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Il potere dei romanzi di sconfiggere la morte

Dalla stessa parte mi troverai, secondo romanzo di Valentina Mira edito da Sem, è nella dozzina dei finalisti del premio Strega. Ha portato fama alla giovane scrittrice, ma anche attacchi da parte di esponenti di destra e riviste vicine a Casa Pound, e ora perfino minacce di morte. È un libro politico, come Mario Sechi ha preteso che l’autrice ribadisse durante la trasmissione di La7 Otto e mezzo del 12 aprile

Ma la Divina Commedia non è forse un libro politico? Spero nessuno voglia discutere del valore artistico del poema il cui sesto canto di ogni cantica è esplicitamente politico, che tutti abbiamo studiato e di cui ricordiamo la definizione scolastica: «poema didascalico-allegorico, vuole insegnare le grandi verità morali e religiose attraverso l’utilizzo di immagini che hanno significato simbolico». Non a caso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha individuato in Dante il fondatore del pensiero di destra in Italia (si legga in proposito l’articolo di Noemi Ghetti su Left online del 26 gennaio Dante era sì un conservatore ma finitela di scambiare la storia con le larve della storia). Poi anche Machiavelli e perfino Gramsci sono stati oggetto di tentativi di appropriazione allo scopo di costruire un’egemonia culturale della destra.
Dunque la disputa sulla legittimità della candidatura di un ‘libro politico’ come quello di Valentina Mira a un premio letterario resterebbe una questione di lana caprina – del resto se si aspira all’egemonia culturale si dovrebbe almeno ricordare lo zoon politikon di Aristotele! – se non fossimo nel momento storico in cui gli enti lirici, i teatri stabili, i musei, gli spazi pubblici di informazione, vengono presi d’assedio per impiantare nuova dirigenza fedele alla linea, e la Rai è trasformata con la ‘revisione’ della par condicio in un “megafono” della destra al governo, come giustamente denuncia il comunicato dell’UsigRai letto dai giornalisti al termine dei Tg della sera di tutte le reti il 12 aprile.
E ora sotto attacco sono anche i libri e i loro autori, gli intellettuali in genere – e tutti gli esseri umani lo sono, «non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens», scriveva Gramsci. Lo storico e filologo Luciano Canfora, «pericoloso sovversivo» come lo definisce in un post di brillante ironia il professor Mario Lentano, la filosofa Donatella Di Cesare e il rettore Tomaso Montanari querelati rispettivamente da Giorgia Meloni e del ministro Lollobrigida, lo storico Davide Conti querelato dalla Rauti (qui il video della loro conferenza stampa congiunta all’Fnsi ndr).

E ancora: Antonio Scurati, autore della famosa trilogia su Mussolini, epurato dalla trasmissione Rai Che sarà: avrebbe dovuto leggere il suo monologo sulla Liberazione in vista del 25 aprile. La Rai smentisce che si tratti di censura, per dimostrarlo la presidente del Consiglio ha pubblicato in un post il testo integrale del monologo, (che intanto è diventato virale) con argomenti pretestuosi e insostenibili sul conto di Scurati. Serena Bortone in serata ha letto il monologo donatole da Scurati a Che Sarà (Rai3, 20 aprile). Scrive elegantemente Nicola Lagioia, vincitore un premio Strega con La ferocia ed ex direttore del Salone del libro di Torino, in un appello lanciato online, «quando il contesto si fa così meschino da suggerirti per quieto vivere di tacere, è proprio allora che bisogna parlare».

la scrittrice Valentina Mira

Riconoscenza e solidarietà a Valentina Mira, allora, giovane donna antifascista e femminista, minacciata di morte per avere scritto un libro su «una vittima di serie Z, Mario Scrocca, che fu accusato per il duplice omicidio di Acca Larentia del ’78, quasi dieci anni dopo, sulla base di una testimonianza de relato, molto traballante (…), e 36 ore dopo l’arresto viene trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere Regina Coeli»: cito Mira stessa, che in tv ha detto che il libro nasce dal suo incontro con Rossella Scarponi, vedova a soli 25 anni di Mario Scrocca, con il quale aveva avuto un figlio, Tiziano, 2 anni quando il padre morì, e dall’esigenza di restituire a questa famiglia se non giustizia, che ormai è troppo tardi, almeno interesse, “cura”. Ci informa Il Secolo d’Italia (11 aprile) che Federico Mollicone, presidente della commissione cultura della Camera dei deputati, dopo meticolosa disamina – ma sarà suo compito istituzionale, magari anche per ogni libro candidato a un premio letterario? -, definisce il romanzo di Valentina Mira «una sceneggiatura di qualche pessima fiction», e si continua a discutere se non sia invece faction, ovvero in termini meno dispregiativi narrazione faziosa, revisionismo storico.
Letto il libro, di tutto questo resta poco, i fatti storici che il romanzo – e sottolineo romanzo, perché durante la lettura svanisce ogni dubbio che lo sia – racconta onestamente come sono accaduti: la deposizione di fiori ad Acca Larentia da parte di Giorgia Meloni, nel 2008, tra le braccia tese e i cori inneggianti a Mussolini, la totale mancanza di prove non solo della colpevolezza ma anche del suicidio di Mario Scrocca. La ricostruzione è documentata e accurata. Le licenze letterarie sono altrettanto onestamente dichiarate, come quando nelle note per il lettore la scrittrice avverte che il racconto dell’arrivo inaspettato dopo tanti anni della copia inviata da un anonimo dei verbali degli interrogatori di Mario Scrocca in carcere, e quindi anche il contenuto di quei verbali, sono frutto di fantasia: non della sua, ma di quella di Rossella, che ha scritto un suo libro, Soli soli, come sono stati per anni Tiziano e lei. Mira lo scopre tardi, dopo aver già finito di scrivere, da Rossella, ma decide di lasciare quella scena così com’è perché il suo «resta un romanzo e non un saggio» e perché al lettore resti «un senso di ingiustizia addosso», che però non sia soverchiante, perché crede «nel potere dei libri e del rompere certi silenzi e dello spezzare certi tabù». Perché resti viva la speranza.
Dalla stessa parte mi troverai, come solo la vera letteratura sa fare, rompe il silenzio, e non solo su Mario Scrocca e intorno ai suoi cari, ma per tutti noi. Lo fa coraggiosamente, con la ricerca di una vita, della vita stessa della scrittrice, con uno stile sferzante, dalla paratassi serrata, come l’autrice stessa riconosce, e provocatorio, ma mai livoroso, come qualche detrattore ha insinuato. È un romanzo storico e al tempo stesso un’autobiografia, malgrado lo scarto temporale tra la sua giovane vita e la storia che racconta. Quella storia è anche sua, profondamente, perché è di ogni donna che voglia scoprire da dove viene la violenza degli uomini. A lezione di scrittura, racconta Valentina Mira, «ti dicono che non devi mai perdere di vista il perché stai scrivendo ciò che stai scrivendo». E lei lo sa, lungo tutto il libro: non è il senso di sorellanza che l’incontro con Rossella le ha fatto scoprire, nemmeno soltanto il senso di giustizia di fronte all’ingiustizia della storia di Mario. «Ha a che fare con qualcosa di più difficile da esprimere. In parte con una sorta di colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me. Il mio ex, i miei piccoli e grandi compromessi per un briciolo d’amore (…) ché ero stanca e allora andava bene tutto, anche uno che dice “Viva il duce”», scrive nel capitolo Il cuore in queste pagine. E nel capitolo Liberazione, dal “suo” fascista, quello che ha capito – perché ri-conosceva bene la violenza, non certo per sensibilità – la sua storia, lo stupro subito da un altro fascista con la croce celtica al collo, e le ha detto «con la dolcezza fasulla che devono avere certi preti pedofili», «Io ti perdono», finalmente scrive le parole che non ha saputo dire: «Io non ti perdono e non ti perdonerò mai». Ecco perché scrive Mira. «Per provare a fornire anticorpi». Anticorpi contro la Negazione, titolo del capitolo in cui si scontra con il rovesciamento della verità del suo ex fascista che accusa lei, la vittima, di essere carnefice, come accade oggi pubblicamente nel nostro Paese: negazione privata, negazionismo di Stato.
Questo romanzo, la sua profonda onesta appassionata umanità, è davvero una buona dose di anticorpi contro l’annullamento della storia.

Scuola e università, basta precarietà. La conoscenza è un bene comune

I settori della conoscenza (scuola, università, ricerca, alta formazione artistica e musicale, formazione professionale e settori privati dell’educazione) costituiscono una infrastruttura fondamentale per lo sviluppo economico, sociale e democratico del Paese, soprattutto di fronte all’importante attuale fase caratterizzata dalla transizione ecologica e digitale.
La diffusione e la forza delle istituzioni scolastiche, la possibilità di accesso alla formazione terziaria rappresentano sul versante sociale uno straordinario fattore di coesione e di contrasto alle disuguaglianze e il più potente strumento per far ripartire quell’ascensore sociale fermo da anni.

La proposta della Flc Cgil, presentata il 22 aprile in conferenza stampa al Senato, mira a coniugare due obiettivi, tra loro strettamente legati e che rappresentano una scelta politica chiara: la qualità dei sistemi e la qualità dell’occupazione nei settori della conoscenza. La precarizzazione dei nostri settori è responsabile non solo di condannare alcune centinaia di migliaia di persone alla discontinuità lavorativa ma soprattutto di precarizzare e rendere più fragile l’intero sistema.

Per quanto riguarda la scuola, anche in questo anno scolastico, oltre 250 mila docenti e Ata a tempo determinato hanno garantito l’avvio delle attività e il funzionamento delle istituzioni. Una situazione implosiva che richiede efficaci politiche degli organici da parte del Ministero dell’istruzione e del governo.
Il processo di denatalità ha assunto e assumerà ancora nei prossimi decenni dimensioni molto importanti, ma non può rappresentare un alibi per giustificare tagli al sistema di istruzione e operazioni di dimensionamento.

Il fenomeno, al contrario, deve costituire un’opportunità per migliorare il sistema, con il potenziamento di modelli organizzativi, pedagogici e didattici di qualità, a partire dalla riduzione del numero di alunne e alunni per sezione e per classe.
Contestualmente alla lotta contro il dimensionamento della rete scolastica e contro l’affermazione di un’idea di scuola più povera e subordinata a logiche di mercato, già viste con la riforma della cosiddetta filiera tecnologico-professionale e l’introduzione del liceo made in Italy, la Flc Cgil rilancia con una proposta innovativa che, attraverso l’aumento e la stabilizzazione degli organici, intende recuperare gli elementi di qualità, che in un ventennio di controriforme e tagli al sistema scolastico sono andati impoverendosi.

L’impegno dello Stato, in quanto garante del sistema scolastico nazionale e delle pari opportunità formative, non può che partire dalla scuola dell’infanzia, da cui ancora sono esclusi oltre centomila bambini e almeno altrettanti frequentano sezioni limitate all’ orario antimeridiano per carenza di personale e di infrastrutture.
Più in generale, occorre garantire alle bambine e ai bambini, alle ragazze e ai ragazzi, il diritto a un’istruzione di qualità e al successo formativo, nel rispetto dei tempi e degli stili di apprendimento di ciascuna e ciascuno. Allo scopo servono più tempo scuola, flessibilità organizzativa, compresenze, strumenti per implementare la didattica inclusiva e laboratoriale.

Tali obiettivi richiedono la revisione dei parametri di attribuzione degli organici, risalenti alla controriforma Gelmini e mai modificati, per aumentare il tempo pieno e prolungato, favorire percorsi innovativi come gli indirizzi musicali, intervenire sulle classi abnormi; sono questi elementi che possono orientare un’ innovazione della didattica, ispirata al protagonismo e all’attivismo pedagogico e, conseguentemente, prevenire la dispersione e l’abbandono scolastico precoce. È necessario infine superare la fortissima precarietà dei docenti di sostegno, per oltre il 50% a tempo determinato, attraverso una massiccia operazione di formazione iniziale e stabilizzazione dei posti “in deroga”.

Analoghe criticità riguardano i settori dell’Università e della Ricerca in cui la lunga fase di contrazione ha messo in discussione le condizioni di lavoro e di vita di un’intera generazione di lavoratori. Sull’università in particolare oltre alla necessità di incremento del personale tecnico e amministrativo, sottolineiamo la precarizzazione della docenza universitaria: ad oggi sono 25.000 le figure precarie tra ricercatori e assegnisti di ricerca, vale a dire il 49% in rapporto a complessivamente ai professori (associati e ordinari) e ricercatori stabili. Idem nella ricerca pubblica dove sta aumentando anche in relazione alle risorse del Pnrr il numero dei ricercatori a tempo determinato e degli assegnisti.
Anche l’alta formazione artistica e musicale è da anni in attesa di una regolamentazione a regime del sistema di reclutamento che consenta di assumere su tutti i posti disponibili e di stabilizzare tutto il personale che ha almeno tre anni di servizio e che garantisce l’ordinario funzionamento delle istituzioni. Infine i settori privati dove ormai il ricorso a contratti di collaborazione e, ancora più pesantemente, al lavoro autonomo al posto della subordinazione è un fenomeno ormai fuori controllo.

Si tratta quindi di una proposta che serve prima di tutto al Paese oltre che a chi lavora nell’istruzione o nella ricerca. È un vero e proprio piano per l’occupazione e la qualità dei settori della conoscenza i cui primi fruitori sono i cittadini e le cittadine. È una strategia cioè che va nella direzione di affermare l’investimento sociale come tutela pubblica del benessere delle persone. Non è un piano velleitario, ma invece possibile attraverso una programmazione seria, pluriennale con obiettivi misurati e misurabili.

L’autrice: Gianna Fracassi è segretaria generale della Flc Cgil

La proposta della Flc Cgil Zero precarietà qui

 

La lezione dell’Urnwa

Gaza, foto di Action aid

Questa mattina Francesca Mannocchi su La Stampa scrive del rapporto Colonna, commissionato dalle Nazioni Unite a seguito delle accuse israeliane sui presunti legami del personale dell’Unrwa con Hamas. «A marzo Israele ha reso pubbliche affermazioni secondo cui un numero significativo di dipendenti dell’Unrwa sono membri di organizzazioni terroristiche. Tuttavia, Israele deve ancora fornire prove a sostegno di queste affermazioni», si legge nell’analisi del gruppo di esperti coordinati da Catherine Colonna, ex ministra degli Esteri francese. 

Nel rapporto si legge che l’Unrwa dovrebbe rafforzare il controllo sui suoi dipendenti e che Israele non ha mai mosso obiezioni sui nominativi dei lavoratori dell’agenzia, forniti in elenco a Israele fin dal 2011. 

Il furioso dibattito sull’Unrwa, come molti degli scontri che strumentalizzano le guerra, è stato superato dai bombardamenti tra Israele e Iran. Chi sfrutta le guerre per acuire le polarizzazioni politiche ha trovato altro pane per i suoi denti. Intanto l’agenzia si ritrova con i fondi tagliati (solo gli Usa contribuivano al 30% delle sue attività), i dipendenti additati come criminali e alcuni conti correnti bloccati. 178 dipendenti dell’agenzia dell’Onu sono stati uccisi e gran parte delle sue strutture sono state distrutte dai bombardamenti. 

La morale della storia sarebbe l’ennesimo invito alla cautela di fronte alle informazioni in tempo di guerra, usate come armi non convenzionali per giustificare le armi convenzionali. Ma la lezione – anche questa – non servirà. 

Buon martedì. 

L’unica cosa che sicuramente non funziona nel Pd

Se c’è una cosa di cui il Partito democratico può andare fiero è la sua costante, perfino faticosa, pluralità. All’interno dei dem – piaccia o meno – convivono anime spesso distanti tra loro, talvolta in conflitto, che rendono difficile la gestione del partito ma che allargano la platea degli elettori. Non c’è in Italia un altro partito che si prenda la briga di legittimare le diverse posizioni al suo interno, anche pagando lo scotto delle guerre tra correnti che gli avversari usano come sinonimo di disunità e debolezza.

Il pluralismo è il marchio originale del Pd, la ragione fondante della sua creazione, la più grande differenza rispetto alle forze politiche italiane: un partito che negli anni è stato guidato da segreterie differenti, a prima vista addirittura inconciliabili. Proprio per questo i dem sono visti come un’istituzione più solida delle leadership passeggere, alla stregua degli storici partiti in giro per il mondo.

Con la sua segreteria Elly Schlein ha promesso di instillare una linea politica diversa dai segretari che l’hanno preceduta. È un compito arduo perché guidare la “macchina” Pd significa mettere le mani su fili che appartengono a potentati divenuti nel tempo vere e proprie incrostazioni. Il confine tra l’instillare e l’imporre però è un passaggio stretto: manutenere il senso di comunità – seppure nuova – rinnovandone la classe dirigente e la missione è una passeggiata in una cristalleria. Non ci sono ricette facili per riuscirci. Sicuramente c’è la ricetta sbagliata già vista: personalizzare il percorso. Anche solo con un nome nel simbolo. 

Buon lunedì.

 Elly Schlein (foto Wikipedia © European Union, 2024)

L’arte di abitare la terra. Un convegno internazionale per l’Earth Day

In foto un frame del nuovo film di Paola Traverso e Vincenzo Franceschini

Il 22 aprile, in occasione dell’Earth Day, si svolge a Roma il convegno internazionale Abitare la terra: ambiente, città, paesaggio – III edizione, organizzato dall’Ordine degli Architetti Ppc di Roma e provincia (Oar), nella casa dell’Architettura.
L’Oar per il terzo anno consecutivo prende parte attivamente all’iniziativa della giornata mondiale della Terra, istituita nel 1970 dalle Nazioni Unite per sottolineare la necessità di salvaguardare le risorse naturali del pianeta, proponendo anche in questa edizione importanti temi basati sul principio che tutti gli esseri umani hanno il diritto a un ambiente sano. Quest’anno, in modo particolare, una profonda riflessione è rivolta al senso del bene comune e del diritto alla città, attraverso le esperienze di “commoning” e di rigenerazione – urbana, ma non solo – per indagare tanto il significato di comunità quanto gli scenari della città contemporanea.
Il convegno, come scrivono i coordinatori Daniela Gualdi, consulente Oar e Flavio Trinca, responsabile percorso formativo paesaggio Oar, si propone di «approfondire il significato, ovvero il senso umano, dell’abitare la terra nel III millennio, nei difficili contrasti che il mondo oggi vive: questione ambientale, migrazioni, disuguaglianze, totalitarismi e scenari di guerra. Riproporre la centralità dell’essere umano, contrastando, con la conoscenza, il dominio politico-economico che ha portato alle alterazioni dell’ambiente e agli squilibri sociali che inevitabilmente hanno influito sui rapporti umani e sul pensiero culturale». Pertanto, queste tematiche daranno forma alle tre sessioni di lavoro: “Ambiente, città e paesaggio Bene Comune”; “Rigenerazione Urbana Vs. diritto alla città”; “Abitare la terra nel III millennio: tavola rotonda”. A discuterne saranno esperti nazionali ed internazionali, come Marcelo Enrique Conti, Giuseppe Scarascia Mugnozza, Juan Alayo, Daniela Ciaffi, Grazia Brunetta, Ana Méndez de Andés e Jordi Bellmunt. Saranno voci diverse: non solo quelle del mondo degli architetti e dell’urbanistica ma anche quelle del mondo della scienza, dell’arte e del cinema, per dare al convegno un approccio interdisciplinare, dove arte e scienza diventano la possibile soluzione per un pensiero diverso, libero. L’obiettivo è quello di mettere in evidenza le importanti questioni sociali, approfondendo gli aspetti da un nuovo punto di vista antropologico e culturale, al fine di proporre una ricerca su una nuova socialità e sull’identità umana.
La chiusura del convegno prevede una tavola rotonda su “Abitare la terra nel III millennio”, con la proiezione del clip tratto da Storie di donne uomini e comunità di Paola Traverso e Vincenzo Franceschini, produzione Il Gigante, TCC Teatro Cooperativa, Big Bang production, e delle originali fotografie di Roberto Privitera sui borghi fantasma. Sarà quindi l’arte a stimolare la profonda riflessione su nuovi valori che stanno emergendo nella società dal basso, quali: consapevolezza, condivisione ed equità e che vanno ascoltati da tutta la collettività nel suo complesso.
Inoltre, il senso del convegno sarà quello di seguire una profonda riflessione sulla sempre più necessaria trasformazione culturale e politica che investa in modo radicale il rapporto fra società e natura e lo spazio pubblico e privato in una più ampia visione di bene comune, come spiegheranno Camilla Ariani e Francesca Zappacosta. Ma una proposta di possibilità di uscire dalla crisi che stiamo vivendo la danno proprio le testimonianze raccolte nel film documentario di Paola Traverso e Vincenzo Franceschini, che raccontano un’unica voce, quella delle cooperative di comunità sparse sul territorio italiano: “Non aspettiamo un cambiamento, lo rendiamo possibile”.
In questa situazione di crisi globale, in cui risuona ovunque la violenza, l’architetto Daniela Gualdi racconta a Left: «Mi viene in aiuto il mondo dell’arte», sottolineando un incontro con un artista in una edizione precedente del convegno. «Il grande regista Amos Gitai – dice Gualdi – che è stato nostro ospite, un israeliano dissidente e a lungo esule dalla sua terra, ha girato un importante film: Shikun, che significa “case popolari” con il significato più profondo di “dare rifugio” a persone di origini e lingue diverse – che hanno bisogno di ripararsi dalla minaccia dei rinoceronti. Il film è ispirato a Il Rinoceronte di Ionesco ed è una metafora delle nostre società contemporanee, del caos creato dalle guerre, della disuguaglianza economica e dell’ingiustizia e, aggiunge Gitai, della paura – che non è un dato di fatto, ma è generata, costruita dall’emergere dell’intolleranza e del pensiero totalitario – dalla proliferazione dei rinoceronti appunto. Ed a questo dobbiamo opporci, ad una grande ondata di odio, perché come il protagonista di Ionesco, Berenger, che resta uomo fino alla fine e non si arrende – noi vogliamo restare umani».

In foto un frame del nuovo film di Paola Traverso e Vincenzo Franceschini

Viva l’Italia antifascista, gridiamolo tutti

Con Luciano Canfora in giuria e Antonio Scurati vincitore, eravamo insieme al Premio Letterario Viareggio Repaci nell’estate del 2015. L’edizione si concluse a fine agosto: la presidente all’epoca era Simona Costa, docente universitaria: lo è stata per sette anni, prima dell’ex direttore del Corsera Paolo Mieli, attuale presidente. Come giornalista, ero stata chiamata per seguire la parte della comunicazione del Premio sulla stampa, la promozione dei libri e dei loro autori, le case editrici. Fu una bella estate, Scurati vinse con Il tempo migliore della nostra vita edito da Bompiani.
Aveva partecipato allo Strega due volte, nel 2009 e nel 2014, ma non era arrivato al traguardo finale che raggiungerà invece successivamente con M. Il figlio del secolo (dello stesso editore) a cui è andato il riconoscimento nel 2019. Il romanzo venne subito stroncato da Ernesto Galli della Loggia storico ed editorialista del Corriere della sera, che gli rimproverava alcuni errori di nomi, date e citazioni e di avere “ritoccato la storia” con il suo racconto. E non fu certo il solo a rimproverarlo. Tecnicamente il romanzo era una biografia romanzata.
Nel ’15, comunque, Scurati che ancora doveva scrivere la (prevista) quadrilogia di M., vinse il Viareggio. Ho ritrovato la motivazione della Giuria: “La struttura del romanzo di Antonio Scurati, corre binaria a descrivere vite di uomini illustri e non. Da una parte l’intellettuale che si oppose al fascismo senza armi ma con la sola forza della ragione, Leone Ginzburg, dall’altra due uomini comuni, i nonni dello scrittore, Antonio e Peppino. Tre personaggi accomunati da un identico valore: l’antifascismo. Un periodo storico cruciale e complesso con i protagonisti seguiti nelle dinamiche di contesti familiari e sociali diversi, geograficamente lontani eppure vicini, colti nello sbigottimento di dover subire la Storia, descritti nella lotta contro la barbarie e spesso nell’isolamento che vissero. Ginzburg un eroe della Resistenza civile, l’uomo e lo studioso che si rifiutò di prestare giuramento al Duce, fra i pochi italiani ad opporsi in un clima di conformismo imperante. Tre personaggi e con loro tante vite di familiari e amici, due storie che appartengono alla nostra storia comune, e per questo vere”.
Motivazioni che già illuminano quale sarà la via seguita dallo scrittore nel futuro, il suo pensiero politico, il suo impegno artistico. “Vorrei dedicare il premio anche ai nostri figli, con l’auspicio che non debbano tornare a vivere quello che abbiamo vissuto cent’anni fa”, afferma nel ’19 come ringraziamento dal palco dello Strega. E oggi, dopo gli splendori e le miserie?
Con la Rai televisione di Stato che ne censura l’intervento su Rai3 alla trasmissione Che sarà in programma su RaiTre la sera del 20 aprile per celebrare il prossimo 25 aprile, offrendo motivazioni a dir poco risibili e finora assai poco chiare, l’interrogativo che sorge spontaneo è il seguente: se a cadere per primi a causa del loro impegno civile e politico, sono intellettuali di chiara fama – drappello di cui il professor Canfora è certamente partecipe – e scrittori pluripremiati, che fine faranno tutti gli altri?
Per non parlare del giovane rapper Ghali, che non dimentichiamolo, si azzardò dal palco di Sanremo in febbraio, a chiedere lo “stop al genocidio” (dei palestinesi) per propalare la pace nel mondo. E, ancor prima, lo scorso anno al debutto scaligero di Milano, il signore che gridò “Viva l’Italia antifascista!” e venne immediatamente identificato dalla Digos. Oltre agli studenti randellati in svariate occasioni in cui abbiano manifestato, ai saluti fascisti di Acca Larentia che passarono inosservati dai radar del governo pur riempiendo paginate di quotidiani e così procedendo.
Dobbiamo fare tutti i conti con la Storia. Urgentemente.

Ecco il monologo censurato di Antonio Scurati:

“Giacomo Matteotti fu assassinato da sicari fascisti il 10 di giugno del 1924.
Lo attesero sotto casa in cinque, tutti squadristi venuti da Milano, professionisti della violenza assoldati dai più stretti collaboratori di Benito Mussolini. L’onorevole Matteotti, il segretario del Partito Socialista Unitario, l’ultimo che in Parlamento ancora si opponeva a viso aperto alla dittatura fascista, fu sequestrato in pieno centro di Roma, in pieno giorno, alla luce del sole. Si batté fino all’ultimo, come lottato aveva per tutta la vita. Lo pugnalarono a morte, poi ne scempiarono il cadavere. Lo piegarono su se stesso per poterlo ficcare dentro una fossa scavata malamente con una lima da fabbro.
Mussolini fu immediatamente informato. Oltre che del delitto, si macchiò dell’infamia di giurare alla vedova che avrebbe fatto tutto il possibile per riportarle il marito. Mentre giurava, il Duce del fascismo teneva i documenti insanguinati della vittima nel cassetto della sua scrivania.
In questa nostra falsa primavera, però, non si commemora soltanto l’omicidio politico di Matteotti; si commemorano anche le stragi nazifasciste perpetrate dalle SS tedesche, con la complicità e la collaborazione dei fascisti italiani, nel 1944.
Fosse Ardeatine, Sant’Anna di Stazzema, Marzabotto. Sono soltanto alcuni dei luoghi nei quali i demoniaci alleati di Mussolini massacrarono a sangue freddo migliaia di inermi civili italiani. Tra di essi centinaia di bambini e perfino di infanti. Molti furono addirittura arsi vivi, alcuni decapitati.
Queste due concomitanti ricorrenze luttuose – primavera del ’24, primavera del ’44 – proclamano che il fascismo è stato lungo tutta la sua esistenza storica – non soltanto alla fine o occasionalmente – un irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista.
Lo riconosceranno, una buona volta, gli eredi di quella storia?
Tutto, purtroppo, lascia pensare che non sarà così. Il gruppo dirigente post-fascista, vinte le elezioni nell’ottobre del 2022, aveva davanti a sé due strade: ripudiare il suo passato neo-fascista oppure cercare di riscrivere la storia. Ha indubbiamente imboccato la seconda via.
Dopo aver evitato l’argomento in campagna elettorale, la Presidente del Consiglio, quando costretta ad affrontarlo dagli anniversari storici, si è pervicacemente attenuta alla linea ideologica della sua cultura neofascista di provenienza: ha preso le distanze dalle efferatezze indifendibili perpetrate dal regime (la persecuzione degli ebrei) senza mai ripudiare nel suo insieme l’esperienza fascista, ha scaricato sui soli nazisti le stragi compiute con la complicità dei fascisti repubblichini, infine ha disconosciuto il ruolo fondamentale della Resistenza nella rinascita italiana (fino al punto di non nominare mai la parola “antifascismo” in occasione del 25 aprile 2023).
Mentre vi parlo, siamo di nuovo alla vigilia dell’anniversario della Liberazione dal nazifascismo. La parola che la Presidente del Consiglio si rifiutò di pronunciare palpiterà ancora sulle labbra riconoscenti di tutti i sinceri democratici, siano essi di sinistra, di centro o di destra.
Finché quella parola, Antifascismo, non sarà pronunciata da chi ci governa, lo spettro del fascismo continuerà a infestare la casa della democrazia italiana.”

Antonio Scurati al festival Incroci di civiltà, Venezia. Foto di Greta Stella, courtesy del festival

Libertà di stampa e potere politico, perché l’Italia rischia di finire come l’Ungheria

«L’idea di creare un’agenzia latinoamericana non è certamente originale. … Noi, che soffrivamo il monopolio delle notizie, dell’informazione, dell’opinione pubblica che creavano le agenzie statunitensi, o quello dell’assenza di informazione, dell’occultamento e della distorsione, sentivamo la necessità di creare un’agenzia di stampa». (La idea de crear una agencia latinoamericana no es por cierto original. Nosotros, que sufrimos el monopolio de las noticias, de la información, de la opinión pública que creaban las agencias yanquis, o el de la no información, el ocultamiento y la distorsión, sentimos también la necesidad de crear una agencia noticiosa (Masetti).

Così l’argentino Jorge Masetti spiegava il senso della creazione a L’Avana dell’agenzia di stampa “Prensa Latina”. Nata nel giugno 1959, a soli sei mesi dalla vittoria della rivoluzione cubana, rispondeva all’esigenza di disputare il racconto di ciò che avveniva a Cuba e nel mondo intero. Era cioè uno strumento di battaglia ideologica nel campo della comunicazione e dell’informazione.

Sessanta e passa anni dopo, gli eredi di quella lezione vanno cercati, paradossalmente, nel campo dell’estrema destra. Se negli Usa il modello Fox News si è imposto a partire soprattutto dall’inizio degli anni 90, oggi assistiamo in Francia all’ascesa dell’imprenditore Vincent Bolloré, azionista di maggioranza del colosso Vivendi, con la costruzione di un polo mediatico che con la sua stampa e la sua Cnews (seconda rete di notizie più seguita in Francia) promuove le idee care all’ultradestra politica: difesa dei confini, del capitale, della proprietà; identificazione del nemico nel migrante, nell’abitante delle banlieues; ordine e disciplina; fake news come se piovesse.

L’Italia del laboratorio dell’ultradestra politica capitanata da Meloni non poteva essere da meno. Antonio Angelucci è il nome nuovo da segnare sui taccuini. Imprenditore della sanità privata e non solo, politico e parlamentare e oggi, sempre più, tycoon mediatico.

Nuovo, in realtà, Angelucci non lo è. Nato nel 1944 in un piccolo centro della provincia italiana, comincia a lavorare come portantino all’Ospedale San Camillo di Roma. Ed è lì che la sua vita subisce una svolta. Entra in una cordata che acquisisce una casa di riposo a Velletri. È il primo passo di una scalata che sembra ancora oggi inarrestabile. Ben 22 le strutture sanitarie private di sua proprietà, 3.500 posti letto, ben 4.000 dipendenti, mille medici.

La sanità privata va a gonfie vele, anche grazie alla distruzione di quella pubblica, promossa attivamente da molti dei governi che Angelucci ha sostenuto nel suo ruolo di parlamentare della Repubblica (col record di assenze in aula, che hanno toccato anche il 99,8%). È infatti alla sua quarta legislatura da deputato. Entrato a Palazzo Montecitorio nel 2008, eletto nelle file della Forza Italia di Berlusconi, dalle ultime elezioni del 2022 siede tra i banchi della Lega di Salvini.

In questi anni Angelucci ha diversificato i suoi investimenti, a partire dal sempreverde mattone. Il tutto sotto l’ombrello dell’impresa capofila di famiglia, la Tosinvest (acronimo delle iniziali Tonino e Silvana, rispettivamente soprannome e prima moglie di Angelucci). La finanziaria è a sua volta controllata da una società con sede in Lussemburgo, la Tree sa, perché, si sa, l’ultradestra sarà anche “sovranista” ma le tasse preferisce (non) pagarle sotto altra bandiera.

La “Tree SA” controlla anche Tosinvest Editoria che a sua volta controlla quotidiani locali (Corriere dell’Umbria) e tre importanti nazionali: Libero, Il Tempo e, da poco, anche il quotidiano prima afferente alla famiglia Berlusconi, Il Giornale.
Angelucci, però, non sembra intenzionato a fermarsi e ha messo nel mirino la seconda agenzia di stampa italiana, l’Agi, oggi di proprietà di Eni, colosso pubblico dell’energia fossile.

La galoppata di Angelucci può contare sul sostegno del potere politico. A decidere sulla vendita di Agi sarà infatti il proprietario dell’agenzia di stampa, vale a dire il ministero dell’Economia e delle finanze (Mef), che la controlla tramite Eni, società partecipata dal Mef. Chi è oggi a capo del Mef? Giancarlo Giorgetti, esponente di spicco della Lega, partito con cui è stato eletto Angelucci.

L’operazione incontrerebbe anche il favore di Fratelli d’Italia e della stessa Meloni. Gli addetti ai lavori considerano fondata l’ipotesi secondo cui il regista sarebbe Mario Sechi, ex direttore proprio di Agi prima di passare a svolgere la funzione di portavoce della presidente del Consiglio Meloni. Incarico che svolse per pochi mesi, prima di spostarsi nuovamente al suo attuale impiego: direttore di quel Libero, che è di proprietà della fondazione San Raffaele, riconducibile ad Angelucci e che ogni anno riceve circa 3 milioni di euro di fondi statali destinati all’editoria.

Nel caso in cui l’acquisto di Agi da parte di Angelucci dovesse andare in porto, avremmo dunque un polo mediatico, megafono dell’ultradestra politica ed economica, che potrebbe giocare di sponda col colosso televisivo delle destre già esistente: quella Mediaset di proprietà della famiglia Berlusconi, proprietaria di tre reti televisive che totalizzano ascolti pari o addirittura superiori alle tre reti della Tv pubblica, la Rai.

Si tratterebbe della chiusura del cerchio. L’obiettivo è infatti ambizioso.
Produzione di notizie tramite l’agenzia di stampa – amplificazione e commento delle stesse tramite i quotidiani e le reti Mediaset – costruzione su questa base di un “senso comune” – intervento politico di maggioranza parlamentare e governo Meloni.
È né più che meno che la sintesi di un progetto politico-economico-mediatico che riconosce nei media uno strumento indispensabile per la costruzione di “egemonia”.

E non finisce qui. Perché, anche grazie alle riforme targate centrosinistra (all’epoca del governo Pd guidati da Matteo Renzi), oggi più di prima l’esecutivo può controllare anche la Tv pubblica. È l’esecutivo a stabilire nomine e incarichi, non più il Parlamento. E il governo Meloni non si è fatta scrupoli nel piazzare i propri uomini nei posti chiave della Rai. Non solo: negli ultimi giorni alcuni emendamenti di parlamentari legati a Fratelli d’Italia lanciano l’offensiva sui tempi cui gli esponenti politici avranno diritto in Rai in occasione della campagna elettorale delle Europee dell’8 e 9 giugno. L’obiettivo è garantire più minuti di messa in onda agli esponenti di maggioranza parlamentare e governo, tanto dal punto di vista quantitativo che qualitativo (il “prime time” vale più che un programma in onda a tarda notte, ma al momento il sistema di “par condicio” vigente in Rai non prevede sostanziali differenze).

L’offensiva di Angelucci e dell’ultradestra ha avuto la capacità di risvegliare dal letargo le opposizioni parlamentari. Incapaci di affrontare il “conflitto di interessi” di Berlusconi nei lunghi 30 anni di potere berlusconiano – che fosse al Governo o all’opposizione – negli ultimi giorni tutti gli esponenti del centro-sinistra hanno partecipato alle manifestazioni indette dai dipendenti Agi, in sciopero perché preoccupati della possibile cessione, che considerano una minaccia alla terzietà dell’agenzia e alla libertà di stampa.

Alcuni hanno segnalato la possibile deriva orbaniana, sottolineando come il processo di concentrazione mediatica in corso in Italia assomigli a quello già in essere in Ungheria: a Budapest uomini vicini al presidente sono arrivati a controllare circa il 90% dei media, con la creazione di una fondazione mediatica che raggruppa più o meno 500 tra siti informativi online, giornali locali, radio e canali televisivi e che fungono da megafono per la propaganda orbaniana.

La soluzione proposta da centrosinistra politico e progressismo mediatico – in gran parte proprietà del gruppo Gedi, controllato dalla famiglia Agnelli-Elkann – ricade nell’alveo della tradizionale impostazione liberale: l’eccessiva concentrazione produce distorsione dei mercati e va dunque evitata. Nel campo editoriale, la concentrazione mediatica può intaccare il pluralismo e dunque il diritto a una corretta informazione. Nel concreto della possibile vendita dell’agenzia Agi ad Angelucci, la proposta del centrosinistra è impedirla. Per ottenere lo scopo, esponenti del Pd hanno interessato anche le istituzioni europee, che si sono riservate la possibilità di pronunciarsi dopo lo studio accurato del dossier.

La soluzione di centrosinistra e progressisti, dunque, lascerebbe tutto così com’è. Il probema, però, è che la realtà che viviamo è quella sì di un pluralismo che si restringe sempre più sotto i colpi dell’ultradestra, ma che, a esser onesti, già oggi non funziona. Perché è, al massimo, un pluralismo tutto interno alle classi dominanti.

Significativa, ad esempio, è la cessione dello storico quotidiano Il Secolo XIX, che passerà dalle mani del gruppo Gedi a quelle di Mediterranean Shipping Company (Msc), colosso delle navi da crociera, di proprietà dell’italiano Aponte, ma con sede fuori dal Belpaese, per l’esattezza in Svizzera.
Sarà coincidenza, ma Il Secolo XIX è il quotidiano che da ben 138 anni pubblica a Genova, cioè nella città sede del principale porto italiano ed è sul punto di essere acquistato dalla più grande compagnia di navigazione al mondo. Immaginiamo il tutto avvenga all’insegna del pluralismo informativo.

Ciò che manca non è la possibilità per i grandi gruppi del potere economico e finanziario di acquistrare e conquistare potere mediatico; ciò che manca (fatte salve rare ed encomiabili eccezioni) è il punto di vista e la visione delle classi subalterne.

Affinché possano avere voce non basta dividere il latifondo mediatico in appezzamenti più piccoli ma pur sempre di proprietà di qualche grande gruppo. Servirebbe una riforma di sistema che, considerata la centralità del terreno della battaglia delle idee, permettesse finalmente alle classi popolari un’alternativa al tifo tra le diverse squadre del campionato mediatico del potere politico-economico.

Nel caso italiano occorre che la Rai non sia strumento degli interessi di questo o quel gruppo di potere, bensì espressione della pluralità delle posizioni che esistono nel corpo della società. Contemporaneamente, non basta un impianto normativo che formalmente garantisca il pluralismo informativo e la possibilità di iniziativa privata. Perché senza potere economico mettere in piedi un progetto comunicativo di portata nazionale, che sia un giornale, una radio o una Tv, è nei fatti impossibile. Acquistare una frequenza, utilizzare canali di distribuzione nazionali non è impresa da poco. Affinché sia diritto sostanziale occorre un ruolo attivo dello Stato nel finanziamento della costruzione di canali “comunitari”, che, cioè, siano fatti da e per le organizzazioni popolari la cui voce è oggi praticamente assente dal dibattito mediatico.

Questo articolo di Giuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nella foto: frame del video di Giorgia Meloni a Porta a Porta, 4 aprile 2024

Mohamed Dihani, attivista Saharawi: «La mia gente del deserto da troppi anni senza diritti»

foto di Renato Ferrantini

«Chissà cosa sarei potuto diventare se fossi nato in un’altra parte del mondo», sono le parole dell’attivista e difensore dei diritti umani Mohamed Dihani. Sono parole che purtroppo noi giornalisti ascoltiamo spesso da chi è costretto a fuggire o lasciare il proprio Paese di origine per un motivo o per un altro e che ogni volta colpiscono profondamente. Come se il fatto di nascere in un luogo rispetto ad un altro rendesse uomini e donne più o meno esseri umani. Uomini e donne in tutto il mondo nascono uguali, eppure questa uguaglianza spesso fa paura e si è costretti a lottare anche per i diritti umani. Proprio come Mohamed, nato 37 anni fa nel Sahara Occidentale. In quell’angolo di mondo di cui si sente parlare poco.

Renato Ferrantini, Saharawi- Oltre l’attesa – Jaima

Il Sahara Occidentale è un territorio dell’Africa nord-occidentale e popolato da genti berbere. Fu raggiunto, a partire dal XIII secolo., da gruppi beduini di lingua araba, che fondendosi con le prime popolazioni costituirono il nucleo originario della popolazione saharawi. Le zone meridionali (Río de Oro) e settentrionali (Saguia el-Hamra) divennero un protettorato di Madrid e nel 1958 furono costituiti in provincia metropolitana con il nome di Sahara Spagnolo (conservato fino al 1975). Alla fine degli anni 60 si istituì un movimento di liberazione e nel 1973 venne fondato il Fronte Polisario (Fronte di Liberazione Popolare di Saguia el-Hamra e del Río de Oro).

Nonostante l’Onu e la Corte internazionale di giustizia avessero riconosciuto il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi, nel novembre 1975 la Spagna concluse un accordo con il Marocco e la Mauritania per la spartizione del Sahara Occidentale fra i due Stati. Da quel momento la popolazione saharawi vive divisa, in parte nei campi di rifugiati in Algeria e in parte nel Sahara occidentale sotto il dominio del Marocco, dopo che la Mauritania nel 1979 si ritira dal conflitto. Nel 1976 veniva proclamata in esilio la Repubblica Araba Sahrawi Democratica (Rasd).

Renato Ferrantini, Saharawi- Oltre l’attesa – Jaima

A partire dal 1980 il Marocco eresse un muro difensivo, arrivando a circoscrivere 200.000 km2 di territorio (su 266.000) unico muro che attraversa e divide il Paese da nord a sud. Nel 1991 Marocco e Rasd si accordarono per il cessate il fuoco e il Consiglio di sicurezza dell’Onu istituì la missione Minurso (Misión de las Naciones Unidas para el referéndum del Sáhara Occidental), con il compito di sorvegliare il rispetto del cessate il fuoco, di facilitare il rientro dei profughi e di supervisionare un referendum di autodeterminazione, previsto per il 1992. Da allora le ostilità non sono cessate e il referendum è stato continuamente rinviato. Il Marocco che da sempre ha negato i diritti del popolo saharawi dal 2022 lo fa anche con la complicità della Spagna (Vedi Left 27 aprile 2022. “Anche Sanchez tradisce i profughi saharawi” di Marina Turi). Ad oggi il Sahara Occidentale aspira alla sovranità nazionale ed al completo riconoscimento a livello internazionale.

È in questo contesto che è nato Mohamed, all’interno di quei 2.600 chilometri di muro costeggiati da mine antiuomo.

«Avevo 9 anni quando sono stato segnalato la prima volta. Ero a scuola e ascoltavo gli attivisti protestare. Non conoscevo cosa significasse la parola “Polisario” eppure l’ho pronunciata a voce alta. Non sapevo non si potesse parlare del popolo saharawi e del Polisario».

Da quel momento in poi Mohamed è stato per lungo tempo vittima di gravi violazioni dei diritti umani, che vanno dalla detenzione arbitraria, alle torture, alle molestie legali e amministrative e alla sorveglianza e questo per il suo essere diventato attivista e difensore dei diritti umani del popolo saharawi. Un attivismo esercitato sempre in modo pacifico.

«Era il 28 aprile 2010 quando sono stato rapito. Mi hanno portato in un carcere segreto utilizzato per le torture e per i sequestri. Mi hanno tenuto lì per 5 anni e 7 mesi di cui 4 anni in isolamento totale, in una stanza di un metro e mezzo dove non potevo vedere il sole».

Dopo tanto tempo e con il supporto e la protezione di Amnesty International il 22 luglio 2022 Mohamed Dihani è arrivato all’aeroporto di Fiumicino. Ad oggi Dihani è ancora in attesa di una risposta dalla Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale di Roma.

In questo lungo percorso drammatico ci sono dei momenti veramente preziosi e di spensieratezza per Mohamed. «La prima volta che sono venuto in Italia era il 2002, avevo 15 anni». Il padre di Mohamed, che lavorava in Italia, era riuscito a farlo arrivare con un documento di ricongiungimento familiare. «Non dimenticherò mai quel giorno, eravamo a Piombino e mio padre mi diede il permesso di stare fuori casa tutta la notte con un mio cugino. Io che ero abituato al coprifuoco da quando sono nato mi sembrava incredibile poter restare fuori fino alle due di notte».

«L’Italia mi ha cambiato molto, qui ho capito come vorrei vivere la mia vita. Da anni non mi sentivo al sicuro e mi guardavo sempre le spalle. Piano piano mi sono sbloccato e adesso mi sento libero. Ho finalmente trovato il mio spazio, questo perché ho trovato persone e rapporti validi» racconta Mohamed.

Abbiamo intervistato Mohamed all’interno di “Jaima” la settimana dedicata alla cultura Saharawi (Dal 12 al 20 aprile – Studio 110| Via dei Volsci, 110, Roma). Una settimana densa di appuntamenti e arricchita dalla mostra fotografica di Renato Ferrantini “Saharawi – Oltre l’attesa”, frutto del suo viaggio nei campi di Tindouf (Algeria) nel 2023. Una mostra itinerante che ha già visto la luce in diverse città italiane.

Renato Ferrantini, Saharawi- Oltre l’attesa – Jaima

Jaima è la tipica tenda del deserto dove si svolge il rituale del tè, un momento molto importante per i saharawi perché in quel momento si può parlare e discutere di tutto. Il tè che viene versato nella tazzina scandisce il tempo con un ritmo tutto suo. I saharawi non potendo stare tra le dune del deserto mettono la tenda sul tetto di casa come ci racconta Mohamed che ricorda bene l’ultima volta che ha preso il tè con la sua famiglia. Era luglio del 2019, un ultimo saluto prima di partire e da allora non ha più visto la sua famiglia.

Il progetto fotografico si sviluppa su un percorso visivo e descrittivo di venticinque foto accompagnato da interviste e testimonianze sulla condizione politica e sociale delle donne e degli uomini che lo abitano, in esilio da più di 40 anni.

Quello che colpisce della mostra è l’ambiente accogliente che la curatrice Laura Lombardi ha saputo ricreare. Un’organizzazione ben riuscita soprattutto per le tantissime persone presenti curiose di sapere qualcosa in più di quel lato di mondo di cui come abbiamo detto prima non si parla spesso. Il filo conduttore delle opere di Ferrantini è l’umanità. Quella che ha trovato nello sguardo di un giovane ragazzo che guarda verso l’infinito, forse immaginando il suo futuro. Nel sorriso dei bambini che giocano ancora spensierati. Forse ancora non sanno che sono nati nella parte sbagliata del mondo come ci suggeriva Mohamed. Nello sguardo e sorriso meravigliosi di una giovane donna che si vedono poco perché ha lo sguardo abbassato e che solo un osservatore attento può coglierne la bellezza. Alcuni bambini che raccolgono delle piantine verdi nate tra la sabbia del deserto dopo un acquazzone. Quel verde in totale contrasto con il giallo predominante del deserto, forse un auspicio di un’umanità sempre possibile.

La mostra
Fino al 20 aprile Studio 110 (@studio110art) la mostra fotografica di Renato
Ferrantini “Saharawi – Oltre l’attesa”, frutto del suo viaggio nei campi di Tindouf nel 2023.
La mostra è l’occasione per conoscere da vicino la storia e la cultura Saharawi (letteralmente “gente del deserto”) attraverso una serie di eventi collaterali. Oltre alle immagini fotografiche, Studio110 espone oggetti di artigianato, stoffe, tappeti, per evocare, attraverso gli oggetti della cultura materiale, l’atmosfera di una Jaima Saharawi.
Finissage : sabato 20 aprile – ore 18-23

In apertura: foto di Renato Ferrantini dalla mostra “Saharawi – Oltre l’attesa”

In fondo le odiano, le autonomie

Nel turbine delle notizie di giornata colpisce la decisione del governo di Giorgia Meloni di impugnare un provvedimento amministrativo della Regione Emilia Romagna che dava le linee di indirizzo alle Ausl, istruzioni tecniche su come dare seguito alle eventuali richieste di suicidio assistito.

Il ricorso presentato dall’Avvocatura dello Stato si basa sulla “carenza assoluta di potere in capo alla Regione Emilia-Romagna all’adozione dei provvedimenti impugnati”, il fatto che questi provvedimenti siano in contraddizione con le “previsioni statali di legge in materia di programmazione sanitaria” e anche il fatto che la verifica dei requisiti sia in capo al Comitato regionale per l’etica nella clinica e da commissioni di area vasta, enti “diversi da quelli espressamente chiamati dalla Corte Costituzionale nella sentenza del 2019 ad operare in attesa dell’intervento del legislatore nazionale”.

Più banalmente Meloni e la sua truppa vogliono imporre il loro oscurantismo perché ancora una volta sono incapaci di colmare un vuoto legislativo in Parlamento. Incapaci di inventarsi nuovi diritti distruggono gli esistenti per dare l’impressione di un’azione politica. Un’altra evidenza dell’ipocrisia è il fatto che – come sottolinea l’associazione Luca Coscioni – l’aiuto medico alla morte volontaria – che è un diritto stabilito, a determinate condizioni, dalla Corte costituzionale – la competenza delle Regioni è evidente. Un ulteriore particolare è che un governo che professa l’autonomia sia da mesi impegnato a imporre decisioni all’autonomia scolastica, all’autonomia regionale, all’autonomia delle persone. 

Buon venerdì. 

È alta tensione tra Venezuela e Guyana per il territorio dell’Esequibo

A fine marzo, l’Assemblea nazionale venezuelana, a maggioranza chavista e sotto il Grande polo patriottico Simón Bolívar, guidato dal Partido Socialista di Nicolás Maduro, ha approvato la legge di annessione della regione di Esequibo, territorio riconosciuto a livello internazionale come appartenente alla Repubblica Cooperativa di Guyana.
La faida regionale iniziò nel 1841, quando la giovane nazione venezuelana, dichiaratasi indipendente dal Regno di Spagna trent’anni prima, contestò l’accaparramento della area ovest del fiume Esequibo, da parte del governo britannico, nuovo amministratore subentrato ai Paesi Bassi.
Trattandosi di una regione ricca di giacimenti minerali, compresi oro e diamanti, durante il passaggio amministrativo anglo-olandese, i colonizzatori avvertirono la necessità di definire in maniera chiara la frontiera tra British Guiana e Venezuela, attraverso la “linea Schomburgk”, che aggiunse 80mila km2 a occidente, a partire della frontiera naturale del fiume Esequibo. Tale aggiunta, oggi, costituisce il 70% dell’attuale territorio guyanese. Dopo il tentativo fallito degli Stati Uniti di mediare la disputa, ponendosi come garante del Mediterraneo americano, fu il neonato Arbitrato Internazionale parigino a decretare, nel 1899, che l’intera area contesa apparteneva all’amministrazione inglese.

A metà Novecento, fu resa pubblica una lettera di Severo Mallet-Prevost, uno degli avvocati nominati dagli Stati Uniti per difendere il Venezuela nell’Arbitrato internazionale. Nella missiva, l’avvocato statunitense si dichiarava convinto delle pressioni subite dal giudice parigino per emettere una sentenza favorevole agli inglesi. Per tutta risposta, il governo di Caracas rivendicò nuovamente il territorio, nel 1966, anno dell’indipendenza della Guyana dal Regno Unito, stavolta rivolgendosi all’Onu. Grazie agli Accordi di Ginevra, le Nazioni Unite sancirono l’intento dei tre Paesi di trovare una soluzione pacifica alla diatriba, al fine di garantire la sicurezza in Sudamerica.

L’attuale aumento della tensione ebbe inizio negli anni Ottanta, con la scoperta dei primi giacimenti di petrolio nell’area reclamata, le concessioni date dal governo guyanese alle aziende off-shore e on-shore statunitensi e il ricorso alla vendita di war bonds, ovvero di titoli di guerra, per finanziare un eventuale conflitto con Caracas. A quel punto, le relazioni politiche e militari della Guyana con gli Stati Uniti divennero, via via molto più solide.
Da quel momento in poi, sia la classe politica venezuelana, che quella guyanese sfruttarono la tensione nell’area, soprattutto durante le campagne elettorali. Nei momenti clou della propaganda politica, con lo scopo di aumentare la propria popolarità, entrambi i Paesi puntavano al nazionalismo e alla sicurezza della frontiera.

Con l’arrivo al potere di Hugo Chávez, nel 1999, la politica estera venezuelana attraversò un periodo tanto particolare quanto delicato, caratterizzato da teorie complottiste e dal forte senso di persecuzione nei confronti del Paese limitrofo. Il presidente venezuelano arrivò persino a minacciare l’invasione della Guyana, con l’obiettivo di far saltare le negoziazioni per la costruzione di una base aerospaziale americana sul territorio, sostenendo che il vicino non poteva sfruttare un’area reclamata a livello internazionale. Pur di evitare il conflitto e tranquillizzare il contendente di frontiera, il governo della Guyana, con sede a Georgetown, rinunciò al progetto.
Nel 2000, l’United States Geological Survey fece una grande scoperta: rilevò uno dei più grandi giacimenti di petrolio al mondo, e ciò stimolò gli investimenti sul bacino Guyana-Suriname, compresa la regione di Esequibo. Improvvisamente, uno dei Paesi più poveri dell’America Latina, si ritrovò ad avere il potenziale per diventare uno Stato all’avanguardia economicamente, con la crescita più veloce al mondo, come ad esempio il Qatar. La scoperta di numerosi pozzi petroliferi, da parte dell’azienda statunitense Exxon Mobil, contribuì all’inesorabile alleanza tra l’amministrazione pubblica e il settore privato.

Per rivendicare il territorio di Esequibo presso la Corte Internazionale di Giustizia (Cig), nel 2018, il governo della Guyana sfruttò avvocati pagati direttamente dall’azienda interessata, per un totale di ben 780 milioni di dollari di spese legali. Il ricorso della Guyana alla Cig, risulta anomalo in materia di trattati internazionali. Al pari del Venezuela, il Paese non ha mai riconosciuto la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia; oltre ai precedenti storici, tale anomalia giuridica ha portato il presidente Nicolás Maduro a sostenere l’illegalità e l’infrazione delle norme internazionali del governo guyandese.

La reazione energica e impositiva di Nicolás Maduro delle ultime settimane non sorprende. In vista della campagna elettorale, la retorica di voler proteggere l’integrità territoriale del Paese, ancora una volta, spinge la popolazione verso il nazionalismo. Il risultato del referendum consultivo, secondo fonti governative, ha riportato che più del 90% dell’elettorato venezuelano ha votato a favore della ripresa di Esequibo. Successivamente, è stata apportata una modifica della carta geografica, con multe salate per chiunque contestasse l’annessione, e il blocco delle candidature degli oppositori ritenuti filo-americani. Tutto questo rappresenta l’ennesimo esempio di forza che l’erede chavista usa contro la resistenza interna e internazionale. Nella legge di annessione della Guayana Esequibada, come presunta ventiquattresima regione venezuelana, Maduro nomina persino il Presidente della Regione, oltre al fatto che è tassativamente escluso dall’elettorato passivo chiunque si sia dichiarato, in maniera diretta o indiretta, pro-Guyana o Exxon Mobil. La popolazione locale guyanese non viene considerata perché, nell’ottica di Maduro, ritenuta venezuelana.

Mappa con le regioni venezuelane in cui viene indicata la Guyana Esequiba come Zona en Reclamación, 2006

Le ultime dichiarazioni di forza e gli arresti dei sostenitori della campagna elettorale di María Corina Machado Parisca, politica e attivista dichiarata ineleggibile, dopo una controversa sentenza del Consiglio elettorale venezuelano, in più accusata da Maduro di filoamericanismo, possono essere interpretati come un modo di giustificare uno “stato di eccezione” con il rischio di rinviare il voto delle presidenziali del 28 luglio.
La tensione in crescita porta la piccola potenza petrolifera della Guyana a consolidare i suoi rapporti di cooperazione militari con Stati Uniti e Regno Unito. Nel primo caso, con la Brigata di Assistenza alle Forze di Sicurezza americana, gli incontri vertono sulle capacità tecniche e di preparazione militare di un contingente di circa tre mila militari guyanesi, ponendo il focus su vari fattori: assistenza umanitaria, sicurezza marittima, sviluppo professionale e preparazione alla gestione delle catastrofi. Con il Regno Unito, invece, è stato mantenuto il calendario di esercitazioni programmate con navi da guerra inglesi lungo la costa.
Nonostante l’aria bellicosa, i Paesi del Mercosul, la Comunità Caraibica (Caricom) e la Commissione Economica Per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), esortano alla pace tra i due Stati. La diplomazia brasiliana, inoltre, ha indetto una serie di incontri tra i contendenti, al fine di strappare un compromesso pacifico, onde evitare una guerra alle porte del Sudamerica.

Nella foto: Mahdia, piccolo paese nel territorio conteso della Guyana Esequiba, 2006 (wikipedia)