo Renzi.

[social_link type=”chrome” url=”https://stop-ttip.org/firma/” target=”on” ][/social_link] StopTtip

La svolta politica della Biennale

Dal padiglione giapponese

Ci voleva un curatore cosmopolita, aperto alla multidisciplinarità e fortemente radicato in una visione politica e sociale dell’arte, come Okwui Enwezor, per dare una positiva svolta alla Biennale dell’arte di Venezia, liberandola dal mainstream anglo-americano improntato al concettualismo più arido e al gigantismo di opere tardo Pop.

Con la mostra All the world’s future, Enwezor porta in laguna testimonianze fresche e vitali dalla nuova, vastissima, scena africana, ma anche dall’Asia e dall’underground Usa ed europeo. Senza compartimentizzare generi e provenienze culturali. Ma al contrario creando fertili e impreviste situazioni di dialogo. Come quella all’inizio del percorso, fra storiche opere dell’americano Bruce Nauman in cui campeggiano parole come “umano”, “vita”, “passioni”, “morte”, colorate da luci neon, accanto alla selva di coltelli creata dall’algerino Adel Abdessemed, e ironicamente intitolata Ninfee. Due modi assai diversi di raccontare le tappe della vita e che indirettamente illuminano nodi culturali, tensioni e conflitti che attraversano i rispettivi Paesi d’origine. Ma potremmo fare molti altri esempi per dire come Enwezor sia riuscito a mantenere le promesse (vedi Left n. 16) nel realizzare una mostra aperta al nuovo, fortemente innervata da temi politici e in cui molto spazio è riservato al dramma che vivono oggi i migranti.

Tema su cui il curatore di origini nigeriane invita a riflettere anche con il muro di valigie che Fabio Mauri realizzò negli anni Settanta. Nel padiglione giapponese invece lo ritroviamo evocato da un barcone sotto una pioggia di chiavi appese (in foto). Un filo rosso quello del viaggio, dello sradicamento, che attraversa molti padiglioni nazionali. Declinato in modo suggestivo, con lacerti di giornali, monumenti abbattuti e paesaggi imprigionati dietro grate nel padiglione armeno che con la mostra Armenity nel Monastero Mekhitarista dell’Isola di San Lazzaro (fino al 22 novembre, catalogo Skira) ha vinto il Leone d’oro di questa 56esima Biennale. Un muro attraversa anche il padiglione messicano, evocando quel confine-barriera che è diventato luogo di morte per tanti latinos che cercano di attraversarlo inseguendo il miraggio di una vita migliore negli Usa. L’arte non descrive i fatti, racconta per immagini potenti. Tanto potenti che c’è chi nell’amministrazione veneziana si è sentito urtato dalla “moschea” ideata dall’artista svizzero Christoph Buchel nella chiesa privata di Santa Maria della Misericordia, costringendo il padiglione islandese che ospitava l’ installazione a chiuderla in fretta e furia.

La Turchia dopo le elezioni (photogallery)

dopo le elezioni in turchia

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Le foto scattate dal nostro inviato in Turchia, Francesco Polacchini, per raccontare i giorni dopo le elezioni ad Istanbul.

La buona scuola? Non è costituzionale e il governo va giù

La Commissione Affari Costituzionali del Senato non ha concesso il parere di costituzionalità al disegno di legge sulla riforma della scuola. Oggi il gruppo del Pd al Senato aveva cercato di trovare un accordo con il Ministro dell’Istruzione Stefania Giannini. Invece, nulla di fatto. Il voto è terminato con un pareggio, con il no determinante dell’ex sostenitore della maggioranza Mario Mauro, presidente del Partito dei Popolari e senatore del gruppo Grandi autonomie e libertà. «Da un punto di vista costituzionale la riforma della buona scuola è scritta male – ha spiegato Mario Mauro – pertanto fermiamoci e riscriviamola meglio». «Nella commissione Affari Costituzionali del Senato la maggioranza è stata battuta sulla riforma della scuola. A maggioranza, la commissione ha dato parere negativo» ribadisce Loredana De Petris, presidente del gruppo Misto-Sel al Senato. Voto a favore, anche se non sufficiente a non mandare sotto il governo, è invece quello di Anna Finocchiaro (Pd) che presiede la commissione.
Le modifiche al testo che sono state stabilite questa settimana verteranno per lo più sul potere “assoluto” del Preside-manager e sui criteri di valutazione degli insegnanti che continuano a generare forti critiche e scioperi nel mondo della scuola e che, forse, il governo provvederà a ridurre ulteriormente, senza però abbandonare l’impostazione generale. Difficile invece, a sentire i senatori Pd, cambiare rotta sulle assunzioni, aumentando la platea dei prof da stabilizzare. Dopo il voto della commissione Bilancio sulle coperture necessarie, comincerà comunque quello sui quasi 2000 emendamenti.

Turchia, dopo il voto incertezza per il nuovo governo

In Turchia le trattative per la formazione del nuovo governo turco sono in corso. Per il presidente uscente, Recep Tayyip Erdogan, è stata sicuramente una sconfitta: non ha ottenuto i tanto agognati 2/3 dei seggi e non può quindi governare da solo.

Un’election day “bulgara” quella di ieri, con un’affluenza del 99,6%. Il partito di Erdogan, l’islamico Akp (Partito per la giustizia e lo sviluppo), ha per ora conquistato in Parlamento 258 seggi su 550 fermandosi al 41% dei consensi e perdendo così circa il 10% (quasi 70 seggi) rispetto alle precedenti politiche del 2011. Il maggior partito d’opposizione, il laico Chp (Partito popolare repubblicano), che si ispira al padre della Turchia moderna, Mustafa Kemal Ataturk, agli antipodi rispetto all’Akp, al momento ha 132 seggi col 25% dei voti. Segue l’Mhp (Partito del movimento nazionalista) con 81 seggi e il 16%, mentre il partito filo-curdo Hdp (Partito democratico dei popoli), nato solo nel 2014, raggiungendo un insperato 13% ne conquista 79. Gli altri non avendo superato la soglia di sbarramento fissata al 10%, la più alta al mondo, restano fuori.

I dati definitivi dovrebbero essere diffusi in nottata. A questo punto ad Erdogan non resta che formare un governo di coalizione coi nazionalisti dell’Mhp. Assieme potrebbero contare su 339 parlamentari, contro i 211 di un’alleanza tra partito popolare (Chp) e filo-curdi (Hdp). Anche se il leader dei nazionalisti, Devlet Bahceli, ha già chiuso la porta al presidente uscente: «Se l’Akp non sarà capace di allearsi con altri partiti, sia che si tratti dei socialdemocratici o dei curdi, bisognerà tenere elezioni anticipate». La legge elettorale turca concede 45 giorni di tempo per la formazione del nuovo governo, superati i quali vanno indette nuove elezioni. Per scongiurarle, estromettendo Erdogan, ininterrottamente al potere da 13 anni, l’unica strada sarebbe quindi un’alleanza tra i tre partiti d’opposizione, ritenuta al momento difficile, nonostante siano già in corso trattative in tal senso. Nel Kurdistan i festeggiamenti per questo risultato ritenuto storico sono andati avanti per tutta la notte e riprenderanno non appena verrà proclamato il risultato definitivo ufficiale.

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Per la prima volta il partito filo-curdo correva da solo e non con candidati indipendenti ma con una lista unica, guidata dal loro nuovo leader, Selahattin Demirtas, definito a seconda di chi lo dice l’Obama o il Tzipras d’Oriente. «La democrazia e l’uguglianza sono sempre stati i nostri capisaldi e continueremo ad impegnarci per questo, mettendoci immediatamente al servizio di tutti quelli che ci hanno sostenuto, appoggiato e votato in tutta la Turchia», ci ha assicurato Dilek Ocalan, la nipote del leader del Pkk appena eletta in Parlamento tra le fila dell’Hdp. In queste politiche si è registrato il record di presenza femminile in Parlamento: tra i banchi del Meclis, la Grande Assemblea Nazionale di Ankara, ne siederanno 19 in più rispetto a quello uscente, in totale ben 96, un risultato al quale hanno contribuito soprattutto i curdi, i quali hanno sempre un doppio candidato uomo-donna con pari poteri.

Dai primi di maggio, i dirigenti dell’Hdp hanno però denunciato oltre 150 aggressioni ai danni dei loro militanti. Un’escalation partita con due pacchi bomba nelle sedi di Mersin e Adana e culminata venerdì con i quattro morti e centinaia di feriti nell’attentato di Diyarbakir. Per non parlare dell’estromissione da molti seggi, denunciata dalle organizzazioni internazionali e dei diritti umani, degli osservatori internazionali chiamati a vigilare sulla regolarità del voto. L’esito di queste elezioni è l’effetto della resistenza delle forze di autodifesa curde che hanno respinto nella città siriana di Kobane (ribattezzata la Stalingrado d’Oriente), il pesante assedio dello Stato Islamico durato quasi 4 mesi. Ma anche dei numerosi malcontenti.

Si va dalla crisi economica alla corruzione, passando per quello tutto interno all’Akp nato in seguito al tentativo di riforma in chiave presidenzialista dell’assetto governativo voluto da Erdogan, il quale mirava così ad accentrare tutto il potere su di sé. Tanto che l’opposizione denunciava apertamente il pericolo “dittatura islamica” e c’era chi ormai parlava apertamente del rischio guerra civile anche qui in Turchia, quattro anni dopo l’inizio di quella nella confinante Siria. Cui si aggiunge la repressione dei giovani che nel 2013 manifestarono nella città di Istanbul, contro la costruzione al posto di Gezi Park di un centro commerciale. Proteste spente nel sangue dalla polizia. Il bilancio fu pesantissimo: 9 morti e 8.163 feriti. Se questo voto, ritenuto il più importante della storia recente del Paese, è stato come molti credono un referendum su Erdogan, la Turchia gli ha detto no, iniziando a voltargli le spalle.

Foto: Maria Novella De Luca

L’assurdo #stopInvasione di Maroni smontato in 5 punti

maroni #stopinvasione

Tra ieri e oggi sui social, tv e giornali, imperversa la querelle #stopInvasione lanciata dal governatore leghista Roberto Maroni. Ecco cosa è successo in 5 punti:

  • La scorsa settimana una circolare è partita dal Viminale chiedendo alle Regioni di rispettare le quote previste per l’accoglienza dei migranti e di fare un censimento degli edifici e delle caserme a Nord che potrebbero ospitarli.
  • Al grido di #stopInvasione la reazione della Lega Nord non tarda ad arrivare . Il 7 giugno Roberto Maroni, governatore della Regione Lombardia, minaccia via twitter sindaci e prefetti, annunciando l’invio di una lettera in cui li diffida dall’accogliere i profughi sbarcati negli ultimi giorni in Italia e minacciando di tagliare i fondi regionali ai comuni qualora decidessero di seguire le indicazioni del Viminale.
  • Il Governo, tramite il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico, ricorda a Maroni che non è nelle competenze dei governatori dare disposizioni del genere ai prefetti e ai sindaci, l’operazione pertanto è illegittima. Sergio Chiamparino, presidente dell’Assemblea delle Regioni parla di posizione strumentale del governatore lombardo: «Se procedesse su questa linea sarebbe più che giusto che il Governo togliesse a Lombardia, Veneto e alle altre Regioni che condividono queste posizioni, gli stessi finanziamenti che Maroni vuole togliere ai Comuni che ospitano i profughi».
  • Matteo Salvini sostiene la linea #stopinvasione di Maroni e si dichiara intenzionato a creare nuove iniziative comuni con il governatore della Liguria Giovanni Toti e quello del Veneto Luca Zaia. «Siamo pronti a presidiare e occupare le prefetture» ha detto a Radio Padania
  • Mentre il leader della Lega Nord è impegnato a cavalcare la protesta, oggi si è tenuto l’incontro tra il Commissario per l’immigrazione dell’Unione Europea, Dimitris Avramopoulos, e il ministero dell’Interno, Angelino Alfano, anche lui contrario alla posizione leghista. «Chiediamo un’equa distribuzione dei migranti in Italia, così come in Europa, ed è un atteggiamento insopportabile di odio verso il Sud dire ad alcune regioni “sbrigatevela da soli”» ha commentato Alfano a margine del vertice con il Commissario europeo. Avramopoulos si è limitato a ribadire la linea europea: «Sono qui per lanciare un messaggio forte: in questo periodo difficile, con una pressione immigratoria così forte, l’Italia non è da sola. La Commissione europea sarà qui per sostenerla. L’Agenda per l’immigrazione è un test per l’Europa e non torneremo indietro: siamo impegnati e determinati ad andare avanti».

Secondo dati forniti dalla Guardia Costiera, solo nel weekend appena trascorso, sono stati soccorsi quasi 6000 migranti al largo delle Libia. Eppure invece di preoccuparsi delle vite umane, c’è chi continua a strumentalizzare le informazioni, a lanciare hashtag e a confondere i numeri dell’accoglienza.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/EmilyMenguzzato” target=”on” ][/social_link] @EmilyMenguzzato

Ritratto di Demirtas, l’uomo nuovo che vuole cambiare la Turchia

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Ora i paragoni si sprecano: “lo Tsipras turco”, il suo partito una sorta di “Podemos sul Bosforo”. Gli accostamenti hanno qualche ragion d’essere (per fortuna nessuno ha osato arrivare al “Grillo di Istanbul), ma l’uomo nuovo della politica turca, il quarantaduenne Salahattin Demirtas, è anche, e soprattutto, qualcosa di più: un leader carismatico che ha saputo dare orgoglio, unità e identità alla frantumata (in partitini e tribù) minoranza curda senza però confinare il suo partito l’Hdp, dentro gli stretti confini di un’appartenenza comunitaria.

E questo perché, Demirtas ha saputo guardare oltre, proporre una visione laica, libertaria, della Turchia, attirando a sé il voto di una società civile organizzata, particolarmente attenta ai temi dei diritti civili, della libertà di espressione, di una sessualità plurale che rivendicava dignità e spazi nella vita pubblica. I colori raccontano a volte il senso di una impresa politica molto più delle parole. E allora qualcosa vuol dire che a festeggiare la vittoria elettorale dell’Hdp, (5,7 milioni di voti, pari al 12,7% e un totale di 78 deputati in Parlamentosia stata una folla festante che ha percorso le strade di Tarlabasi, un quartiere nel centro di Istanbul dove la minoranza curda la fa da padrone, sventolando non solo un mare di bandiere giallo-verde-rosse, i colori dei curdi., ma anche quelle arcobaleno, i colori della pace, o quelle che sventolano festose nei gay pride.

Colori ed età: molti degli attivisti dell’Hdp, e del suo nuovo elettorato, sono giovani under 30, diversi dei quali protagonisti della rivolta libertaria di Gezi Park. In campagna elettorale aveva ribadito in ogni comizio che : «Siamo arrivati in una fase in cui possiamo iniziare a costruire una nuova vita mi candido non solo per poter diventare un presidente diverso dagli altri, ma anche per cambiare la Turchia». Così, in una intervista a Euronews, Demirtas , originario di Elazig, nel Kurdistan turco, una laurea in giurisprudenza racconta di sé e della scelta di impegnarsi in politica: «Mi sono sempre occupato di politica, fin da quando ero ragazzo.

La politica fa parte della mia vita. Mi sono sempre battuto per la democrazia. E come molti giovani curdi ho fatto diverse battaglie contro i diritti negati ai curdi, in nome dell’identità etnica, e contro l’oppressione. Sono in politica da quasi 25 anni. Negli ultimi otto anni sono stato parlamentare e co-presidente di un partito. Ho anche fatto l’avvocato nel campo dei diritti umani (è stato il fondatore del presidio di Amnesty International a Diyarbaki, ndr), ma come volontario.

Insomma in tutti questi anni, ho sempre lottato, senza un attimo di sosta, per i principi e i valori in cui credo. E non ho mai smesso. Posso definirmi un candidato cresciuto in un momento cruciale della storia della Turchia, ovvero quello della lotta per la democrazia». Una lotta che in molti, nella Turchia del “Sultano Erdogan” hanno pagato con la vita. Gli eurocentrici diranno di lui che “guarda ad Occidente piuttosto che a Oriente”. Non è così. Il messaggio dell’uomo nuovo della politica turca è che valori come quelli dell’inclusione, dell’uguaglianza della fraternità, dei diritti umani, della pace, sono principi universali, che appartengono all’umanità. E che possono unire le due sponde del Bosforo.

Diario di bordo. Dalla Coalizione sociale

Via dei Frentani, Roma 7 giugno 2015. Qui, oggi, qualcosa è accaduto. Il soggetto “coalizione sociale” è finora sfuggito ai più. Concetto indefinibile, prima di oggi forse incomprensibile, perché non riducibile ad esatte definizioni logiche ma “semplice Idea”. Idea originata dall’esperienza della persona che l’ha concepita: Maurizio Landini.

Cosa è successo oggi in Via dei Frentani?

Si è discusso per due giorni, i temi tanti, dai Saperi e la conoscenza, alle città. Al centro la necessità di tornare a occuparsi dell’interesse generale nello spazio pubblico. Quello spazio pubblico che da tempo, semplicemente, non interessa più alla politica istituzionale. Prima Lorenza Carlassare, poi Stefano Rodotà hanno spiegato magistralmente come la finalità sia quella di ricostruire uno spazio sociale che poi arriva a produrre voti di sinistra. Uno spazio bene comune in cui nessuno viene lasciato solo.

Rodotà si è soffermato sulle vicende di Mafia capitale per spiegare come queste non siano solo una questione di corruzione, ma il segnale forte di una dissoluzione dello Stato. Continuamente messo sotto attacco. Svilita la partecipazione dei cittadini attraverso tutta una serie di leggi anticostituzionali, come afferma la costituzionalista Carlassare, dall’Italicum al Jobs act, fino al Ddl della Buona scuola. La partecipazione legittima della società viene negata e poi destrutturata quotidianamente. Renzi, dicono, ha abbracciato in pieno il credo thatcheriano: “La società non esiste”.

A tutto questo, Rodotà contrappone l’aspettativa che emerga una “creatività sociale” in grado di riequilibrare i poteri democratici che il governo sistematicamente tenta di accentrare.

 

Quando, alla fine, prende la parola Landini l’aspettativa è palpabile. L’idea di coalizione sociale è sua. «Non possiamo continuare a prendercela col “cattivo” di turno: di cosa finora non ci siamo accorti? In cosa, noi, abbiamo sbagliato?», si chiede il segretario Fiom.

In cosa abbiamo sbagliato? L’interrogativo è potente, chiama in causa tutti, nessuno escluso.

In che modo riusciranno a mobilitarsi le energie sociali che hanno aderito e aderiranno alla coalizione anche in vista della prossima assemblea nazionale in autunno”? E in che misura la coalizione sarà capace di influenzare le dinamiche politiche nazionali? Nessuno lo sa per certo. Quel che è certo è che oggi un percorso è iniziato. Autentico e popolare. Giusto.

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Mafia Capitale: il patto del “Salvatore” è una grande squadra.

C’era un patto segreto alla regione Lazio tra esponenti della maggioranza e dell’opposizione per spartirsi l’appalto più corposo della Regione Lazio, ovvero il Recup, il centro unico di prenotazione.

Il consigliere del Pdl Luca Gramazio e Maurizio Venafro, capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti, avrebbero, secondo il giudice che lo definisce “accordo corruttivo”, consentito “all’organizzazione riconducibile a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati di inserirsi, divenendo infine aggiudicataria del terzo lotto”, in un affare da oltre 60 milioni di euro.

Tutto si è svolto a tappe secondo quanto riportato nell’ordinanza. All’interno del proprio ufficio  Salvatore Buzzi illustrava a Carminati “gli emendamenti” che Fabrizio Testa avrebbe dovuto portare, in originale, in Regione, relativi ai nuovi finanziamenti che sarebbero stati ottenuti grazie all’intervento di Luca Gramazio del Pdl e Marco Vincenzi, capogruppo del Pd alla Regione Lazio.

Salvatore Buzzi avrebbe riferito a Massimo Carminati dell’esistenza di accordi politici tra maggioranza e opposizione e il fatto che tutto si svolgeva alla luce del sole:

«Eh noi gli diciamo un pezzettino», «ah apposta quel pezzettino», «allora guarda eh… Carlo… mo’ te le spiego per l’ultima volta le cose, però non me ce fa’ torna’ sopra… per Zingaretti, per Marroni e Coratti è tutto alla luce del sole… non c’è il minimo problema per Zingaretti! Per tutti gli altri è … allora tu per non sbagliarti… le trattative le fa’ Fabrizio e noi…»

Fabrizio Testa al telefono con Luca Gramazio commentando l’esito positivo col loro solito linguaggio lasciavano trasparire la propria soddisfazione per i risultati che stavano ottenendo grazie ad un efficace lavoro di squadra: «Comunque alla grande, squa… grande squadra, proprio grande, grandissima squadra, proprio…bene, bene così…».

Insomma questo Patto del Salvatore, o del Nazareno versione carbonara, funzionava allegramente e bene, tanto che squadra che vince non si cambia (almeno per il sistema Mondo di Mezzo).

A Roma e in altri comuni del Lazio questa sorta di patto ha funzionato per anni, in onore a Buzzi che ha anticipato i grandi accordi della politica nazionale.

La rete mafiosa nella regione della capitale ha avuto almeno due decenni per espandersi e radicarsi in profondità. Lo sanno bene i capi del Partito Democratico che bacchettano la destra di Alemanno, non ammettendo che tutto iniziò nel periodo di Francesco Rutelli e proseguì, anzi prosegue fino ad oggi.

Un sistema che ha visto coinvolti non solo politici di opposta provenienza ma anche vari soggetti come imprenditori spregiudicati, avventurieri della finanza, sindacalisti conniventi, faccendieri mediocri in un circo Barum tra mafia, corruzione e politica.
Buzzi e Carminati hanno potuto godere di questo sistema di appoggi e complicità impressionanti, mentre la città che vedeva e  sapeva, si ricopriva di una nube di omertà.

Ma come si sono evolute le figure di Buzzi, Odevaine e soci? Per dirla con esempi, Luca Odevaine era il braccio di destro di Veltroni sindaco e fu nominato capo della polizia provinciale sotto la giunta di Nicola Zingaretti. Quindi gli equilibri che si andavano a creare di giorno in giorno nella politica del Lazio, ha fatto sì che i protagonisti dello scandalo “Mondo di mezzo” potessero avere un potere contrattuale più influente di qualsiasi singolo iscritto del Partito Democratico in qualsiasi tipo di assemblea. È di fronte a questo tipo di atti che tutto si è bloccato. E non è che le ideologie non ci sono più, non è che manchino braccia e menti giovani e pulite nella nostra politica, ma sono state sbattute fuori dalla porta delle sezioni di partito, per fare spazio ai tanti Buzzi, Odevaine, Coratti, Ozzimo, Marroni di turno.

L’Italia,ormai impantanata nella corruzione, che resta il primo e più evidente problema da risolvere, privata dell’etica pubblica (elemento fondante della politica) e ricattata dal sistema mafioso, lascia che tanti giovani emigrino in cerca di un futuro migliore o forse di una semplice opportunità.

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