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Civati e la citazione radical chic

Del libro di Giuseppe Civati Il trasformista (Indiana) non amo l’uso decorativo della letteratura. (Possibile che occorra appellarsi a Musil e Borges, autori fondamentali ma estranei a qualsiasi “narrazione” anche vagamente progressista, per dire che ci sono sempre altri modi possibili di agire?), non amo gli ammiccamenti e le citazioni chic.

20150307_Libri_Civati_TrasformistaNé contrapporrei, come fa Bartezzaghi nella prefazione, passione e ragione. La sinistra riformista, benché ispirata da una visione razionale, deve anche saper riscaldare i cuori attraverso miti “buoni” (Kennedy riuscì a rendere affascinante una cosa noiosa come la democrazia).

Però il libro individua un problema reale: l’inesorabile riproporsi della figura del trasformista nella nostra politica. Che deriva da una tradizione retorica tutta italiana: l’uso deresponsabilizzato della parola. All’inizio di Nell’intimità di Kureishi il protagonista, che si accinge a lasciare la moglie i due figli, scrive una lettera, sapendo di dover fare attenzione alle parole che usa.

Per la ragione che «le parole sono azioni e fanno accadere le cose» e una volta uscite non possiamo più ricacciarle dentro. Ma gli italiani ne sono specialisti! L’abitudine a smentire, la civetteria del contraddirsi platealmente (strizzando l’occhio), l’invito a non prendere mai nulla alla lettera, rende tutto reversibile, evocabile e dunque destituito di senso.

Il celebre «stai sereno» di Renzi, poi contraddetto, tendenzialmente vanifica ogni patto, dissolve quel giuramento che fonda la convivenza civile. Solo che la replica a tutto questo non è una conferma ideologica identitaria. Invece è accettare entro certi limiti l’incoerenza, lo scarto (“fisiologico”) tra principi e comportamento, però non assumendo euforicamente come obiettivo l’incoerenza.

Infine: ogni politico vuole soprattutto “vincere”, e così tende a manipolare le parole a tale fine. Con questo libro Civati si impegna ad avere una concezione della politica capace di abbracciare anche le ragioni dell’etica.

L’Emilia al freddo e al buio. Da Terna nessuna risposta

«Quattrocento milioni di euro di dividendi. L’azienda pubblica che gestisce i cavi elettrici va a gonfie vele. Sbanca in Borsa. Ma arricchisce solo i privati». Iniziava così l’inchiesta di Manuele Bonaccorsi su Terna spa, la monopolista dell’industria elettrica italiana, apparsa su Left due anni fa. La borsa, gli investimenti e il mercato azionario, sono cose lontanissime dalla vita di tutti i giorni. In realtà, questo mercato entra nelle nostre case, passando attraverso i cavi elettrici, e si manifesta nelle nostre bollette nelle quali una percentuale fissa (circa il 4%) è dedicata.

Ci avete mai fatto caso? La trovate sotto la voce “dispacciamento”, il servizio che garantisce in ogni istante l’equilibrio fra la domanda e l’offerta, e “paga” il prezzo della trasmissione dell’energia. Si chiama “onere per la copertura del funzionamento di Terna” ed è deciso dall’Autorità per l’Energia Elettrica (arti- colo 46 della delibera 111/06 AEEG): per le sue attività Terna riceve una remunerazione in base ad un sistema tariffario stabilito. Un introito dovuto a percentuale sul nostro consumo a tasso fisso in bolletta, la cui somma annuale non è dato sapere. A cosa serve? A garantirci l’efficienza o quantomeno il regolare funzionamento della rete che illumina e riscalda case, uffici, scuole ed esercizi commerciali. Perché «il nostro compito è quello di assicurare alla collettività un servizio di interesse pubblico: la trasmissione di energia elettrica. Ci occupiamo della gestione, manutenzione e sviluppo della rete di trasmissione, nonché della gestione dei flussi di energia attraverso il sistema di dispacciamento». Parola di Terna, gestore del 98,5% di tutta la rete nazionale: 63.800 chilometri di cavi elettrici in alta tensione.

«Terna potenzia e rende sempre più efficiente e sicura la rete di trasmissione elettrica in Italia investendo anche in alta tecnologia, perché lo sviluppo della rete si traduce in un beneficio per la collettività», si legge sul sito. Già. Poi però, capita che in Appennino nevichi, qualcosa nei cavi si rompe e decine di migliaia di persone fra l’Emilia-Romagna e la Toscana restano senza luce né riscaldamento per 2, 4, 8 giorni. «Sono venuti giù dei tralicci», dicono, «si sono rotti dei cavi, vanno ripristinati», raccontano. I sindaci si mobilitano, chiamano, chiedono: «Dove i danni? A quando il ripristino?», ma niente da fare, Enel non sa dare risposte. Al punto che il prefetto di Reggio Emilia, esasperato dal silenzio, ha dovuto telefonare al numero verde. A raccontarlo è la consigliera regionale Silvia Prodi, particolarmente battagliera sul tema. I cittadini intanto restano al freddo e cresce un certo allarme: le strade sono bloccate, i negozi chiusi e la luce non torna.

Enel tace. E lentamente capiamo perché: non dipende da Enel, che ne detiene la “sola” responsabilità. Non la trasmissione o la manutenzione. Col decreto Bersani del 1999 venne sancita la liberalizzazione del mercato dell’energia elettrica attuando una divisione societaria della rete di trasmissione nazionale posseduta da Enel: è in quel momento che nasce Terna a cui viene affidata per l’appunto questo compito.

All’inizio l’ex monopolista controlla ancora la proprietà della rete dato che possiede la totalità delle azioni di questa nuova società, mentre la gestione operativa è affidata al Gestore della Rete di Trasmissione Nazionale (Grtn) che ha invece controllo pubblico. Nel 2004, con la quotazione in borsa, Terna diventa indipendente e assorbe le competenze del Grtn: di fatto diventa concessionaria e gestore della rete grazie alla sua controllata Telat. La corrente funziona come un liquido, un po’ come un fiume all’incontrario: una grossa massa di potenza che man mano che si allontana dalla fonte di produzione (le centrali di approvvigionamento come quella idroelettrica di Suviana, per esempio) si riduce capillarmente.

La corrente “risale” i cavi, dividendosi quando incontra i bivi della distribuzione. Questi cavi conduttori, le “catenarie”, sono strutture curve studiate per essere “sofferenti”, per reggere cioè condizioni di stress superiori a una nevicata o all’azione del vento. Sono cavi armati, che dovete immaginare come un grappolo a sua volta diviso in cavi più fini, in acciaio e alluminio, dal diametro complessivo di circa 2,8 cm, che si estendono per chilometri, e per l’appunto non tesi: non sono nemmeno fissati ai tralicci (la cui struttura è appositamente vuota per consentire il passaggio del vento) così possono oscillare o dilatarsi a secondo del clima. E difatti, i tralicci reggono, mentre i conduttori, tre per la precisione, si rompono. Come mai?

Sentito durante la commissione regionale convocata ad hoc il 16 febbraio, Paolo Paternò, responsabile operativo di Terna Rete Italia, tentando di spiegare le cause del disservizio ha voluto ribadire più volte come si sia trattato di un «evento meteorologico eccezionale». Ma qualcosa non torna: mai sotto gli otto gradi sotto zero e non più di 30 cm di neve in città con picchi di 90 cm solo in rare zone dell’Appennino portano 13 ore di fuori servizio e oltre 300 chilometri di rete disalimentati? Per la consigliera Prodi invece «l’unico aspetto straordinario dell’evento meteorologico sono le conseguenze che ha provocato, decisamente devastanti».

Nel febbraio del 2012 su tutta l’Emilia-Romagna si abbatterono precipitazioni nevose straordinarie, superiori persino ai record storici. A Bologna caddero 96 cm di neve: «Così tanta non la si vedeva da oltre cent’anni» come recita il sito della Regione. Venne chiuso l’aeroporto Marconi, si rinviò la partita di calcio con la Juventus ma nessuno, salvo pochi isolati casi, rimase senza luce, riscaldamento o acqua. Quindi cos’è successo questa volta di diverso? Il problema è la qualità della neve, «particolarmente bagnata», come ha precisato Paternò, e pesante: «è il killer delle aziende elettriche, la precipitazione nevosa aveva un elevato peso specifico, e ciò ha prodotto numerose cadute di alberi sulle linee elettriche», si è affrettato a aggiungere l’amministratore delegato di Enel distribuzioni, Gianluigi Fioriti, per quanto riguarda la “propria” parte della filiera.

Per i cavi ad alta tensione, i responsabili sarebbero i manicotti di neve (cilindri in ghiaccio che si avvolgono attorno ai conduttori), questa volta «12 volte superiori alla norma». Una classificazione che apre ad altri interrogativi: quale norma? Chi ha emesso la certificazione sulla base della quale i cavi e la loro resistenza (anche al freddo e al ghiaccio) vengono progettati e costruiti? Non è dato saperlo. Si può immaginare che i cavi siano costruiti tenendo presente un livello di stress ambientale inerente al contesto nel quale verranno inseriti, ma a Terna spa non sanno dircelo: «Se fa freddo è normale che qualcuno si rompa», spiega lo staff della comunicazione.

Sentito nuovamente da Left, Paternò conferma i «manicotti eccezionali» e la «umidità della neve», e ci dice che i disservizi sono stati causati dalla neve che aveva interrotto le strade: «Le strade bloccate dalla neve costituiscono una criticità poiché impediscono di raggiungere i tralicci o i conduttori dove è necessario intervenire». Cose che capitano, quando nevica. Di neve umida e manicotti inoltre si parlava già nel 2012 in una relazione presentata in Senato. «Una delle principali cause di guasto e di blackout invernale è quella da noi definita “neve collante” che è una specie di killer delle reti elettriche»: il rappresentante di Enel, Livio Gallo direttore infrastrutture e reti, usa addirittura le stesse parole usate l’altro giorno in commissione regionale. La spiegazione continua: «In queste condizioni la neve aderisce sul conduttore elettrico e si forma un “manicotto” che può avere anche uno spessore di 20-30 centimetri.

Naturalmente questo può causare dei forti pesi sulla rete, con una trazione meccanica molto forte e, in condizioni di vento e di maltempo, ciò provoca un disservizio sulla rete». Vero. Talmente tanto che: «È un fenomeno molto noto alle Ferrovie dello Stato che, anche in questo caso, hanno vissuto notevoli disagi dovuti a questo manicotto di neve». Insomma, la neve umida e i manicotti sono fenomeni conosciuti da anni, mentre non è dato sapere quale sia il limite sostenibile dei cavi. Con l’allerta neve preannunciata da giorni, si fa fatica a comprendere quale sia il fattore imprevisto che ha poi scatenato la nota sequela di disservizi. Soprattutto considerando che la formazione dei suddetti blocchi di ghiaccio è prevedibile giorni prima.

L’assessore regionale alla protezione civile, Paola Gazzolo, che ha richiesto lo stato di calamità (necessario per ricevere i finanziamenti dal governo) sembra quasi essersi “abituata”: «Gli eventi eccezionali ormai stanno diventando sempre più ordinari. Serve un nuovo piano integrato di manutenzione delle reti e del verde affinché quanto successo non si verifichi più». Prima però bisognerebbe capire cosa è successo: finora sappiamo solo che qualcosa non ha retto. Un’ipotesi la lancia Massimo Gnudi, assessore per le politiche dell’Appennino della Città Metropolitana di Bologna, che senza mezzi termini sposta il problema: «La manutenzione non è stata adeguata e ciò chiama direttamente in causa i gestori, non possiamo girarci intorno», attacca l’amministratore «dovremo definire per il futuro un impegno preciso con queste aziende, un piano puntuale che preveda controlli e verifiche».

I cavi dell’energia elettrica ad alta tensione, in teoria, possono rompersi solo se ci passa attraverso un elicottero o nel caso di un tornado. Oppure in caso siano obsoleti. La loro sostituzione dovrebbe avvenire ogni 35-40anni, si cambiano le parti che hanno maturato la vecchiaia con un 20-30% di scarto rispetto alla scadenza prevista dei materiali. Esistono test sull’invecchiamento dei materiali che ne definiscono la “durabilità” allo scopo preciso di evitare, per esempio, un blackout. La società fornisce annualmente alla Regione Emilia-Romagna, ai sensi dell’articolo 18 della legge regionale n. 26 del 2004, una relazione molto dettagliata contenente, fra l’altro, anche «una descrizione delle attività di manutenzione previste nell’anno».

Alla richiesta di visionarla però l’azienda ha risposto che: «Ogni anno Terna deve presentare alla Regione la posizione georeferenziata dei propri elettrodotti in modo che la Regione possa aggiornare le proprie carte e le proprie mappe». Niente di più. Accontentiamoci, questo è quanto. Invece le domande restano, e anzi com’è conseguenza di ogni non risposta, si moltiplicano: quanto spende Terna nella manutenzione? «Complessivamente ha investito negli ultimi 5 anni circa 1,2 miliardi di euro nella manutenzione della propria rete: monitoraggio, manutenzione vera e propria e rinnovo delle linee elettriche e delle stazioni».

D’accordo. Ma nello specifico, quali interventi e con che cadenza? I cavi che si sono rotti a che punto di usura erano arrivati per cedere al peso di manicotti di ghiaccio? Terna in merito non risponde. Intanto in attesa i cittadini, con l’aiuto di tutti i sindaci del territorio e i consiglieri regionali del Pd e Sel che hanno sottoscritto una risoluzione urgente, stanno organizzando una class-action per i disagi subiti.

Sono infuriati: «Ho sentito di tutto in questi giorni di blackout: “Fate finta che Enel non esista” detto dalla Protezione civile e dai responsabili dell’emergenza, famiglie che scioglievano la neve per poter lavarsi o semplicemente per avere l’acqua da bere, case che al loro interno arrivavano a quattro gradi, bambini che andavano a letto con le tute da sci per stare al caldo e centinaia di euro in legname», racconta Paolo Pasquino, abitante di Monzuno, sull’Appennino bolognese. Per l’assessore Gnudi è importante «sostenere, anche grazie ad alcune associazioni nazionali di consumatori, la volontà delle persone di avere un rimborso maggiore rispetto a quanto calcolato dalle aziende», massimo 300 euro direttamente in bolletta «e di aiutare i Comuni con meno di 5.000 abitanti che non avrebbero diritto a niente per una delibera dell’Authority che prevede rimborsi solo per distacchi superiori alle 16 ore».

Significativo il commento di un altro abitante montano, Stefano Adani: «Durante quella settimana di ordinaria follia, la cosa che francamente ha maggiormente spaventato è stato rendersi conto che nel caso di cosiddette emergenze non è possibile aspettarsi un aiuto da parte di chi come lo Stato o la Regione dovrebbero al contrario sostenere e aiutare gli abitanti in crisi. Gli alberi spezzati sulla strada ce li siamo tagliati da soli con piccoli gruppi di autogestione, i collegamenti telefonici erano inesistenti, e quando chiamavamo l’Enel per chiedere i tempi di ripristino, a risponderci un nastro registrato dava un orario. Puntualmente disilluso».

Scuola, tentazioni private

Con un’evasione fiscale che dissangua le casse dello Stato e con un livello di corruzione superiore a qualunque altro Paese europeo, una priorità del governo Renzi è umiliare la scuola pubblica, con l’ennesimo taglio reclamizzato come riforma. Riforma va detto, che slitta, visto che il decreto è saltato. Ma rimane inalterata la filosofia che ne è alla base.

Già il documento della Buona scuola, ispirato dai burocrati di Bruxelles, dichiarava l’impossibilità dello Stato di rispondere integralmente alla domanda di istruzione nel nostro Paese. Ora, con un altro cambiamento di verso delle priorità, diversi esponenti del governo (a cominciare dal ministro Giannini) e del Pd (in testa i parlamentari Malpezzi, Patriarca e Rubinato nella lettera dei 44 inviata a Avvenire) si preoccupano di incrementare il finanziamento delle scuole private.

Non bastano i 700 milioni di euro versati ogni anno agli istituti privati dallo Stato (500 dal Miur e 200 dagli enti locali). È stata proposta – e lo stesso ex ministro Luigi Berlinguer la sollecita – una defiscalizzazione delle rette, per cui la transazione da privato (la famiglia) a privato (la scuola privata) godrebbe di uno sconto fiscale pubblico. Lo stesso premier ha annunciato che i singoli istituti (senza differenze tra pubblico e privato) potrebbero beneficiare di un sistema di finanziamento simile a quello del 5 per mille, con una distribuzione delle risorse delegata alle famiglie.

I guasti prodotti dall’autonomia, con una forbice sempre più larga tra le scuole delle aree più ricche e quelle delle zone più arretrate del Paese, si moltiplicherebbero. Inoltre si introdurrebbe surrettiziamente il principio che non esistono beni pubblici in quanto tutto è subordinato il consenso individuale. Sulla base di questo principio non esisterebbe più una scuola pubblica, garanzia di uguaglianza di diritti e coesione sociale, ma esisterebbero tante scuole quante sono le famiglie. I nostri rottamatori vogliono condannare i giovani a rimanere dentro l’angusto circuito familiare, come avviene nelle società più arcaiche e retrive.

E sotto questa ingannevole idea della “libertà di scelta educativa” ci sono due convinzioni: che i docenti della scuola pubblica siano orientati politicamente a senso unico e che il processo di insegnamento apprendimento sia tutt’altro che libero, ma naturalmente portato a “inculcare” convinzioni negli allievi. Così si cambia verso alla realtà: la scuola pubblica viene infangata con l’accusa di essere una fabbrica del consenso, mentre la scuola privata diventa, secondo questa fantastica ricostruzione, il sistema in cui ad una libertà di scelta educativa da parte delle famiglie corrisponderebbe la libertà di insegnamento.

C’è un’altra grande bugia anche dietro la richiesta di ulteriori fondi alle scuole private. Cioè quella del risparmio per lo Stato di 6 miliardi di euro l’anno. Un recente studio della Fondazione Agnelli (dicembre 2014) ha mostrato che è una menzogna perché 200mila sono i fruitori delle scuole comunali dell’infanzia (quindi, indirettamente, dello Stato) e perché l’assorbimento dei 400mila studenti di primaria e secondaria delle private avverrebbe senza un incremento significativo di aule e insegnanti nel pubblico, con un aggravio di spesa molto distante da quello sbandierato.

Oltre gli Opg la nebbia. Inchiesta su ritardi e guerre culturali

Dal primo aprile gli ospedali psichiatrici giudiziari cesseranno di esistere. Lo prevede la legge 81/2014 con le “disposizioni urgenti in materia di superamento degli Opg”. Se un capitolo si chiude, attorno ai cosiddetti “folli rei”, se ne apre subito un altro, non privo di incognite. Sui circa 700 malati di mente internati nei sei istituti esistenti si gioca infatti una partita su scala nazionale complessa, con molte risorse economiche in gioco e agguerrite battaglie culturali. Stato e Regioni, servizi territoriali di Salute mentale e Tribunali di sorveglianza, magistrati e psichiatri: a un mese dalla chiusura degli ospedali psichiatrici il fronte è caldissimo. Tra conflitti più o meno evidenti sull’organizzazione delle future strutture, si assiste a una corsa frenetica delle Regioni per mettersi in regola. Un “superamento” gestito troppo in fretta, sostengono alcuni operatori, ma tant’è: a meno di sorprese, ormai non si torna più indietro.

Residenze a gestione sanitaria

Al posto dei sei Opg, edifici mastodontici e spesso fatiscenti costruiti a cavallo tra ‘800 e ‘900, dovranno sorgere in ogni regione le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems), strutture più snelle totalmente a gestione sanitaria con al massimo 20 posti letto. E c’è già chi lancia l’allarme per l’eventuale business che potrebbero alimentare, visto che in alcune Regioni si dovrà fare ricorso a strutture private, almeno nella fase iniziale. Se consideriamo che la retta giornaliera prevista è di 200 euro a persona, gli internati ex Opg potrebbero davvero costituire un affare. E poi c’è l’altra questione scottante: la sicurezza. Nelle Rems andranno quei soggetti che al 1 aprile sono considerati ancora pericolosi socialmente e quindi non dimissibili. Per questo motivo è prevista una sorveglianza esterna da parte delle forze dell’ordine, anche se dentro la struttura sarà attivo il personale sanitario. Con tutti i problemi del caso: chi gestirà per esempio l’Ufficio matricola? Il documento sull’organizzazione messo a punto da ministero della Salute e quello della Giustizia con la collaborazione del Dap e delle Regioni, il 5 marzo dovrebbe essere presentato in Conferenza unificata. La situazione è oggettivamente delicata: al di là di certi allarmi ingiustificati dei media su autori di efferati delitti che potrebbero tornare liberi, trapela una certa preoccupazione anche da parte dello stesso ministero della Salute. «Con una implementazione vera più sanitaria, siamo a rischio o no?», ha chiesto il 18 febbraio al convegno sugli Opg presso l’Istituto superiore di sanità, il sottosegretario Vito De Filippo, presidente dell’Organismo che coordina il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.

Gli internati tra malattia mentale e reati

All’inizio di febbraio i pazienti ricoverati negli Opg di Castiglione delle Stiviere (l’unico femminile), Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Aversa, Napoli e Barcellona Pozzo di Gotto erano 708. Per la metà sono dimissibili, cioè possono essere affidati, con decisione del Tribunale di sorveglianza, ai servizi territoriali di salute mentale: case famiglia, comunità, assistenza domiciliare ecc. Quindi le Rems per il momento dovrebbero ospitare 350, al massimo 400 persone. Più, naturalmente, i nuovi ingressi.

Ma chi sono gli attuali internati?

Nel 2011 la Commissione d’inchiesta presieduta dal senatore Ignazio Marino aveva fatto conoscere a tutti gli italiani le loro condizioni di vita. Il documentario che racconta il viaggio compiuto dai parlamentari nei sei istituti ancora oggi fa l’effetto di un pugno nello stomaco. Le immagini mostrano gruppetti di uomini che chiedono aiuto, chiusi in edifici cadenti, tra latrine sporche e muri scrostati. Molti di loro, finiti dentro l’Opg per reati cosiddetti bagatellari, erano ormai scivolati nel gorgo dell’“ergastolo bianco”: l’internamento all’infinito per continue proroghe della misura di sicurezza. Un fenomeno perverso che la legge 81 spazzerà via, poiché il testo prevede che il ricovero nelle Rems non possa durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso.  Vite condotte su un doppio binario: malattia mentale e reati. Su questi ultimi aspetti fornisce molti dati lo studio compiuto su un campione (56%) di pazienti e presentato al convegno dell’Iss da Ilaria Lega, responsabile scientifico del progetto Opg-Iss. Gli internati sono uomini in media di 40 anni, nella stragrande maggioranza sono soli, possiedono un basso livello d’istruzione, in genere sono disoccupati. Circa il 40% è costituito da schizofrenici, il 23% soffre di altri disturbi psicotici e l’esordio della malattia è avvenuto quando erano giovani, verso i 23 anni. L’elemento che colpisce è il fatto che nel 75% dei casi, prima del ricovero in Opg, avevano avuto contatti con servizi psichiatrici territoriali. La maggior parte dei reati è contro la persona, quelli contro le cose o il patrimonio raggiungono solo l’8%. Il 36,4% è stato internato per omicidio o tentato omicidio – quasi sempre all’interno della famiglia – o per lesioni e maltrattamenti (31%). Nella metà dei casi sono “prosciolti Opg”, ovvero totalmente infermi di mente. Poi ci sono anche: gli “internati provvisori imputati”, i “detenuti minorati psichici” e quelli con vizio parziale di mente.

Più sanità e meno carcere

La villa medicea dell’Ambrogiana non è lontana dal centro di Montelupo Fiorentino, il paese toscano famoso per le ceramiche. L’Opg si trova dentro lo storico edificio, una sorta di castello rinascimentale circondato da prati ben curati, bellissimo visto da fuori. Dentro, è un carcere a tutti gli effetti, con le celle e i ritmi scanditi dalla macchina penitenziaria. «Se prendiamo le parole “ospedale psichiatrico giudiziario”, per due terzi sarebbero di carattere sanitario e un terzo giuridico, ma nella realtà il rapporto è sempre stato capovolto, sia a livello di spesa che di personale», racconta un po’ amaramente lo psichiatra Franco Scarpa, all’Opg di Montelupo da 28 anni. Ne è stato il direttore fino al 2008, quando l’assistenza sanitaria penitenziaria è passata al Sistema sanitario nazionale. Da allora è responsabile della Uoc Salute in carcere dell’Asl 11, oltre a essere, dal 2013, rappresentante italiano del progetto europeo Cost Is1302, una rete di psichiatria forense di 19 Paesi. «Mi capita di vedere le strutture straniere, sono molto istituzionali, però sono quasi tutte centrate sulla gestione pienamente sanitaria», afferma. Non si scandalizzerebbe Franco Scarpa se alla chiusura dell’istituto seguisse «una sorta di road map che porti a una progressiva presa in carico di tutte le persone». Tenendo conto però delle differenze: «Tutti gli internati negli Opg non sono etichettabili alla stessa maniera», spiega. «La definizione di “socialmente pericoloso” si applica a tutti, ma occorre anche valutare l’aspetto clinico e psichiatrico che fa sì che ci siano patologie e livelli di gravità diversi. Il che vuol dire che servono percorsi terapeutici e riabilitativi individuali diversi», sottolinea. E a proposito di percorsi terapeutici, a Montelupo si fa uso di terapie farmacologiche comuni («non secchiate di psicofarmaci»), ci sono esperienze di gruppi psicoterapeutici, gruppi a orientamento terapeutico, gruppi con i familiari e poi attività riabilitative individuali e di gruppo. «Noi agiamo sul momento più difficile della crisi e dobbiamo lavorare su tutta una serie di parametri. Al di là del disturbo psichico che ha contribuito a far compiere il gesto, bisogna lavorare poi sulla consapevolezza e inevitabilmente sul senso di colpa, soprattutto se il reato è stato commesso nell’ambito familiare», racconta Scarpa. Che sorride quando parla di come i suoi pazienti stanno vivendo l’imminente chiusura dell’Opg: una incertezza che del resto investe tutti, operatori e pazienti. «Sono molto curiosi, qualcuno è un po’ preoccupato, si chiedono: dove andremo?».

Laboratorio Emilia

In Emilia-Romagna il 31 marzo non fa paura. Da qualche anno è in corso una sinergia tra Servizio regionale di salute mentale, Dsm, magistratura ordinaria e magistratura di sorveglianza. I risultati si vedono. Dall’Opg di Reggio Emilia negli ultimi tempi le dimissioni sono state numerose: nel 2009 i pazienti internati erano 300, adesso sono circa 140. «Ci siamo riusciti grazie a un’estrema intesa con la magistratura di sorveglianza di Reggio Emilia. Noi presentiamo il progetto riabilitativo e individuiamo il percorso terapeutico da fare, e i magistrati hanno sempre trovato il modo di accompagnarli con i loro provvedimenti», spiega la direttrice Valeria Calevro. Un altro obiettivo raggiunto è l’apertura a tempo di record delle Rems. Sono due, una a Bologna e l’altra a Parma. «Il 20 marzo gli ingressi, il 30 marzo l’inaugurazione ufficiale», annuncia al convegno Iss Angelo Fioritti direttore del Dsm di Bologna. La Casa degli Svizzeri è quanto di più lontano ci possa essere dai vecchi istituti: un edificio dipinto di rosso nel centro di Bologna con le camere in un’ala e nell’altra, un ex fienile ristrutturato, gli spazi dedicati alla riabilitazione.

Un giudice molto presente

Se a Bologna le cose filano per il verso giusto, a detta di molti operatori emiliani, è merito anche del rapporto instaurato con il presidente del Tribunale di sorveglianza Francesco Maisto. Attivissimo sul fronte degli Opg, il giudice ha appena scritto un saggio che uscirà a marzo in un numero monografico di Antigone a essi dedicato e parteciperà al convegno nazionale sullo stesso tema promosso il 20 marzo a Bologna dalla corrente Area di Magistratura democratica e Movimento per la giustizia. Sulle forze in campo, sia del diritto che della psichiatria, Maisto ha le idee chiare: «Ci sono settori resistenti alla chiusura degli Opg sia nella psichiatria che nella magistratura. Talvolta c’è un falso paternalismo giudiziario, quando non si dimette un internato perché si chiede: dove va a finire? Ma questo non è un problema della giustizia, è un problema del welfare! Poi c’è l’ala ultraprogressista, di influenza triestina, che sostiene in nome del principio di uguaglianza, che le persone non sane di mente – ma per questa “scuola” non esiste una patologia – devono essere condannate come tutte le altre e mandate in carcere». Infine, continua il giudice, c’è una visione progressista riformista, «una corrente di pensiero che attraversa la magistratura e la psichiatria trovando parole comuni». Questa terza strada ritiene che gli Opg siano «un fatto osceno e non potranno neanche in futuro garantire il diritto alla salute». Quindi occorre pensare alle alternative, alle Rems, ma, sottolinea Maisto, anche a «una varietà di strumenti come le comunità territoriali, le case famiglia, le terapie sul territorio».

La legge 81 ha delle criticità?

«Sì, ci sono, però se ci fosse una collaborazione virtuosa in modo tale che nessuno resti nel proprio orticello, confinato nel proprio ruolo, si potrebbero perfettamente superare», dice. «Se i magistrati di sorveglianza facessero uno sforzo con una maggiore attività e una maggiore sensibilità rispetto al caso da affrontare, se i servizi del territorio non si limitassero all’esistente, i problemi sarebbero facilmente superabili come lo stiamo facendo noi a Bologna». Dove, va detto, un gruppo di lavoro comune ha realizzato una scheda di valutazione con una serie di indicatori che forniscono il quadro anamnesico, patologico, familiare e sociale del paziente. Uno strumento per rendere più spedito il percorso alternativo esterno all’ospedale psichiatrico.

Sciopero della fame anti Opg

Chi spinge con forza per la chiusura è StopOpg, un comitato costituito da decine di sigle: dal Forum salute mentale alla Cgil, da Ristretti Orizzonti alla Fondazione Basaglia, dall’Arci all’associazione A buon diritto. “Chiudere al 31 marzo, senza trucchi né proroghe”, è lo slogan della campagna che in un mese ha promosso vari incontri tra cui un convegno a Firenze il 4 marzo, un altro il 10 a Milano fino allo sciopero della fame a staffetta dal 1 al 31 marzo. Ispirandosi alla legge 180 il fronte trasversale di associazioni teme che con le Rems si creino nuovi mini Opg che facciano poi aumentare gli ingressi. «Molte magistrature stanno internando di più, nonostante i segnali dei servizi territoriali su possibili misure alternative», avverte Stefano Cecconi, responsabile Welfare della Cgil e portavoce di StopOpg. Le Rems non sono salutate come la soluzione ideale. «Sono un’autentica idiozia», dice senza mezzi termini Cecconi. «Anche se è comprensibile che ci siano perché finché non modifichiamo il Codice penale, il magistrato ha sempre l’opzione di disporre una misura di sicurezza detentiva anche per la persona incapace di commettere un reato», aggiunge. Un sacco di soldi pubblici a disposizione e il rischio che i privati ci sguazzino: questo il timore di StopOpg. Cecconi annuncia la prossima battaglia dopo gli Opg: «La modifica del codice penale sul concetto di pericolosità sociale e sulla non imputabilità del folle reo. La cittadinanza implica diritti e doveri, in questo senso StopOpg è meno garantista di altri», sottolinea Cecconi. Per quanto riguarda le cure, secondo il sindacalista Cgil, «la regola aurea dell’efficacia terapeutica è il rapporto con il territorio, la psichiatria di comunità che diventa alloggio, lavoro. È la vita normale che restituisce speranze di cura e perfino di guarigione».

Le carceri in prima linea

I pazienti ex Opg dimessi nell’ultimo anno, hanno già avuto un “impatto” nelle comunità e nei servizi territoriali di salute mentale delle regioni di residenza. Ma l’effetto della legge 81 forse avrà ripercussioni anche nelle carceri. Infatti i detenuti con problemi psichiatrici che prima venivano inviati negli Opg per il periodo canonico di osservazione di 30 giorni, adesso andranno nelle sezioni psichiatriche interne penitenziarie. Nella relazione dell’Organismo di coordinamento presentata a settembre alla Camera dei deputati, si legge che queste dovranno accogliere «i soggetti di cui all’articolo 148 del Codice Penale», cioè le persone condannate che si ammalano durante la detenzione e che un tempo venivano ricoverate negli Opg. Ma anche i soggetti art.111, i minorati psichici. Facile immaginare quindi che potrebbe aumentare la criticità delle già critiche condizioni delle carceri italiane. Dove i disturbi mentali, secondo dati del 2013, riguarderebbero il 40% dei detenuti. Un altro esempio di quella disumanità del sistema penitenziario italiano, del resto già condannato della Corte europea dei diritti umani.

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Le cinque delle 13.00

E’ il giorno del Quantitative easing

Parte da oggi il Quantitative easing, ovvero l’allentamento quantitativo della politica monetaria, un’offensiva per sferrare l’attacco decisivo contro il rischio di deflazione stampando moneta per acquistare titoli di Stato. Per l’Istituto guidato da Mario Draghi si tratta di una vera e propria rivoluzione copernicana che rompe un tabù fino a pochi mesi fa inviolabile, sulla scia di altre Banche centrali del mondo, come la Federal Reserve americana, la Banca d’Inghilterra e quella del Giappone. Anche se lo stesso Draghi ha già messo le mani avanti spiegando che la mossa non sarà una bacchetta magica e da sola non riuscirà a fare ripartire la crescita dell’area euro.

EUROGRUPPO
Merkel: siamo solidali con la Grecia, ma c’è ancora molta strada da fare
«La nostra politica è che la Grecia resti nell’Eurozona. Per molti anni abbiamo lavorato per questo ma naturalmente ci sono due facce della stessa medaglia: una è la solidarietà e l’altra è la determinazione a spingere sulle riforme; se la via è questa c’e’ ancora molta strada da fare». E’ quanto ha detto Angela Merkel a Tokyo alla vigilia dell’Eurogruppo, che oggi a Bruxelles valuterà il pacchetto di riforme che Atene ha inviato nei giorni scorsi all’Unione. Il presidente dello stesso Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, ha già anticipato che la lista dei provvedimenti è lontana dall’essere completa, che la sua attuazione richiederà tempi lunghi e che a marzo non è prevista nessuna tranche di aiuti.

RIFORME
Renzi: Avanti alla Camera, poi il referendum
Da Forza Italia arriva un No alle riforme costituzionali portate avanti dal governo Renzi, ma il premier tira avanti e nella sua tradizionale newsletter rilancia e conferma che il testo sarà sottoposto a referendum, «perché poi decidono i cittadini». Superare il bicameralismo paritario, ridurre i poteri delle regioni e semplificare il rapporto tra centro e autonomie, eliminare gli enti inutili – scrive Renzi nella sua consueta newsletter e aggiunge: Ci siamo. Martedì andiamo alla Camera con il voto finale della seconda lettura. Puntiamo al referendum finale.

SCUOLA
Ultime modifiche per il Disegno di legge, in attesa del Cdm
Ultime limature per il disegno di legge sulla scuola, con le annunciate assunzioni di migliaia di precari, che dovrà essere approvato dal consiglio dei ministri previsto per martedì. Sul testo destinato a concretizzare la Buona Scuola si è lavorato fino a tardi venerdì notte, con i tecnici e gli uffici legislativi del ministero dell’Istruzione e della presidenza del consiglio che hanno dovuto ‘trasformare’ l’articolato del decreto nel Ddl che il governo ha deciso, invece, all’ultimo momento di portare all’approvazione del Parlamento.

IRAQ
Violenti scontri a Tikrit, Baghdad invia rinforzi
L’esercito iracheno ha inviato rinforzi a Tikrit, 140 chilometri a nord-ovest di Baghdad, dove da giorni sta conducendo una dura battaglia per riconquistare la città sunnita, che diede i natali a Saddam Hussein e che da mesi è controllata dallo Stato Islamico. Lo riferiscono fonti della sicurezza all’emittente televisiva al Jazeera. Nella zona da giorni sono in corso violenti combattimenti, ai quali partecipano anche le milizie sciite.

HI-TECH
E’ il giorno dell’Apple Watch è arrivato
L’azienda di Cupertino aveva concesso agli adepti un’anteprima strategica del suo primo wearable a settembre. Tra poche ore però, sul palco dello Yerba Buena Center di San Francisco, verranno chiariti tutti gli aspetti dell’orologio della Apple.

Il dato evidente della crisi? Il frammentarsi della Ue

Quando Yanis Varoufakis si recò in Germania nelle sue vesti di ministro greco delle Finanze, il quotidiano Die Welt lo presentò così: «Varoufakis, il comunista libertario, viene in Germania come per un combattimento di cani. Con la camicia fuori dai calzoni, il colletto della camicia aperto… Cerca la vittoria – soprattutto sulla Germania. Nessuno se la farà addosso a causa di questo ruffiano accademico».

A poche ore dall’incontro di Bruxelles, sui giornali tedeschi si sono lette messe in guardia dal “cavallo di Troia” e dall’ “inganno greco”. Nemmeno ai mondiali di calcio l’aggressività tedesca ha mai trovato toni così forti. Lo scontro era tra il campione tedesco, Schäuble, e il ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis. Un esempio “Così Schåuble metterà in ginocchio Tsipras” sulla Welt del 20 febbraio. O anche: «Schåuble sa quale sia la lingua che Atene capisce». E laBild si poneva una domanda significativa: Sono più pericolosi i russi o i greci? Passa la giornata di venerdì e Die Welt diventa il pollice verso dell’imperatore sullo schiavo vinto nell’arena: quel ministro delle Finanze a cui piace recitare la parte del ribelle, con la sua giacca di cuoio e la camicia fuori dai calzoni ora è vinto, indebolito. La sua frase “Da oggi siamo padroni del nostro destino” è citata con ironia.

Sarebbe lungo elencare gli insulti che i media tedeschi hanno rovesciato sui diversi partners per poter capire di quanti e quali veleni si sia caricata l’atmosfera europea. Del resto, si tratta di insulti scambievoli. Tutti hanno visto di recente anche su giornali italiani la vignetta greca di Schåuble in divisa di SS nazista. E l’Italia non sfugge a questo gioco al massacro.

Intanto assistiamo al generalizzarsi di uno scontro che ha al centro il caso della Grecia. Se Tsipras accusa Portogallo e Spagna di mancata alleanza in Europa (e sullo sfondo c’è l’ombra dell’Italia di Renzi), Mariano Rajoy reagisce pubblicamente con grande violenza per la paura dell’avanzata di Podemos. Si vive come in un condominio: il vicino cessa di essere visto come un essere umano appena si deve fare il conto delle spese.

Ma c’è una conclusione politica da ricavare dallo stato delle cose. L’Europa dell’euro e delle banche non è diventata una realtà unitaria nella formazione di una sua volontà politica. La guerra che vi si combatte col rubinetto delle finanze non è meno micidiale di quella delle bombe. E questo è il segno evidente del fallimento in cui la vittoria del liberismo selvaggio e dell’Europa delle banche ha trascinato quella rinascita di un’Europa pacifica e solidale che fu sognata sulle rovine della Seconda guerra mondiale.

Dietro questa tempesta di parolacce c’è il dramma della disoccupazione giovanile e della devastazione dei rapporti sociali che ha raggiunto in Grecia la sua punta massima ma che non risparmia l’Italia. Da noi i dati Istat parlano di quasi metà della popolazione giovanile senza lavoro (41%). Ma non dicono quanto sia precaria e senza diritti la qualità del lavoro che viene offerto alla cosiddetta “generazione Y”, i primi esseri umani a non aver mai vissuto in un mondo senza internet: se ci riescono, avranno quei contratti a tempo definito o quelle “esperienze lavorative” che sono, ha scritto Zygmunt Bauman, «scaltri espedienti di evasione e di crudele, spietato sfruttamento» (Z.Bauman – C.Bordoni, Stato di crisi, Einaudi).

Così, mentre l’Italia di Renzi riscuote l’approvazione di quella troika che Yanis Varoufakis ha messo alla porta in Grecia, sarebbe importante cominciare a riflettere anche da noi sulla “Modesta proposta” di Yanis Varoufakis, Stuart Holland e James K. Galbraith, una riflessione che parte proprio dal dato più evidente della crisi, il frammentarsi dell’Unione europea.

C’era una volta il Parma

Nella stagione ’92-’93, il vecchio continente è in pieno sconvolgimento geopolitico. La Jugoslavia, bandita dal campionato europeo vinto in estate dalla sorprendente Danimarca, si ritrova con i club estromessi da: coppa Campioni, coppa Uefa e coppa delle Coppe, a cui partecipano invece le formazioni della Slovenia, risparmiata dalla guerra civile.

L’ex Unione sovietica, scesa in campo come Csi tanto agli Europei di Svezia quanto alle Olimpiadi di Barcellona, manda le squadre di Russia, Ucraina, Lettonia, Estonia e Lituania a riempire oltremisura le stesse urne da sorteggio nelle quali confluiscono i club di altri Paesi altrettanto recenti quali Liechtenstein e Far Oer.

L’aumento delle squadre è contenuto dal ritardo organizzativo di Belorussia, Georgia e Moldavia; dalla persistenza della Cecoslovacchia e da una Germania riunificata che ha congelato i club dell’Est. L’Italia, una e indivisibile, schiera il Milan in coppa Campioni; Juve, Toro, Napoli e Roma in coppa Uefa e il Parma in coppa delle Coppe.

La squadra della Parmalat è una splendida realtà. Promossa in serie A nell’estate del ’90, ha centrato la qualificazione in coppa Uefa nel campionato d’esordio ’90-’91 e ha vinto la coppa Italia edizione ’91-’92. Taffarel, Benarrivo, Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin. L’allenatore è Nevio Scala, colui il quale, dopo ogni partita, obbliga i suoi ragazzi a correre intorno al campo per favorire il riassorbimento dell’acido lattico.

La rosa si è arricchita con Sergio Berti e Faustino Asprilla, portati a Collecchio dalle manovre di mercato operate in Sudamerica dalla multinazionale di Calisto Tanzi. E mentre l’argentino fatica a trovare spazio, il colombiano si impone come arma irrinunciabile.

I primi a cadere sotto i suoi colpi, a settembre, sono gli ungheresi dell’Ujpest nello stesso “mercoledì nero” che porta la sterlina fuori dallo Sme e il Parma agli ottavi. A metà ottobre, tocca ai portoghesi del Boavista proprio mentre il mondo celebra i cinque secoli del viaggio di Colombo e mentre la Chiesa annuncia la tempestiva riabilitazione di Galileo. Dopodichè le coppe vanno in letargo fino a marzo, mese perfetto per una bella gita a Praga: capitale della neonata Repubblica Ceca e città del vecchio Sparta. 0-0 al Letnà Stadion e 2-0 al Tardini con reti di Sandro Melli e del solito Asprilla, protagonista assoluto anche nella semifinale d’andata al Vicente Calderon di Madrid, tana dell’Atletico. Una doppietta della freccia colombiana vale la vittoria per 1-2 in trasferta.

Al ritorno, i madrileni sfiorano l’impresa, ma lo 0-1 non basta. Finale a Londra il 12 maggio contro i belgi dell’Anversa guidati in attacco da Alex Czernyatinski. In un tempio di Wembley pieno soltanto a metà, i gialloblù non si fanno emozionare. Vincono 3-1 e sollevano il primo trofeo europeo della loro storia nonostante Asprilla rimasto in panchina per chissà quale mistero disciplinare. Ad eccezione del portiere Taffarel, sacrificato in tribuna come quarto straniero, la formazione è la stessa della finale di coppa Italia dell’anno precedente: Ballotta, Benarrivo,Di Chiara, Minotti, Apolloni, Grun; Melli, Zoratto, Osio, Cuoghi e Brolin. Allenatore Nevio Scala.

Pillola libera tutti

Il 30 gennaio scorso, nella sua casa di San Francisco, negli Stati Uniti, all’età di 91 anni, è morto Carl Djerassi. Professore emerito dell’università di Stanford, chimico valente, amava la scrittura e il teatro, ma conosciuto al grande pubblico soprattutto come il “padre della pillola”. E, di conseguenza, come lo scienziato che ha contribuito in maniera decisiva alla più grande rivoluzione del XX secolo, la rivoluzione sessuale.

Di origine ebraiche, Carl Djerassi era nato a Vienna il 29 ottobre 1923. Suo padre, Samuel, era un dermatologo, specialista di malattie sessuali. La madre, Alice Friedmann, era medico e dentista. Il ragazzo fu costretto a lasciare l’Austria nel 1938, quando Adolf Hitler impose l’Anschluss: l’annessione. E con essa le leggi razziali. Insieme con la madre, Carl raggiunse gli Stati Uniti, dove, nell’anno 1945, conseguì il PhD in chimica presso l’Università del Wisconsin. Iniziò poi a lavorare con la Ciba nel New Jersey. Quattro anni dopo si trasferì presso un’altra azienda, la Syntex, come direttore associato per la ricerca medica nei laboratori di Città del Messico. E proprio nella capitale messicana mise a punto quella che il settimanale The Economist ha definito “l’invenzione del secolo”. In realtà, i primi lavori a Città del Messico riguardano la sintesi del cortisone. Ma ben presto, con i suoi collaboratori, Carl Djerassi sintetizza il norethisterone, un progestinico che, insieme all’etinilestradiolo, è in grado di diminuire fin quasi ad annullare la fertilità  femminile in maniera reversibile.

È il 1951 e l’austriaco ha messo a punto il primo contraccettivo orale. In realtà occorre del tempo prima che la molecola messa a punto da Carl Djerassi, in collaborazione con Luis Miramontes and George Rosengkranz, diventi “la pillola”. Verrà sperimentata clinicamente nel 1954 a Puerto Rico dai medici John Rock, Celso-Ramon Garcia e Gregory Pincus. Occorre attendere il 1957 perché la Food and Drug Administration autorizzi la vendita del nuovo farmaco per scopi limitati e poi, nel 1960, come anticoncezionale con il nome di Enovid.

È solo a partire da questa data che la pillola inizia a essere distribuita negli Stati Uniti e in tutto il mondo, con effetti culturali e sociali molteplici e senza precedenti: sui costumi sessuali, sulla emancipazione femminile, sul controllo delle nascite. E già perché la combined oral contraceptive pill (Cocp) di Djerassi, più semplicemente “la pillola”, se assunta regolarmente da una donna – come spiega Carlo Flamigni in un suo libro, Il controllo della fertilità – ne inibisce l’ovulazione; modifica il muco cervicale, rendendolo ostile alla risalita dei nemaspermi; induce mutamenti endometriali rendendo più difficile l’impianto dell’embrione; altera il trasporto nelle tube dell’ovocita e dell’embrione. In pratica riduce drasticamente la fertilità della donna con diversi meccanismi indipendenti, il che rende “la pillola” un contraccettivo molto sicuro, molto più di ogni altro sistema usato in precedenza. Inoltre costa poco, è facile da assumere ed è sganciata dal rapporto sessuale.

È proprio quanto molte donne si aspettano, in un periodo, gli anni 60 del secolo scorso, in cui le società occidentali si accingono a profonde trasformazioni negli stili di vita e nella domanda di nuovi diritti di cittadinanza. È per tutto questo che la Cocp ha un immediato e clamoroso successo e diventa “la pillola”: nel 1961 negli Usa la assumono già 400.000 donne; che salgono 1,2 milioni nel 1962 e a oltre 3,5 milioni nel 1963. Oggi in tutto il mondo la assumono oltre 100 milioni di donne.

In realtà Carl Djerassi e molti degli scienziati che hanno contribuito alla sintesi della molecola e poi ai test clinici, guardano alla pillola come a uno strumento per il controllo delle nascite. Da molto tempo è attivo negli Stati Uniti un movimento decisamente preoccupato per la crescita della popolazione mondiale. Molti temono quella che definiscono, senza mezzi termini, “the population bomb” : una crescita demografica incontrollata che porterà al rapido esaurimento delle risorse sul pianeta. Una bomba che è già causa, pensano, di povertà e di miseria. E si danno da fare per disinnescarla, questa bomba. Tra i più attivi ci sono i membri dell’International Planned Parenthood Federation, presieduta da una signora molto attiva: Margaret Higgins Sanger. Ed ecco cosa scrive Margaret Sanger alla biologa Katharine Dexter McCormick: «Penso che nei prossimi venticinque anni il mondo o almeno la nostra civiltà dipenderanno da un contraccettivo semplice, economico e sicuro utilizzabile nei quartieri più provati dalla povertà, nella giungla, dalle persone più ignoranti».

Ecco, la pillola di Djerassi – come ha ricordato Elaine Tyler May in un libro del 2011: America and the Pill: A History of Promise, Peril, and Liberation – risponde esattamente a questa domanda presente nella società americana: il controllo delle nascite. La pillola corrisponde a pieno a queste aspettative. Contribuendo a un netto calo della natalità. In Europa, per esempio, il numero di figli per donna nel 1960 è di 2,6. Quarant’anni dopo è sceso a 1,5.  Non è stata certo solo la molecola di Djerassi ha determinare questo cambiamento demografico, ma certo “la pillola” ha dato il suo contributo. Certo, né Djerassi né gli altri scienziati e medici avrebbero mai pensato che la pillola sarebbe diventata un fattore importante di emancipazione femminile.

Ben presto – e anche superando una certa diffidenza dei movimenti femministi – la pillola si rivela, infatti, un fattore di liberazione. Un duplice fattore di liberazione. Un fattore di liberazione e di auto-determinazione della donna. Per la prima volta nella storia dell’umanità, le donne possono controllare in maniera piena la propria sessualità e la propria disponibilità alla riproduzione. Ne deriva, come conseguenza, non solo una maternità più responsabile – i figli sono voluti, e non giungono indesiderati – ma la possibilità di scegliere cosa fare della propria vita, di impegnarsi nel lavoro, nella carriera, nella società. la pillola contribuisce ad aumentare gli spazi di libertà delle donne e, di conseguenza, contribuisce ad aumentare la consapevolezza dei propri diritti. La molecola di Djerasssi accompagna, così, la più grande rivoluzione del XX secolo, quella femminile, appunto.

Non è una molecola taumaturgica, naturalmente, quella di Djerassi. Non basta assumere la pillola per liberare la donna. Per molti anni le donne occidentali l’hanno presa di nascosto, per tema dello stigma che accompagna chi tra loro rivendica esplicitamente il diritto a una piena e consapevole e libera sessualità. E tuttora in molti Paesi sparsi per il mondo le donne assumono la pillola, ma restano in una condizione di subordinazione.

Non c’è determinismo, nelle faccende umane. Possiamo dire, tuttavia, che la pillola è un co-fattore di liberazione. E questa sua caratteristica emerge con buona evidenza nell’altra rivoluzione che accompagna quella demografica e quella femminile e, in parte almeno, si sovrappone loro: la rivoluzione sessuale. La molecola di Djerassi, infatti, consente di disaccoppiare completamente il sesso dalla riproduzione. E consente, così, di rendere attuale quella tensione potenziale che già animava, negli anni 60 del secolo scorso, le società occidentale. La domanda, non solo femminile ma soprattutto femminile, di vivere con gioia e in libertà la propria sessualità, rompendo i vincoli biologici.

Molti sono stati i co-fattori che hanno contribuito alla rivoluzione sessuale. Ma sarebbe un errore trascurare il ruolo, per molti versi decisivo, del  contraccettivo semplice, economico e sicuro messo a punto nel lontano 1951 da Carl Djerassi.

Mai il chimico si sarebbe aspettato che quella sua molecola avrebbe avuto così vasti e clamorosi effetti. Lui non amava essere definito “il padre della pillola”. Ma la pillola ha cambiato anche lui. Lo ha costretto a ripensare la scienza e il ruolo sociale degli scienziati. Lo ha in qualche modo indotto a dedicarsi non solo alla chimica e alla carriera universitaria, ma anche alle lettere e al teatro. Giudicati strumenti essenziali per restituire gli scienziati e la scienza stessa al mondo. Non è un caso se in una delle sue numerose opere, An Immaculate Misconception, analizza tutti gli effetti sociali della contraccezione orale, lui che l’aveva presa in considerazione solo come antitodo alla “population bomb”. In un altro dei suoi lavori, per così dire umanistici, è il caso di Oxygen, scritto con il collega chimico Roald Hoffmann, Djerassi propone il teatro come una forma avvincente di vera e propria didattica della scienza. Non capita tutti i giorni che un grande scienziato diventi anche un grande scrittore e uomo di teatro. Né capita tutti i giorni che un rivoluzionario rappresenti in teatro la sua rivoluzione. Nella prefazione della sua autobiografia,  del 1992, Carl Djerassi scrive: «Gli scienziati non devono essere necessariamente degli specialisti in senso stretto, che comunicano in un linguaggio incomprensibile nel chiuso dei loro laboratori alle prese con soggetti lontani dalle preoccupazioni quotidiane». Al contrario, gli scienziati «possono mostrare curiosità a tutto campo, ed essere ricercatori e pensatori in ogni dimensione intellettuale e, nel medesimo tempo, essere coinvolti sui temi sociali più caldi».

L’avevamo sognata bellissima

Il monologo su Left in edicola sabato 7 marzo è scritto da Emmanouil Glezos con Giulio Cavalli. Glezos è un vecchio partigiano greco ora eurodeputato di Syriza. Ha scritto “L’avevamo sognata bellissima” insieme a Cavalli, che l’ha interpretato per Left.