Home Blog Pagina 1342

Moresco si cimenta con la favola, ma il personaggio fiabesco potrebbe essere lui

Ammiro Antonio Moresco. Non lo dico per captatio benevolentiae all’inizio di una stroncatura. Ammiro il suo drammatico corpo a corpo stilistico con la materia impura, liquefatta, pulsante del reale.

La sua trilogia – che ho letto solo in parte (ora al terzo e conclusivo volume: Gli increati) – mi appare come un tentativo eroico, una spericolata catabasi in cui l’autore attraversa l’inferno della contemporaneità e dà voce a una percezione nuova e destabilizzante. In ciò rischia molto. A volte, come in un grandioso autodafè, la lingua stessa – che vorrebbe attingere una “oggettività” del caos – è imprigionata dentro un’immaginazione claustrofilica. Quasi non ci parla più del mondo, di noi, della condizione umana – come invece (per citare un autore non distante da queste pagine) lo stile magmatico di Céline – ma solo di se stessa, entro un dormiveglia allucinato.

Libri, Moresco, Quaderno Quadrone, LeftOra Moresco si cimenta nel genere della favola. Però non c’è niente di peggio di un adulto che vuole – goffamente – imitare i bambini. Nella sua Piccola fiaba un po’ da ridere e un po’ da piangere (illustrazioni di G. Foli, introduzione di S.Petrignani – Rose Sélavy) gioca con l’attrazione dei bambini per il disgustoso e le schifezze, e così gli mette nome “Merdolina”, “Suppostina”, “Foruncolo rosso”, “Foruncolo giallo”, “Prut”… Ma i bambini lo fanno in modo preterintenzionale, con la loro grazia imponderabile e con la loro spontaneità disordinata, priva di qualsiasi didascalismo.

Poi: la morale della favola è invitarci a credere ai nostri sogni più belli ed essergli fedeli, a seguire la scia luminosa della luna (la quale, al contrario della luna leopardiana, è alquanto verbosa e ci fa la lezione!). Ma perché mai i nostri sogni dovrebbero essere migliori di noi? Dei nostri sogni si occupa molto la pubblicità. Al contrario, bisognerebbe rivalutare la realtà, perfetta, nella sua imperfezione, più di ogni sogno ed utopia.

A ben vedere il vero (e involontario) personaggio fiabesco potrebbe essere lui, Moresco, un Cavaliere della Scrittura in una lotta dall’esito incerto contro il Drago dell’Irrealtà mediatica.

In tour in Italia “Lady Pink Floyd” Durga McBroom

Durga McBroom ride divertita quando le chiediamo se possiamo chiamarla Lady Pink Floyd. «Ok!», risponde, con il suo forte accento californiano. È l’unica donna ad aver accompagnato sul palco la band britannica, costantemente. Tanto da conquistarsi l’appellativo di “storica corista dei Pink Floyd”.

Quando i maestri indiscussi del progressive rock la chiamano, Durga ha da poco compiuto 25 anni. E quel giorno se lo ricorda benissimo: «Era il novembre del 1987, vivevo a New York e già cantavo nei club. David Gilmour aveva deciso di fare un live ad Atlanta, in Georgia. C’erano già due coriste, ma David disse: “C’è bisogno di un po’ di colore!”. La produzione conosceva mia sorella e sono arrivati a me». Così, insieme alla sorella Lorelei, anche lei corista dei Pf, raggiunge la band britannica per non lasciarla più: dal novembre del 1987 (A momentary lapse of reason tour) fino all’ultima data del The division bell tour, a Londra, il 29 ottobre del 1994.

In questi giorni McBroom è a Roma per la prima italiana di Dark side of the moon, lo spettacolo che i Pink Floyd Legend – la “tribute orchestra” accreditata tra le più fedeli ai britannici – eseguiranno il 14 aprile all’Auditorium Conciliazione, per proseguire il 16 a Napoli e il 22 a Milano. Per questo tour l’esecuzione sarà ancora più fedele, anche grazie alla voce di Durga.

Incontrarla è l’occasione per ripercorrere la storia dei Pink Floyd. E, con essa, quella del rock. Ha una voce potente, Durga. Graffiante e al contempo eterea, capace di innestarsi nello space rock del sound floydiano. La si può apprezzare – per esempio – nell’esecuzione di “The great gig in the sky”, (live-album Pulse, 1994), «forse la canzone più difficile da cantare », ammette. Pink Floyd, ombra o trampolino? Durga non ha dubbi: «Non rimpiango nulla. Ho avuto questo onore e non cambierei questa esperienza con nient’altro al mondo. Sono loro che mi hanno dato una carriera». E non solo una carriera: «Con la band avevamo un buon rapporto, come fratelli e sorelle, come una famiglia», ricorda.

La formazione a cui si riferisce Durga, è  quella della “terza era floydiana”, che porta l’impronta di David Gilmour. Tra psichedelia e continua ricerca, infatti, la storia dei Pink Floyd è scandita da secchi cambi di formazione che tracciano quelle che i fan amano chiamare “ere floydiane”. La chitarra di Syd Barrett, quella di David Gilmour che prima affianca Syd e poi lo sostituisce, il basso e la chitarra di Roger Waters, le tastiere e il sintetizzatore di Richard Wright, la batteria e le percussioni di Nick Mason, la voce di ognuno di loro: insieme durano dal ’65 al ’68, anno in cui il visionario Barrett lascia la band per disturbi psichici da abuso di Lsd.

Il post-Barrett (1968-1979) è un decennio “orizzontale”, forse il migliore dei Pink Floyd, che diedero alla luce A saucerful of secrets nel 1968, capolavoro di esperimenti sonori, Meddle nel 1971, preludio al successo mondiale, e The dark side of the moon che nel 1973 segna la consacrazione della band.

Nel ’79, poi, viene l’era di Roger Waters, che si apre con The wall, raggiunge l’apice con The final cut, nel 1983. E termina nell’85 quando Waters lascia la band, convinto – si diceva – che i Pf non avrebbero sopravvissuto al suo addio e liquidando i suoi compagni come «uno spreco di energie». E invece i due membri rimasti – David Gilmour e Nick Mason – restano, vincono la breve causa per l’utilizzo del nome e nel 1987 tornano con A momentary lapse of reason. È a questo punto che arriva il momento di Durga, che di essersi persa il passato non rimpiange nulla: «Anche perché – scherza – c’era un membro in particolare, Roger, che era molto difficile! (ride) ».

Il Roger di cui parla Durga è Waters. Le chiediamo, ma era davvero così terribile? «Non l’ho mai conosciuto di persona. Ti dico quello che mi hanno raccontato gli altri membri della band in questi anni», tentenna. Ma poi ci ripensa, sorride e sussurra: «Anzi, ho una storia da raccontarti… Eravamo alle premiazioni dei Grammy music awards, intorno a un tavolo ci siamo ritrovati proprio tutti, tutti i Pink Floyd. Era open bar – sorride – ed erano tutti ubriachi fradici». Mi chiede in prestito gli occhiali da sole, si alza in piedi e imita di Roger Waters: «Entrò nella sala, portava degli occhiali da sole, anche se era notte. Si comportò come se gli altri non esistessero, continuando a camminare e ignorandoci. A un certo punto, proprio mentre Waters passava accanto al nostro tavolo un membro del gruppo, il percussionista Gary Wallis, gli fece uno sgambetto… Roger cascò, ma si rialzò immediatamente, come se non fosse successo niente, senza dire nemmeno una parola».

Durga è consapevole di aver preso parte a un pezzo di storia del rock. E non è ancora finita, infatti ha partecipato anche al recente album The endless river, che segna il ritorno della band nel novembre 2014 dopo quasi 20 anni di assenza.

McBroom, sia chiaro, non è solo “la corista dei Pink Floyd”. Dal 1989 ha anche una sua band, i Blue Pearl, per la quale, oltre a cantare e suonare le tastiere, compone la maggior parte dei brani. Musica dance, house, techno. Il maggior successo, per chi non lo ricordasse, risale ai primi anni 90, con il singolo “Naked in the rain”. «Sono felicissima, da sette anni sono sposata, lavoro e vivo a West Hollywood a Los Angeles, una zona fantastica». Ma ha ancora un sogno nel cassetto: «Vorrei registrare un disco tutto mio, un album che porti il mio nome e in cui io possa cantare ciò che davvero voglio: neo soul». Ovvero un sottogenere musicale che fonde R&B contemporaneo, soul degli anni 70 e pop rap. Ci proverà, assicura. E ci salutiamo con una promessa, la prossima volta che la intervisteremo, come suggerisce sorridendo a fine intervista, la chiameremo semplicemente Lady Durga.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

Il Lettore zero non nasce per caso

L’assegnazione del Global Teacher Prize, “il premio Nobel della Scuola”, alla professoressa Nancie Atwell, ci ha ricordato che la lettura è in crisi, anche se è centrale nella formazione. L’insegnante statunitense si è segnalata, infatti, per aver saputo diffondere, in una fase storica difficile per il libro, il gusto per la lettura tra i suoi allievi, divenuti grazie al suo metodo lettori forti, da 40 libri l’anno.

Il principio è semplice e ha avuto anche in Italia convinti sostenitori (come Roberto Denti): associare la conquista della lettura a quella dell’autonomia. Gli allievi non sono obbligati a leggere tutti lo stesso testo, ma possono scegliere tra i tanti volumi della biblioteca scolastica. Quello che vale per la lettura, viene applicato anche alla scrittura: sono sempre gli allievi a sceglieregli argomenti sui quali scrivere. Il metodo di Nancie Atwell in 25 anni ha prodotto ottimi risultati.

Sul rapporto tra lettura e autonomia è tornato un libro recente di Giusi Marchetta, scrittice e insegnante (Lettori si cresce, Einaudi). L’autrice confessa che la sua passione per la lettura è nata nel momento in cui ha scoperto che i libri raccontano quella parte della vita che gli adulti più vicini non vogliono svelarci o ignorano. Il libro affronta il tema del piacere della lettura dal punto di vista di un allievo non lettore.

Il suo immaginario è invaso da serie tv, reality e videogiochi, come la sua volontà è piegata da tre comandamenti che la politica scolastica degli ultimi vent’anni ha provato a introdurre nelle aule: 1) non è arte ciò che è arte, è arte ciò che piace; 2) chi non vince è perduto; 3) se è vero, è interessante, se è interessante, parla di te.

Il Lettore zero è stato incoraggiato da una classe dirigente che si è occupata della tutela e promozione della cultura «nello stesso modo in cui se ne occuperebbe un ragazzino problematico di quattordici anni: chiedendosi a cosa serva».

Qualche anno fa, nel saggio L’Italia che legge (Laterza, 2010) Giovanni Solimine osservava che i nostri dirigenti, imprenditori e professionisti leggono più dei propri dipendenti per motivi strettamente professionali, ma meno per svago. E aggiungeva che il 31% della nostra classe dirigente non ha laurea, il 49% non legge i giornali e il 64% non va a teatro. Se mettiamo insieme a questi dati la constatazione del fatto che i messaggeri del piacere di leggere, cioè gli insegnanti, sono trattati malissimo da quella stessa classe dirigente che non legge, il quadro è completo.

Perché i giovani dovrebbero appassionarsi alla lettura? Forse grazie ai festival e alle rassegne, con cui in Italia si promuovono libri e lettura, molto spesso in contrasto con la scuola, considerata non un alleato ma un micidiale killer del piacere di leggere? La strategia di rendere l’istruzione sempre più un fatto marginale non ha facilitato la connessione, tanto ricercata a parole, tra la scuola e la vita. E la lettura, di conseguenza, è stata relegata in un mondo consolatorio di sentimenti edificanti e di grandi valori astratti. Il problema è che la nostra classe dirigente non considera un problema l’erosione progressiva di lettori perché per il Lettore zero è facile rassegnarsi a considerare quella che sta vivendo come l’unica realtà possibile.

Come deve fare Landini per rappresentarci tutti

È presto per capire quali siano le reali possibilità di successo della coalizione sociale lanciata da Maurizio Landini. Tuttavia è interessante che si proponga di costruire una “nuova” forza sociale senza la pretesa di parlare di partiti politici. In quest’articolo voglio soffermarmi su quali possano essere gli ingredienti vincenti in un progetto così ambizioso, mettendo in relazione l’idea di maggioranza invisibile (che ho recentemente proposto con Alessandro Arrigoni in La maggioranza invisibile, Rizzoli) e la coalizione sociale.

Il primo punto per capire quanta strada possa fare la coalizione sociale è meramente politico

Rompere con il sindacato fordista e inattuale rappresentato da Susanna Camusso, con il Pd asservito alle politiche di austerità, e con i partitini che ancora popolano la “galassia sinistra” del Paese, è un passo ineludibile per permettere alla maggioranza invisibile di essere rappresentata nel campo politico e sociale: solo quando si riuscirà a superare una visione sconfitta, settaria e residuale della sinistra, si potrà compiere l’impresa titanica di ragionare secondo schemi nuovi, avvicinando i soggetti che la compongono.

Secondo. Perché l’idea di coalizione sociale prenda piede, serve ricreare “un contesto narrativo”

in cui le varie componenti della maggioranza invisibile (descritte da Alessandro Arrigoni nelle pagine precedenti) possano ritrovarsi e riconoscersi. È ironico che sia proprio Landini a proporre questo passaggio, vista la sua lunga militanza sindacale e il suo genuino lavorismo. Ma, forse, proprio questo paradosso può aiutarci a comprendere il lungo percorso di gestazione che la maggioranza invisibile dovrà intraprendere per diventare una forza politica capace di cambiare il Paese. La maggioranza invisibile, così come tutte le classi sociali in via di definizione, è un’araba fenice. Dalle ceneri degli artigiani sconfitti dall’avvento della rivoluzione industriale nacque e si sviluppò l’idea di working class, qualche decennio più tardi, dagli atelier di Sheffield alle fabbriche di Birmingham e Manchester. Oggi come allora, dalle ceneri della classe operaia italiana in via di estinzione, potrebbe prendere piede un movimento nuovo capace di andare oltre le basi sociali e politiche della vecchia sinistra.

Terzo. Comprendere le ragioni che stanno alla base del suo silenzio

Per azionare la coalizione sociale bisognerà comprendere le ragioni che stanno alla base del suo silenzio e della sua relazione problematica con le vecchie strutture della rappresentanza politica e sindacale. I fattori esterni provengono dalla grande trasformazione che ha coinvolto tutto il mondo occidentale, dal neoliberismo selettivo alla creazione di un’Europa senza solidarietà sociale, dall’assenza di un welfare universale al requiem della socialdemocrazia. Tuttavia, gli ostacoli peggiori che si parano di fronte alla coalizione sociale, che moltiplicano la capacità di veto di super-garantiti e neoliberisti, sono interni alla maggioranza invisibile stessa e la rendono cieca: la mancanza di fiducia nelle proprie capacità, causata da anni di discriminazioni e fallimenti; e una conseguente visione dello Stato, considerato come un’astrazione o come una macchina incomprensibile al servizio dei più potenti.

A causa di questi fattori, la maggioranza invisibile è sottorappresentata nello spazio sociale

e di conseguenza stenta a organizzarsi. Nonostante ciò, la Storia ci insegna che la presenza in simili spazi può essere costruita nel tempo. Ed è proprio questo sentimento che dovrebbe animare chiunque voglia ricostruire una nuova coalizione sociale. Possiamo dimenticare i Levellers britannici, il biennio rosso, lo Statuto dei lavoratori, i tanti movimenti popolari che hanno caratterizzato la storia del nostro Paese, dai Fasci siciliani all’occupazione delle terre e delle fabbriche.

Possiamo relegare questi eventi in vecchi libri nascosti su scaffali senza nome, abbandonarli in preda alla polvere, destinarli all’oblio delle cantine senza posarvi lo sguardo sopra per anni e anni. Possiamo scordare simili eventi del passato, ma arriva sempre il momento in cui tornano attuali: quando le contraddizioni della società giungono a maturare, servono da esempio per una nuova azione sociale e politica.

Ci sono elementi, che vanno ben al di là della buona volontà di Landini

Consci della Storia e degli ostacoli che ci si parano davanti, dobbiamo ribaltare il tavolo della discussione. Ci sono elementi, che vanno ben al di là della buona volontà di Landini, che mi portano a confidare nella possibilità di reazione della maggioranza invisibile: la strutturazione del campo sociale, con la crescita numerica della stessa maggioranza invisibile rispetto a neoliberisti e super-garantiti; e l’impoverimento progressivo dell’elettore mediano.

È una situazione inedita, in cui quest’elettore, decisivo, era parte della middle class, con la sua visione del mondo moderata e un reddito sufficiente a garantire uno standard di vita confortevole. Oggi non è più così. L’elettore mediano/moderato è sempre meno middle class e sempre più parte della maggioranza invisibile, danneggiato dall’assenza di politiche sociali universali. Anch’egli dovrebbe quindi, nel lungo periodo (con la progressiva erosione del suo livello di risparmio), volgersi verso la richiesta di una più equa distribuzione della ricchezza.

Dobbiamo lasciarci alle spalle il lavorismo, e con esso una narrazione negativa e residuale della maggioranza invisibile

Da questo punto di vista, azionare una nuova coalizione sociale significa lavorare dall’interno: la severità dei fattori esterni è stata troppo spesso usata come alibi per non guardarsi dentro, in definitiva per non agire. Sono invece soprattutto i fattori interni a provocare la cecità della maggioranza invisibile. Per analizzarli correttamente, bisogna distaccarsi dal dogma lavorista della vecchia sinistra che ci impedisce di vedere come le caratteristiche della maggioranza invisibile siano radicalmente diverse da quelle della working class fordista. Il dogma lavorista è una zavorra, che tiene ancorata la riflessione sulle riforme sociali a un mondo che non esiste più: la grande trasformazione ha fatto saltare il banco, mandando in soffitta, nei Paesi occidentali, l’organizzazione produttiva fordista e, con essa, la società di massa industriale.

Oggi attaccarsi a quel mondo è funzionale solo a difendere i privilegi dei supergarantiti, a trasformare partiti e organizzazioni sociali “di sinistra” in agenti della conservazione. Per questa ragione, dobbiamo lasciarci alle spalle il lavorismo, e con esso una narrazione negativa e residuale della maggioranza invisibile – ovvero la sua esistenza come semplice riflesso delle trasformazioni sociali – per abbracciare e diffondere, invece, una visione positiva e attiva del suo emergere, del suo essere corpo sociale in potenza. È questa la grande sfida che si para davanti alla coalizione sociale. Se avremmo intelligenza, cuore e polmoni per correre in una nuova direzione, distaccandoci dalla zavorra del passato, il futuro forse, non è poi così cupo.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ManuFerragina” target=”on” ][/social_link] @ManuFerragina

Le cinque delle 13.00

#Immigrazione Nella giornata nazionale in memoria vittime dell’immigrazione sono stati recuperati nove cadaveri dalla Guardia Costiera italiana a circa 80 miglia dalle coste della Libia, dove si è capovolto un barcone carico di migranti diretto verso l’Italia. Salvate 144 persone.

#Ostuni Crollato il soffitto di un’aula della scuola elementare Pessina di Ostuni (BR). Due bambini sono rimasti feriti e sono stati portati in ospedale: le loro condizioni non sarebbero gravi. La scuola è stata di recente sottoposta a interventi di ristrutturazione.

#bonusDef il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, intervistato da Stampa e Secolo XIX, anticipa la strategia del governo: le opzioni possibili sono diverse: la crescita, il risanamento, l’inclusione, e dunque il sostegno ai redditi più bassi.

#HillaryClinton ha annunciato ufficialmente la sua candidatura per le presidenziali del novembre 2016. In un video ha dichiarato: «Ogni giorno gli americani hanno bisogno di un campione, ed io voglio essere quel campione. Correrò per diventare presidente».

Morto Günter Grass Lo scrittore tedesco, premio Nobel per la letteratura, aveva 87 anni. Il suo successo internazionale arrivò nel 1959 con “Il tamburo di latta”, primo romanzo della trilogia di Danzica che comprende “Gatto e Topo” e “Anni di cani”.

Corruzione? Renzi ha fatto il minimo istituzionale proponibile

Non considero il ddl “anticorruzione” licenziato al Senato un’arma decisiva alla dilagante penetrazione delle mafie e della corruzione nelle istituzioni italiane. Al contrario: è la risposta non sufficiente alla richiesta di trasparenza che sale dal Paese, di un governo sinora debole su questo fronte.

Certo non vanno taciute alcune novità positive: sanzioni più dure, reintroduzione del falso in bilancio (seppur in forma tenue), sconti di pena per chi collabora nei procedimenti per corruzione. Tuttavia, si tratta del minimo istituzionale proponibile a fronte di un cancro che sta corrodendo lo Stato. Renzi sa che la gente è furibonda per il livello percepito di corruzione nel Paese. E la realtà, per quella che è la mia esperienza prima di magistrato e ora di sindaco, è peggiore di quello che si percepisce. Le normative in materia di appalti e lavori pubblici devono essere riviste radicalmente.

Ci vogliono regole chiare e semplici per attribuire ai poteri ordinari la forza di decidere in modo responsabile in tempi brevi. Si deve interrompere il ricorso a poteri commissariali che agiscono in deroga a leggi ordinarie. Non a caso, i commissariamenti sono tanto desiderati dal “sistema” malavitoso. Serve interrompere le concessioni di lavori pubblici sine die con costi che lievitano ad libitum, con una commistione pericolosa tra soggetti diversi; limitare le varianti in corso d’opera con operazioni opache su ribassi, lievitazioni, costi e ricorsi a sub-appalti; introdurre trasparenza nella scelta delle commissioni di gara; la rotazione delle ditte all’interno di elenchi redatti con procedure informatizzate unitamente ad Anac per i lavori di cosiddetta somma urgenza; ridurre al minimo esternalizzazioni di servizi pubblici in settori come quello dei rifiuti. E per verificare la correttezza dell’utilizzo dei fondi pubblici, soprattutto europei, si devono rafforzare i controlli sostanziali, non solo quelli formali. Oggi il “sistema” beneficia di consulenti qualificati che accertano che la forma sia sempre rispettata. E così è: apparentemente i lavori sono in regola. Poi, però, cadono viadotti, il materiale è di qualità scadente, l’opera resta inutilizzata.

Decisiva dunque è l’analisi della qualità dell’opera, più che quella della sua realizzazione. Corruzioni e mafie sono diverse da venti anni fa. Oggi, valigette di denaro e lingotti d’oro sotto il cuscino sono modalità d’eccezione. Il sistema corruttivo agisce invece movimentando denaro all’estero in modo formalmente ineccepibile, utilizza schermi societari, fondazioni, attribuisce consulenze, incarichi, posti di lavoro, finanche ruoli istituzionali. Negli ultimi anni nelle indagini della magistratura sul sistema criminale modello P2 sono emerse le medesime condotte e spesso gli stessi nomi.

Dimostrando che il “sistema” è dentro lo Stato, ne cura gli ingranaggi, arriva ovunque. Ne fanno parte anche persone che ricoprono ruoli di vertice all’interno di istituzioni e organi di controllo, forze dell’ordine e magistratura comprese. E sono pericolosissimi perché hanno in dotazione proiettili istituzionali che distruggono le cellule sane dello Stato, utilizzando la legalità formale del loro potere. Rimangono quasi sempre impuniti. Agiscono nell’ombra ma sono visibili, hanno abiti istituzionali. Nulla si viene a sapere del loro ruolo, della loro azione, della collusione pervasiva e così il cancro si allarga, dilaga. Senza di loro le mafie di strada sarebbero già state debellate. La lotta decisiva non passa, a mio avviso, attraverso super poteri commissariali o propaganda governativa, ma sostenendo quella parte di Stato che quotidianamente cerca di interrompere la distruzione delle cellule sane.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/demagistris” target=”on” ][/social_link] @demagistris

Vitali Daraselia, stella d’Abkhazia

Vitali Daraselia viene alla luce nell’odierna Repubblica di Abkhazia in un’epoca in cui Ochamchira, città sul Mar Nero, è semplicemente Georgia sovietica. Anche il terribile Beria, capo della polizia segreta di Stalin, era nato in Abkhazia ma poiché appartenente all’etnia minoritaria favorì la colonizzazione georgiana della regione e la persecuzione della lingua locale.

Vitali Darselia, LeftDaraselia nasce da madre abcasa e da padre georgiano il 9 ottobre del ’57 quando al Cremlino sembra tirare aria nuova. Talmente nuova che la Propaganda, dopo il successo del primo Sputnik, si appresta a replicare lanciando in orbita la cagnolina Laika. Il Pcus intanto ha due spauracchi: Il dottor Zivago di Pasternak e il talento di Eduard Streltsov il cui crescente successo, soprattutto nel pubblico femminile, comincia ad irritare i vertici della Federcalcio di Mosca.

Daraselia impara a giocare nella squadra della sua città finché, a 17 anni, viene arruolato dalla Dinamo Tbilisi: l’unico club del Caucaso in grado di competere con le formazioni russe e ucraine. Il ragazzo è un vero fenomeno, soprattutto quando parte in velocità con la palla tra i piedi: rapido ed esplosivo al punto da non far mai capire a nessuno se sia un destrorso oppure un mancino. E l’Europa intera se ne accorge a Dusseldorf, nel 1981, a tre minuti dal termine della finale di coppa delle Coppe tra la Dinamo e i tedeschi orientali del Carl Zeiss Jena con il risultato fermo sull’1-1.

David Kipiani, il numero 10, il professore, è sulla metà campo fronteggiato da Topfer. Si gira, porta a spasso l’avversario, alza la testa e serve d’esterno proprio Daraselia. Il numero 6 in maglia blu scatta sul fronte sinistro e copre la palla inseguito da Lindemann. Dopodiché sfodera un cambio di marcia  da campione: punta il vertice dell’area, accelera, sterza verso il centro, tocca due volte di destro ed evita l’intervento disperato del numero 8 in maglia bianca ormai a gambe all’aria. Lo spazio intanto si stringe, la difesa si contrae a semicerchio come una medusa pronta a lasciare il piccolo pesciolino blu in pasto allo stopper Lothar Kurbjuweit che, in veste di murena, schizza in avanti per azzannare sia il pallone che le caviglie del nemico. Ma la stella d’Abkhazia gira ancora la pinna come un timone: inchioda, fa perno sul destro, accarezza la perla bianca verso fuori e manda a vuoto le squame di Kurbjuweit che spariscono dal teleschermo slittando sul fianco. Prima che gli ultimi pescecani possano addentarlo, Daraselia infila di sinistro lo spazio impossibile tra il palo e il portiere Grapenthin. È il gol del 2-1 che vale lo stesso trofeo europeo conquistato a suo tempo dalla Dinamo Kiev di Oleg Blochin.

Dopo due coppe dell’Urss e il campionato del ’78, arriva l’ultimo trionfo per la stella tramontata a soli 25 anni per un maledetto incidente d’auto. Il suo nome vive nello stadio di Ochamchira e vive addosso a suo figlio, nato nel settembre dello stesso 1978 all’indomani del match di ritorno del primo turno di coppa Uefa contro il Napoli. Alla vigilia della gara, Daraselia promise ai compagni: «Darò a mio figlio il nome di chi oggi segna per primo». E a segnare fu proprio lui, d’esterno destro in corsa davanti al pubblico del San Paolo. Sempre vicino al mare.

Le cinque delle 20.00

#BonusDef tesoretto da circa 1,5 miliardi da destinare al welfare. Questo è l’obiettivo del presidente del Consiglio Matteo Renzi, che valuta l’ipotesi del decreto. L’accusa delle opposizioni: il premier vuole comprarsi le regionali come ha fatto con gli 80 euro nel 2014.

L’accusa del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini il giorno dopo l’omicidio al tribunale di Milano: I magistrati non possono essere lasciati soli, bisogna esprimere un sostegno concreto alla magistratura per il lavoro che fa per la giustizia per questo Paese. Poi il ringraziamento «vero» alla magistratura milanese.

Il presidente americano, Barack Obama, ha parlato con Raul Castro al telefono prima del vertice delle Americhe, che si svolge a Panama, e dove è atteso un incontro, anche se informale, storico, fra i due.

Hillary Clinton annuncerà domenica la propria candidatura alle presidenziali 2016. Lo staff di Hillary Clinton ha organizzato ieri sera una cena a Washington a casa di John Podesta, il presidente della campagna, con alcuni dei maggiori media americani. Lo riferisce l’Ap.

#AppleWatch oggi è il giorno del debutto in 9 paesi, Italia esclusa. L’attesa novità dell’azienda di Cupertino in Usa, Canada, Regno Unito, Francia, Germania, Cina, Hong Kong, Australia e Giappone, ma solo per essere guardato. Ufficialmente sarà in vendita dal 24 aprile.

Piero della Francesca, artista scienziato fino al 14 giugno a Reggio Emilia

La prospettiva nell’arte italiana emerge con la pittura di Giotto (1267 c.a- 1337), considerato non a caso dai contemporanei il fondatore de “la nuova maniera”. Ma fra gli studiosi la disputa è accesa. E c’è chi puntualizza che per parlare di prospettiva lineare bisogna aspettare il Rinascimento. Così se a Giotto va riconosciuto il genio di saper creare, come per magia, una profondità spaziale in cui i corpi (non più dipinti grandi o piccoli a seconda del ruolo sociale) trovavano una loro collocazione naturale nello spazio, bisogna attendere l’età di Leon Battista Alberti (1404-1472) e di Piero (1416 -1492) per poter parlare di prospettiva su basi matematiche. Come ben racconta la mostra Piero della Francesca, il disegno fra arte e scienza curata da Filippo Camerota del Museo Galileo di Firenze, dall’architetto Francesco Paolo Di Teodoro e dall’ordinario di geometria Luigi Grasselli.

Aperta fino al 14 giugno, l’esposizione nelle sale di Palazzo Magnani a Reggio Emilia è incentrata su una copia del De prospectiva pingendi conservato nella Biblioteca Panizzi, che mostra correzioni e note sottilissime, ai margini, di mano dello stesso Piero. Fu il primo trattato illustrato su questo argomento. Ed ebbe una straordinaria fortuna nel secondo ‘400. Si racconta che Leonardo da Vinci, studioso dell’uomo vitruviano e delle misure auree, dopo aver saputo dal matematico Luca Pacioli dell’esistenza di quest’opera di Piero decise di rinunciare a scriverne una propria sul tema. Verità o fola che sia, certo è che il De prospectiva ricevette anche da pittori delle generazioni successive un’attenzione straordinaria. Compresi artisti stranieri come Albrecht Dürer, di cui a Reggio Emilia sono esposti tre disegni dalla British Library e straordinarie incisioni provenienti dalla Galleria dei disegni e delle stampe degli Uffizi.

Intorno al prezioso codice emiliano i curatori sono riusciti a raccogliere l’intero corpus grafico e teorico di Piero della Francesca, ricostruendo così per la prima volta dalla morte dell’artista la sua bottega con i 7 esemplari, tra latini e volgari, del De Prospectiva Pingendi (tre dei quali conservati a Bordeaux, Londra e Parigi), i due codici dell’Abaco (dedicato alla mercatura), l’unico esemplare del Libellus de quinque corporibus regularibus e l’ Archimede, opera che Piero lesse grazie alle trascrizioni arabe del testo greco e volle trascrivere illustrandolo con suoi disegni. In mostra a ricostruire l’importanza degli studi di matematica e di geometria di Piero per la storia della scienza è il matematico Odifreddi in una vivace audioguida che racconta il lavoro di Piero nelle risoluzioni algebriche e nella prospettiva geometrica, basata su quella euclidea trasmessa da copisti arabi.

Così, di sala in sala, il labirintico percorso espositivo che segue le vie segrete di Palazzo Magnani con i suoi molti saliscendi, ci permette di entrare in un affascinante mondo di botteghe di pittori e di matematici rinascimentali che condividevano gli stessi strumenti: compassi, righe di legno e di carta, squadre e oggetti curiosi come peli di coda di cavallo, fili sottilissimi come la seta, che servivano a simulare il raggio visivo della linea prospettica. Gli appassionati d’arte tuttavia non resteranno delusi: in mezzo ai disegni di Piero tradotti in modelli tridimensionali e multimediali per illustrare la logica delle costruzioni geometriche, fanno capolino opere come l’affresco staccato di San Ludovico da Tolosa (1460) di Sansepolcro che sembra rileggere in chiave pittorica l’agile e lucente statua di Donatello.

E poi opere di maestri del XV e XVI secolo come Lorenzo Ghiberti, di cui è esposta una prova  per la porta del Battistero, uno schizzo del Ghirlandaio per Santa Maria Novella in cui la prospettiva è appena accennata ma già abbastanza evidente e una straordinaria testa di Giovanni Bellini tratteggiata in un vertiginoso scorcio, oltreché schizzi degli architetti toscani Francesco di Giorgio, Antonio da Sangallo il Giovane, Baldassarre Peruzzi e dello stesso Michelangelo che schizza in prospettiva, a mano libera, una soluzione per la scala aggettante della biblioteca Laurenziana. E poi, come accennavamo, vibranti opere grafiche di Dürer che conobbe i manoscritti di Piero e li usò per dare profondità prospettica alle sue opere grafiche, come quelli qui esposte.

Stampe che idealmente dialogano con i disegni di Piero intesi come strumenti di progettazione e di ricerca dall’artista che conobbe il suo maggior successo alla corte di Urbino, in una vivace koinè culturale di studi umanistici e scientifici. E se grande risalto al genio di Piero nell’immaginare la città ideale è dato qui accendendo i riflettori su una affascinante tela preparatoria dell’omonima opera conservata ad Urbino, i curatori tuttavia sono ben attenti a non tradire il proprio scopo primario: far emergere parimenti quello che ingiustamente è considerato un Piero minore, l’autore di una vasta opera grafica, trascurato «per un preconcetto specialistico proprio dei nostri tempi –  si legge nell’introduzione al catalogo -, ma tanto più grave quando ci si occupa di Rinascimento, che non separava le diverse discipline, trattando talune grandi personalità della storia dell’arte come se il loro essere contemporaneamente scienziati e artisti fosse una sorta di scissione». Rischiando in questo caso di non comprendere il senso dell’opera di Piero nella sua inscindibile unitarietà.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel