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Sergio Cofferati: quel problema di coerenza

«Piero Fassino, segretario dei Ds, mi chiese la disponibilità di candidarmi alle Europee. Era il 2004 e si votava anche per le amministrative. A quel punto io gli dissi che preferivo Bologna». Quando uno elettore di sinistra, spaesato per definizione, intervista Sergio Cofferati, amore naufragato, europarlamentare dal 2009, ci sono alcune domande obbligate. Alcune vanno fatte anche prima di parlare di Maurizio Landini e della “Coalizione sociale”, di ricostruire lo scontro (di Landini ma anche di Cofferati) con Susanna Camusso e di chiedere se altri, dopo di lui, dovrebbero lasciare il Pd renziano.

E così cominciamo da lì. Dal perché, lui che doveva guidarci tutti, è finito a fare il sindaco, neanche troppo amato, della città di Bologna. «Mi proposero quello che sembrava un esilio» è la versione ufficiale, «e io gli dissi che mi sembrava più giusto riconquistare una città simbolica, finita in mano alla destra. Mi dissero subito che era una buona idea».

«Si toglie di torno comunque», avranno pensato…

Ride. In effetti penso che sia stato quello il retropensiero. Ma guardi: il fatto che per me ci potesse esser un ruolo nazionale era vero solo prima del congresso dei Ds, a Pesaro, e comunque sarebbe sempre passato per una rottura del partito.

Lei avrebbe potuto sfidare Fassino al posto di Giovanni Berlinguer, candidato del Correntone.

Ma era appena arrivato il secondo governo Berlusconi, e ritenemmo che si sarebbe aperta, come effettivamente è stato, una stagione molto dura per il sindacato. Rimasi in Cgil, e poi ci fu il Circo Massimo.

Sa perché le chiedo di fare questa ricostruzione? Perché lei ha commentato il bacio immortalato tra Landini e Camusso, alla fine della manifestazione della Fiom del 28 marzo. Lei ha detto: «Un brutto bacio, lei si è ritratta». Camusso le ha replicato: «Dovremmo discutere di chi aveva costruito un progetto analogo a quello di Landini e poi un giorno ci disse “ciao ciao vado a fare il sindaco”».

Dice una bugia, Susanna, e spero solo che non ricordi bene. Io lasciai il sindacato alla scadenza naturale del mandato, nel settembre del 2002. Due anni dopo mi candidai a Bologna. Sono comunque contento, però: perché dalla replica della Camusso capisco non solo che lei condivide il progetto di Landini, ma che condivideva anche il mio. In nessuno dei due casi me ne ero accorto…

Non le chiederò di fare paragoni tra la piazza del 28 e il suo Circo Massimo. Mi dice invece cosa pensa di chi era con lei, su quel palco, in difesa dell’articolo 18, e oggi ha votato per l’abolizione, con il Jobs act?

Penso che c’è sempre, per ognuno di noi, il problema della coerenza. E c’è soprattuto per chi stava su quel palco. Cambiare opinione va sempre bene, ma devono esserci delle ragioni. E il guaio è che non mi pare ci siano nel caso dell’articolo 18, così come per tutte le altre riduzione di diritti e tutele che si sono votate in questi anni. Quanto è stato sostenuto con la propaganda, sui posti di lavoro creati, è stato smentito dai disastrosi dati dell’Istat sulla disoccupazione.

Lei non è mai stato in parlamento, a Roma. Molti dei suoi colleghi hanno votato per «fedeltà alla ditta » o perché forzati dai voti di fiducia. Lei avrebbe fatto diversamente?

Sì, non le avrei votate. Non c’è voto di fiducia che possa tenere rispetto ai diritti di chi lavora.

Le si potrebbe dire che da fuori è facile.

 Ma guardi che anche a Bruxelles sono tra i più disobbedienti. Ho votato contro Junker e contro la sua Commissione, ad esempio, e non me ne sono pentito. Infatti dei 350 miliardi non si parla più e invece, proprio mentre esplode la polemica sull’evasione delle grandi aziende, noi abbiamo ai vertici dell’Unione l’ex premier del Lussemburgo, un paradiso fiscale.

Però il Pd lei l’ha lasciato solo dopo la sconfitta alle primarie in Liguria, e non perché saturo politicamente.

Le primarie inquinate dalla destra sono state il detonatore. Non ho mai nascosto di essere in sofferenza.

A giudicare anche dall’ultima direzione del Pd, che ha blindato l’Italicum, sembra che il dissenso interno non porti a grossi risultati. Vince sempre Renzi, con la sua «democrazia decidente». Pensa che facciano bene, i suoi ex colleghi, a restare?

Per carità del cielo, decidano loro! Io ho ritenuto fosse più utile tentare un’altra strada.

A proposti dell’altra strada. La piazza della Fiom. Il vostro strappo in Liguria, dove si candida Luca Pastorino, civatiano. Le pare si muova qualcosa di più solido del solito, a sinistra?

Difficile dirlo. Ci sono segni importanti di novità, a partire dalla Liguria, ma per ora è quasi sempre una reazione al fatto che il centrosinistra non esiste più, agli strappi del Pd.

È giusto non fare subito un partito, non convocare chessò una costituente? I citatissimi Podemos e Syriza hanno fatto le due cose insieme…

È giusto, sì. Bisogna prima definire cosa vuol dire esser di sinistra, prima di pensare a un contenitore. Perché se Renzi può dire “non vi lascio l’uso della parola sinistra” vuol dire che qualcosa non funziona…

Non è di sinistra Renzi?

Sicuramente non fa cose di sinistra. Anche perché completa l’opera di Mario Monti, che ha guidato il peggior governo di questi anni. È con il sostegno a quel governo che inizia a cambiare la storia del Pd.

d di cui lei era autorevole esponente…

Veramente ero solo come un cane. Purtroppo, la  scelta di non contrastare adeguatamente quel governo è stata pagata anche dal sindacato.

Pensa che possa avere un ruolo nella ricostruzione della sinistra chi – ad esempio – ha votato la riforma delle pensioni di Elsa Fornero?

 L’appoggio che il Pd ha dato al governo Monti pesa molto. La sinistra ha creduto in quella fase all’austerità: uno può dire il contrario, adesso, ma che questo incida sulla sua credibiltà, è evidente.

Lei pensa che Landini proverà a guidare la Cgil, senza scendere in politica?

Lui ha detto così e bisogna dargli credito.

Per lei sarebbe una buona notizia?

La Cgil ha i suoi tempi e decideranno i congressi. Ma che Landini rimanga nel sindacato con funzioni sempre più importanti lo considero positivo. Perché non si ricostruisce la sinistra se non si rinforza e cambia il sindacato. E Landini ha idee innovative.

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Le cinque delle 13.00

Milano, lacrime e lunghi applausi a ricordo delle tre persone uccise nell’aula magna del tribunale di Milano piena in ogni ordine di posto. Sono state commemorate le vittime della strage avvenuta ieri nel Palazo di Giustizia nella quale sono morti il giudice Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e Giorgio Erba.

Consiglio di Stato sull’eterologa: No al pagamento per intero nella Regione Lombardia. Il Consiglio di Stato ha sospeso in via cautelare la delibera della Lombardia che, unica Regione, stabilisce che il cittadino debba pagare interamente il trattamento di fecondazione eterologa, e non solo il ticket. I giudici hanno ritenuta valida la posizione dei ricorrenti: l’associazione Sos Infertilità e la onlus Medicinademocratica.

Def, bonus da 1,5 miliardi per il welfare. A quanto si apprende da fonti del governo la destinazione che Matteo Renzi vorrebbe dare alle risorse aggiuntive individuate in sede di stesura del Def è per i servizi sociali. Il premier starebbe valutando l’ipotesi di un decreto a parte per queste misure.

Diffusi dati Inps su occupazione nei primi due mesi del 2015: aumentano i contratti a tempo indeterminato (+12,3%) ma diminuiscono quelli a termine (-7%) e in apprendistato (-11,3%) rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso portando di fatto a zero la variazione dell’occupazione sul 2014.

Obama e Raul Castro al vertice delle Americhe. Sia il presidente americano Barack Obama sia il leader cubano Raul Castro sono giunti a Panama, dove è in corso un colloquio tra il segretario di Stato americano John Kerry e il ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez. Quest’ultimo rappresenta l’incontro di più alto livello diplomatico tra Washington e L’Avana da più di mezzo secolo.

Je suis Zineb

Questo è un numero speciale per noi di Left. Abbiamo immaginato  e poi realizzato ogni singola pagina, contenuto e forma.

Siamo andati a Parigi, a tre mesi dall’attentato di Charlie Hebdo e abbiamo parlato con la giovane giornalista, sociologa delle religioni franco marocchina che si è salvata per un semplice caso. Non era andata in redazione quella mattina, era a Casablanca per cercare casa. Voleva tornare a casa, era stanca. L’Is ha “l’obbligo” di ucciderla, perché ha offeso Maometto, ma lei è talmente arrabbiata che non riesce neanche ad  avere paura.

E poi siamo andati in giro per il Paese, abbiamo cercato di capire se fuori dal mainstream del Pd c’è vita, abbiamo intervistato il sindaco di Bogliasco, Luca Pastorino uscito di recente dal partito di Renzi, che si è candidato in Liguria contro Raffaella Paita alzando polveroni di polemiche inutili; siamo andati in una scuola di periferia dove nonostante “La vera scuola” fatta di pioggia dentro e servizi inutilizzabili, la didattica si fa “eccellenza”.

Abbiamo chiesto a Gherardo Colombo, uno dei tre magistrati simbolo di Mani pulite autore di un libro coraggioso e bello Lettera a un figlio su Mani pulite, di spiegare la corruzione a una bambina di dieci anni. Vi abbiamo raccontato il calcio di sinistra e abbiamo affidato quattro pagine al graphic journalism di Francesca Zoni.

Ci siamo chiesti chi siano le migliaia di foreign fighters, combattenti volontari, che ogni giorno partono per andare a combattere l’Is, armati sino ai denti. E abbiamo chiesto a un’economista il profilo del signor No d’Europa, il finanzminister della Merkel, Wolfgang Schauble. L’uomo forte dell’austerity, quello che si è rifiutato persino di dare il proprio numero di telefono al suo collega greco, Yanis Varoufakis.

Perla di questo numero è anche il racconto fantastico, ma non troppo, di Claudia Vago che immagina un mondo nel quale Facebook ha divorato tutto. Tutto lo spazio vitale del web e dell’informazione fino a farsi Stato e a dichiarare guerra allo Stato.  Ma anche Albert Einstein e la teoria della relatività generale nel suo centenario, Luciano Bianciardi e la musica con Lady Pink Floyd. Leggeteci e raccontateci cosa vi sembra. Vi aspettiamo.

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Si perdono nell’indifferenza opere interessanti come Cloro di Lamberto Sanfelice

Tempi bui per il cinema italiano. La stagione ha visto un’ulteriore crisi: solo i comici Siani e Aldo, Giovanni e Giacomo sono tra i primi 10 negli incassi dall’agosto 2014. Gran parte delle uscite è insidiata dalla pur valida concorrenza straniera, stroncata da blockbusters di grande lancio pubblicitario mai protetta da un impegno responsabile degli esercenti. Il giovane favoloso di Martone è stato guardato come un piccolo miracolo perché, pur essendo un film complesso di taglio autoriale, ha superato i 5 milioni di euro.

Gli altri titoli sono stati polverizzati dai fatidici primi 4 giorni di programmazione. Spietatezze del libero mercato e/o debolezza drammaturgica e/o incompiutezza estetica e/o incapacità di intercettare il nostro tempo, vanno male Taviani, Archibugi, Costanzo e i corrosivi Biggio e Mandelli de I soliti idioti. Dispiace che scompaiano lavori aggraziati, come il documentario Piccoli così, di Marotta, sulla vulnerabilità e la resistenza dei nati prematuri.

Film, Cloro, LocandinaDispiace che si perdano nell’indifferenza opere interessanti come Vergine giurata di Bispuri, film sull’identità di genere, dal romanzo di E. Dones, ben interpretato da Alba Rohrwacher o Torneranno i prati del maestro Olmi, sulla sconvolta umanità dei soldati in guerra o, infine, Cloro di Sanfelice: è la storia di Jenny, che ha il volto bello e indurito dell’emergente di talento, Sara Serraiocco, che sogna di diventare campionessa di nuoto sincronizzato, ma è confinata tra le montagne, a causa della situazione familiare.

Senza madre e con un padre depresso, deve badare al fratellino e trovarsi un lavoro, rinunciando agli allenamenti. Al di là della storia e di alcune lentezze, colpisce lo stile visivo, così tenacemente concentrato sulla protagonista, sul suo corpo, ora nervoso e contratto, ora sciolto e sinuoso, sulla compressione fisica delle emozioni rispetto a una vita agra che non le risparmia nulla e insinua il freddo nelle ossa. La fluida mobilità dell’acqua, in cui la concretezza dei volumi scivola via con sospesa leggerezza, sfida la ruvidità della montagna e il suo biancore silente. Le grida divertite degli adolescenti sullo slittino sono un’irruzione di gioia nella compattezza dolente.

Finale aperto, in cui tutto è possibile, anche un filo di speranza, forse anche per il nostro cinema.

Le cinque delle 20.00

Mattinata di terrore a Palazzo di Giustizia di Milano. Tre i morti e due feriti. Tra le vittime l’ex giudice fallimentare Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani, 37 anni, Giorgio Erba, coimputato dell’assassino Claudio Giardiello, 57 anni, imputato per bancarotta fraudolenta, che è stato catturato a Vimercate dopo una fuga in moto. «Volevo vendicarmi di chi mi ha rovinato» ha detto ai carabinieri. Sarebbe entrato da un ingresso laterale riservato a giudici e avvocati, non dotato di metal detector, esibendo un tesserino falso.

Renzi: fiducia in De Gennaro. Il presidente del Consiglio ha confermato la fiducia nel presidente di Finmeccanica, contestato dopo la sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia due volte, per le violenze alla scuola Diaz durante il G8 (quando De Gennaro era capo della Polizia) e per la mancanza del reato di tortura. «Mi piacerebbe che un giorno quando si parla di responsabilità si parlasse anche di responsabilità della politica. E’ facile attribuire responsabilità alle forze dell’ordine e ai manifestanti», ha detto Renzi.

Claudio De Vincenti è il nuovo sottosegretario alla presidenza del Consiglio al posto di Graziano Delrio, oggi ministro delle Infrastrutture. Romano, classe 1948, professore di economia alla Sapienza, collaboratore della voce.info di Tito Boeri, De Vincenti era viceministro dello Sviluppo economico, dal governo Monti all’attuale.

Teheran non intende firmare l’accordo sul suo programma nucleare, a meno che tutte le sanzioni economiche non siano revocate immediatamente. Lo ha detto il presidente iraniano Hassan Rohani. Subito dopo è intervenuto anche la Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, secondo cui l’intesa raggiunta a Losanna sul nucleare il 2 aprile non è vincolante.

#147notjustanumber, per non dimenticare le vittime del Kenya. Un hashtag per ricordare gli studenti uccisi nell’attentato a Garissa. L’obiettivo: ricostruire e raccontare con una foto, un nome o un dettaglio chi erano i giovani che hanno perso la vita. Perché la strage non resti solo un numero di morti.

4stellehotel.it il webdoc che racconta la vita in un albergo occupato alla periferia di Roma

Folla, fumo, volti, numeri. Oltre 10.000 sfratti ogni anno solo a Roma, 30.000 famiglie in attesa di una casa, centinaia di edifici vuoti. Comincia così il webdoc di Paolo Palermo e Valerio Muscella. E comincia così il 6 dicembre 2012, la storia del 4Stelle Hotel narrata nel loro documentario on-line, quando 250 persone occupano un albergo abbandonato alla periferia della Capitale.

Ogni rivoluzione, piccola o grande che sia, parte da un dove e da un come. Da persone, cuori, teste, mani. Questa è la storia di una storia, l’avventura di un gruppo di ragazzi convinti di fare una cosa davvero giusta. E nuova.

Valerio, romano, trent’anni, è uno psicologo clinico, ha lavorato per anni nel settore della cooperazione. Poi si è appassionato alla fotografia. «Ho imparato a scattare da autodidatta» racconta, mentre gli si riempiono d’orgoglio gli occhi neri.

Paolo, film maker catanese, anche lui trent’anni, è l’altra firma di questo documentario: un vero e proprio sito web, in cui navigare all’interno del 4Stelle e delle storie che ogni giorno si svolgono al suo interno, tra fotografie, video e testi che descrivono la vita degli abitanti dell’hotel.

«Abbiamo iniziato ad andare in strada – spiega Valerio – quando c’erano le manifestazioni di lotta per la casa e, proprio in piazza, ci siamo accorti che tutte queste persone dal colore della pelle diversissimo dal nostro, ma anche gli uni dagli altri, avevano una freschezza e una forza formidabile. Ci siamo avvicinati a quelli che sarebbero stati gli abitanti del 4Stelle prima ancora che ci fosse il 4Stelle». Guarda Paolo e, con quel tono con cui si ripensa alle grandi avventure insieme, gli chiede: «Ti ricordi? Abbiamo ancora tutte quelle foto e i video fatti durante…» si ferma e, come se, a forza di lavorare insieme fossero ormai abituati a passarsi l’un l’altro il testimone della storia, è Paolo a continuare: «… le manifestazioni del movimento di lotta per la casa, sì. Era il settembre 2012, i primi tempi in cui cominciavamo a conoscerci noi due, il resto del gruppo e tutta quella gente…Vedevamo tantissimi migranti in piazza, ci chiedevamo chi fossero. Il 6 dicembre, iniziò un’ondata di occupazioni, vennero occupati ben 10 palazzi sfitti. Così siamo andati a bussare».

Come vi hanno accolto?

Paolo: «Pensavamo fosse più difficile e invece abbiamo trovato una grande accoglienza, siamo andati lì con telecamera e macchina fotografica per farci conoscere, e abbiamo iniziato subito a scattare. Quelli erano i primi giorni, tutti erano presi dalla novità e il 4Stelle era molto diverso da come è adesso»

Com’era?

Paolo: «Quando i ragazzi sono entrati lì dentro non hanno occupato le stanze subito. Hanno chiuso i piani superiori e per i primi venti giorni hanno dormito tutti insieme al piano terra, nella hall e nelle sale congressi. Non volevano diventasse una giungla. Era necessario capire quante persone e quante  famiglie ci fossero, organizzarsi per dare a ognuno la sistemazione di cui aveva bisogno. È stata l’occasione per noi di conoscere l’albergo, la comunità, le persone e, per loro, provenienti da diversissime parti del mondo, di entrare in relazione. Le persone, come in una qualsiasi hall d’albergo, cominciavano a incontrasi, ma qui lo facevano sulle cose concrete: spostare dei materassi perché il sole ti batteva sulla testa, pulire, difendersi dall’arrivo della polizia, cucinare. In molti ci hanno chiesto come siamo finiti lì: la verità è che ci siamo stati fin dall’inizio».

Osservatori interni quindi.

Valerio: «Eravamo parte della comunità, sentivamo di vivere insieme a loro qualcosa di estremamente giusto. Capitava che qualcuno stesse spostando o sistemando qualcosa mentre io facevo una foto e, in alcuni momenti, non sapevo se era più giusto fare la foto o dare una mano. E allora a volte posavi la macchina e aiutavi gli abitanti del 4Stelle in qualche lavoro pratico, oppure ti sedevi e partecipavi all’assemblea. Fotografare o riprendere erano azioni tra le altre, utili come tutte le altre a riaffermare quello che si stava costruendo lì. Man mano che vivevamo e conoscevamo le persone, il limite, fra noi che documentavamo e loro che erano oggetto del documentario, cominciava a saltare».

Paolo: «Il nostro interesse si è spostato dal capire quello che stava succedendo, alle persone, alla loro umanità. Ninish, Antony, Raffa sono stati i primi, posavamo la camera e ci bevevamo un caffè, parlavamo, ci raccontavano le loro storie. Li sentiamo ancora, domenica andiamo a pranzo da Ninish».

Nel vostro webdoc, avete mescolato testi, foto, video, perfino le voci e i rumori dell’hotel. Avete fatto comunità anche nei contenuti.

Paolo: «L’idea del webdoc nasce lì dentro. Davanti avevamo un mondo intero, una comunità, un albergo unico nel suo genere e delle azioni semplici ma importantissime per le vite di queste persone. Come lo raccontiamo? Avevamo sentito parlare dei webdoc. Fabio Ragazzo, che ha fatto da producer, aveva lavorato in Irlanda a un’esperienza simile e abbiamo deciso di provarci. Era un modo per mettere insieme le nostre competenze». Valerio: «Sentivamo il bisogno di metterci “là dove non basti tu”, dove serve qualcun altro che ti completa. E poi eravamo dentro a una comunità meticcia, contaminata da più culture e serviva un “linguaggio meticcio”, come quello degli abitanti dell’albergo, per descrivere al meglio quella pluralità di linguaggi. Avevamo gli occhi puntati anche su altre esperienze, fuori dall’Italia: in Francia i webdoc sono strumenti attivi di comunicazione. In Canada il National Film Board finanzia progetti anche da 200.000 euro».

E in Italia?

Valerio: «In Italia non esisteva niente del genere. Utilizzare uno strumento così per raccontare questa storia poteva essere innanzi tutto un megafono. Si poteva avere una diffusione e una visibilità maggiore rispetto a quella di un articolo sul giornale o di un servizio al tg».

Come avete finanziato il progetto?

Paolo: «È stato Fabio a trovare i fondi. Ma soprattutto la forza stessa della storia convinceva le persone a darci una mano, a partecipare. Un web designer (Martino Bresin), un montatore (Emanuele Redondi), un fonico (Marco Neri), una persona che ha revisionato i testi, chi ha fatto la campagna social. Si è formata una squadra corposa». Valerio: «Si è creata una forza travolgente attorno al progetto, non so come dire: ecco, spingeva. Appassionava. Coinvolgeva. Ci motivava. I pochi fondi, circa 6.000 euro, alla fine sono arrivati dall’Europa con il programma Youth in Action».

Foto, video, testi, una grande attenzione al suono. Guardando il vostro documentario, sembra davvero di passeggiare fra i corridoi del 4 stelle.

Paolo: «Abbiamo cercato di creare una narrazione anche con il suono. Il web è un luogo dove la navigazione è frammentaria, siamo abituati ad aprire mille schede, vedere un reportage, leggere un articolo, ascoltare una canzone, tornare al reportage, notifiche di facebook, mail. Siamo partiti dall’utente. Volevamo costruire una narrazione che rendessegiustizia a quel posto e volevamo che lo spettatore venisse colpito da sensazioni e emozioni come era accaduto a noi». Valerio: Una delle novità è che non è una pagina web dove ci sono dei contenuti. Il sito stesso è la storia e noi navighiamo all’interno storia. E poi c’è la questione della memoria. Siamo in Italia, qui, a differenza che all’estero, c’è la tendenza a raccontare storie che vengono dimenticate. Il nostro lavoro è in controtendenza perché questa storia rimane lì, non vuole essere dimenticata».

E perché non viene dimenticata?

Paolo: «Perché si legano memoria e partecipazione. Il webdoc deve stimolare la partecipazione. La sfida sta nell’immaginare un dispositivo d’informazione che ti faccia diventare, da spettatore passivo, utente attivo per poi farti andare oltre lo schermo. Per questo abbiamo anche cominciato a organizzare delle feste e degli incontri al 4Stelle dove le persone che avevano visto il webdoc potevano venire a toccare con mano quella realtà, incontrare le persone».

Un altro tassello al vostro linguaggio meticcio.

Valerio: «Il punto è entrare in contatto con chi o ciò che hai accanto. Senza contatto si cade nell’oblio, come avviene con le notizie dei quotidiani o le foto di cronaca. Il punto è realizzare dei prodotti sostenibili anche dal punto di vista relazionale. Se le persone, dopo aver guardato il tuo documentario, non escono di casa e non si mettono in gioco per cambiare qualcosa, non serve a nulla. Se le cose non ci toccano, finiamo per dimenticare tutto e dove non c’è memoria non può esserci buona informazione».

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Dopo la Buona scuola arriva la Buona università

È notizia di questi giorni l’annuncio da parte della senatrice Puglisi, responsabile Università della segreteria nazionale del Partito democratico, delle linee guida che ispireranno la Buona università, la nuova riforma che, da qualche mese, è nelle intenzioni del Governo. Maggiore autonomia, contratto a tutele crescenti sul modello del  Jobs act anche in università ed interventi sul diritto allo studio sembrano essere i cardini di questa nuova riforma, che ha come fulcro un inasprimento dei criteri di merito al fine di chiarire definitivamente, come dichiarato da Matteo Renzi, che in Italia ci sono atenei di serie A e serie B. Un sistema, dunque, che vede contrapposte le cosiddette eccellenze ad atenei piccoli e poco produttivi.

Questi annunci seguono a diversi articoli pubblicati sulla stampa nazionale che attaccano i tanti difetti che ha l’università italiana. Chi si occupa di istruzione e università come me, sa bene che la massiccia propaganda operata da una certa componente dei media è servita in passato solo a legittimare provvedimenti che hanno ridotto i finanziamenti, distrutto gli atenei in termini di qualità della didattica e della ricerca e reso sempre più precaria una generazione escludendo migliaia di ragazzi dalla possibilità di frequentare l’università. Basta chiedere al mio vicino di casa, o ai miei parenti e scoprire che tutti pensano che gli atenei siano una zona franca da ogni idea di valutazione, costellata di nepotismo. Sebbene sia innegabile che anche nell’Università, come in ogni ambito, esistano questi fenomeni, trovo che sia sbagliato sparare nel mucchio, anche e soprattutto perché, ad un’analisi più attenta, si nota come le leggi, la Riforma Gelmini su tutte, promosse in questi anni, hanno paradossalmente rafforzato baroni e rettori, che dispongono oggi di un elevatissimo potere, soprattutto sul futuro di migliaia di giovani ricercatori.

Secondo l’indagine “Ricercarsi” del 2014 della FLC CGIL solo il 6,7% di dottorandi, assegnisti e precari vengono assunti nell’Università, dato che dimostra come le politiche messe in atto in questi anni, un obiettivo lo hanno raggiunto: escludere migliaia di giovani dalla possibilità di immaginarsi un futuro nel mondo della ricerca. Oramai esiste e lavora nei nostri atenei una massa di ricercatori con le più svariate forme contrattuali, sottoposti ad una situazione di costante precarietà e ricattabilità. Tale situazione appare ancor più grave alla luce del DM 194, emanato la settimana scorsa, che ha di fatto sancito che per soddisfare i vincoli di accreditamento le università possono fare uso di docenti a contratto, dimostrazione di come il Ministero si accontenti di tappare i buchi di una situazione disastrosa sfruttando la piaga del precariato che ormai affligge i nostri atenei.

Altro dato drammatico riguarda gli studenti: negli ultimi 10 anni, sono calate le immatricolazioni all’università del 23%. Come mai? I motivi sono molteplici. Innanzitutto solo in Italia esiste la particolare figura dell’idoneo non beneficiario: uno studente che ha tutte le caratteristiche per ricevere la borsa di studio ma a causa della mancanza di fondi non ne può usufruire; in secondo luogo, l’aumento generalizzato delle tasse universitarie, cresciute di oltre il 70% negli ultimi 10 anni; ed infine il moltiplicarsi dei corsi a numero chiuso, ormai la maggioranza di quelli presenti in università, nega la possibilità di accesso per migliaia di studenti. Queste sono le cause dell’esodo che sta avvenendo nelle nostre università.

È stata descritta in tanti modi e non credo servano altre definizioni, ma è ormai palese che ci troviamo di fronte ad una o più generazioni escluse. Escluse dalla possibilità di accedere ai più alti livelli della formazione, escluse dalla possibilità di realizzare le proprie aspirazioni professionali, escluse dalla possibilità di mettere a frutto il proprio sapere per il miglioramento della società.

Questa condizione è frutto di politiche nel campo dell’istruzione e del mercato del lavoro, il cui obiettivo è sostituire una coscienza collettiva basata sulla stabilità delle prospettiva di vita, con una individualità che accetta la condizione di precarietà esistenziale, la quale rende anche i rapporti umani e personali più fragili. Un’operazione però che non è solo a danno di migliaia di giovani, ma che sta rendendo questo Paese sempre più povero, non solo economicamente, ma soprattutto di idee, di innovazione, incapace di una via di uscita dalla crisi economica che passi attraverso la completa revisione di questo modello sociale e di sviluppo.

È ormai necessario rimettere in campo una discussione, un percorso di partecipazione fuori e dentro l’università tra studenti, precari, docenti che vivono tutti i giorni i nostri atenei che sia capace di immaginare un’idea nuova di Università e di Sapere che mettano al centro il diritto di accedere all’istruzione terziaria e un investimento nella ricerca volto a combattere la precarietà che affligge quel mondo e nell’ottica di una cambiamento culturale che guardi più in generale al futuro di tutto il Paese. Guardiamo con interesse alle pratiche e idee che provengono dalle occupazioni di diversi atenei nel mondo, dalla London School Economics all’Università di Amsterdam, Toronto e molte altre che rivendicano il rifiuto del profilo verticale e manageriale replicato nel mondo accademico, frutto del tentativo di  trasferire dal mondo del lavoro i perversi meccanismi di competitività e meritocrazia, e la necessità di nuove politiche di investimento nell’istruzione. Facciamo nostre queste parole d’ordine, pronti a costruire un percorso partecipato che le contrapponga a qualsiasi atto volto a rendere ancora più elitari e precari i luoghi della formazione.

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Le cinque delle 13.00

Milano, spari al Palazzo di Giustizia: 4 morti e due feriti. Arrestato il killer, l’imprenditore Claudio Giardiello, imputato per bancarotta fraudolenta. Tra le quattro vittime ci sono il giudice fallimentare Ferdinando Ciampi e l’avvocato di Giardiello, Lorenzo Alberto Claris Appiani. Giardiello dopo aver sparato era riuscito a fuggire e ad arrivare a Vimercate, a 30 km da Milano, in moto, dove è stato arrestato dai Carabinieri. Tra i due feriti, Davide Limoncelli e Giorgio Erba, quest’ultimo è in condizioni  gravissime.

Piero Fassino, presidente dell’Anci incontra il premier Renzi e smussa i toni dopo le polemiche sul Def : «Il quadro ha consentito di superare le incomprensioni e i fraintendimenti dei giorni scorsi. Abbiamo apprezzato la disponibilità del Governo e come Anci abbiamo riconfermato la volontà di continuare una relazione positiva con l’obiettivo di cercare soluzioni condivise»

Italicum, il ministro Boschi gela la minoranza Pd: i numeri in Aula ci sono e la minoranza Pd si deve adeguare alla linea della maggioranza. Sono una doccia gelata per l’opposizione Dem le parole del ministro Maria Elena Boschi a un convegno della Luiss all’indomani dell’avvio della discussione in commissione Affari Costituzionali della discussione sull’Italicum.

G8 Genova, Cantone difende De Gennaro: È stato assolto, non può pagare per tutti. Il presidente dell’Anticorruzione lo dice ad Agorà: dopo essere stato indagato e assolto Gianni De Gennaro, ieri accusato dal presidente del Partito Democratico Orfini, «non può pagare le responsabilità complessive di una macchina intera».

La Grecia annuncia di aver rimborsato al Fondo monetario internazionale 450 milioni di dollari del prestito in scadenza. «Il pagamento è stato registrato e sarà effettuato in giornata», dice una fonte ufficiale del governo greco. Atene continua a negoziare con Bruxelles l’approvazione di un pacchetto di riforme che dovrà sbloccare i nuovi aiuti internazionali.

Tutto fuorché nomadi, ecco la classe media “zingara”, tutta casa e lavoro

«Ma perché non vogliono abitare nelle case?»: ecco la domanda che rispecchia lo stereotipo più resistente da millenni a questa parte. Zingaro uguale nomade. Che, in quanto tale, “vive di espedienti”. E se così non fosse?

Se un rom o un sinti facesse un lavoro “normale” sarebbe forse meno rom, solo perché non risponde all’immagine che noi abbiamo di loro? Se, per esempio, una rom facesse la regista, fosse italiana e vivesse a Torino come Laura Halilovic, che dell’essere rom ha fatto un film? Senz’altro verrebbe considerata un’eccezione. Così come Dijana Pavlovic, attivista e politica di origini rom candidata alle Europee per L’Altra Europa con Tsipras e ormai volto noto della cultura rom.

Ma se queste eccezioni fossero una normalità che non conosciamo? Se un rom (che significa semplicemente “uomo”) fosse una persona “normale” e vivesse da anni (quasi venti per la precisione) in una città italiana che potrebbe essere Bologna, e da almeno la metà lavorasse con regolare contratto e contributi in un’azienda agricola? No, non sfruttato come quelli di Rosarno: gli “immigrati”, perfino se “zingari”, non lavorano solo sfruttati.

Aghiran è romeno e assieme al suo amico Constantin ha fondato perfino un’associazione, Rom pentru Rom (i rom per i rom), proprio allo scopo di non doversi sentire stranieri in una terra che contribuiscono a rendere più civile. E ancora: se costruissero sistemi di allarmi per le banche? O se facessero gli interpreti per la questura o il tribunale, dando una mano a stabilire un contatto fra le parti? O, magari, azzardiamo, facessero addirittura l’università e partecipassero a manifestazioni contro il governo o facessero parte di associazioni culturali universitarie con gli altri studenti di Scienze politiche?

Questa è la classe sommersa di rom e sinti che da generazioni abita l’Europa senza necessità di imporsi o sbraitare.

Ancora una volta, la diversità non è un problema dell’altro, ma nostro. Nostro, ma che noi facciamo diventare loro. Elèna vive a Mantova e lavorava come mediatrice culturale. Ora, come tanti dipendenti delle cooperative del Belpaese, è in cassa integrazione. È di origini slave, vive in Italia da quasi trent’anni, ovvero poco più della sua età. Da qualche anno lavora in una scuola materna della provincia. Peccato che il nome sia di fantasia. Perché: «A scuola non se lo sognano nemmeno che sono una rom. Non ho paura di perdere il lavoro perché il contratto è sicuro». Più che altro la stima: «In questi anni mi hanno conosciuto per la mia puntualità e per la mia affidabilità: se un giorno sparisse qualcosa sarei l’ultima persona a cui penserebbero. Ma se sapessero che sono rom tutto si capovolgerebbe e penserebbero subito che sono stata io».

Un mondo capovolto, quello in cui spesso vivono i rom, in cui più hai caratteristiche positive, più devi celare le tue origini: «A mio figlio (nato in Italia) non ho nemmeno insegnato la lingua». Al contrario di Bada, kosovara che vive a Vicenza e insegna romanì: «Sono la mamma di 5 figli; fino al 1998 ho vissuto in una modesta, ma bella casa in Montenegro con la mia famiglia. Purtroppo c’è stata la guerra nell’ex-Jugoslavia e ho dovuto abbandonare il mio Paese». A vivere in un campo per un periodo, ce l’abbiamo messa noi. Poi, lei e suo marito, una casa se la sono ripresa. Tra le altre cose, fa l’attivista per l’Associazione 21 luglio: «Il mio sogno è che un giorno tutti i rom e sinti vivano in una casa dignitosa e che i loro figli vadano a scuola, dove possano imparare tanto e avere tanti amici fino a laurearsi»: il sogno di tutti i genitori. Con una piccola sfumatura in più: «Sogno che vivano in una società dove non dovranno nascondere la loro etnia».

Il problema non è essere rom. Il problema, racconta sempre Elèna, con quell’orgoglio maltrattato che riemerge purissimo, è essere rom in Italia: «Guardo gli altri rom qui in Italia, e sottolineo, qui in Italia, e non mi sento come loro. Non c’è nulla da difendere in un certo stile di vita o in un modo di comportarsi. Ma per il mio paese, essere rom è una cosa normalissima. Lavoriamo tutti, e viviamo tutti in casa. Qui invece, se nessuno immagina che siamo rom tutti ci stimano». Potrebbe essere la nostra vicina di casa, Eléna. Ride, poi aggiunge: «Veramente sono io che mi scelgo i vicini di casa. Siamo molto schizzinosi. Se qualcuno ha fumato in ascensore, io non lo prendo». Viene da chiedersi chi dei due sia l’incivile. E naturalmente, come nella maggior parte delle case rom: via le scarpe appena si entra.

La casa padovana di Desyjana e Giovanni (operaio pugliese non rom) è la più pulita che abbia mai visto, è quasi imbarazzante: «ma scusa, perché ti sorprendi? Per lavoro pulisco le case degli altri!». Giusto. Gordo invece è montenegrino, vive a Roma. È un perito ferroviario, con una casa con mutuo a Morlupo e un lavoro alle Ferrovie dello Stato. Fra Gordo che fa il suo mestiere e la società nostrana, chiunque di noi avrebbe molti più motivi di insultare la seconda piuttosto che il primo. Ride, quando sente il tema dell’articolo: «Eh si: sono assolutamente normale». E aggiunge divertito:

«La mia famiglia non sa nemmeno cosa sia una roulotte. Come non lo sapevo io quando sono arrivato in Italia. L’ho imparato da voi, cosa fosse»

Anche lui però, preferisce non rivelare la sua vera identità. Buffo, se si pensa che una delle prime domande motivo di orgoglio per la nostra civiltà, consista nel dichiarare di che cosa ci si occupa. Loro, che lavoro fanno e come si chiamano, non possono dirlo, se dicono di essere rom.

Una che non ha mai fatto mistero delle sue origini, è la piccola Draga. Una “serba bolognese” che parla slang e dialetto del capoluogo felsineo dove frequenta Scienze della Formazione e divide la casa con altre ragazze. Ha 21 anni e due occhi neri giganteschi. Si laureerà a luglio ma già lavora come educatrice e come assistente al doposcuola con i bimbi delle elementari. È inarrestabilmente curiosa e intraprendente: «Abbiamo anche fatto partire un progetto per medie ed elementari con ragazzi che vengono dall’est e sono “zingari” come me. Lavoriamo sulla dispersione scolastica e partendo da un supporto scolastico cerchiamo di arrivare a un’integrazione tra pari. Perché questo siamo, bisogna che lo capiscano anche loro».

Anche Ivana fa l’università, Filosofia a Torino, è l’insegnante di danza: «Non gli dico subito che sono rom. Glielo dico dopo un paio di mesi: prima costruisco un rapporto che è come un muro contro il pregiudizio. Mi è capitato in un paio di casi che le persone non siano riuscite ad andare oltre, ma la maggior parte delle mie allieve è rimasta senza problemi». Ha 24 anni, Ivana, e abita con la sua famiglia in una casa popolare nel quartiere di Artom, un ex quartiere dormitorio nella periferia sud di Torino (zona Mirafiori), poi riqualificato tanto da aver ospitato i giochi invernali delle Olimpiadi del 2006. «Non ho problemi a dire chi sono, tanto nel mio quartiere siamo conosciuti: faccio volontariato da tre anni, con i ragazzi e con le donne. Il problema non è chi ci conosce, ma chi non ci conosce». Chi li conosce saprebbe che lei lavora anche come educatrice per «dare una mano come posso», la mamma fa lo chef in un ristorante italiano, e il papà l’aiuto cuoco, mentre il fratello, di due anni più grande l’artigiano: «e con le sue marionette fa spettacoli in giro per la città».

I problemi sorgono quando si sveglia l’attenzione dei media, racconta: «Sentono qualcosa in tv, e il loro cervello si accende. Si ricordano di quelli che abitano nelle roulotte e partono minacce e insulti senza senso. Non fa nessuna differenza dove io abiti o cosa faccia: è proprio una questione di ignoranza». E dall’informazione che accende animi e allarmismi. Un esempio? «Guarda il caso Isis. Io non ricevo minacce normalmente. Poi scoppia il caos e finiamo nel cuore degli insulti. Mia mamma è musulmana, non portiamo il velo, ma automaticamente siamo attentatori». E per di più, «zingari di m…».

Un altro giovane che rivendica serenamente la propria appartenenza è Fiorello Miguel Lebbiati. E lo fa con accento spiccatamente toscano, essendo nato a Fucecchio. A trentatre anni, lui gli incroci li racchiude tutti: è italiano, rom e anche sinto. «Se lavoro? – ride – da sempre! Fin da giovane, ho iniziato a 16 in un calzaturiero della provincia: venivo pagato pochissimo perché ero piccino. Poi ho fatto il muratore, e tanti altri mestieri fino a quando non sono entrato in una bottega». Lì ha inizio quello che è un vero e proprio apprendistato rinascimentale: «Camminando per Roma, se alza la testa, lei vede quello che io ho imparato a fare. Noi lo chiamiamo “stucchino”: tutto quello che nelle chiese – dai capitelli agli zoccoli, bozzati delle case, colonnati, decorazioni – l’ho fatto o curato io». Fra i suoi restauri, tutta la prima fase del campanile di San Francesco di Lucca, o la chiesa di San Jacopo di Lammari: «Gli stucchi della volta erano del 1200: mi tremavano le gambe quando me ne sono accorto». Abita nella preziosa cittadina d’arte con la sua compagna,

«convivo e paghiamo l’affitto come le persone normali», scherza

Compagna non rom così come la mamma della sua bimba. S., che ha 10 anni: «Ora è su che fa i compiti». Lei, seppur con un babbo attivista, non vive il disagio nel quotidiano: «Il problema è la televisione. Il disagio, per lei che è piccola e non ha difese, lo vive attraverso la mala informazione. A scuola S. è semplicemente S.». È molto orgoglioso delle sue origini e della sua famiglia, Fiorello. «Noi rom teniamo molto alla parentela», e ne ha ben donde perché la storia della sua famiglia racconta un pezzo della storia d’Italia: «Mia mamma è rom, nata a Empoli ma di origini montenegrine: mio nonno era fra quei bimbi rastrellati dai nazisti per i loro esperimenti e sopravvissuti ai campi di concentramento. Mio babbo invece è sinti, toscano anche lui e appartenente a quel ceppo in Italia dal Quattrocento. Andando a ripescare fra i cugini ci sono i partigiani che hanno fatto la Resistenza e uno zio appartenente all’Esercito italiano con medaglia al valore. Mi fa rabbia quando sento quei sedicenti nazionalisti dirci di andare “a casa nostra”: andate voi da qualche altra parte, perché l’Italia è anche mia». Riflette. Ci pensa un attimo, e aggiunge: «Anzi: lo dovrebbero sapere che ci sono dei rom e dei sinti che l’hanno resa libera da quelli come loro».

Intanto, a Napoli è nata una nuova identificazione per la residenza, o meglio sarebbe dire per l’etnia, giacché pare che la prima determini la seconda. Bello stampato sulla carta d’identità del piccolo, nato in Italia e al suo primo documento identitario alla voce residenza c’è scritto: Isolato Nomadi. A denunciare l’accaduto, la mamma, abitante del ghetto di Scampia in questione: «È nato in Campania e non si è mai spostato da Napoli, perché definirlo così? Tra l’altro nomade non è sinonimo di rom. Ora mio figlio ha vergogna di mostrare il documento, eppure doveva essere una gioia ricevere la sua prima carta d’identità». Figuriamoci quando sarà grande, a dichiarare che lavora.