Durga McBroom ride divertita quando le chiediamo se possiamo chiamarla Lady Pink Floyd. «Ok!», risponde, con il suo forte accento californiano. È l’unica donna ad aver accompagnato sul palco la band britannica, costantemente. Tanto da conquistarsi l’appellativo di “storica corista dei Pink Floyd”.
Quando i maestri indiscussi del progressive rock la chiamano, Durga ha da poco compiuto 25 anni. E quel giorno se lo ricorda benissimo: «Era il novembre del 1987, vivevo a New York e già cantavo nei club. David Gilmour aveva deciso di fare un live ad Atlanta, in Georgia. C’erano già due coriste, ma David disse: “C’è bisogno di un po’ di colore!”. La produzione conosceva mia sorella e sono arrivati a me». Così, insieme alla sorella Lorelei, anche lei corista dei Pf, raggiunge la band britannica per non lasciarla più: dal novembre del 1987 (A momentary lapse of reason tour) fino all’ultima data del The division bell tour, a Londra, il 29 ottobre del 1994.
In questi giorni McBroom è a Roma per la prima italiana di Dark side of the moon, lo spettacolo che i Pink Floyd Legend – la “tribute orchestra” accreditata tra le più fedeli ai britannici – eseguiranno il 14 aprile all’Auditorium Conciliazione, per proseguire il 16 a Napoli e il 22 a Milano. Per questo tour l’esecuzione sarà ancora più fedele, anche grazie alla voce di Durga.
Incontrarla è l’occasione per ripercorrere la storia dei Pink Floyd. E, con essa, quella del rock. Ha una voce potente, Durga. Graffiante e al contempo eterea, capace di innestarsi nello space rock del sound floydiano. La si può apprezzare – per esempio – nell’esecuzione di “The great gig in the sky”, (live-album Pulse, 1994), «forse la canzone più difficile da cantare », ammette. Pink Floyd, ombra o trampolino? Durga non ha dubbi: «Non rimpiango nulla. Ho avuto questo onore e non cambierei questa esperienza con nient’altro al mondo. Sono loro che mi hanno dato una carriera». E non solo una carriera: «Con la band avevamo un buon rapporto, come fratelli e sorelle, come una famiglia», ricorda.
La formazione a cui si riferisce Durga, è quella della “terza era floydiana”, che porta l’impronta di David Gilmour. Tra psichedelia e continua ricerca, infatti, la storia dei Pink Floyd è scandita da secchi cambi di formazione che tracciano quelle che i fan amano chiamare “ere floydiane”. La chitarra di Syd Barrett, quella di David Gilmour che prima affianca Syd e poi lo sostituisce, il basso e la chitarra di Roger Waters, le tastiere e il sintetizzatore di Richard Wright, la batteria e le percussioni di Nick Mason, la voce di ognuno di loro: insieme durano dal ’65 al ’68, anno in cui il visionario Barrett lascia la band per disturbi psichici da abuso di Lsd.
Il post-Barrett (1968-1979) è un decennio “orizzontale”, forse il migliore dei Pink Floyd, che diedero alla luce A saucerful of secrets nel 1968, capolavoro di esperimenti sonori, Meddle nel 1971, preludio al successo mondiale, e The dark side of the moon che nel 1973 segna la consacrazione della band.
Nel ’79, poi, viene l’era di Roger Waters, che si apre con The wall, raggiunge l’apice con The final cut, nel 1983. E termina nell’85 quando Waters lascia la band, convinto – si diceva – che i Pf non avrebbero sopravvissuto al suo addio e liquidando i suoi compagni come «uno spreco di energie». E invece i due membri rimasti – David Gilmour e Nick Mason – restano, vincono la breve causa per l’utilizzo del nome e nel 1987 tornano con A momentary lapse of reason. È a questo punto che arriva il momento di Durga, che di essersi persa il passato non rimpiange nulla: «Anche perché – scherza – c’era un membro in particolare, Roger, che era molto difficile! (ride) ».
Il Roger di cui parla Durga è Waters. Le chiediamo, ma era davvero così terribile? «Non l’ho mai conosciuto di persona. Ti dico quello che mi hanno raccontato gli altri membri della band in questi anni», tentenna. Ma poi ci ripensa, sorride e sussurra: «Anzi, ho una storia da raccontarti… Eravamo alle premiazioni dei Grammy music awards, intorno a un tavolo ci siamo ritrovati proprio tutti, tutti i Pink Floyd. Era open bar – sorride – ed erano tutti ubriachi fradici». Mi chiede in prestito gli occhiali da sole, si alza in piedi e imita di Roger Waters: «Entrò nella sala, portava degli occhiali da sole, anche se era notte. Si comportò come se gli altri non esistessero, continuando a camminare e ignorandoci. A un certo punto, proprio mentre Waters passava accanto al nostro tavolo un membro del gruppo, il percussionista Gary Wallis, gli fece uno sgambetto… Roger cascò, ma si rialzò immediatamente, come se non fosse successo niente, senza dire nemmeno una parola».
Durga è consapevole di aver preso parte a un pezzo di storia del rock. E non è ancora finita, infatti ha partecipato anche al recente album The endless river, che segna il ritorno della band nel novembre 2014 dopo quasi 20 anni di assenza.
McBroom, sia chiaro, non è solo “la corista dei Pink Floyd”. Dal 1989 ha anche una sua band, i Blue Pearl, per la quale, oltre a cantare e suonare le tastiere, compone la maggior parte dei brani. Musica dance, house, techno. Il maggior successo, per chi non lo ricordasse, risale ai primi anni 90, con il singolo “Naked in the rain”. «Sono felicissima, da sette anni sono sposata, lavoro e vivo a West Hollywood a Los Angeles, una zona fantastica». Ma ha ancora un sogno nel cassetto: «Vorrei registrare un disco tutto mio, un album che porti il mio nome e in cui io possa cantare ciò che davvero voglio: neo soul». Ovvero un sottogenere musicale che fonde R&B contemporaneo, soul degli anni 70 e pop rap. Ci proverà, assicura. E ci salutiamo con una promessa, la prossima volta che la intervisteremo, come suggerisce sorridendo a fine intervista, la chiameremo semplicemente Lady Durga.
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Corruzione? Renzi ha fatto il minimo istituzionale proponibile
Non considero il ddl “anticorruzione” licenziato al Senato un’arma decisiva alla dilagante penetrazione delle mafie e della corruzione nelle istituzioni italiane. Al contrario: è la risposta non sufficiente alla richiesta di trasparenza che sale dal Paese, di un governo sinora debole su questo fronte.
Certo non vanno taciute alcune novità positive: sanzioni più dure, reintroduzione del falso in bilancio (seppur in forma tenue), sconti di pena per chi collabora nei procedimenti per corruzione. Tuttavia, si tratta del minimo istituzionale proponibile a fronte di un cancro che sta corrodendo lo Stato. Renzi sa che la gente è furibonda per il livello percepito di corruzione nel Paese. E la realtà, per quella che è la mia esperienza prima di magistrato e ora di sindaco, è peggiore di quello che si percepisce. Le normative in materia di appalti e lavori pubblici devono essere riviste radicalmente.
Ci vogliono regole chiare e semplici per attribuire ai poteri ordinari la forza di decidere in modo responsabile in tempi brevi. Si deve interrompere il ricorso a poteri commissariali che agiscono in deroga a leggi ordinarie. Non a caso, i commissariamenti sono tanto desiderati dal “sistema” malavitoso. Serve interrompere le concessioni di lavori pubblici sine die con costi che lievitano ad libitum, con una commistione pericolosa tra soggetti diversi; limitare le varianti in corso d’opera con operazioni opache su ribassi, lievitazioni, costi e ricorsi a sub-appalti; introdurre trasparenza nella scelta delle commissioni di gara; la rotazione delle ditte all’interno di elenchi redatti con procedure informatizzate unitamente ad Anac per i lavori di cosiddetta somma urgenza; ridurre al minimo esternalizzazioni di servizi pubblici in settori come quello dei rifiuti. E per verificare la correttezza dell’utilizzo dei fondi pubblici, soprattutto europei, si devono rafforzare i controlli sostanziali, non solo quelli formali. Oggi il “sistema” beneficia di consulenti qualificati che accertano che la forma sia sempre rispettata. E così è: apparentemente i lavori sono in regola. Poi, però, cadono viadotti, il materiale è di qualità scadente, l’opera resta inutilizzata.
Decisiva dunque è l’analisi della qualità dell’opera, più che quella della sua realizzazione. Corruzioni e mafie sono diverse da venti anni fa. Oggi, valigette di denaro e lingotti d’oro sotto il cuscino sono modalità d’eccezione. Il sistema corruttivo agisce invece movimentando denaro all’estero in modo formalmente ineccepibile, utilizza schermi societari, fondazioni, attribuisce consulenze, incarichi, posti di lavoro, finanche ruoli istituzionali. Negli ultimi anni nelle indagini della magistratura sul sistema criminale modello P2 sono emerse le medesime condotte e spesso gli stessi nomi.
Dimostrando che il “sistema” è dentro lo Stato, ne cura gli ingranaggi, arriva ovunque. Ne fanno parte anche persone che ricoprono ruoli di vertice all’interno di istituzioni e organi di controllo, forze dell’ordine e magistratura comprese. E sono pericolosissimi perché hanno in dotazione proiettili istituzionali che distruggono le cellule sane dello Stato, utilizzando la legalità formale del loro potere. Rimangono quasi sempre impuniti. Agiscono nell’ombra ma sono visibili, hanno abiti istituzionali. Nulla si viene a sapere del loro ruolo, della loro azione, della collusione pervasiva e così il cancro si allarga, dilaga. Senza di loro le mafie di strada sarebbero già state debellate. La lotta decisiva non passa, a mio avviso, attraverso super poteri commissariali o propaganda governativa, ma sostenendo quella parte di Stato che quotidianamente cerca di interrompere la distruzione delle cellule sane.
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