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«Slow Food e McDonald’s insieme? a me viene un’aritmia», Carlo Petrini boccia l’Expo

«L’Italia ha perso l’occasione di portare le tematiche fondative e importanti per il cambiamento di questo sistema alimentare». Ha già le idee chiare sull’Expo Carlo Petrini, fondatore di Slow Food. Pensa alle piccole comunità, alle quali l’esposizione universale di Milano ha privilegiato gli stati e le industrie.

«Quando Giuseppe Sala dice che a Expo c’è posto per tutti, che ospita Slow Food e McDonald’s insieme, a me viene un’aritmia. Perché davanti a chi vende un panino con la carne a un euro e venti come si fa a spiegare il valore e i prezzi di chi alleva e produce secondo certi criteri?» si domanda infine Carlin Petrini.

La più grande catena di fast food del mondo non ha tardato a rispondere: «Migliaia di persone ci scelgono liberamente, magari dopo essere passate a visitare l’immenso, triste e poco frequentato padiglione di Slow Food».

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Voto utile a chi? Cinque premesse da considerare prima del 31 maggio

Ormai è abitudine comune cercare qualcosa su google, così comune che ne è nato un verbo: googlare. Allora googliamo la parola utile e clicchiamo su immagini. Ecco cosa appare: legno e materiali da costruzione, arnesi, loghi di banche, brand, statistiche. Neanche un’immagine che rappresenti una scheda elettorale. Bizzarro. Non si fa che parlare di voto utile e lo strumento più inflazionato per la ricerca di informazioni non riporta nessun riferimento alle elezioni. Un caso?

Oggi ci si appella al voto utile per esortare i cittadini a non “sprecare” il loro voto buttandolo nelle mani di minoranze che disperderebbero l’unità necessaria per governare. Ma si può definire un voto “sprecato”? Come dire: tu che sei convinto di votare per qualcuno e per qualcosa stai sprecando il tuo tempo, il tuo voto è inutile. Che non significa altro che: sei inutile. E questo è il primo presupposto da considerare. Sei inutile perché la tua idea di futuro e la tua speranza finiranno nelle mani di chi perde, dallo a chi ha più probabilità di vincere. Secondo presupposto: il tuo voto ha senso solo se fa vincere.

Il terzo presupposto ha a che fare con l’idea di collettività. Appellarsi al voto utile (stiamo assecondando l’idea che si possa davvero parlare di voto utile, un po’ come si fa in matematica con le dimostrazioni per assurdo) sembra quasi esortare a eseguire un calcolo. Moltiplico l’utilità per la probabilità e da qui ne nasce la scelta da fare (secondo la teoria della decisione, si chiama massimizzazione dell’utilità). I criteri per prendere una decisione diventano numeri e la scelta il frutto di un calcolo. Davvero, quindi, votare significa calcolare?

Il quarto presupposto mette in questione l’assenza di contenuti. Relegare l’esercizio del voto a un mero calcolo utilità-probabilità significa non invitare l’elettore a ragionare nel merito delle proposte programmatiche della propria candidatura.

Il quinto e ultimo presupposto riguarda la dimensione della collettività. L’inganno dell’esortazione al voto utile è questa: uniamoci, creiamoci come forza, non dividiamoci, non disperdiamoci e votiamo tutti quanti per qualcuno. E detta così sembra davvero che l’unione faccia la forza. L’inganno, invece, consiste proprio in questo: chiedere il voto utile cela una soddisfazione soggettiva e individuale. Non tiene conto del tutti, ma tiene conto dell’uno, cioè di chi lo chiede. Il punto di vista viene spostato dalla parte del politico e non dell’elettorato. Io ti chiedo di non votare per x e di votare per me. Quando, invece, io dovrei chiederti di votare per chi tu vuoi e chi tu ritieni giusto.

Quindi, voto utile significa: se voti per x il tuo voto è inutile, se voti per me hai maggior probabilità di vincere, se calcoli bene capirai da solo che conviene, non importa quello che sto proponendo, ascolta me e non ascoltare te.

Strano. Io ho sempre pensato che l’unica utilità del voto fosse poter scegliere da chi essere rappresentata. È necessario, allora, ragionare su questi cinque presupposti, perché sono un non-detto che pesa, che bisogna portare alla luce.

E dobbiamo farlo prima del 31 maggio.

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Le cinque delle 13.00

Palmira in mano all’Isis, decapitati soldati siriani. La città di Palmira, compreso il sito archeologico dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, è sotto il controllo dei jihadisti dell’autoproclamato Stato Islamico, che continua ad espandersi e ora controlla oltre il 50% della Siria.

Da chiarire i movimenti di Abdel Majid Touil, il marocchino sospettato di essere coinvolto nella strage di Tunisi, dopo il suo ingresso in Italia lo scorso 17 febbraio: «tra quella data ed il 19 maggio non sono emerse evidenze della sua presenza sul territorio nazionale» ha detto il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, nella sua informativa alla Camera.

L’1% più ricco della popolazione italiana detiene il 14,3% della ricchezza nazionale netta definita come la somma degli asset finanziari e non finanziari, meno le passività, praticamente il triplo rispetto al 40% più povero, che detiene solo il 4,9%. Lo riferisce un rapporto Ocse.

La Grecia è davvero sull’orlo del default e a confermarlo sono i deputati di Syriza annunciando che il Governo, senza nuovi aiuti, non rimborserà i 300 milioni di euro che deve al Fmi il 5 giugno. Ma pagherà invece stipendi e pensioni, perché i cittadini contano più dei creditori internazionali.

California, disastro ambientale: rischio nuova marea nera. A causa della rottura di un oleodotto si riversano nel Pacifico migliaia di litri di petrolio. Le cifre ufficiali parlano di 80.000 litri ma potrebbero essere 400.000.

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C’è vita a sinistra. Anche nel regno di sua maestà

Dalle isole britanniche e le montagne scozzesi arrivano due messaggi chiari. Primo: quando hai perso contatto con la tua storia, e non hai un progetto politico alternativo, sei destinato a prendere una salutare batosta elettorale. Laburisti e liberaldemocratici, per ragioni diverse, hanno perso contatto con le loro radici storiche. Risultato? Se uno deve votare un partito che propone un messaggio, che è copia sbiadita dell’ideologia dominante, tanto vale votare per l’originale, specie quando uno c’è l’ha già in casa.

Secondo: c’è vita a sinistra anche nel Regno di sua maestà. Certo si tratta solo di  una voce di periferia come spesso accade di questi tempi. Una voce squillante però e con un accento un po’ strano. Un accento che magari farà sorridere i convitati al ricco banchetto conservatore. Tuttavia, quella voce dall’accento marcato, porta un messaggio solidaristico e progressista. Ricordo le parole del mio amico Cailean, che qualche anno fa guardandomi serio mi disse, ne ho abbastanza di Oxford, torno a Glasgow per ricostruire la sinistra. Devo dire che non gli diedi molto peso e, come spesso mi accade, mi sbagliavo grossolanamente.

Non c’è progressismo senza solidarietà e oggi essa va ricostruita partendo dai territori marginali. Da qualche anno, Cailean e gli altri membri dello Scottish National Party, si sono messi in marcia quartiere per quartiere. Si sono messi in marcia per mobilitare “la gente comune” contro l’ideologia dominante. Un’ideologia che in pochi decenni ha quasi completamente distrutto, garanzie sociali che erano il fiore all’occhiello di Albione.

Quello dello Scottish National Party, non è semplice indipendentismo, ma la voglia (e la capacità pratica!) di mobilitare chi, stanco di certe politiche, si riconosce come popolo. Un afflato solidaristico e popolare quello scozzese, che ricorda molto da vicino quello di Syriza. Il successo elettorale della nuova sinistra greca è fatto si di lacrime, sangue e austerità, ma anche e soprattutto di gruppi di mutuo soccorso, che sono sorti come funghi.

Un altro popolo che si mette in marcia e non si arrende a essere sferzato e battuto; un altro popolo che nel bel mezzo delle difficoltà si riscopre “collettivo”. Queste storie di periferia hanno valore fondante anche per il futuro del progressismo italiano. È solo tornando alle radici, allo “spirito solidaristico spicciolo”, ai messaggi semplici e popolari che parleremo alla maggioranza invisibile.

A chi mi fa notare, che ricostruire la sinistra significa fare un partitino del 3%, vorrei ricordare che in Italia, nessuno (a parte Grillo e la Lega!) a sinistra ha mai avuto la capacità di parlare direttamente alla maggioranza invisibile. Non c’è rappresentazione, non c’è progressismo, non c’è sinistra, se non riparti dalle “tue” basi sociali: dalla creazione di uno spirito solidaristico, fondato sul riconoscimento della comune condizione di svantaggio. Dal comune interesse alla redistribuzione e all’uguaglianza. Un messaggio questo, che la sinistra ha smesso di incarnare nel nostro Paese da almeno quarant’anni. La maggioranza invisibile e la sinistra mi ricordano terribilmente quelle statue di Michelangelo incapaci di uscire dal marmo, incapaci di essere rappresentate, incapaci di rappresentarsi. Non penso che sia un compito facile uscire da quel marmo, ma piuttosto che sia un percorso necessario.

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Le cinque delle 20.00

La #buonascuola di Renzi passa alla Camera senza i voti della minoranza Pd. A  favore 316 voti, 137 contrari e un astenuto. Contro il provvedimento hanno votato Sel, M5s, Lega e Forza Italia. Sono 28 le defezioni della minoranza Pd, tra cui quella di Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Roberto Speranza, Alfredo D’Attorre, Stefano Fassina, Guglielmo Epifani. Proteste per tutta la mattina in piazza Montecitorio.

Strage Tunisi, un arresto a Milano. Fermato su mandato delle autorità tunisine un cittadino marocchino ritenuto coinvolto nell’attentato al Museo del Bardo in cui morirono 24 persone. Un mese prima era arrivato a Porto Empedocle su un barcone.

Whirlpool, nuovi tagli: gli esuberi salgono a oltre 2mila. Cresce il numero dei dipendenti in uscita mentre il ministro Guidi bacchetta l’azienda: è un piano inqualificabile, l’azienda ne presenti uno credibile. Landini, segretario Fiom: ora la mobilitazione dell’intero gruppo.

Isis a Palmira, conquistato un terzo dell’antica città siriana. La milizia pro-governativa ha cominciato ad evacuare i cittadini, dopo che miliziani jihadisti sono entrati in città, riferisce la tv di Stato siriana. Intanto centinaia di statue sono state rimosse dal sito archeologico patrimonio dell’Unesco di Palmira e spostate in luoghi sicuri.

Sorrentino con “Youth-La giovinezza” a Cannes, accoglienza contrastata. Applausi, ma anche qualche dissenso alla fine della proiezione stampa del terzo film italiano in corsa, dopo Garrone e Moretti, nella 68/a edizione del Festival di Cannes.

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L’Arci Movie a Ponticelli, quando il cinema cambia la realtà

È il 1990, a Ponticelli, periferia est di Napoli, un gruppo di appassionati di cinema lancia una campagna di mobilitazione: “Salviamo il Pierrot”, con l’obiettivo di riportare in attività l’unico  cineteatro del territorio. Cultura e aggregazione popolare sono gli strumenti con cui i cinefili si oppongono al degrado urbano. Ed è questa convinzione che li porta a vincere la battaglia, sostenuta da numerose personalità del mondo del cinema, primo fra tutti il regista Ken Loach.

Da qui prende il via l’esperienza del circolo Arci Movie. A parlarcene è il neopresidente Roberto D’Avascio che, con orgoglio, racconta: «Quella di Ponticelli è una realtà in cui il tasso di abbandono scolastico è elevatissimo, le guerre di camorra son ricominciate nuovamente da qualche mese e la droga diventa troppo spesso la soluzione più facile per tanti giovani».

Roberto racconta come, grazie al lavoro e alla passione del circolo, si sia riusciti a trasformare una sala cinematografica degli anni 50 in un vero e proprio modello di impresa sociale. «Siamo riusciti, con gli strumenti tipici del no-profit, a replicare le attività su tutto il quadrante orientale di Napoli».

Rassegne, eventi, laboratori e incontri d’autore con ospiti illustri del mondo della cultura. In poche parole, un successo: il cineforum conta più di mille soci, la mediateca vanta un catalogo con più di 7.500 titoli e ogni anno vengono organizzate oltre 120 proiezioni nelle scuole per diffondere la cultura cinematografica. Infine, «anche grazie alla collaborazione con il regista Leonardo Di Costanzo», precisa il presidente, «lavoriamo a Filmap (Film a Ponticelli), un centro di formazione e produzione cinematografica».

Questo presidio Arci è vivo e in continuo fermento. Prima dei saluti, Roberto ci invita al prossimo appuntamento: Astradoc, un viaggio in 5 tappe al Cinema Academy Astra di Napoli, per tutto il mese di maggio.

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Calcioscommesse: la Gomorra nel pallone

Capita che un’intera generazione, quella degli anni 70, rimpianga il calcio di una trentina d’anni fa, quello dell’era pre-berlusconiana, ancora un po’ romantico, non ancora contaminato dall’inflazione di immagini televisive e dalle puntate sulle partite. Ma c’è un filo conduttore che lega il pallone dell’epoca a quello attuale: gli scandali-scommesse. Dal primo del 1980, quello delle manette negli stadi, a quello dell’86, passando per Calciopoli nel 2006 fino ad arrivare a Scommessopoli di quattro anni fa. Corruzione dormiente, a intermittenza, difficile da controllare e monitorare e sempre pronta a colpire.

Penalizzazioni, retrocessioni, squalifiche, campioni e comparse finite ai domiciliari e in carcere. Tutto finito? Macché. Ieri l’ultimo capitolo, stavolta nel sommerso della Lega Pro e della Lega Nazionale Dilettanti. È la Gomorra del pallone, che muove denaro sporco nei campi di provincia. La Lega Pro è la vecchia serie C: calciatori professionisti a tutti gli effetti, ma con stipendi non certo da favola e non di rado alle dipendenze di società poco solide. I Dilettanti, di cui la D è la serie di punta, lo sono solo di nome, perché di soldi ne girano un bel po’ anche lì, ma non si naviga certo nell’oro. Terreno fertilissimo per la malavita organizzata e per faccendieri senza scrupoli, che attrae anche l’attenzione dei “signori delle scommesse”, residenti all’estero e particolarmente presenti nell’Europa orientale, veri e propri professionisti delle puntate truccate.

L’ultimo vaso di Pandora del calcio italiano l’ha scoperchiato la Procura della Repubblica di Catanzaro, attraverso un’indagine (e un’ordinanza di mille e cento pagine) che ha portato a 50 arresti e 70 persone indagate fra calciatori, allenatori, dirigenti, scommettitori e persino magazzinieri di trentatré società. Ventotto le partite nel mirino dell’operazione denominata “Dirty Soccer”, quasi tutte di Lega Pro e Dilettanti, mentre la serie B viene solo sfiorata.

L’indagine è partita dall’intercettazione di un telefonata di Pietro Iannazzo, nipote del boss della ‘ndrangheta di Lamezia Vincenzino, in cui parlava dei suoi interessi nel Neapolis, squadra di Mugnano, cittadina alle porte di Napoli. Seguendo Iannazzo, gli inquirenti sono arrivati a scoprire l’ultima cupola del calcio italiano, che truccava partite su cui piovevano puntate per milioni di euro. Una rete che si estende anche all’estero: da Russia, Serbia, Slovenia e Kazakhstan proviene una parte dei finanziatori, mentre in centri scommesse di Malta e Singapore venivano effettuate le giocate.

Il sistema prevedeva la corruzione dei calciatori, a cui venivano offerte somme di denaro per fare in modo che contribuissero a indirizzare le partite secondo i desideri dell’organizzazione, o l’acquisto di informazioni su incontri ritenuti sicuri perché per motivi sportivi i club coinvolti si erano già messi d’accordo sul risultato. I prezzi? Da 40.000 euro per convincere i calciatori fino a 150.000 per avere da un dirigente la soffiata giusta su una partita dal risultato concordato. A corollario minacce nei confronti di giocatori coinvolti in gare il cui risultato non era andato secondo le attese e persino il sequestro di un fratello di uno degli intermediari dell’organizzazione, a causa di una combine saltata.

Rivedendo le immagini televisive di alcune delle partite oggetto d’indagine, i sospetti vengono ulteriormente rafforzati: portieri che incassano gol da dopolavoro o provocano rigori con interventi del tutto privi di logica, attaccanti che sbagliano reti a porta vuota, espulsioni frutto di scorrettezze insensate con lo scopo occulto di penalizzare la propria squadra. Il tasso tecnico c’entra poco, il grosso l’ha fatto il dolo. Che sia finito nei guai proprio il calcio minore non dovrebbe stupire: società povere, senza sponsor, con pochi spiccioli di diritti televisivi e stadi semideserti. Chi gioca nelle “minors” spesso ha stipendi da operaio, e i soldi magari si vedono dopo mesi di ritardo: la tentazione di far quadrare il bilancio di casa in modo illecito può essere forte. Lontani dalla ribalta della serie A si potrebbe anche pensare di farla franca. Da ieri non più.

Il maestro Franco Lorenzoni: «Contro la malariforma, che avvelena la scuola»

Franco Lorenzoni, maestro elementare, ha scritto il libro I bambini pensano grande (Sellerio). Left lo ha intervistato sulla riforma della Buona scuola, appena approvata alla Camera.

Maestro Lorenzoni, il ddl 2994 Buona scuola servirà a eliminare la disuguaglianza che esiste nel sistema scolastico italiano?

Io credo che la scuola, oggi, più che di un’ennesima malariforma raffazzonata abbia bisogno di formazione, di tanta formazione di qualità, che sia soprattutto autoformazione. Per provare ad innovare credo che la via maestra dovrebbe essere quella di dare spazio e respiro alle buone pratiche portate avanti da insegnanti impegnati e persuasi che, giorno dopo giorno, propongono a bambini e ragazzi una didattica che prova ad includere davvero tutti. Se fossimo un paese serio, più che di riforme improvvisate, di cui la scuola non ne può più, dovremmo attivare un lungo e radicale processo riformatore della durata di minimo 10 anni, in cui pezzo a pezzo ripensare tutto il sistema di istruzione a partire dalla didattica, che è il fulcro di ogni azione educativa. Ma per attivare questo processo virtuoso e moltiplicare le sperimentazioni sul campo che una minoranza di insegnanti conducono con tenacia, il principale ostacolo è mettere i docenti gli uni contro gli altri, che sembra la conseguenza principale a cui porteranno i veleni contenuti nel pessimo disegno di legge uscito dalla Camera dei deputati. Se esaminiamo con attenzione i dati delle indagini più attendibili, si scopre che le scuole che funzionano meglio sono quelle in cui c’è maggiore collaborazione tra docenti, in cui un buon numero di insegnanti riescono a lavorare in gruppo costruendo a fatica frammenti significativi di quella comunità docente, che è fattore indispensabile per tentare un rinnovamento radicale della didattica, di cui tutte le scuole hanno fortemente bisogno. Il problema è che questa formazione continua in servizio dovrebbe portare, poco a poco, a dare vita a gruppi di ricerca e sperimentazione, perché nella scuola, per lavorare bene e rispondere con efficacia ai tanti bisogni sociali che premono dal territorio, si devono condividere le difficoltà e lavorare in gruppo. Da soli non ce la si fa. Del resto non è un mistero che i segmenti di scuola che funzionano meglio sono le scuole dell’infanzia e le primarie, dove c’è maggiore scambio e collaborazione tra i docenti, mentre quelle che sono in maggiori difficoltà sono le scuole secondarie di 1° e 2° grado, dove i professori lavorano generalmente nel più assoluto isolamento.

A questo proposito penso dovremmo avere più coraggio e immaginare ad esempio, negli Istituti Comprensivi che ormai si sono diffusi ovunque e raggruppano scuole dell’infanzia, elementari e medie, osare cambiare gli orari di lavoro e prevedere, in tutti e tre gli ordini, ore settimanali di programmazione, che attualmente ci sono solo nella primaria. Naturalmente adeguando proporzionalmente i salari.

Ma per far questo credo che noi insegnanti, oltre ad opporci e lottare contro i danni che porterà la sedicente “Buona scuola”, come è giusto fare, dovremmo farci uno spietato esame di coscienza e domandarci quanto riusciamo, come singoli e come categoria, a rendere le nostre scuole capaci di attenuare le tante discriminazioni che crescono nella società perché la scuola, se non è meglio della società che la circonda, cosa ci sta a fare?

Che impressione ha dell’operato di Matteo Renzi?

Quando Renzi presentò il suo governo sostenendo che la scuola era una priorità, in molti si è sperato che provasse a fare la prima cosa che un capo di governo dovrebbe fare occupandosi in prima persona di scuola, cioè cominciare a destinare una quota più alta della spesa pubblica alla pubblica istruzione, visto che siamo il 21esimo Paese in Europa e investiamo in istruzione poco più della metà di ciò che investono i Paesi del nord. Purtroppo assai presto si è capito che era pura retorica truffaldina, che spacciava per nuove assunzioni l’obbligatorio consolidamento di una parte dei precari richiesto dall’Europa e, per il resto, proponeva una serie di misure parziali e contraddittorie, senza alcuna visione di insieme. Il gruppo di esperti che ha concepito la Buona scuola sembra avere una unica ossessione: quella di introdurre il merito come elemento di divisione tra i docenti, con proposte del tutto discutibili. Chi abita le scuole sa bene che ci sono insegnanti che lavorano di più: preparano materiali, promuovono progetti, aprono la scuola all’esterno, innovano la didattica sperimentando nuove strade. Il modo migliore di premiarli, a mio avviso, dovrebbe essere quello di pagarli di più per le ore aggiuntive che fanno e poi – cosa assai più importante – dare loro la possibilità di condividere ciò che di buono stanno sperimentando, coordinando e guidando momenti di formazione rivolti ai colleghi, in particolare i nuovi che arriveranno nei prossimi anni in grandi numeri, perché in Italia abbiamo il corpo docente tra più anziani d’Europa e, nei prossimi 15 anni, circa la metà degli insegnanti attualmente in servizio andranno in pensione. Per questa attività di autoformazione interna naturalmente dovrebbero essere pagati. Per il resto la Buona scuola prevede qualche ora in più di arte, musica, ginnastica, inglese e forse l’introduzione di una improbabile educazione alimentare, senza domandarsi, ad esempio, perché la storia dell’arte non potrebbe e dovrebbe intrecciarsi in modo assai più interessante e proficuo con l’insegnamento della storia, che da molti punti di vista dovrebbe essere rivisto radicalmente.

Viene molta rabbia quando si vede che il tema che maggiormente manca nel progetto della Buona scuola è quello dell’inclusione, assolutamente prioritaria in una scuola come la nostra, che ha ancora tassi di dispersione scolastica impressionanti e porta solo un ragazzo su cinque ad iscriversi all’Università.

I nostri piccoli tecnocrati che lavorano intorno alla trasparente Giannini sono digiuni di scuola e si muovono con superficiale arroganza. Non hanno infatti avuto alcuna curiosità di conoscere e incontrare ciò che realmente si prova a fare nelle scuole. Si sono limitati a citare la Montessori, Don Milani e Malaguzzi, senza darsi la pena di ragionare su ciò che quelle pratiche indicavano, cioè un’idea di scuola aperta e capace di prendersi cura davvero di tutti, difficilissima da realizzare.

Che cosa pensa dei premi in denaro per i docenti più bravi valutati dal preside e dal suo staff?

La questione è stata impostata nel peggiore dei modi fin dall’inizio, quando è venuta fuori l’incredibile proposta che voleva premiare il merito degli insegnanti a costo zero, sbagliando sia nel merito che nella forma. Il cattivo maestro che regala caramelle per premiare i bambini migliori compie un atto assai discutibile educativamente. Ma se, per donarle ai migliori, arriva a rubarle ai bambini che ritiene più somari, non solo compie una palese ingiustizia, ma scatena una guerra tra i bambini. Ecco, questo era ciò che proponeva il primo documento della Buona scuola, che sembrava voler trasformare i Collegi dei docenti in tante case del grande fratello, dove un terzo dei docenti si ritrovava ad essere nominato e poi escluso dagli scatti di anzianità.

Ora è chiaro che la scuola deve migliorare, ma non è dando un po’ di soldi ad alcuni e mettendoli contro gli altri che la si migliora, e ancor meno dando ai Dirigenti scolastici e ai suoi collaboratori il potere di decidere chi pagare di più.

Non credo esista nessun criterio oggettivo per valutare la qualità didattica di un insegnante, tante sono le variabili che bisognerebbe tenere in considerazione. Come ho già detto, a chi innova andrebbe data la possibilità di socializzare le sue scoperte e le sue esperienze, offrendogli la possibilità di costruire momenti di crescita culturale di cui si possano giovare tutti gli insegnanti, pagando questo lavoro aggiuntivo. Dentro il Movimento di Cooperazione Educativa, di cui faccio parte, chiamiamo questa pratica la madre dello yogurt, perché sono percorsi che si possono diffondere solo corpo a corpo.

Premiare i docenti favorirà la disuguaglianza?

Alcuni dati che emergono dalle prove Invalsi mostrano che in Italia esistono ancora una grande quantità di scuole che distribuiscono bambini e ragazzi nelle diverse sezioni in base al censo o alle condizioni culturali delle famiglie, per cui ci sono le sezioni dei migliori ed altre, le ultime, destinate agli scarti, magari affidate a insegnanti di passaggio. È molto triste dirlo, ma se questa è ancora la realtà di troppe scuole, ci possiamo fidare dell’insieme dei Dirigenti scolastici? Non sono loro che orientano le iscrizioni? Conosco Dirigenti bravissimi, soprattutto donne, che si fanno in quattro per rendere le loro scuole davvero aperte a tutti e sperimentano tutti i modi possibili perché l’insieme dei docenti provi a far proprio il dettato costituzionale, che vorrebbe la scuola come principale luogo di attenuazione delle discriminazioni dovute agli svantaggi sociali e ambientali, ma so anche quanto sia grande la fatica che fanno e quanto scarso sia il riconoscimento e il sostegno che ricevono dal centro, dal Ministero. Nessuno premia e dà finanziamenti adeguati a chi sperimenta davvero. La loro esperienza mostra che non sono allenatori, che scelgono sul mercato gli insegnanti migliori, magari aiutati da sponsor privati come ora si vorrebbe, ma creatori di ponti, creatori di comunità, e infatti riescono nella loro impresa solo quando intorno a loro si forma un bel gruppo che assume la responsabilità del fare scuola come ricerca permanente. Una delle poche cose buone del ddl riguarda la formazione obbligatoria, già prevista in una legge voluta dalla ministra Carrozza. Ma al solito c’è il trucco, perché non sono previsti fondi consistenti per avviare un piano esteso di formazione in servizio che, per funzionare, dovrebbe coinvolgere attivamente centinaia di migliaia di insegnanti. Le leggi attuali hanno abolito i tradizionali programmi, sostituendoli con indicazioni generali e traguardi di competenze, che invitano i docenti e le scuole autonome ad elaborare curricoli sensati per quel territorio e quegli alunni. Il problema è che, se non c’è ricerca nelle scuole, finisce che i programmi, buttati fuori dalla porta, rientrano dalla finestra attraverso i libri di testo, che spesso non sono di buona qualità. Così ora i programmi, nella maggior parte dei casi, li fanno gli editori che, per vendere, le provano tutte e negli ultimi anni hanno inondato le scuole di test di bassa lega che imitano le prove Invalsi, vera e propria pornografia editoriale. Questo uno dei motivi per cui è così urgente e necessario il lavoro di ricerca dei docenti nelle scuole.

Per la formazione dei docenti, cosa si deve fare?

Gran parte delle facoltà di Scienze della formazione vanno come minimo ripensate. Ci sono corsi di studio in cui gli studenti non leggono neppure un libro: solo manuali. Ma una ragazza o ragazzo si può innamorare della conoscenza studiando solo su manuali o dispense, a volte scritte pure male?

Credo che le università dovrebbero costruire un rapporto più organico e continuativo con le scuole. Forse dovremmo sperimentare rovesciamenti radicali e immaginare che siano le scuole più attive ad adottare qualche facoltà universitaria.

Ci sono stati nel passato e ci sono alcuni esempi di facoltà che lavorano in stretto contatto con gruppi di insegnanti in modo non sporadico e i risultati si vedono, perché migliora l’università e migliora la scuola. All’inizio degli anni Settanta Lucio Lombardo Radice mandò i suoi studenti universitari nelle classi di Emma Castelnuovo ad imparare come si insegna la matematica ed Emma, con il loro aiuto, organizzò delle esposizioni matematiche di cui ancora si parla in Europa. Il problema è che in Italia dei grandi innovatori si parla solo dopo che sono morti, guardandosi bene da provare ad attuare ciò che sperimentavano. In recenti laboratori sulle Nuove Indicazioni per il curricolo alcuni insegnanti di un liceo scientifico di Terni sono stati coinvolti ed erano stupiti ed entusiasti nel vedere come le insegnanti di scuola dell’infanzia e della scuola primaria lavoravano collaborando tra loro. Ecco, quando daremo la possibilità alle maestre di scuola dell’infanzia di condividere il loro lavoro insegnando qualcosa di metodo ai loro colleghi delle superiori, forse si muoverà qualcosa.

Per affrontare i grandi problemi che ha un lavoro difficile come il nostro, dobbiamo davvero trasformare le scuole in centri di ricerca, ma questo processo è difficile da far partire perché si deve creare, alla base, uno spirito di cooperazione che contrasta quell’idea di gerarchia che permea i documenti del governo.

L’arretramento culturale del Paese lo scontiamo a tutti i livelli, a partire dai ministri, che vogliono lasciare ciascuno la sua “pisciatina” per segnare il territorio. La Moratti era una manager e voleva scuole condotte come aziende, guidate da presidi manager. Ha reintrodotto i voti nella primaria pensando che così rendeva seria la scuola e anticipato l’età di ingresso dei bambini, che tanto male sta facendo ai più piccoli. La Gelmini si è spesa per rimettere il grembiule ai bambini e reintrodurre il maestro unico, ma l’unica cosa di cui è stata capace è stato tagliare oltre 8 miliardi alla scuola elementare. Ora Renzi dice che è finito il tempo del 6 politico agli insegnanti, riecheggiando gli strali della Mastrocola contro Don Milani e il ’68. Il panorama è davvero sconfortante.

Che cosa ne pensa dell’alternanza scuola-lavoro?

Su questo punto ho una posizione molto laica e vorrei si riuscisse a ragionarci senza pregiudizi. Non credo debbano essere le aziende a dettare tempi e programmi alle scuole, perché non mi sembra un buon modo di affrontare il terribile problema della disoccupazione giovanile. Ma mi hanno parlato di esperienze, attuate in scuole di altri Paesi, in cui i ragazzi passano alcune settimane, negli ultimi tre anni di scuola, nei luoghi di lavoro più diversi, a volte scelti da loro, a volte proposti dalle scuole. Ecco, io penso che per un ragazzo di 17 o 18 anni possa essere di grade stimolo entrare fisicamente per qualche tempo nel mondo del lavoro, conoscendone direttamente i problemi, purché non diventi, naturalmente, sfruttamento di lavoro camuffato. Ritengo infatti che la presenza di oltre due milioni di ragazzi che smettono di studiare senza lavorare sia una delle maggiori tragedie del nostro paese, sulla quale noi insegnanti ci interroghiamo troppo poco.

Se una massa così considerevole di nostri ex alunni smettono di studiare penso che qualche responsabilità ce l’abbiamo anche noi insegnanti, dalla scuola dell’infanzia alle superiori. È chiaro, infatti che, se questo accade, vuol dire che negli anni della scuola non siamo riusciti a far vivere momenti di rispecchiamento culturale in cui ragazze o ragazzi hanno potuto riconoscersi in un racconto, un mito, una musica, una pittura o un nodo concettuale – filosofico, scientifico o matematico – che li portasse a confrontarsi con l’infinito e i misteri del cosmo. Se non riusciamo a proporre la cultura come specchio in cui imparare a conoscere se stessi, come si fa poi a chiedere di fare sforzi ai più giovani, visto che ogni processo di conoscenza è impossibile senza fatica?

Ciascuno di noi, se deve superare un grande ostacolo, ha bisogno di vedere oltre per trovare il senso di quello sforzo. E chi è il garante nella scuola di quest’oltre spesso lontano e poco visibile costituito da cultura, arte e scienza e dalla loro storia, se non l’adulto, l’insegnante.

In un tempo in cui le tecnologie apparentemente facilitano tutto e il mercato ci plasma, rendendoci a forza consumatori compulsivi, educare allo sforzo è compito prioritario, perché senza sforzo e approfondimento e durata non ci si può opporre alla semplificazione imperante, che svuota ogni critica e avvilisce il pensiero.

Che idea di società c’è dietro all’idea di scuola propugnata dal ddl?

L’idea di una società immutabile, in cui ogni opposizione all’ingiustizia è vana, perché il mondo va così. La stessa idea che ritiene che per contenere l’immigrazione bisogna bombardare gli scafisti. Una drammatica semplificazione del mondo, senza respiro e senza futuro.

Io credo che noi dobbiamo ripartire dall’articolo 3 della Costituzione, perché è la scuola costituzionale quella dove può avvenire “il miracolo di trasformare dei sudditi in cittadini”, come auspicava Piero Calamandrei.

Il problema è che non si tratta di un miracolo, ma di un faticosissimo lavoro da fare insieme. Chi insegna non sceglie gli allievi che ha di fronte, eppure, se ha coscienza del suo lavoro e un minimo di super io che gli ricordi l’enorme responsabilità che distingue il suo lavoro, prova poco a poco a trasformare quel gruppo in una comunità viva, in cui ci sia posto per ciascuno. Cioè fa ogni sforzo per accogliere con intelligenza differenze talvolta difficili da gestire. Solo una scuola in cui la democrazia sia resa viva a ogni livello dall’operare concreto dei più persuasi, può tentare di affrontare i difficilissimi compiti che abbiamo di fronte in un Paese in cui crescono disuguaglianze e discriminazioni e perfino nuove forme di schiavitù, che ai miei occhi sono intollerabili. Per costruire una cultura della convivenza abbiamo bisogno di letteratura, musica, grande arte e bellezza. Abbiamo bisogno di tanta cultura per cercare di capire un mondo sempre più incomprensibile, e chi la può fornire ai più se non la scuola pubblica, la scuola di tutti, in cui noi adulti abbiamo tanto da imparare dai ragazzi?

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