Home Blog Pagina 139

Scrivete Giorgia e avrete la guerra in casa. Perché la sinistra esita sul tema della pace?

Meloni a Pescara alla conferenza programmatica di Fratelli d’Italia ha ribadito: “E’ fondamentale accelerare verso una politica industriale comune nel settore della difesa, aumentare la collaborazione tra i nostri campioni nazionali in una logica di sovranita’ europea”. Ed era prevedibile.

Quel che mi preoccupa è il divario tra la capacità delle classi dominanti europee, in questi giorni, di delineare un sistema ed un’economia di guerra e l’afasia e irrilevanza delle forze democratiche; è un fatto inquietante e il segno di una sconfitta della politica. Non è sufficiente, infatti, esprimere  da parte dei centrosinistra europei una vaga propensione pacifista. Occorre, mi pare, ripartire dai fondamentali, dalle strutture economiche che, attraverso le guerre, cominciano a delinearsi, così come dal clima che scuote e percorre i popoli, frastornati, spesso inerti.

Come rispondiamo al messaggio dominante nell’Unione Europea, nella Nato, nel governo italiano: “si vis pacem para bellum”, che sconvolge le Costituzioni postbelliche e lo spirito originario delle Nazioni Unite? La prima risposta è, a mio avviso, nelle continue ristrutturazioni e rivoluzioni del capitale. Il capitalismo, scriveva Marx, è, per sua natura, un sistema globale; “deve annidarsi ovunque, insediarsi ovunque , stabilire connessioni ovunque”. Come scrive Emiliano Brancaccio “la tendenza alla centralizzazione del capitale in sempre meno mani porta ad una analoga concentrazione del potere politico, talmente accentuata da entrare in contraddizione con le stesse istituzioni borghesi della democrazia liberale. “Spira un forte vento di destra fascista nel profondo perché politici come la Meloni possono presentarsi come alfieri del mercato, del suprematismo bianco neocoloniale e razzista e, insieme, una “sorta di canaglia anticonformista ed anti establishment, ben analizzata, di recente, dallo storico Quinn Slobodian nel libro Einaudi Il capitalismo della frammentazione, (qui la recensione di Left).

La soluzione è sempre quella di avere un movimento sociale dietro ad un programma politico di riforme. La dialettica è un bastardo che è molto difficile da aggirare”. L’identità europea si sta ridefinendo, confusamente e violentemente, in questa dialettica: la post democrazia di oggi riprende il tratto coloniale ancestrale, uno dei fondamenti delle vicende storiche europee, come risposta infame alla bancarotta della globalizzazione liberista. Il capitale, anche oggi, ha bisogno della guerra; e la guerra è “costituente” di un sistema complesso, che è strutturale, sociopolitico, geopolitico. La guerra militarizza la società, in tutti i suoi gangli, le sue reti, i suoi anfratti. E’ disciplina come pedagogia di massa. Abbatte la Costituzione. Basti pensare, in Italia, alla sconvolgente operazione congiunta di “autonomia differenziata” (secessione dei ricchi) più premierato, elezione diretta del “capo”, plebiscito, evanescenza del Parlamento, riduzione del Presidente della Repubblica a funzione notarile. La democrazia costituzionale tende verso la “democratura”, la “capocrazia“, come la chiama Ainis.

L’Unione Europea sta varando l’economia di guerra, già delineata nella relazione Draghi a livello internazionale (e, in Italia, dalla recentissima relazione di Panetta, governatore della Banca d’Italia). L’educazione, la formazione militari entrano nelle scuole, nelle Università, per inculcare principi nazionalisti, bellicisti. L’isteria dei poteri politici e militari assimila ogni critica al genocidio di Gaza all’antisemitismo, ogni critica alla Nato alla sovversione dell’ordine costituito. Vengono represse manifestazioni studentesche; vengono sospesi ed indagati insegnanti. Il ministro Valditara tenta di spegnere , con il maccartismo, il sapere libero, la criticità verso il potere costituito.

All’ex ministro greco Varoufakis, in Europa, è stato sottratto il diritto di parola. In Francia la presidente di un importante partito di opposizione di sinistra, Mathilde Panot, viene convocata dalla polizia a seguito della sua espressa posizione filopalestinese: un avvenimento inedito e particolarmente grave, di fronte al quale non si potrà essere inerti. Perché questa precipitazione? Perché la guerra è l’alibi; anzi, è l’occasione per il potere di educare all’ordine sociale, all’obbedienza gerarchica. L’obbedienza ridiventa la prima delle virtù. Troppi giornali, troppe riviste, troppi media hanno, insieme a Meloni, calzato l’elmetto.

La criticità scientifica, non massimalista, di Left è una luminosa eccezione. Posso avanzare, innanzitutto a me stesso, una domanda scomoda, da non sottovalutare: dove è finita la “intellettualità democratica”, tanto osannata dalle sinistre istituzionali? Occorre forse ancora comprendere quanto si sia elevato il livello dello scontro e, quindi, il pericolo della regressione. Il rapporto classico tra potere e masse lo illustra, con la lucida determinazione del militare , senza la ipocrisia dei politici, l’ammiraglio Bauer, altissima carica Nato:”Le situazioni stanno cambiando in fretta. Dobbiamo sapere che, per i problemi di sicurezza, per una difesa collettiva, gli apparati militari attuali non sono più sufficienti; vi è bisogno di più gente che sostenga gli eserciti. E’ l’intera società che deve sentirsi coinvolta in guerra, che le piaccia o no”. Siamo in guerra!

Antifascismo e storia alla ribalta, se i giornalisti si danno al teatro

Luca Telese

Sono stati giorni in cui in tutta Italia si è parlato di storia e memoria. A Roma lo ha fatto la Festa della Resistenza, alla sua seconda edizione dal 23 al 25 aprile, che ha visto un susseguirsi incontri, lezioni, e spettacoli promossi e sostenuti dall’assessorato alla Cultura con l’Anpi e la curatela degli storici Davide Conti (qui la recensione del suo Fascisti contro la democrazia) e Michela Ponzani (qui l’intervista)  dal vivo e con il suo libro Processo alla resistenza edito da Einaudi che ricostruisce i processi ai partigiani nel dopo guerra mentre i fascisti venivano assolti.

E’ stato un festival che ha visto molti appuntamenti importanti, dedicati alla letteratura e la guerra (con Il sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino raccontato da Marco Belpoliti), “Le donne e la Resistenza” (una lezione di Benedetta Tobagi tratta dal suo libro Einaudi La Resistenza delle donne), il racconto delle tappe della Liberazione dal nazifascismo fatto da Michela Ponzani con Corrado Augias.

In questo 25 aprile appena trascorso, e mai così contrastato da forze avverse alla libertà e alla giustizia sociale, colpisce la quantità di eventi tra la cronaca e lo spettacolo teatrale vero e proprio, una tendenza che sta crescendo con storici, giornalisti, intellettuali che hanno preso l’iniziativa come se televisione, network e la stessa carta stampata non bastassero più. Va detto che già da qualche tempo i giornalisti della redazioni cultura avevano cominciato a costruire piccoli e grandi spettacoli. Nel luglio 2023, per esempio, lo storico, studioso di ebraismo Andrea Vitello aveva scritto su Left di uno spettacolo su Gramsci messo in scena da Gad Lerner e Silvia Truzzi del Fatto quotidiano. Lerner aveva trovato tre temi liceali del grande politico e intellettuale sardo, conservati in un armadio dal partigiano Francesco Scotti, primo segretario della federazione comunista milanese e deputato all’Assemblea costituente. Su questa grande suggestione era nato lo spettacolo di Lerner e Truzzi, Il sogno di Gramsci, partendo dalle tre pagine autografe in cui il giovanissimo studente già enunciava le convinzioni che più tardi avrebbe teorizzato ampiamente nei Quaderni dal carcere. Lerner raccontava in quell’occasione di come dieci anni prima della nascita della Costituente, Gramsci parlando con i compagni reclusi, teorizzasse la necessità di unire tutte le forze antifasciste per ricostruire il Paese. E di come la Scuola fosse importante per i giovani, e la cultura per il progresso di una società. Discorsi attualissimi, che infiammano ancora il dibattito nel nostro Paese. Ma dicevamo della “contaminazione” tra giornalismo e teatro: nel 2022, all’inizio della guerra in Ucraina, Ezio Mauro e Bernard Henry Levi, al Teatro Franco Parenti di Milano, spiegavano al pubblico quelle che, secondo loro, erano le ragioni del conflitto, in un confronto che conservava i termini di una pièce teatrale.

Nel mese scorso al Teatro Miela Bonaventura di Trieste i giornalisti impegnati contro la mafia Attilio Bolzoni (voce de il Domani, autore de Il capo dei capi, Parola d’onore, Il Padrino dell’Antimafia), Giovanni Tizian (autore de Il silenzio in Italia 1992-2022), Lucio Luca (firma di Repubblica, autore de La notte dell’antimafia) hanno ricordato con uno spettacolo un collega, ucciso moralmente dalla ‘ndrangheta attraverso una rete sottile e opprimente di false accuse, che hanno poi finito per farlo morire fisicamente.
Citiamo ancora Stefano Nazzi (giornalista di cronaca nera al Post) che da poco ha messo in scena al Teatro Arcimboldi di Milano (il Tam) il suo Indagini. Ricordiamo lo stesso Roberto Saviano, uno dei primi a sperimentare la formula di cronaca teatrale, che sarà in scena a maggio con il suo Sex and Mafia, la vita intima del potere criminale. Vogliamo citare anche il teatro politico di un giornalista, ma anche scrittore e collaboratore di Left come Giulio Cavalli nel 2009 con Do ut des Mafia e potere e nel 2011 L’innocenza di Giulio (Andreotti) e oggi in giro con Falcone, Borsellino e le teste di minchia e altri spettacoli di impegno civile.

La forma è sempre quella del pamphlet, fra inchiesta e narrazione in cui realtà e racconto si uniscono per ricostruire le ragioni, per descrivere i personaggi di cui si parla, per suggerire ipotesi.

Fra i primi giornalisti a praticare questa forma è stato Marco Travaglio, direttore del Fatto quotidiano, da anni quasi sempre in scena, dopo i successi di Slurp nel 2016, un recital definito nella ottimistica presentazione, come “terapeutico” verso i danni provocati dalla peggior classe politica del mondo, è tuttora in tournée in varie città italiane, fino al 20 maggio prossimo, al Lirico Gaber di Milano, con I migliori danni della nostra vita.

Cosa unisce queste differenti esperienze? In fondo tutti i giornalisti vogliono indagare lo stesso argomento: i poteri perversi di politica, finanza e di un certo tipo di informazione che riescono a condizionare il voto degli italiani. In tutte queste cronache-spettacolo si parla del clima di restaurazione, della guerra, (le guerre) infinita, della perdita di rapporto con quella che veniva chiamata “questione morale”. Locuzione famosa che chiama in causa, quasi per associazione di idee, l’ultima fatica letteraria di un altro volto noto di La7, quello di Luca Telese. La scorta di Enrico, il libro che parla della vita del leader del Pci Enrico Berlinguer attraverso i racconti e le testimonianze degli uomini che lo hanno accompagnato nella sua lunga vita politica, a cominciare da Alberto Menichelli, il suo autista, la sua “ombra”, presente nella sua vita pubblica e privata, vicino a lui in tutti i momenti salienti della storia degli ultimi quaranta anni. E poi Lauro Righi, Dante Franceschini, Pietro Alessandrelli, Torquato “Otto” Grassi, Alberto Marani, Roberto Bertuzzi. In filigrana si legge la storia, il dopo’68 in Italia, l’invasione di Praga, lo strappo con l’Unione sovietica, la strage di piazza Fontana nel dicembre 69 di matrice neofascista. Nel libro e spettacolo di Telese si parla anche di “questione morale” ricordando una intervista concessa da Berlinguer a Scalfari nel Luglio 1981 in cui dichiara “i partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela”. Dunque la figura di Enrico Berlinguer raccontata attraverso le testimonianze, i racconti, gli aneddoti, dei suoi fidatissimi uomini, delle compagne, delle figlie, che però restano in secondo piano, come un’eco familiare che non turba lo svolgersi del racconto, anzi lo arricchisce di umanità. In questa narrazione di Telese sfilano i più noti dirigenti comunisti, visti attraverso la lente della quotidianità, ma anche battaglie come quella per il divorzio votato in Parlamento nella proposta di legge, relatori l’ex partigiano Loris Fortuna e il giornalista-imprenditore Antonio Baslini, deputato liberale. In quel momento si ricorda nel libro, i Radicali non erano rappresentati alla Camera né in Senato, senza possibilità di trascinare voti a favore del No, ma fu grande la loro partecipazione. I documenti nel libro di Telese citano il discorso pronunciato dal leader a Padova nell’aprile ’74, in cui invita a votare No e ricordano il maggio ‘74 negli studi Rai a via Teulada in cui Berlinguer scherza dietro le quinte di Tribuna politica sui comunisti sfascia famiglie, prima di leggere un serissimo discorso in cui conclude “le donne della famiglia Cervi votano No”.
E poi l’illusione del compromesso storico e l’abbandono di quello che forse aveva capito essere stato un errore. I duri rapporti con il Psi, gli anni faticosi culminati in una ultima campagna, nel 1984, nell’ultimo discorso in cui parte dalla pace e dal disarmo. Scritto con la distanza che si addice al cronista, il libro chiede alla messa in scena che ne è stata tratta la partecipazione di attori-autori:Francesco Freyrie, Michela Gallio e Andrea Zalone che daranno voce ai personaggi e sarà presentato al Teatro Sala Umberto di Roma il 20 maggio, con repliche il 24 al Piccolo Teatro Grassi di Milano nell’ambito del Festival Gaber e l’11 giugno all’Arena del Sole a Bologna. Ma ci chiedevamo: perché il teatro? Perché non bastano tv e web e social? “Forse perché” , ci ha suggerito Giuseppe Cederna, il bravissimo interprete di tanto cinema (Salvatore, Amelio, Scola, Bellocchio, Chiesa) e tanto teatro (con Lavia, Orsini, Giorgio Gallione), scrittore, appassionato esploratore del mondo, “Perché il tempo teatrale non è così superficiale come quello televisivo, aiuta il pensiero. Chi parla ad un pubblico che vive e respira con lui, guarisce dalla frustrazione che coglie chi è obbligato a scrivere in poche righe tutto quello che si vorrebbe dire”. Il rapporto cambia, diventa più intimo, più complesso” Parola di attore.

A Mesagne nasce il piccolo cinema Ken Loach diretto da teen-agers

Io, Daniel Blake mi è piaciuto veramente tantissimo perché si basa su tre temi che mi stanno a cuore: la disuguaglianza sociale, la dignità umana e la solidarietà. Questi temi trattano le difficoltà della vita comune. E poi secondo me Ken Loach ha diretto il film con una sensibilità che lo ha fatto arrivare ai massimi livelli, infatti ha vinto la Palma d’oro”. Questo mi dice in un vocale Noemi, 13 anni, una studentessa che segue il mio corso di cinema nell’ambito del progetto formativo del Messapica Film Festival.

Noemi, assieme a tanti altri ragazzi tra gli 11 e i 18 anni, sabato 27 Aprile  ha inaugurato a Mesagne, in Salento, il Piccolo Cinema Ken Loach una sala unica nel suo genere: un cinema interamente gestito da teen-ager e dedicata al grande regista inglese.
Un progetto nato nel solco della formazione al linguaggio audiovisivo che assieme a Simone Amendola realizziamo in tutta Italia da oltre quindici anni con l’associazione Blue Desk.
Appena la pandemia ce lo ha permesso siamo tornati nelle scuole, e per la prima volta a Mesagne coinvolgendo gli studenti delle scuole superiori di primo e secondo grado. Quello che sta accadendo a Mesagne testimonia che la passione è contagiosa e che il cinema ha il potere di far accadere cose straordinarie. Non solo Ken Loach, ma anche De Sica, Georges Méliès, Martin Scorsese, I fratelli Lumière, Alice Guy. I nostri studenti hanno visto Ladri di Biciclette e si sono emozionati moltissimo, hanno realizzato diversi cortometraggi, hanno ideato un canale Instagram dedicato a recensioni e pillole di cinema, gestiscono un’arena estiva e per la settimana dello studente hanno organizzato masterclass di produzione, scenografia e recitazione. Un’onda di calore ed entusiasmo senza precedenti.

Il Piccolo cinema Ken Loach, ci tengono a specificare i giovanissimi, non sarà una sala commerciale come siamo abituati a pensare, ma un luogo dove proiettare cinema d’autore del presente e del passato e soprattutto un posto dove è possibile potersi sedere e parlare del film appena visto, scambiarsi idee e punti di vista. Recuperare una modalità di stare insieme attorno alle storie e alle emozioni di cui solo il cinema è capace.
Un progetto che crede fortemente nella visione dei film in sala, come momento di prossimità e calore tra le persone. Un regalo che i piccoli gestori fanno a tutta la comunità: un piccolo luogo inclusivo, gratuito e rivolto a tutti.
La continuità del progetto è stata di vitale importanza per arrivare alla maturazione di questo Cinema molto speciale. Determinanti nell’ultimo tratto di strada sono stati Il Comune di Mesagne e il Piano Nazionale Cinema e Immagini per la Scuola, promosso dal Ministero della Cultura e dal Ministero dell’Istruzione e del Merito, che ha sostenuto il progetto “MEFF School Lab” nell’ambito del bando per progetti di rilevanza territoriale per l’anno scolastico 2022-23.

La nascita di questo piccolo cinema però si porta dietro anche un invito molto speciale: la comunità di Mesagne si è raccolta per un toccante video-messaggio di invito al grande regista Ken Loach. “Se mangiamo insieme, restiamo uniti” è la scritta che si vede dall’alto su una lunga tavolata, un monito che arriva direttamente da The Old Oak, ultima opera del maestro inglese (Ken Loach ha dichiarato recentemente che non farà più film da regista).
Attorno alla tavolata di Mesagne siedono volti e storie molto distanti tra loro – di nazionalità ed estrazioni diverse – e tutti insieme invitano il maestro a prendere posto a tavola, durante l’estate. Il video-messaggio vuole essere un segnale chiaro e forte in un momento storico che ci vede impotenti, un invito al mondo a fare un passo in più verso l’altro.

L’idea parte da me e Simone Amendola che da oltre vent’anni abbiamo un filo con il regista, prima con la realizzazione di un backstage sul set di Ticket, poi con il documentario Quando combattono gli elefanti in cui Loach partecipa con una testimonianza significativa, infine con il Messapica Film Festival di Mesagne, che vede Mr Loach nel Comitato d’onore.

Tante linee che il 27 aprile si intersecano a Mesagne con l’inaugurazione del Piccolo Cinema Ken Loach, un sogno pilota profondamente ispirato dal cinema civile del maestro inglese, con l’auspicio per le nuove generazioni di portare avanti attraverso il cinema (e non solo) le battaglie che riguardano l’umano e la socialità, contro qualsiasi forma di chiusura e individualismo.

Il disegno originale del volto del regista, che compare nel logo del cinema, è un regalo al progetto dell’artista Alessandra Dieffe.

“Nessuno vuole la guerra”. Sicuri?

Ospite due giorni fa di una trasmissione televisiva mentre si discuteva della guerra in Ucraina mi sono ritrovato di fronte alla solita affermazione appoggiata come se fosse definitiva: «nessuno vorrebbe le guerre», mi hanno detto. È falso, falsissimo, da sempre. Le guerre sono il pane per l’industria bellica e per i suoi prodromi nelle istituzioni. 

Questa mattina su Repubblica Gianluca Di Feo smaschera l’Italia “al fianco dell’Ucraina” nelle dichiarazioni ufficiali della presidente del Consiglio, sempre concentrata a simulare un atlantismo e un europeismo che sono la negazione di tutto ciò che ha sempre detto fino a un minuto prima di salire a Palazzo Chigi. 

Per semplificare basta sapere che dal 2023 l’Italia ha fornito all’Ucraina solo armi vetuste, poco efficaci e in sensibile calo rispetto agli anni precedenti. Il governo Meloni è tra gli ultimi in Europa nell’invio di armi doppiato addirittura dalla Danimarca. 

In compenso l’Ucraina è diventato il secondo più importante cliente dell’industria bellica italiana. Nel 2023 ci sono state forniture per 400 milioni di euro verso Kiev (a pagamento, mica “solidali”) e le spedizioni comprendono anche armi offensive nonostante nessuno in Parlamento abbia mai annunciato il cambio di linea di quel famoso “solo armi difensive” pronunciato tempo fa. 

La “solidarietà al popolo ucraino” è quindi solo un ormone per gonfiare i bilanci delle industrie delle armi. È scritto nero su bianco. Con buona pace della litania ripetuta sui giornali, in radio e in tivù del “nessuno vuole la guerra”. 

Buon venerdì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Meloni e il presidente Zelensky, Kyiv, 21 febbraio 2023

Il Global painting che viene dalla Cina

Un'opera di Chen Xuanrong, in mostra al Mart

La mostra itinerante di Rovereto rappresenta un’occasione unica per conoscere la più recente produzione artistica di un Paese-continente che ha sperimentato negli ultimi decenni cambiamenti e trasformazioni epocali di dimensioni colossali e che continua ad essere al centro di un processo evolutivo ancora in corso che ne sta cambiando radicalmente le fondamenta della società e la sua stessa identità. L’arte quindi può rappresentare un’occasione unica per cercare di comprendere meglio questi processi e per cercare di comprendere la loro direzione. Il titolo di questa mostra, “global painting” (aperta fino al 5 maggio), ci offre una preziosa indicazione. La globalizzazione rappresenta, con tutti i suoi limiti e contraddizioni, l’orizzonte verso il quale si sta muovendo la società cinese, anche se con alcune sue specificità legate alla sua storia. «La Cina è un paradigma della globalizzazione in atto, ed è proprio da questo assunto che si sviluppa il percorso espositivo della mostra Global painting. La nuova pittura cinese – scrive Carlotta Scarpa in Di tutto il possibile (articolo pubblicato nel catalogo della mostra).
L’arte figurativa cinese appare in questa mostra come un vastissimo territorio finalmente aperto alle influenze della tradizione figurativa novecentesca, ma nel quale anche le proprie tradizioni artistiche vengono ricodificate alla luce del cambiamento sociale e antropologico che sta attraversando il Paese negli ultimi decenni.

Feng Zhijia, Van Gogh’s room, 2023

La scelta di Lü Peng, il curatore di questa mostra, di puntare il riflettore su una generazione, quella nata negli anni ottanta, ha permesso di offrire al visitatore un quadro estremamente variegato e complesso; difficile ridurre a un minimo comune denominatore le opere dei 24 pittori (tra cui tre pittrici) presentati, tuttavia se c’è qualcosa che li accomuna, è l’audacia (a volte l’impudenza) nel mettere il visitatore di fronte a una visione del mondo che disorienta, provoca sconcerto, poiché mette in discussione le sue certezze e i suoi punti di riferimento, attraverso un uso persino impudente della chiave ironica e grottesca, ma a volte anche di quella lirica. Gli elementi e gli strumenti della tradizione figurativa novecentesca vengono usati da questi giovani pittori cinesi per stravolgerne i canoni e i principi, mescolando e contaminando diversi linguaggi figurativi; nei loro quadri si possono ravvisare gli echi lontani dello stile real-socialista, ma questa volta distorto, al servizio di una narrazione radicalmente diversa, decisamente meno ottimista. Allo stesso tempo è facile scorgere riferimenti alla Pop-art,, ma anche in questo caso in un orizzonte diverso da quello della società nordamericana degli anni 60, alla Street-art e ai graffiti, ovviamente del tutto fuori-contesto, giustapposti a riferimenti stravolti alla pittura fiamminga (Memling. Hieronymus Bosch e Van Eyck, questi ultimi a volte “citati” letteralmente) magari giustapposti a riferimenti al mondo dei cartoni animati e dei manga, in una visione totalmente dissacrante che mette in discussione l’intera narrazione euro-centrica dell’arte. Questi pittori dimostrano non solo di conoscere bene, ma anche di sapere usare i codici figurativi dell’arte di tutto il mondo, sono in grado di decodificarli e ri-codificarli, combinandoli in modo originale e provocatorio. Tra l’altro dimostrano di conoscerli profondamente: sorprendono, ad esempio, gli evidenti riferimenti al mondo figurativo di De Chirico, presenti in almeno due autori, utilizzato come tramite per (r)aggiungere anche la classicità greco-romana. Come se l’occhio di questi giovani pittori avesse potuto vedere, e di conseguenza assimilare, la storia dell’arte per la prima volta nella sua totalità, grazie all’apertura di una società nella quale lo stato ha smesso di intervenire per indirizzare e censurare l’espressione artistica. Come se il dilemma tra realismo e astrazione intorno al quale l’arte del novecento si era impantanata, venisse superato di slancio. “L’esaltazione della vita come flusso incontenibile che va oltre il territorio, il tempo e la lingua è un aspetto costante e aperto all’eterno farsi e disfarsi dell’esistenza” scrive in proposito Carlotta Scarpa nel citato articolo.

Meng-Site-Galaxy-Dust-2017

Lü Peng, nel suo articolo La nuova pittura cinese diventa globale che introduce il catalogo, scrive: “ho cominciato a utilizzare l’espressione «nuova pittura cinese» nel 2007, collocandola nell’intersezione tra Realismo cinico e Pop politico”. Probabilmente questa è la definizione analitica nella quale, seppure per approssimazione, si potrebbe ricomprendere tutte le 108 tele in mostra (anche perché a formularla è colui che le ha selezionate e presentate). Carlotta Scarpa, invece, nel suo citato articolo le definisce in modo sintetico come “la restituzione di epifanie improvvise che, pur nascendo all’insegna di un’assoluta libertà espressiva svincolata da una tematica comune, si ibridano senza confondersi in un parallelismo che coinvolge ogni esperienza personale in un racconto collettivo, in bilico tra una narrazione corale, che si fa sempre più minuziosa, e un’unica immagine, di estrema sintesi, senza sequenza”.
A mio avviso la mostra di Rovereto rappresenta prima di tutto una celebrazione della pittura. La dimostrazione più lampante che, senza nulla togliere a tutte le altre forme di espressione artistica e ad altri medium, la tela possa essere il supporto sul quale l’artista raffigura. E forse prima di tutto è proprio questa fiducia nella raffigurazione a unire i 24 artisti di questa mostra, che d’altra parte non appaiono per nulla ingenui o sprovveduti. Sullo sfondo si intravede la “mano invisibile” del mercato dell’arte, col quale la generazione degli artisti nati negli anni Ottanta ovviamente ha dovuto confrontarsi. La figurazione rappresenta il linguaggio che i giovani artisti di questa mostra dimostrano di avere assimilato e ri-codificato in modo originale, anche perché il linguaggio figurativo non era stato abbandonato dalla generazione precedente. Quegli artisti, che avevano vissuto le repressioni dopo i fatti di Tienanmen, e che avevano dovuto lasciare il paese, avevano messo l’arte al servizio della rivendicazione della libera espressione artistica. Questa generazione di artisti nati negli anni 80 invece per la prima volta ha avuto la possibilità di esprimersi liberamente e di proporre le loro opere al mercato mondiale dell’arte.
L’arte contemporanea cinese infatti è anche un rilevante fenomeno di mercato, ma che non cessa di stupire per la sua grande vitalità. I 24 artisti di questa mostra non offrono una visione univoca, non ci danno risposte sulle prospettive presenti e future del loro Paese. Attraverso i loro quadri invitano il visitatore a porsi lui stesso queste domande, lo provocano, mettendo in discussione la visione eurocentrica dell’arte.

Xu Dawei, Red sun, 2023.

Squadristi erano i fascisti. Di certo non gli studenti che oggi manifestano per la pace

illustrazione di Marilena Nardi

Ogni volta che si paventa un rischio segue la frase di rito, «Spero di sbagliarmi», accompagnata dal consueto «ma». Questa volta non occorre neanche fare lo sforzo, perché sono proprio i diretti interessati a dare conferma di quanto ho sostenuto sul numero di Left di aprile, nell’articolo Come la destra ribalta il senso delle parole. E come sempre in queste situazioni, al timore si accompagna purtroppo un’amara soddisfazione per aver avuto ragione. In queste pagine di left ho cercato di riflettere sul fatto che questo governo manipola linguaggio e comunicazione, per alterare la visione del Paese, soffermandomi sulla parola squadrismo.

Ora, è interessante constatare come l’altro giorno, dopo gli usi passati della presidente Meloni e del ministro Sangiuliano, un altro ministro, Lollobrigida, sia tornato a servirsi dello stesso termine, esattamente nei modi che notavamo. L’episodio, di cui rende conto La Stampa in un articolo del 23 aprile, rientra nella cornice della “Conferenza degli addetti scientifici e spaziali e degli esperti agricoli 2024”, che si è tenuta in Piemonte al Castello del Valentino, alla presenza del presidente della Regione e del rettore del Politecnico di Torino, e con la partecipazione di tre ministri: Bernini (università e ricerca), Tajani (esteri) e Lollobrigida appunto (agricoltura). I tre esponenti dell’esecutivo – ripetendo il mantra secondo cui l’università non si deve schierare, non deve prendere una posizione ma restare neutra – sono tornati ad attaccare gli studenti universitari che manifestano per chiedere che il massacro di Gaza cessi, e che l’Italia sospenda alcuni accordi fra le nostre università e quelle israeliane. In questa occasione il ministro Lollobrigida non ha esitato a dire: «Credo che i padri costituenti intendessero questo come opposizione ferma a quello che aveva rappresentato il fascismo prima e che ora rappresentano le squadracce organizzate che tendono di utilizzare gli stessi metodi condannabili che il fascismo usava allora». Ecco allora che ancora una volta dei giovani, che esprimono il loro dissenso rispetto alle posizioni del governo (alzando la voce, attaccando in modo duro, se serve anche occupando aule e sedi degli organi universitari, ma questa non è violenza squadrista), che chiedono un maggior rispetto dei diritti internazionali per arrivare alla pace, vengono marchiati – in modo inaccettabile – come fossero delle camicie nere (proprio come lo furono Almirante e Rauti e molti esponenti della fiamma dell’Msi) per il semplice fatto di aver manifestato, o essere entrati per far sentire la propria voce in un Senato accademico, presentato chissà perché da Lollobrigida come luogo sacro: i luoghi di rappresentanza, proprio per la loro natura, non devono vivere separati dalla popolazione (idea di sacralità del potere), ma saper interagire, e quando serve “accogliere” nelle più diverse forme, in base alle circostanze (idea democratica certo estranea a questa classe politica), perché gli studenti devono far sentire la loro voce nelle sedi che ritengono opportune, basandosi certo su una riflessione matura e seria, che, pur con difetti o problemi, non si può dire che sia mancata in questo caso. E comunque, entrare in una sala per prendere la parola, magari alzando la voce ma senza fare alcun atto violento, non mi sembra un gesto paragonabile alle operazioni delle squadracce… Si continua a stravolgere la realtà delle cose, presentando un mondo alla rovescia, e scegliere di usare queste parole ci sembra che in qualche modo faccia purtroppo ricadere a distanza – nella visione in realtà non tanto taciuta di questo governo – le stesse accuse contro i giovanissimi manifestanti pisani di due mesi fa. Allora come oggi, molti ministri dimostrano ignoranza della Costituzione, che infatti vorrebbero cambiare: hanno sostenuto che le manifestazioni sono contro la legge e che si possono organizzare solo se vengono autorizzate, e dunque ignorano l’art. 17, che sancisce la libertà di riunirsi pacificamente senza dover chiedere alcun permesso (al massimo si deve dare un preavviso), e l’art. 21, che consente di manifestare in assoluta libertà le proprie idee (e tutela la libertà di stampa, sempre più minacciata come risulta dal recente caso Scurati, e dalle proposte di carcere per i giornalisti). C’è una mancata comprensione da parte di questi politici di una serie di aspetti. L’università acritica, che non prende posizione, ha smesso di essere università, cioè luogo in cui si sviluppa il pensiero critico (capace di analizzare il reale nella sua complessità, ponendo problemi per avanzare soluzioni e accrescere la conoscenza), luogo della dialettica, che prevede anche contrapposizioni forti, senza con questo negare mai all’altro dignità e rispetto (lezione che la destra dovrebbe cercare di fare un po’ sua). L’università non entra in guerra, e ci mancherebbe, dato che la cultura è dialogo e scambio, ma come può essere università, come può concorrere alla formazione intellettuale dei ragazzi, se chiede loro di non guardare al mondo, di non reagire davanti a ciò che accade, riflettere criticamente e prendere una posizione? Inoltre, come chiarito dal rettore  dell’Università per stranieri di Siena Tomaso Montanari in recenti interviste, salvo eccezioni limitate e da non generalizzare, gli studenti stanno protestando non per chiedere la sospensione degli scambi e dei rapporti tout court con gli atenei israeliani, anche perché si sa bene che a Tel-Aviv e Gerusalemme sono numerosi gli intellettuali che accusano e criticano in modo aspro l’operato del governo Netanyahu, odierno e passato, più di quanto non si faccia in Occidente. Si sta chiedendo la sospensione di un preciso accordo, non direttamente fra università ma fra governi, siglato dal nostro ministero degli Affari esteri, e lo si fa perché parte di questi accordi potrebbe portare a impieghi in ambito militare dei risultati delle ricerche. Queste paure non possono essere minimizzate – «tutto può essere trasformato in arma», o «allora stacchiamo internet, che è nato in ambito militare», come ha detto la ministra Bernini – perché queste istanze non vengono avanzate in assoluto, ma per una situazione specifica, dato che è in corso una guerra tremenda e sproporzionata che vede coinvolto il Paese con cui si hanno gli accordi. Rispondere come ha fatto la ministra non ha senso, e poi, per capire che non si possono mettere in dubbio i timori sollevati dagli studenti, basta guardare il peso e l’ingerenza che aziende come Leonardo S.p.A. hanno nei programmi di ingegneria di vari atenei, per finanziare bandi e dottorati. Ma nonostante tutto questo, abbiamo assistito nelle ultime settimane a continue manganellate (Bologna, Roma, Torino), che ignorano il monito del capo dello Stato dello scorso febbraio ( “I manganalli con i ragazzi sono un fallimento“), e che certo non rappresentano la reazione utile a momenti di tensione, che pure si possono generare in una manifestazione. Ci possono essere stati purtroppo soggetti che sono andati oltre il limite, ma non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, strada invece imboccata sistematicamente dall’esecutivo in situazioni di questo tipo. E poi, se i manifestanti devono mantenere comportamenti pacifici, le forze dell’ordine devono ricordarsi che gli strumenti più potenti a loro disposizione generano una disparità fra le forze in campo, e su questo punto si misura la proporzionalità dell’azione, che rientra fra i doveri di polizia e carabinieri (la manganellata come risposta ad un insulto, per quanto irrispettoso, è un atto senza senso, e gravissimo). Ma soprattutto, ci siamo avvicinati a questo 25 aprile in un clima preoccupante. Ministri di una maggioranza che sembra ignorare, fra gli altri, gli articoli 17 e 21, come cardini fondanti dell’antifascismo (in opposizione netta al ventennio), si permettono di avanzare interpretazione delle intenzioni dei padri costituenti, quando con l’idea del premierato hanno già fatto capire che il nucleo principale dell’equilibri costituzionali è a loro estraneo. E continuano imperterriti nella loro operazione di riscrittura, inquinando il linguaggio, senza nemmeno essere tanto originali visto che tornano sempre sulle stesse parole, come squadrismo e squadraccia, lanciando segnali ambigui. E si tratta dello stesso ministro che, nella confusa comunicazione costruita ad hoc, è arrivato al punto di affermare, sempre pochi giorni fa, che la parola antifascismo sarebbe generica, e anzi avrebbe causato molte morti, e che per questo loro la rifiutano, dimenticandosi programmaticamente che l’antifascismo è sempre e comunque la giusta reazione (che certo deve evitare a sua volta la violenza, cosa non riuscita in alcuni casi purtroppo) contro fascismo e neofascismo, le vere cause di innumerevoli stragi in Italia e in Europa.

Matteo Cazzato è dottorando in filologia all’Università di Trento

 

Quindi è fascista

Torino, 25 aprile, foto Marioluca Bariona

Il quotidiano Il Tempo, diretto da quel Tommaso Cerno che è uno dei troppi abbagli del Partito democratico renziano, titola “Piazza rossa” con caratteri rossi e scrive “così hanno rovinato il 25 aprile”. Con l’abituale vigliaccheria che li contraddistingue manca il soggetto ma c’è un elenco: “l’allarme anarchici nel nome di Cospito” (roba che galleggia ormai solo nel cervello di qualche complottaste indomito), “l’antisemitismo e la paura della comunità ebraica”, “i testimonials: da Salis a Scurati fino a Landini” e la stentorea conclusione “oggi la Liberazione non è più la festa di tutti”. 

Daniele Capezzone su Libero diretto dall’ex portavoce della presidente del Consiglio Mario Sechi scrive “ci hanno letteralmente sfinito con l’uso politico del 25 aprile”. Sempre in prima pagina Francesco Storace scrive un pezzo intitolato “25 aprile, tutto pronto per lo show”. Uno show.

Su Il Giornale Alessandro Sallusti definisce la Festa della Liberazione “una baraccata” e titola il suo editoriale “perché oggi non posso dirmi antifascista”. 

Su La Verità in prima pagina titolano “La festa del 25 aprile forse è meglio abolirla”. Notate il “forse”, sinonimo della vigliaccheria di chi insegue la provocazione fine a se stessa consapevole di essere molto vicino al fare la figura del cretino. 

Il 25 aprile è divisivo solo per chi è fascista. Il 25 aprile è politicizzato solo per chi persegue una politica che non prevede l’antifascismo, e quindi è fascista. Il 25 aprile imbarazza solo chi non riesce a fare pace con la Liberazione e quindi è fascista. 

Buon 25 aprile.

foto di Marioluca Baronia

Turin, Italy. 24 April 2024. Torchlight procession before April 25th. Credits: M.BARIONA

 

Il senso di Liberazione del nostro 25 aprile

Murale di Orticanoodles a Milano, con i volti di Sandro Pertini, Teresa Noce, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Giuseppe Di Vittorio e Teresa Mattei

Nel nostro incerto tempo presente il modo migliore per conferire un orizzonte di senso compiuto all’anniversario dell’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 come data fondativa del nuovo Stato italiano (che diverrà Repubblica il 2 giugno 1946 con il voto popolare) non è certo quello della retorica celebrativa.
Le donne e gli uomini della Resistenza hanno sempre insistito sulla necessità di utilizzare quel lascito storico come chiave interpretativa per comprendere cosa fosse stato il fascismo nella sua identità economico-sociale e politico-culturale nonché quali e quanto profonde fossero state le sue radici dentro il corpo della nazione italiana. Su questo concetto tornavano spesso, negli ultimi anni della loro vita, comandanti partigiani come Rosario Bentivegna (Gruppi di azione patriottica di Roma e Brigate Garibaldi in Jugoslavia) o Massimo Rendina (Brigate Garibaldi in Piemonte).
Era la loro capacità di cogliere le fragilità sociali, civili e culturali della società italiana a spingerli ad indicare quella strada come la principale eredità da valorizzare della guerra di Liberazione. Come se prima ancora di solennizzare l’epica resistenziale fosse indispensabile capire i motivi per cui l’Italia fosse giunta alla dittatura terroristica, alle guerre coloniali, alle leggi razziali, alle aggressioni militari nei Balcani e al «Patto d’acciaio» con i nazisti.
Alla fine della prima guerra mondiale il fascismo si presentò come un fenomeno eversivo inedito, esprimendo caratteri peculiari che trovarono nella nostra società (e non altrove) le condizioni per l’avvento al potere di un regime reazionario per la prima volta strutturato su base di massa ovvero in grado di raccogliere un largo consenso in tutti gli strati della società nazionale.
Un favore cui fece eccezione la classe operaia che alla Fiat di Torino accolse sempre con malcelata ostilità le visite di Mussolini nel 1932, 1934 e 1939 e che con gli scioperi del marzo 1943 e del marzo 1944 (sotto occupazione nazista) impresse un segno indelebile a quella che sarebbe stata la Liberazione.
Il fascismo fu senz’altro quella «autobiografia della nazione» descritta da Piero Gobetti, caratterizzata dall’arretratezza culturale e politica del Paese e dalle aporie strutturali del suo processo di unificazione nazionale. Insieme fu anche espressione di quel «sovversivismo delle classi dirigenti» indicato da Antonio Gramsci il cui esito venne preconizzato dallo stesso fondatore del partito comunista sulle pagine de L’Ordine Nuovo il 21 luglio 1921: «Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese.
Un semplice calcolo di utilità induce a prevedere che la classe dominante vorrà ad un certo punto amalgamare anche ufficialmente questi due apparecchi. Avremo allora il “colpo di Stato”».
Lontano dall’essere una «parentesi» della nostra vicenda storica (come invece sostenne Benedetto Croce) il fascismo prese forma grazie alla postura di significative componenti della società e rimase, seppur in modo carsico, una costante anche nel secondo dopoguerra, collocandosi – affermò Aldo Moro nel 1962 – «là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia, là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà, là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza».( Vedi il libro di Davide Conti, Fascisti contro la democrazia, Einaudi, ndr).
Questi elementi riemersero già all’indomani della fine della seconda guerra mondiale nel quadro della transizione italiana dal fascismo alla democrazia, grazie alla «mancata Norimberga italiana» ed alla «continuità dello Stato».
La prima garantì (per ragioni geopolitiche legate alla guerra fredda che incardinava l’Italia come avamposto anticomunista dell’Alleanza Atlantica) ad oltre mille criminali di guerra, appartenenti al regio esercito e alle camicie nere, iscritti nelle liste delle Nazioni Unite di evitare i processi per le fucilazioni, le deportazioni, le torture, le devastazioni e le violenze perpetrate nei confronti delle popolazioni civili in tutti i Paesi occupati e invasi dal dittatura di Mussolini (Albania, Grecia, Jugoslavia, Urss, Francia, Libia, Etiopia).
La seconda emerse dal fallimento dei processi di epurazione e defascistizzazione delle istituzioni dello Stato, consentendo il mantenimento nel proprio ruolo di tutto il personale amministrativo, militare, giuridico e ministeriale che aveva servito il regime.
Molte di queste figure diverranno protagoniste di episodi tragici dell’Italia repubblicana. Ettore Messana e Ciro Verdiani, ovvero gli ex questori della città di Lubiana occupata dagli italiani, saranno indicati nella sentenza del Tribunale di Viterbo del 1953 sulla strage di Portella come i due capi dell’Ispettorato di pubblica sicurezza in Sicilia in stretti rapporti con il bandito Salvatore Giuliano e gli uomini della sua banda che realizzarono l’eccidio dell’1 maggio 1947.
Giuseppe Pièche, capo della III sezione del controspionaggio del Servizio informazioni militari fascista fu vice-comandante generale dell’Arma dei carabinieri e responsabile delle schedature di massa del casellario politico centrale contro i dissidenti. Nel 1941 venne inviato in Jugoslavia ad organizzare la polizia politica dei criminali croati degli ustascia. Passata indenne l’epurazione, nel 1970 sarà coinvolto nel golpe Borghese (poi assolto) mentre suo figlio Augusto (anche lui ufficiale del Sid) sarà tra gli organizzatori del viaggio, dell’aprile 1968, dei fascisti di Avanguardia nazionale e Ordine nuovo nella Grecia dei colonnelli da cui torneranno istruiti alle tecniche eversive deflagrate nelle stragi di Piazza Fontana a Milano (1969), di Piazza della Loggia a Brescia e del treno Italicus (1974).
La continuità dello Stato, in nome dell’anticomunismo, determinò il congelamento dei principali istituti democratici previsti dalla Costituzione repubblicana: la Corte costituzionale prese forma nel 1956 (primo presidente Gaetano Azzariti ovvero l’ultimo presidente del tribunale della razza fascista); il Consiglio superiore della magistratura nel 1959, la riforma del sistema dell’istruzione nel 1969; le regioni e lo statuto dei lavoratori nel 1970; il referendum e la legge sul divorzio nel 1974; il servizio sanitario nazionale e la chiusura dei manicomi nel 1978; la riforma dello diritto di famiglia nel 1981; l’introduzione del reato di tortura nel codice di procedura penale nel 2014. Al decennio del congelamento (1945-1955) subentrò, sotto la spinta dei movimenti operaio, giovanile e delle donne, quello dell’applicazione costituzionale (1968-1978) che fornì al Paese la più grande estensione dei diritti mai raggiunta.
Il mandato che era stato assegnato dalla Resistenza alla Costituzione trovò finalmente esercizio e con esso l’assunzione dei paradigmi valoriali che avevano rappresentato lo spirito ed il corpo della lotta partigiana tanto nella vita di brigata in montagna quanto in quella nelle cellule guerrigliere dei Gap e delle Sap in città.
La questione del fascismo, pur presente nelle forme terroristiche delle stragi e dai tentativi di golpe, appariva sciolta dentro il processo di partecipazione politica e democratica di milioni di donne e uomini iscritti ai partiti ed ai sindacati o militanti nei movimenti. L’antifascismo si sostanziava attraverso l’allargamento a base di massa dei diritti prima ancora che nei divieti delle leggi penali (che pure furono applicate contro il movimento politico Ordine nuovo nel 1974 e contro Avanguardia nazionale nel 1975).
Tuttavia la storia insegna che le spinte regressive tendono ad emergere e riemergere dal suo gorgo quando il sistema democratico viene meno alle sue funzioni essenziali. Così era stato ai tempi della crisi dello Stato liberale, da cui nacque il fascismo, così è oggi laddove la crisi della democrazia si mostra come un fattore internazionale che attraversa, seppur in forme distinte, gli Usa come l’Argentina; l’Italia come l’Ungheria; la Francia come le storiche socialdemocrazie scandinave. Tali destre plurali a base di massa trovano in questo contesto la possibilità di risignificare le loro possibilità di rappresentanza nella società globale per il tramite di istanze corporative e neocorporative che collidono con gli interessi collettivi e generali tanto sul piano economico-sociale quanto su quello dei diritti. Su questo terreno di conflitto la democrazia repubblicana deve recuperare il suo carattere intrinsecamente antifascista ovvero rispondere alle crisi del presente con una mobilitazione ed un conflitto legittimo per l’applicazione integrale della Costituzione, contro il tentativo di suo stravolgimento (dal premierato all’autonomia differenziata) e per raccogliere un nuovo consenso sociale attorno agli istituti nati dalla Resistenza. È qui che si trova il senso del 25 aprile oggi.

L’autore: Storico, consulente delle Procure di Bologna e di Brescia (per le stragi del 1980 e 1974), Davide Conti ha scritto, tra i suoi ultimi libri, “Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976″ (Einaudi, 2023).  Qui la recensione di Left

Dal 23 al 25 aprile la Festa della Resistenza a Roma (qui il programma)

Il Rapporto Amnesty International 2023-2024: a Gaza è la fine del diritto internazionale

Il quasi totale collasso del diritto internazionale, l’escalation delle guerre di cui pagano le conseguenze soprattutto le popolazioni civili, l’uso, privo di controlli, delle nuove tecnologie e dell’intelligenza artificiale per alimentare odio, generare confitti e controllare il dissenso e il continuo attacco alle donne e alle minoranze. E anche, per fortuna – e questa è la nota di speranza –  una straordinaria mobilitazione popolare di milioni di persone in tutto il mondo. Il Rapporto 2023-2024 di Amnesty international (in Italia viene pubblicato da Infinito edizioni) che contiene un’analisi dei diritti umani in 155 Paesi, è sconfortante. Cogliere i singoli episodi di cronaca e di politica internazionale e italiana, filtrati attraverso la lente dei diritti umani, significa vedere un’umanità che rischia di tornare indietro.

Il ritorno a prima del 1948, l’anno della Dichiarazione universale dei diritti umani? Il rischio è grande e lo scrive nella prefazione del Rapporto la segretaria generale di Amnesty Agnès Callamard: «“Mai più”, aveva dichiarato il mondo all’indomani della guerra globale con i suoi circa 55 milioni di morti civili, di fronte all’orrore abissale di un Olocausto che vide lo sterminio di sei milioni di ebrei e di milioni di altre persone. Ciononostante, nel 2023, le lezioni morali e legali del “mai più” sono andate in mille pezzi». «In seguito agli orribili crimini perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023 – prosegue Agnès Callamard -, quando oltre 1.000 persone, per lo più civili israeliani, sono state uccise, migliaia ferite e 245 prese in ostaggio, Israele ha avviato una campagna di rappresaglia che è diventata una punizione collettiva. Si tratta di una campagna di bombardamenti deliberati e indiscriminati su civili e infrastrutture civili, di negazione dell’assistenza umanitaria e di una carestia pianificata».

Agnès Callamard, segretaria generale Amnesty International © Esther Genicot

Alla fine del 2023, il bilancio era di 21.600 palestinesi uccisi, per la maggior parte civili. Il 23 aprile scorso, secondo il ministero della Sanità di Hamas il numero delle vittime è salito a 34.183. E poi la distruzione: cancellate le infrastrutture civili, 1,9 milioni di palestinesi sfollati, all’interno del Paese e privati di acqua, medicinali, assistenza sanitaria. Oggi essere palestinese, continua la segretaria generale di Amnesty, significa essere precipitati in una situazione peggiore, quanto a distruzione, della Nakba del 1948, quando più di 750mila palestinesi furono sfollati con la forza.

«Per milioni di persone in tutto il mondo, Gaza simboleggia ora il totale fallimento morale di molti degli artefici del sistema del secondo dopoguerra: il loro fallimento nel supportare l’impegno incondizionato verso l’universalità e la nostra comune condizione umana, e l’impegno del “mai più”. I principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, dalle Convenzioni di Ginevra, dalla Convenzione sul genocidio e dal diritto internazionale dei diritti umani sono stati traditi», sottolinea Callamard. E la responsabilità non è solo di Israele, ma anche dei suoi alleati: il rapporto indica l’uso del potere di veto da parte degli Usa per paralizzare per mesi il Consiglio di sicurezza sulla necessaria risoluzione per il cessate il fuoco. Sotto accusa anche “i doppi standard” dei Paesi europei come Germania e Regno Unito che hanno giustamente protestato contro i crimini di guerra della Russia e di Hamas ma contemporaneamente hanno rafforzato l’operato di Israele e il ruolo delle autorità statunitensi nel conflitto in medio Oriente». Il tradimento del diritto internazionale, fa notare il Rapporto, viene proprio da coloro che lo hanno messo in piedi alla fine della Seconda guerra mondiale.

Ciò che rimane della Great Omari Mosque, dopo l’attacco israeliano, Gaza City, Gaza, 26 gennaio 2024 (foto Omar El Qattaa/Amnesty International)

Poi ci sono le altre guerre e le altre violazioni dei diritti umani. Il rapporto documenta la violazione delle regole da parte delle forze russe nel corso della loro invasione su vasta scala dell’Ucraina: «attacchi indiscriminati su aree civili ad alta densità abitativa, alle infrastrutture per la produzione di energia e a quelle per l’esportazione del grano, nonché l’uso della tortura sui prigionieri di guerra. A questo deve aggiungersi l’elevata contaminazione ambientale a seguito di azioni come la distruzione, parsa deliberata, della diga di Kakhovka che si ritiene ampiamente sia stata compiuta dalle forze russe». L’esercito di Myanmar e le milizie alleate hanno condotto attacchi contro i civili che hanno causato, solo nel 2023, oltre 1000 morti. «Né l’esercito di Myanmar né le autorità russe – si legge nel Rapporto – si sono impegnate a indagare sulle denunce di violazioni dei diritti umani. Entrambi hanno ricevuto sostegno finanziario e militare dalla Cina».

Un’altra situazione gravissima è in Africa. «In Sudan le due parti in conflitto – le Forze armate sudanesi e le Forze di supporto rapido – hanno dimostrato ben poca attenzione per il diritto internazionale umanitario, portando avanti attacchi sia mirati che indiscriminati che hanno ucciso e ferito civili e lanciando munizioni esplosive contro aree civili ad alta densità abitativa. I morti, solo nel 2023, sono stati 12.000. Questo conflitto ha prodotto la più grande crisi di sfollati al mondo, con oltre otto milioni di persone costrette alla fuga. Non si intravede la fine del conflitto, mentre la crisi alimentare sviluppatasi negli ultimi mesi è pericolosamente prossima a una carestia».

Rifugiati sudanesi, Adre, Est Ciad, 26 giugno 2023 (foto Amnesty international)

Il rischio delle nuove tecnologie. In un anno cruciale come quello del 2024 in cui vanno al voto, tra gli altri, Paesi come gli Stati Uniti e l’India, senza dimenticare l’Unione europea, l’uso distorto degli strumenti digitali delle Big tech può essere costituire una minaccia, oltre che veicolo per alimentare dicrimiazioni, incitazioni all’odio e strumento di controllo. «Senza una regolamentazione di questi sviluppi, il mondo rischia un “sovraccarico” di violazioni dei diritti umani», si legge nel Rapporto che dedica molto spazio al fenomeno degli spyware. Tra l’altro,proprio nel 2023 Amnesty aveva scoperto lìuso dello spyware Pegasus contro giornalisti e attivisti in alcuni Stati, tra cui Armenia, Repubblica Doemnicana, India e Serbia. Un piccolo spiraglio nella giungla in cui si trovano ad operare le Big Tech, viene messo in evidenza nel Rapporto, ed è il Digital Service Act il regolamento dell’Unione europea adottato nel febbraio 2024, anche se viene definito «incompleto e imperfetto».

Il futuro che non vogliamo. Con questo titolo Agnès Callamard si riferisce proprio alla minaccia digitale. «Nel 2023, gli stati – scrive – hanno fatto sempre più spesso ricorso alle tecnologie di riconoscimento facciale a supporto del controllo delle proteste pubbliche, negli eventi sportivi e, in generale, nei confronti delle comunità marginalizzate, e specialmente di migranti e rifugiati. Per la gestione della migrazione e il controllo delle frontiere ci si è affidati a tecnologie illegali, tra cui quelle legate all’esternalizzazione delle frontiere, software di raccolta dati, biometrica e sistemi decisionali basati su algoritmi».

Una mobilitazione globale senza precedenti. Questo è l’aspetto che più fa sperare. Se anche gli stessi leader mondiali hanno tradito i principi del diritto internazionale, a difendere i diritti umani in ogni parte del mondo, sono scesi milioni e milioni di persone. «Laddove leader di spessore mondiale non si sono schierati dalla parte dei diritti umani, abbiamo visto persone entusiaste marciare, protestare e pretendere un futuro di maggiore speranza», ha dichiarato Callamard. «Il conflitto tra Israele e Hamas ha generato proteste in ogni parte del mondo, con richieste – levatesi ben prima che molti governi le facessero proprie – di un cessate il fuoco per porre fine all’indicibile sofferenza dei palestinesi di Gaza e di ritorno in libertà di tutti gli ostaggi nelle mani di Hamas e di altri gruppi armati».

Parigi, manifestazione per il cessate il fuoco a Gaza (foto Benjamin Girette)

Le persone sono scese in piazza anche per rivendicare il diritto all’aborto come negli Usa, in Polonia e in El Salvador. In tutto il mondo altri giovani si sono aggregati al movimento Fridays for Future per chiedere un’equa e rapida uscita dal fossile. Nel 2023, incessanti campagne hanno ottenuto significative vittorie per i diritti umani. A Taiwan, il movimento #MeToo e altre organizzazioni della società civile che chiedevano la fine della violenza sessuale online hanno spinto il governo a emendare la Legge sulla prevenzione del crimine di aggressione sessuale.

La conclusione: rivitalizzare le istituzioni di garanzia internazionali. «Considerato il fosco stato delle cose a livello globale, occorrono misure urgenti per rivitalizzare e rinnovare le istituzioni internazionali create per tutelare l’umanità. Devono essere fatti passi avanti per riformare il Consiglio di sicurezza dell’Onu in modo che gli Stati membri permanenti non possano brandire il loro incontrollato potere di veto e impedire così la protezione dei civili a vantaggio delle loro alleanze geopolitiche. I governi devono anche adottare robuste regole e legislazioni per affrontare i rischi e i danni causati dalle tecnologie dell’intelligenza artificiale e riprendere le redini di Big Tech”, ha concluso Callamard.

E l’Italia? Non sta bene, quanto a violazioni dei diritti umani.

Ecco cosa dice la scheda in sintesi del rapporto: «Sono pervenute nuove segnalazioni di tortura e altro maltrattamento da parte di agenti carcerari e di polizia. Gli attivisti per la giustizia climatica sono incorsi in restrizioni sproporzionate al diritto di riunione pacifica. La violenza di genere è rimasta a livelli inaccettabilmente elevati. L’accesso all’asilo è stato notevolmente limitato, anche attraverso misure illegali. È perdurata la preoccupazione per i discorsi d’odio e i crimini d’odio, mentre le garanzie contro la discriminazione sono risultate inadeguate. L’accesso all’aborto è rimasto difficile in alcune parti del paese. L’Italia rischiava di non riuscire a raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio».

In apertura: Una donna palestinese ispeziona i resti della sua casa distrutta dal’esercito israeliano, Gaza City, Gaza (Credits: Omar El Qattaa/Amnesty International)

 

“L’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo”

(Ma siamo sicuri che il termometro del ritorno del fascismo stia nei busti di Mussolini di qualche nostalgico? Siamo sicuri che rileggere Calamandrei – solo per citarne uno – non sia spaventoso? Buon 25 aprile)

«Delle cause e degli aspetti del fascismo, storici di diverse tendenze hanno già dato svariate interpretazioni: e hanno messo in evidenza, secondo le premesse politiche o filosofiche da cui partivano, i fattori psicologici e morali e quelli sociali ed economici di questa crisi: L’esasperazione contingente del primo dopoguerra, o le lontane tare tradizionali di servaggio e di conformismo, che tenta di sbarrare il cammino alle nuove forze progressiste che avanzano. Forse in ognuna di queste concezioni c’è una parte di vero.

Ma ciò che soprattutto va messo in evidenza del fascismo è, secondo me, il significato morale: l’insulto sistematico, adoprato come metodo di governo, alla dignità morale dell’uomo: l’umiliazione brutale, ostentata come una gesta da tramandare ai posteri, dell’uomo degradato a cosa.

Un cammino di millenni, muovendo dalla filosofia e dalla poesia greca e dal Cristianesimo, era riuscito in Europa a porre a base della convivenza dei popoli civili il principio della uguaglianza di tutti gli uomini. Questa esigenza, che fu il fermento della Rivoluzione francese, era già viva e operante nell’illuminismo del ‘700: e il nostro Beccaria la enunciava in parole lapidarie, quando scriveva: “Non vi è libertà ogni qualvolta le leggi permettono che, in alcuni eventi, l’uomo cessi di essere persona e diventi cosa”.

Ora il fascismo fu la rinnegazione di questa esigenza. Per la bestiale ferocia dello squadrismo fascista, l’uomo tornò ad essere una cosa: non solo oggetto di sfruttamento servile, come una bestia da tiro, per i padroni finanziatori delle spedizioni punitive, ma oggetto di beffa sanguinaria e di straziante dileggio da parte dei sicari. Il ritorno della tortura, la quale pareva ormai soltanto un fosco ricordo di età barbare felicemente superate, comincia da qui. Nel manganello e nell’olio di ricino c’erano già quei primi micidiali germi del flagello, che venti anni dopo, sviluppati fino alle loro spaventose conseguenze dalla gelida consequenziarietà teutonica, dovevano fatalmente portare allo sterminio scientifico delle camere a gas. Nel macabro cerimoniale in cui gli incamiciati di nero, preceduti dai loro osceni gagliardetti, andavano solennemente a spezzare i denti di un sovversivo o a verniciargli la barba o a somministrargli, tra sconce risa, la purga ammonitrice, c’era già, ostentata come un programma di dominio, la negazione della persona umana. Il primo passo, la rottura di una conquista millenaria, fu quello: il resto doveva fatalmente venire.

[…]

Nella concezione fascista, come in quella di tutti i totalitarismi, viveva questo residuo di goffo e tracotante feudalesimo: il germe del razzismo è qui: l’idea di una classe eletta, composta di privilegiati, di gerarchi, di superuomini che hanno diritto di governare gli Stati perché la Provvidenza li ha fatti così, E perché questa distinzione tra poveri e ricchi, tra padroni e servitori sarebbe una fatale distinzione voluta da Dio. Contro questa concezione feudale e totalitaria della società, che il fascismo per vent’anni riportò in vigore tra noi, la Resistenza sorse a rivendicare per tutti gli uomini uguale dignità sociale. La libertà non è una merce di lusso riservata ai ricchi, la cultura non è una raffinata droga che cosiddetti intellettuali posso consumare nelle lussuose alcove delle loro torri d’Avorio. In realtà la cultura, ridotta sotto il fascismo ad uno sterile giuoco di cortigiani, non ha ragion d’essere se non è espressione di popolo, di una consapevolezza di questa condizione umana che è comune a tutti gli uomini: espressione di una comune solidarietà sociale ed umana».

(Piero Calamandrei, Forlì, 25 aprile 1955)