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Tutto fuorché nomadi, ecco la classe media “zingara”, tutta casa e lavoro

«Ma perché non vogliono abitare nelle case?»: ecco la domanda che rispecchia lo stereotipo più resistente da millenni a questa parte. Zingaro uguale nomade. Che, in quanto tale, “vive di espedienti”. E se così non fosse?

Se un rom o un sinti facesse un lavoro “normale” sarebbe forse meno rom, solo perché non risponde all’immagine che noi abbiamo di loro? Se, per esempio, una rom facesse la regista, fosse italiana e vivesse a Torino come Laura Halilovic, che dell’essere rom ha fatto un film? Senz’altro verrebbe considerata un’eccezione. Così come Dijana Pavlovic, attivista e politica di origini rom candidata alle Europee per L’Altra Europa con Tsipras e ormai volto noto della cultura rom.

Ma se queste eccezioni fossero una normalità che non conosciamo? Se un rom (che significa semplicemente “uomo”) fosse una persona “normale” e vivesse da anni (quasi venti per la precisione) in una città italiana che potrebbe essere Bologna, e da almeno la metà lavorasse con regolare contratto e contributi in un’azienda agricola? No, non sfruttato come quelli di Rosarno: gli “immigrati”, perfino se “zingari”, non lavorano solo sfruttati.

Aghiran è romeno e assieme al suo amico Constantin ha fondato perfino un’associazione, Rom pentru Rom (i rom per i rom), proprio allo scopo di non doversi sentire stranieri in una terra che contribuiscono a rendere più civile. E ancora: se costruissero sistemi di allarmi per le banche? O se facessero gli interpreti per la questura o il tribunale, dando una mano a stabilire un contatto fra le parti? O, magari, azzardiamo, facessero addirittura l’università e partecipassero a manifestazioni contro il governo o facessero parte di associazioni culturali universitarie con gli altri studenti di Scienze politiche?

Questa è la classe sommersa di rom e sinti che da generazioni abita l’Europa senza necessità di imporsi o sbraitare.

Ancora una volta, la diversità non è un problema dell’altro, ma nostro. Nostro, ma che noi facciamo diventare loro. Elèna vive a Mantova e lavorava come mediatrice culturale. Ora, come tanti dipendenti delle cooperative del Belpaese, è in cassa integrazione. È di origini slave, vive in Italia da quasi trent’anni, ovvero poco più della sua età. Da qualche anno lavora in una scuola materna della provincia. Peccato che il nome sia di fantasia. Perché: «A scuola non se lo sognano nemmeno che sono una rom. Non ho paura di perdere il lavoro perché il contratto è sicuro». Più che altro la stima: «In questi anni mi hanno conosciuto per la mia puntualità e per la mia affidabilità: se un giorno sparisse qualcosa sarei l’ultima persona a cui penserebbero. Ma se sapessero che sono rom tutto si capovolgerebbe e penserebbero subito che sono stata io».

Un mondo capovolto, quello in cui spesso vivono i rom, in cui più hai caratteristiche positive, più devi celare le tue origini: «A mio figlio (nato in Italia) non ho nemmeno insegnato la lingua». Al contrario di Bada, kosovara che vive a Vicenza e insegna romanì: «Sono la mamma di 5 figli; fino al 1998 ho vissuto in una modesta, ma bella casa in Montenegro con la mia famiglia. Purtroppo c’è stata la guerra nell’ex-Jugoslavia e ho dovuto abbandonare il mio Paese». A vivere in un campo per un periodo, ce l’abbiamo messa noi. Poi, lei e suo marito, una casa se la sono ripresa. Tra le altre cose, fa l’attivista per l’Associazione 21 luglio: «Il mio sogno è che un giorno tutti i rom e sinti vivano in una casa dignitosa e che i loro figli vadano a scuola, dove possano imparare tanto e avere tanti amici fino a laurearsi»: il sogno di tutti i genitori. Con una piccola sfumatura in più: «Sogno che vivano in una società dove non dovranno nascondere la loro etnia».

Il problema non è essere rom. Il problema, racconta sempre Elèna, con quell’orgoglio maltrattato che riemerge purissimo, è essere rom in Italia: «Guardo gli altri rom qui in Italia, e sottolineo, qui in Italia, e non mi sento come loro. Non c’è nulla da difendere in un certo stile di vita o in un modo di comportarsi. Ma per il mio paese, essere rom è una cosa normalissima. Lavoriamo tutti, e viviamo tutti in casa. Qui invece, se nessuno immagina che siamo rom tutti ci stimano». Potrebbe essere la nostra vicina di casa, Eléna. Ride, poi aggiunge: «Veramente sono io che mi scelgo i vicini di casa. Siamo molto schizzinosi. Se qualcuno ha fumato in ascensore, io non lo prendo». Viene da chiedersi chi dei due sia l’incivile. E naturalmente, come nella maggior parte delle case rom: via le scarpe appena si entra.

La casa padovana di Desyjana e Giovanni (operaio pugliese non rom) è la più pulita che abbia mai visto, è quasi imbarazzante: «ma scusa, perché ti sorprendi? Per lavoro pulisco le case degli altri!». Giusto. Gordo invece è montenegrino, vive a Roma. È un perito ferroviario, con una casa con mutuo a Morlupo e un lavoro alle Ferrovie dello Stato. Fra Gordo che fa il suo mestiere e la società nostrana, chiunque di noi avrebbe molti più motivi di insultare la seconda piuttosto che il primo. Ride, quando sente il tema dell’articolo: «Eh si: sono assolutamente normale». E aggiunge divertito:

«La mia famiglia non sa nemmeno cosa sia una roulotte. Come non lo sapevo io quando sono arrivato in Italia. L’ho imparato da voi, cosa fosse»

Anche lui però, preferisce non rivelare la sua vera identità. Buffo, se si pensa che una delle prime domande motivo di orgoglio per la nostra civiltà, consista nel dichiarare di che cosa ci si occupa. Loro, che lavoro fanno e come si chiamano, non possono dirlo, se dicono di essere rom.

Una che non ha mai fatto mistero delle sue origini, è la piccola Draga. Una “serba bolognese” che parla slang e dialetto del capoluogo felsineo dove frequenta Scienze della Formazione e divide la casa con altre ragazze. Ha 21 anni e due occhi neri giganteschi. Si laureerà a luglio ma già lavora come educatrice e come assistente al doposcuola con i bimbi delle elementari. È inarrestabilmente curiosa e intraprendente: «Abbiamo anche fatto partire un progetto per medie ed elementari con ragazzi che vengono dall’est e sono “zingari” come me. Lavoriamo sulla dispersione scolastica e partendo da un supporto scolastico cerchiamo di arrivare a un’integrazione tra pari. Perché questo siamo, bisogna che lo capiscano anche loro».

Anche Ivana fa l’università, Filosofia a Torino, è l’insegnante di danza: «Non gli dico subito che sono rom. Glielo dico dopo un paio di mesi: prima costruisco un rapporto che è come un muro contro il pregiudizio. Mi è capitato in un paio di casi che le persone non siano riuscite ad andare oltre, ma la maggior parte delle mie allieve è rimasta senza problemi». Ha 24 anni, Ivana, e abita con la sua famiglia in una casa popolare nel quartiere di Artom, un ex quartiere dormitorio nella periferia sud di Torino (zona Mirafiori), poi riqualificato tanto da aver ospitato i giochi invernali delle Olimpiadi del 2006. «Non ho problemi a dire chi sono, tanto nel mio quartiere siamo conosciuti: faccio volontariato da tre anni, con i ragazzi e con le donne. Il problema non è chi ci conosce, ma chi non ci conosce». Chi li conosce saprebbe che lei lavora anche come educatrice per «dare una mano come posso», la mamma fa lo chef in un ristorante italiano, e il papà l’aiuto cuoco, mentre il fratello, di due anni più grande l’artigiano: «e con le sue marionette fa spettacoli in giro per la città».

I problemi sorgono quando si sveglia l’attenzione dei media, racconta: «Sentono qualcosa in tv, e il loro cervello si accende. Si ricordano di quelli che abitano nelle roulotte e partono minacce e insulti senza senso. Non fa nessuna differenza dove io abiti o cosa faccia: è proprio una questione di ignoranza». E dall’informazione che accende animi e allarmismi. Un esempio? «Guarda il caso Isis. Io non ricevo minacce normalmente. Poi scoppia il caos e finiamo nel cuore degli insulti. Mia mamma è musulmana, non portiamo il velo, ma automaticamente siamo attentatori». E per di più, «zingari di m…».

Un altro giovane che rivendica serenamente la propria appartenenza è Fiorello Miguel Lebbiati. E lo fa con accento spiccatamente toscano, essendo nato a Fucecchio. A trentatre anni, lui gli incroci li racchiude tutti: è italiano, rom e anche sinto. «Se lavoro? – ride – da sempre! Fin da giovane, ho iniziato a 16 in un calzaturiero della provincia: venivo pagato pochissimo perché ero piccino. Poi ho fatto il muratore, e tanti altri mestieri fino a quando non sono entrato in una bottega». Lì ha inizio quello che è un vero e proprio apprendistato rinascimentale: «Camminando per Roma, se alza la testa, lei vede quello che io ho imparato a fare. Noi lo chiamiamo “stucchino”: tutto quello che nelle chiese – dai capitelli agli zoccoli, bozzati delle case, colonnati, decorazioni – l’ho fatto o curato io». Fra i suoi restauri, tutta la prima fase del campanile di San Francesco di Lucca, o la chiesa di San Jacopo di Lammari: «Gli stucchi della volta erano del 1200: mi tremavano le gambe quando me ne sono accorto». Abita nella preziosa cittadina d’arte con la sua compagna,

«convivo e paghiamo l’affitto come le persone normali», scherza

Compagna non rom così come la mamma della sua bimba. S., che ha 10 anni: «Ora è su che fa i compiti». Lei, seppur con un babbo attivista, non vive il disagio nel quotidiano: «Il problema è la televisione. Il disagio, per lei che è piccola e non ha difese, lo vive attraverso la mala informazione. A scuola S. è semplicemente S.». È molto orgoglioso delle sue origini e della sua famiglia, Fiorello. «Noi rom teniamo molto alla parentela», e ne ha ben donde perché la storia della sua famiglia racconta un pezzo della storia d’Italia: «Mia mamma è rom, nata a Empoli ma di origini montenegrine: mio nonno era fra quei bimbi rastrellati dai nazisti per i loro esperimenti e sopravvissuti ai campi di concentramento. Mio babbo invece è sinti, toscano anche lui e appartenente a quel ceppo in Italia dal Quattrocento. Andando a ripescare fra i cugini ci sono i partigiani che hanno fatto la Resistenza e uno zio appartenente all’Esercito italiano con medaglia al valore. Mi fa rabbia quando sento quei sedicenti nazionalisti dirci di andare “a casa nostra”: andate voi da qualche altra parte, perché l’Italia è anche mia». Riflette. Ci pensa un attimo, e aggiunge: «Anzi: lo dovrebbero sapere che ci sono dei rom e dei sinti che l’hanno resa libera da quelli come loro».

Intanto, a Napoli è nata una nuova identificazione per la residenza, o meglio sarebbe dire per l’etnia, giacché pare che la prima determini la seconda. Bello stampato sulla carta d’identità del piccolo, nato in Italia e al suo primo documento identitario alla voce residenza c’è scritto: Isolato Nomadi. A denunciare l’accaduto, la mamma, abitante del ghetto di Scampia in questione: «È nato in Campania e non si è mai spostato da Napoli, perché definirlo così? Tra l’altro nomade non è sinonimo di rom. Ora mio figlio ha vergogna di mostrare il documento, eppure doveva essere una gioia ricevere la sua prima carta d’identità». Figuriamoci quando sarà grande, a dichiarare che lavora.

Le cinque delle 20.00

Orfini, è vergognoso che De Gennaro sia presidente Finmeccanica. Il presidente del Pd attacca l’ex capo della polizia dopo la sentenza della Corte di Strasburgo sull’irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 di Genova.

Strage di Ustica causata da un missile lanciato contro il Dc-9 da un altro aereo che intersecò la rotta del volo Itavia. E’ quanto afferma la sentenza della prima sezione civile della Corte d’Appello di Palermo, che esclude le ipotesi alternativa della bomba collocata a bordo o del cedimento strutturale.

Nino Di Matteo non andrà alla procura nazionale antimafia. Il pm del processo sulla trattativa Stato-mafia al concorso per la copertura di tre posti alla procura nazionale antimafia è stato bocciato dal Csm che gli ha preferito tre colleghi meno noti, tra cui Eugenia Pontassuglia, pm del processo di Bari su escort e Berlusconi.

Italicum, il ministro delle Riforme Boschi gela Speranza. «Dal punto di vista del governo questa legge elettorale è corretta, funziona, va bene e non c’è necessità di modifiche», ha detto lasciando la commissione affari costituzionali della Camera dove è iniziato l’iter dell’Italicum. Bloccato sul nascere il tentativo di apertura del capogruppo Pd che ora dovrà fare i conti con la minoranza.

La Grecia non ha chiesto alla Russia aiuti finanziari, ma i prestiti nel quadro della cooperazione sono possibili: lo ha detto il presidente russo, Vladimir Putin, rispondendo a una domanda nella conferenza stampa congiunta con il premier greco Alexis Tsipras.

La coalizione sociale deve rompere con il passato

Ci siamo interrogati sulle ragioni che legano la maggioranza invisibile e la coalizione sociale. Lo abbiamo fatto mossi dalla speranza che, finalmente, si possa rompere la cappa che ci impedisce di portare alla ribalta del dibattito pubblico “il nuovo popolo progressista” rappresentato dalla maggioranza invisibile. Ci sono elementi che m’invitano a un cauto ottimismo, molti altri invece che m’inquietano.

La coalizione sociale parte bene nell’aspirare ad essere una rappresentazione sociale della maggioranza invisibile, e non un nuovo partitino fallimentare come quelli che abbiamo visto sorgere in questi anni. Non si costruisce una nuova prospettiva politica se non si capisce che oggi “la sinistra” deve parlare a un nuovo popolo. Un popolo che ha caratteristiche completamente diverse da quelle dell’operaio fordista e del dipendente pubblico con contratto a tempo indeterminato.

La storia inglese ci insegna che, sono venute prima le unions (che hanno messo insieme gli operai aiutandoli progressivamente a capire che essere classe li avrebbe aiutati a difendere i propri diritti) e poi il labour party (con la sua capacità di rappresentare il nuovo popolo radunato dalle unions).

Altra nota positiva è l’idea di rappresentazione sociale larga, perché la maggioranza invisibile per emergere come soggetto sociale deve ricercare il dialogo diretto con studenti, classe media e categorie sociali colpite dalla grande trasformazione (come i metalmeccanici della Fiom). Tuttavia, nonostante questi riscontri positivi, la coalizione sociale per diventare il punto di riferimento della maggioranza invisibile ha delle sfide titaniche davanti.

Primo, la coalizione sociale deve contribuire a creare un nuovo contesto narrativo: non possono essere le proposte politiche legate al fordismo (come la riduzione dell’età di pensionamento) a scaldare il cuore della maggioranza invisibile (che chiede prima di tutto uguaglianza e reddito).

Secondo, la coalizione sociale deve interrogarsi sulle ragioni che hanno portato la maggioranza invisibile al silenzio. Quelle esterne sono chiare e legate alla “grande trasformazione” (segnate dal passaggio dal fordismo a un’economia legata ai servizi), ma sono quelle interne (principalmente l’incapacità si rappresentarsi collettivamente) che vanno affrontate per permettere a categorie sociali diverse (precari, pensionati poveri, disoccupati, migranti, neet) di riconoscersi nel comune interesse alla redistribuzione.

Terzo, e questo è quello che davvero non mi è piaciuto sabato, la coalizione sociale deve fare i conti con il passato, recidendo sin dal principio alcuni legami scomodi. Mi riferisco ai legami con il sindacato fordista e inattuale rappresentato da Susanna Camusso, a quelli con i partitini che popolano la “galassia sinistra” e infine a quelli con il Pd asservito alle politiche di austerità.

Con il Pd la colazione sociale sembra essere già entrata in rotta di collisione, ma per dare speranza alla maggioranza invisibile bisognerà avere la forza di rompere anche con gli altri due universi che ho menzionato, perché essi contribuiscono ormai da anni a soffocare l’emergere delle istanze della maggioranza invisibile. è questo il principale punto di domanda che resta aperto dopo la manifestazione. Una questione centrale per far partire un progetto sociale e politico per il “nuovo popolo progressista”.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/ManuFerragina” target=”on” ][/social_link] @ManuFerragina

Cosa accade se web e social impongono la dittatura del presente

Twitter, facebook, blog che tengono traccia dei nostri pensieri, breaking news che ci aggiornano costantemente su quello che accade, il tempo nell’era del web scorre veloce. E mentre noi, immersi in flusso di informazione costante, sempre connessi e bombardati da mille stimoli, viviamo in un presente dilatato che sembra inghiottire tutto, la rete, soprattutto grazie ai social, in un grande magma indistinto tiene memoria di tutto quel che facciamo.

Douglas Rushkoff in “Presente Continuo. Quando tutto accade oggi”, scrive: «Se la fine del ventesimo secolo è stata caratterizzata dal futurismo, il ventunesimo secolo potrebbe essere quello del presentismo ». La tendenza social è quella di storicizzare l’oggi allungando il più possibile i famosi 15 minuti di celebrità. Sono sempre di più le applicazioni web e smartphone che ci promettono di mettere ordine nelle nostre memorie e di ricordarci cosa abbiamo fatto.

Timehop, Memoir o addirittura applicazioni per facebook come The Museum of Me ci permettono di ripubblicare oggi la foto che avevamo caricato su Instagram esattamente uno o quattro anni fa e creano gallery dei nostri momenti migliori. Ovviamente ripescati fra i post che hanno ottenuto più like e commenti, perché è la fama che a darci il senso della Storia. Allo stesso tempo la dittatura dell’istante mette sotto scacco anche il futuro che assume sempre di più, per dirlo con la grammatica  inglese, la dimensione di imminenza del un present continuous.

Il rischio di questo appiattimento temporale è l’assenza di orizzonti e prospettive. Anche al di fuori dai social network. Ad esempio, in politica, il luogo per eccellenza in cui una società programma la direzione verso cui evolversi, si traduce in sindromi da “annuncite” dove tutto è “svolta storica” (possibilmente sempre via twitter), e incapacità di definire azioni lungimiranti. «Il futuro è adesso» recita un recente slogan.

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«Giovani e territorio. Questo è il nostro made in Scampia»

Aveva poco più di vent’anni Rosario Esposito La Rossa la prima volta che lo abbiamo incontrato al Gridas, il centro sociale simbolo della resistenza “creativa” di Scampia. Era il 2009 e aveva appena ricevuto il premio “Giancarlo Siani” per il suo primo libro, Al di là della neve, raccolta di racconti dedicata ad Antonio Landieri, il cugino ucciso “per sbaglio” e da poco riconosciuto vittima innocente di camorra.

Rosario sognava di aprire a Scampia una casa editrice «creando occasioni per i giovani e facendo impresa». Da allora, assieme a Maddalena Stornaiuolo, attrice ed energica compagna di vita e di “scorribande”, di imprese ne ha fatte tante. La squadra di calcio dell’Arci Scampia (lui è l’allenatore dei “pulcini”), che conta oltre 600 iscritti e ha i pannelli solari sugli spogliatoi. La casa editrice Marotta & Cafiero, ricevuta in dono con tutto il suo catalogo dai precedenti proprietari e diventata in breve tempo un punto di riferimento per qualità dei contenuti e dei “contenitori”  (i libri, in creative commons, sono in carta riciclata e l’inchiostro è ecologico).

Poi la compagnia teatrale Vodisca (sigla che sta per “Voci di Scampia”), lanciatissima in produzioni di qualità: il prossimo spettacolo sui “clan a tavola” è tratto dal libro di Peppe Ruggiero. E ancora: gli orti urbani – 2,5 ettati che Rosario si augura diventino «l’orto comune della città» – e le Fattorie Vodisca, progetto di agricoltura sociale nel quartiere Chiaiano. Infine le libreria di Scampia («una scommessa che attende l’arrivo del polo universitario») e del teatro Bellini, e l’etichetta discografica che ha lanciato in un anno di vita sette cd e un vinile.

Tutto con un unico filo conduttore: «Facciamo “resistenza” intesa come tenace volontà di rimanere e riprenderci il territorio, rendendolo produttivo di occasioni per i giovani e di valori positivi. Vogliamo cambiare l’immagine di Scampia dimostrando che ce ne sono tutti i presupposti. Noi qui abbiamo comprato casa: ci crediamo». Un lavoro tutt’altro che solitario: «Nel 2010 eravamo in due – commenta il giovane editore -, ora siamo più di 20». E non si fermano. Il prossimo obiettivo è creare un “hub” presso il centro polifunzionale di Piscinola: «Ristruttureremo a nostre spese uno spazio di 400 metri quadrati chiusi dall’81. Il nostro “made in Scampia” ha bisogno di spazio».

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Le cinque delle 13.00

Gdf: irregolare un appalto su tre, per un valore di 1,8 miliardi di euro. Il rapporto annuale del 2014 della Guardia di Finanza denuncia una situazione drammatica: su 220 appalti, 933 le persone denunciate, con danni al patrimonio pubblico per oltre 4 miliardi di euro tra frodi ai finanziamenti pubblici e sprechi nella Pubblica amministrazione.

Italicum, tensione nel Partito Democratico. Oggi pomeriggio in commissione Affari costituzionali della Camera parte l’iter della riforma elettorale, che dovrà approdare in Aula il 27 aprile. In Commissione la minoranza del Pd ha i numeri per bloccare la riforma, e sembra vano il tentativo del capogruppo Roberto Speranza di tentare la ricucitura con Renzi.

La previsione di crescita del Pil nell’eurozona nel primo trimestre del 2015 è dello 0,4% (dal +0,3% del trimestre precedente), per continuare a espandersi allo stesso ritmo nei due trimestri successivi. E’ quanto emerge dall’Eurozone economic outlook a cura dell’Istat e degli istituti di statistica tedesco Ifo e francese Insee.

Alexis Tsipras, arrivato ieri sera a Mosca ha incontrato oggi Vladimir Putin in pieno fa di negoziazioni con la Ue per il debito pubblico greco. Domani Tsipras incontrerà anche il premier Dmitri Medvedev e il patriarca di Mosca, Kirill.

Yemen, almeno 560 persone sono state uccise e quasi 1.800 ferite dal lancio dell’offensiva dei ribelli sciiti e dei loro alleati in Yemen il 19 marzo scorso, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms).

Associazione Strade, azione collettiva tra i libri

«Se tutto questo esiste, un po’ è anche merito nostro!». Daniele A. Gewurz sorride e indica gli scaffali pieni di volumi della libreria Feltrinelli a largo Argentina, nel cuore di Roma. Una laurea e un dottorato in matematica alle spalle, Daniele ormai è un traduttore a tempo pieno. Ma è anche un “sindacalista”, perché insieme ad altri colleghi ha fondato l’associazione Strade (Sindacato traduttori editoriali).

Centinaia di autori da “una cartella all’ora”, giovani appena usciti dai corsi di laurea e ultrasessantenni che traducono da una vita. I traduttori sono per eccellenza una categoria di “invisibili”. Lo sono di fatto, quando i critici letterari si dimenticano di citarli nelle recensioni o quando gli editori non pubblicano il loro nome sulla copertina o sul frontespizio del libro che hanno tradotto, in barba alla legge sul diritto d’autore. Ma sono soprattutto invisibili nel rapporto con il datore di lavoro. «Non esistono compensi minimi, e per i contratti – tutti individuali -, siamo alla mercé della controparte. In assenza di un tariffario ufficiale, dipendiamo dalla disponibilità o meno dell’editore. La legge sui diritti d’autore, che è ancora quella del 1941, non dice nulla a proposito. E può accadere che un principiante o uno che ha seri problemi di sopravvivenza accetti anche condizioni inique», dice Gewurz, strngendosi nelle spalle. Nessuna tutela poi in caso di malattia, niente assegno di gravidanza e naturalmente nessuna forma di previdenza, che non sia a proprie spese. Ma da quando esiste Strade qualcosa è cambiato. «Da solo fai poco ma se sei insieme ad altri con interessi simili ottieni molto di più», osserva lo studioso di matematica combinatoria. Per la prima volta una categoria di lavoratori isolati e per questo più facilmente sfruttati, si è cimentata in un’azione collettiva. «Eravamo dentro il Sindacato nazionale scrittori, sezione traduttori. Ma non avevamo alcuna voce in capitolo, non c’era dialogo. Così abbiamo deciso di uscire, in blocco», racconta Daniele. Se ne andarono in 166, oggi a Strade sono iscritti 255 traduttori. Allora non fu proprio un salto nel buio perché l’associazione trovò un sostegno tecnico nella Slc Cgil, che tra l’altro, continua tuttora nella delicata trattativa sul contratto nazionale del settore grafico-editoriale.

La prima conquista di Strade è la mutua sanitaria. I traduttori, stanchi di non avere diritto ad alcuna tutela, nel 2011 avevano cominciato a sondare il mondo delle assicurazioni sanitarie private e le società di mutuo soccorso. Alla fine viene stretto un accordo con Insieme Salute, società di mutuo soccorso di Milano. «Abbiamo cercato di mettere in piedi una mutua che puntasse sulla copertura del reddito nei periodi di malattia, di ricovero in ospedale e anche quando non si può lavorare perché dobbiamo assistere il coniuge, i figli o i genitori», racconta Fabio Galimberti che insieme a Elena Doria è l’artefice del “patto” sanitario di Strade. Con 246 euro all’anno si ha diritto a una diaria, a un assegno di gravidanza e a convezioni con strutture private. La mutua è stata estesa anche ad altre associazioni indipendenti, come il Sindacato scrittori, Acta e Aiti (traduttori tecnici e interpreti). Non è un caso poi che la mutua di Strade sia stata dedicata a Elisabetta Sandri, una collega scomparsa prematuramente «dopo aver lottato con coraggio non solo contro la sua malattia, ma anche contro un sistema iniquo che impediva a lei, lavoratrice autonoma, di godere degli stessi diritti riconosciuti ad altre categorie di lavoratori», ricordano i colleghi nel sito.

«Il passaggio davvero rivoluzionario sarà quando l’assistenza sanitaria integrativa sarà estesa per contratto anche alle figure non subordinate, come noi, appunto», sottolinea Fabio Galimberti. Il welfare contrattuale per chi non è dipendente è uno dei punti della trattativa del nuovo Ccln che dovrebbe essere rinnovato alla fine dell’anno. «È già stata raggiunta un’intesa di massima con la controparte, cioè anche l’editore, oltre al lavoratore contribuirebbe in parte versando una somma, ma rimane da verificare la modalità di questa copertura», aggiunge Francesco Sole, Slc Cgil. Il rischio è che l’imprenditore chieda in cambio qualcosa, magari di decurtare la già sottile parcella. E infatti un altro punto chiave della vertenza che interessa anche i traduttori è il raggiungimento di trattamenti economici minimi «per tutta la filiera editoriale», specifica il sindacalista Cgil. «Non devono esserci più casi di ingiustizia, occorrono regole chiare – ribadisce Gewurz -. In mancanza di contratti collettivi invece accade di tutto: pagamento a 60 giorni o addirittura al momento della pubblicazione, in questo caso il contratto va rispedito al mittente, perché, e se il libro non viene stampato, che si fa?». E poi ci sono le royalties. I traduttori, per legge, avrebbero diritto a una percentuale sui ricavi delle vendite dei libri tradotti. Ma nessuno se lo ricorda. Un’eccezione però c’è stata, anche se è un gesto privato: Daniel Pennac ha girato una parte dei diritti d’autore in Italia alla sua traduttrice Yasmina Melaouah.

Altrove, come nei Paesi nordici, dove si traduce molto e lo Stato finanzia addirittura le traduzioni, la categoria è forte e combattiva. Il sindacato norvegese è una sorta di “faro” per Gewurz e i suoi colleghi. E su uno sciopero bianco della categoria circola addirittura una leggenda metropolitana che vede tra i protagonisti il traduttore di Camilleri e di Saviano. Di fronte a un intoppo nelle trattative sindacali, poiché nel contratto si faceva ancora riferimento al dattiloscritto da consegnare, cosa hanno fatto gli agguerriti traduttori norvegesi? Si sono presentati a centinaia, portando la traduzione e rispettando alla lettera il contratto. Solo che erano pacchi di centinaia e centinaia di fogli di carta. «Ecco il libro, e ora ve lo ribattete!».

Liberate la ricerca sulle cellule staminali

«L’embrione è un essere umano, il malato no»: questo lo slogan stampato su centinaia di palloncini  dell’Associazione Luca Coscioni e dei radicali che il 9 luglio 2003 facevano da cornice  ad una staffetta oratoria di oltre cinque ore con interventi di professori, politici e malati davanti l’aula del Senato mentre la Commissione igiene e sanità era chiamata a discutere il decreto legge sulla fecondazione medicalmente assistita, già approvato dalla Camera. Sappiamo tutti come è andata a finire: la legge 40 del 2004 vieta all’art. 13 «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano. 2. La ricerca clinica e sperimentale su ciascun embrione umano è consentita a condizione che si perseguano finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche ad essa collegate volte alla tutela della salute e allo sviluppo dell’embrione stesso, e qualora non siano disponibili metodologie alternative».

Convegno Legge 40, Associazione Luca CoscioniLa legge 40 inoltre punisce con la reclusione da due a sei anni (più aggravanti) e multa da 50.000 a 150.000 euro, oltre che con la sospensione da uno a tre anni dall’esercizio professionale gli scienziati che realizzino, tra le altre cose «qualsiasi sperimentazione su ciascun embrione umano» e «interventi di clonazione mediante trasferimento di nucleo» anche ai soli fini di ricerca. Così sono svanite le speranze di Luca Coscioni che ha combattuto per sperimentazione sulle cellule staminali e sulla clonazione terapeutica. Era costretto da una terribile malattia, la sclerosi laterale amiotrofica, a non esprimersi che tramite il sintetizzatore elettronico di un computer. Ciò non gli ha mai impedito di pronunciare parole dure contro l’inattività della politica su temi come la libertà di ricerca scientifica: «Penso che la mia presenza possa essere il segno tangibile che la religione della libertà e la scienza possano restituire vita e dignità anche a chi, come me, è stato colpito da una malattia gravemente invalidante e inguaribile. C’era un tempo per i miracoli della fede. C’è un tempo per i miracoli della Scienza. Un giorno il mio medico potrà, lo spero, dirmi: «Prova ad alzarti, perché forse cammini. Ma non ho molto tempo, non abbiamo molto tempo».

Il tempo è scaduto per Luca Coscioni morto nel 2006 dopo aver rifiutato la tracheotomia; ma potremmo essere ancora in tempo per aiutare altri come Luca. La ricerca scientifica sulle cellule staminali è importante, tanto è vero che grazie alle embrionali siamo giunti a molti dei risultati oggi ottenuti sulle staminali adulte; infatti, per trovare cure contro malattie che in Italia colpiscono milioni di persone sono importanti i risultati di ogni tipo di ricerca condotta in modo serio e rigoroso: sulle staminali adulte, sulle staminali embrionali, sulle staminali riprogrammate e sulle staminali ottenute con le tecniche di trasferimento del nucleo cellulare (cosiddetta “clonazione terapeutica”).

Purtroppo i laboratori italiani sono costretti a importare linee di cellule staminali embrionali dall’estero: un’ipocrisia tutta italiana. La Corte costituzionale a breve deciderà sulla ricerca sugli embrioni e l’accesso alla fecondazione assistita di pazienti non sterili ma portatori di patologie genetiche (quest’ultimo divieto previsto sempre dalla legge 40 sarà esaminato il prossimo 14 aprile).

Qualunque sia la decisione della Corte, il Parlamento italiano potrebbe in ogni caso intervenire per rimuovere i divieti che danneggiano la ricerca e la salute. Perché non si attiva in tal senso? Come possiamo intervenire affinché la coscienza politica si adegui alla coscienza civile e scientifica di migliaia di persone e ricercatori? Ne discuteremo al convegno “2004 – 2015/Legge 40/04 “Staminali e fecondazione assistita: evoluzione giurisprudenziale dei diritti della persona”. Tutte le info su www.associazionelucacoscioni.it

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/Filomena_Gallo” target=”” ][/social_link] @Filomena_Gallo

*Segretario nazionale Associazione Luca Coscioni

 @ass_coscioni