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La società-fabbrica e l’ecocidio globale

La società digitale è diventata fabbrica e tutti noi siamo diventati la forza-lavoro – produttiva, consumativa, generativa di dati che i padroni delle piattaforme digitali organizzano, comandano e sorvegliano.Questo è il punto di vista del sociologo Lelio Demichelis che interviene alla Biennale Tecnologia a Torino (18-21 aprile) parlando del  “totalitarismo della razionalità strumentale che per sua essenza è antisociale, ecocida e antidemocratico”. Ecco alcune sue riflessioni scritte per Left

La società è un’immensa fabbrica, ormai globale. E contro questa società trasformata in fabbrica – e dove ciascuno è mera forza lavoro – occorre praticare una critica radicale, andando così alla radice anche della crisi sociale e ambientale-climatica e la cui causa prima è quella razionalità strumentale/calcolante-industriale che è la premessa del capitalismo. Serve quindi una nuova Teoria critica da usare contro questa razionalità (come proviamo a fare ne La società-fabbrica. Digitalizzazione delle masse e human engineering, Luiss UP, 2023), sviluppandola dalla prima Scuola di Francoforte. Una razionalità che è diventata, a tre secoli dall’inizio della rivoluzione industriale, ma con antecedenti in Cartesio e Francesco Bacone, lo spirito del mondo e che è alla base oggi del totalitarismo tecnico e capitalista. Una razionalità totalmente “irrazionale”, ma che aveva catturato anche Marx e i marxismi con il loro mantra dello sviluppo delle forze produttive, Marx e Gramsci vedendo nella fabbrica il modello per la società socialista – senza però il capitalismo.
Una (ir)razionalità che è strumentale, perché finalizzata ad accrescere sempre di più il profitto privato; calcolante, perché tutto si basa sul calcolo e sulla ricerca dell’esattezza (oggi algoritmica), che però mai è sinonimo di giusto e di vero; e industriale, perché tutto è industrializzato e oggi lo è soprattutto la nostra vita intera come produttori, consumatori e generatori di dati. “To change the soul”- cioè  cambiare l’animo della gente – è sempre stato l’obiettivo di ogni totalitarismo, e oggi di quello tecno-capitalista, per omologare/uniformare/standardizzare e soprattutto integrare i comportamenti umani e renderli calcolabili, prevedibili, pianificabili e quindi sfruttabili – e a questo servono appunto il management, il marketing e i social.
E da soggetti liberi e autonomi quali gli uomini potevano essere, almeno nelle premesse dell’Illuminismo, sono diventati oggetti, merci, nodi della rete. Passando dalla reificazione capitalistica dell’uomo, secondo Marx, alla datificazione tecnica di oggi e quindi rendendolo ancora meglio funzionale alle esigenze di accrescimento illimitato e irresponsabile del tecno-capitale: cioè produrre e consumare sempre di più, ma certo non per soddisfare i bisogni e l’esigenze dell’uomo e per la cura della Terra. E la società-fabbrica è allora la sublimazione totalitaria della razionalità strumentale/calcolante-industriale.  E di totalitarismo della tecnica scriveva, nel 1964 il francofortese Herbert Marcuse: «L’apparato produttivo tende a diventare totalitario nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali… La tecnica serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli», soprattutto grazie a comportamenti other directed (human engineering, appunto) che però devono sembrare inner directed (cioè liberi e autonomi), cancellando ogni opposizione e ogni pensiero critico. Senza dimenticare che il management (e la divisione e l’organizzazione industriale del lavoro) è incorporato negli stessi dispositivi tecnologici e oggi negli algoritmi.
E che la fabbrica tendesse da tempo a uscire dalla fabbrica, «La fabbrica si generalizza e va a pervadere e a permeare tutta la società civile» lo scriveva l’operaista Raniero Panzieri nei primi anni Sessanta; mentre il francofortese Horkheimer scriveva, già nel 1942 di «un regolamento della fabbrica ormai esteso all’intera società»; ed Harry Braverman aggiungeva poi, negli anni Settanta che «quasi tutta la popolazione è stata trasformata in dipendenti del capitale». E accanto e funzionale al management c’è il marketing, che è l’organizzazione scientifica/tayloristica della fabbrica del consumo; e ora anche i social/piattaforme – ancora la fabbrica dove deve crescere sempre di più la nostra produttività/pluslavoro di dati – con tutti noi sorvegliati più e peggio che in una vecchia fabbrica. Ovvero, stiamo realizzando in pieno il principio del positivismo ottocentesco di Saint-Simon e Comte per i quali società e industria sono sinonimi e quindi la società deve essere guidata da industriali, banchieri e tecnocrati, mentre il demos deve saggiamente rassegnarsi (Comte) senza cercare di opporsi, perché l’industria è la forma più alta di civiltà e di progresso…
Falso è quindi dire che siamo entrati nel post-fordismo/post-taylorismo, nella post-modernità e nella società post-industriale/immateriale, perché siamo semmai in una società iper-industriale e iper-positivistica e sempre tayloristica (oggi digitale). Noi tutti non vedendo (soprattutto i marxismi novecenteschi, ciechi come talpe davanti al potere della tecnica – e oggi anche del capitale ) che è la fabbrica (lo scriveva Simone Weil, nel 1934) – dominata dalla sua legge ferrea della divisione e totalizzazione del lavoro e dalla distinzione sempre e comunque tra chi organizza-comanda-sorveglia e chi deve solo e-seguire – e non la proprietà privata dei mezzi di produzione a generare oppressione sociale e perdita della libertà e sfruttamento dell’uomo e della Terra.
Quindi non siamo in una società individualista, ma in una società-fabbrica fatta di individui massimamente integrati/connessi/sussunti (è la digitalizzazione delle masse) nel sistema di potere tecno-capitalista come mai accaduto prima, neppure nei totalitarismi politici del ‘900. Cioè l’individualismo è solo una finzione, posto che quanto più si produce individualizzazione, atomizzazione, isolamento, tanto più e meglio si realizza l’integrazione/sussunzione totalitaria delle parti prima suddivise – soprattutto degli uomini. Impedendo – ancora la legge ferrea della fabbrica, ancora il divide et impera oggi tecnologico – di vedere il tecno-capitalismo nel suo insieme totalitario.
E così siamo anche incapaci di vedere che il mondo è oggi governato da imprese private che a loro discrezione decidono della nostra vita e di quella del mondo intero, così però generandosi (Gallino) un gigantesco deficit di democrazia e di libertà. Così come siamo incapaci di capire che le macchine di oggi non sono le macchine di ieri (singole), ma hanno tutte nella loro essenza la convergenza in mega-macchine (Anders) – il digitale, appunto – ma che questo coinvolge anche la nostra convergenza/sussunzione e soprattutto ibridazione in/con un sistema di macchine, negando quelli che erano invece i fondamenti dell’uomo, cioè pensare, valutare, giudicare, conoscere prima di decidere. Quindi, ci stiamo alienando ancor più da noi stessi, dalla libertà, dalla consapevolezza, dalla stessa ragione e dalla Terra. Delegando tutto alle macchine e al calcolo. E così costruendo quella società automatizzata e governata dalle macchine temuta dai francofortesi mezzo secolo fa, «dove il singolo può sì vivere senza preoccupazioni materiali, ma dove non conta più nulla e tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società» (Horkheimer).
Urgente diventa allora tornare a fare pensiero critico e a costruire una razionalità radicalmente diversa da quella oggi egemone, anti-sociale ed ecocida – ovvero: una ragione umanistica, ambientalista, responsabile.

 

L’autore:
Lelio Demichelis insegna Sociologia economica al Dipartimento di economia dell’Università degli Studi dell’Insubria e alla Supsi di Lugano

Il festival: Dal 18 al 21 aprile si svolge la Biennale tecnologia a Torino a con quasi 150 incontri, 324 relatori da Italia e mondo su 22 sedi, oltre al Politecnico. Fra i protagonisti, oltre al professor Lelio Demichelis, ci saranno Pascal Chabot, filosofo e autore e autore per Treccani Libri del saggio di cronosofia Avere tempo. Il suo intervento si concentrerà su un’analisi di come la tecnologia ha cambiato radicalmente il nostro rapporto con il tempo. Attraverso una riflessione sull’era dell’ipertempo – il tempo degli schermi, e della frenesia delle attività quotidiane – Chabot si domanderà come sia possibile conciliare questa realtà con il bisogno naturale di riappropriarsi di un tempo più “umano”. Altra lectio da segnalare è quella di Bruce Sterling, scrittore, giornalista e docente alla European Graduate School, che parlerà delle “utopie fatte in casa“. Sterling proporrà alcune storie di artisti e collettivi impegnati a ricostruire continuamente le proprie case e i propri spazi lavorativi, come quella di Alexander Calder, artista e ingegnere creativo che investì molto del suo tempo a rinnovare il suo laboratorio e le sue due abitazioni in Europa e negli Usa. E ancora Filippo Santoni De Sio, docente in etica della tecnologia presso Delft University of Technology interviene in un panel che si concentra sulla politica dell’IA. Le intelligenze artificiali creano enormi possibilità di sorveglianza, oppressione e sfruttamento dei lavoratori e degli utilizzatori di Internet, nonché di influenzare i processi politici. La sfida, oggi, è quindi di promuovere sistemi di IA che rispondano ai principi di libertà umana, giustizia e democrazia. Inoltre Riccardo Giorgio Frega, divulgatore e attivista, con Luca Berto e Laura Nori interviene sul tema dei Bitcoin e su come matematica e tecnologia al servizio della democrazia, mentre  Marco Deseriis, docente di sociologia dei processi culturali e comunicativi della Normale di Pisa parlerà di piattaforme digitali fra utopia e distopia: da Netflix a Instagram, da Amazon a Glovo, le piattaforme digitali costituiscono il luogo di molte delle nostre interazioni sociali, nonché della nostra formazione culturale e politica. Infine segnaliamo l’intervento di Luisa Corazza, docente di diritto del lavoro all’Università del Molise. L’incontro proporrà un focus sul lavoro nelle piattaforme digitali che ha lanciato nuove sfide all’azione sindacale. Quale è il ruolo dell’azione sindacale nel capitalismo delle piattaforme? Quali sono le possibili forme di una rappresentatività sindacale matura e consolidata? Questi sono solo alcuni degli interventi per noi più interessanti, ma il programma è sterminato, lo trovate qui: biennaletecnologia.it

Come Orbàn con i suoi giornalisti

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«Gli emendamenti presentati in commissione Giustizia dal senatore di FdI Gianni Berrino al ddl Diffamazione dimostrano che qualcuno non ha capito molto delle sentenze della Corte costituzionale in materia. Il carcere per i giornalisti è un provvedimento incivile e denota la paura di questo governo nei confronti della libertà di stampa. Questa è l’orbanizzazione del Paese». Lo ha detto ieri Alessandra Costante, segretaria generale della Fnsi.

In risposta a un’indicazione che arrivava dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e chiedeva di levare la possibilità del carcere per tutelare i giornalisti la compagine di governo ha pensato di riformare la diffamazione in Italia scrivendo male un disegno di legge che complica ulteriormente il rapporto tra potere e giornalismo e all’ultimo momento non sono riusciti a trattenersi dal prevedere il carcere, di nuovo. Anche la Corte costituzionale aveva sottolineato l’illegittimità del carcere. Niente, è più forte di loro.

Le pulsioni autoritarie del resto funzionano esattamente così, spingono il potere a mostrare la sua vera faccia nelle pieghe della sua azione politica, tradiscono la sua natura alla benché minima occasione. Il combinato disposto dell’emendamento al ddl Diffamazione e l’idea di riforma della par condicio (che prevede minutaggio libero per gli esponenti del governo) tradisce una debolezza di fondo dell’esecutivo. 

La querela per diffamazione è il manganello per sabotare il giornalismo che negli ultimi anni è già in crisi per altri – molto più seri – motivi. Il termometro dello scenario rimane l’editoriale di quei due direttori di giornali di destra qualche settimana fa che per mesi hanno ripetuto che no, non c’era nessuna deriva autoritaria, prima di frignare in un editoriale che lamentava l’abuso di querela.

Buon venerdì. 

Nella foto: il senatore Gianni Berrino, frame di un video sulla campagna elettorale 2022

 

L’Unione europea vara un patto scellerato contro la migrazione

This pact kills, vote no!(questo patto uccide, votate no). Queste grida sono risuonate ieri nel Parlamento europeo, durante la votazione del cosiddetto Migration Pact approvato ieri 10 aprile a Strasburgo. Ma ad uccidere l’Europa ci provano in molti e con ogni mezzo necessario, persino la guerra. Con i conflitti dichiarati, che vedono gran parte dei governi e dei parlamentari europei, schierati per riarmo e offensiva bellica, con quello silenzioso a migranti e richiedenti asilo che ha compiuto un ulteriore salto di qualità, in peggio.

Il Migration Pact, diviso in 3 parti e fondato su 5 pilastri, è il prodotto di un lavoro iniziato nel settembre 2020, quando la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen aveva presentato il New pact on migration and asylum, che avrebbe dovuto, nelle intenzioni delle autorità Ue, essere approvato in pochi mesi. Numerosi ostacoli sono stati immediatamente posti dal Gruppo di Visegrad, ma va detto per correttezza, che da nessuno degli Stati membri, sono venute spinte significative per cambiarne il senso e ricostruire il progetto di un’Europa accogliente. Si è arrivati a votare il testo nell’imminenza delle elezioni ed ognuno tenta di utilizzare il voto per scopi interni.

I 5 pilastri approvati, sotto il nome di “regolamenti”, dovranno ora trovare l’approvazione definitiva del Consiglio europeo ma lo schieramento variegato che si è creato ieri, dà l’idea della direzione che ha preso la frastagliata “maggioranza Von der Leyen”. Secondo le dichiarazioni della presidente della Commissione il Patto dovrebbe servire a gestire con un «regime di solidarietà fra gli Stati membri», in particolare quelli considerati come più esposti all’arrivo di richiedenti asilo. Chi ci segue ne è consapevole, ma impegnare le istituzioni europee, per un numero di fatto esiguo di persone che, con percorsi di reale accoglienza, non costituirebbe alcun problema. Ciò dimostra per l’ennesima volta l’inadeguatezza di questa Ue. Basti pensare che nel 2023 in Italia, Paese di 60 mln di abitanti sono giunte, via mare 158 mila persone e che nello stesso periodo, in Europa, 440 milioni di abitanti, ne sono arrivate 380 mila. Percentuali impercettibili rispetto alla popolazione ma, a causa di una gestione perennemente emergenziale e dell’uso strumentale del tema da parte delle forze di destra si diffonde un allarme di (inesistente) “immigrazione incontrollata”. Invece di affrontare le cause delle migrazioni forzate, magari operando per garantire anche la possibilità di vivere, in condizioni decenti, in Paesi pacifici, si è scelto di percorrere strade battute che non produrranno miglioramenti né per chi arriva né per chi accoglie.

In sintesi il piano è così riassumibile: norme uniformi per le procedure di identificazione; aggiornamento del database Eurodac per creare una banca dati comune per chi entra in Europa; creazione di procedure più rapide per l’esame delle domande d’asilo anche attraverso l’introduzione – in Italia già sperimentata – delle cd procedure accelerate in frontiera, destinate a chi proviene da Paesi ritenuti sicuri e da poter rimpatriare in 28 giorni; istituzione di un nuovo meccanismo grazie al quale, i Paesi a maggior impatto migratorio andranno sostenuti o attraverso il ricollocamento in paesi con meno arrivi o attraverso meccanismi di compensazione economica. In pratica chi rifiuta di accettare un ricollocamento si dovrebbe impegnare a versare 20 mila euro al Paese che ha accolto. L’ultimo pilastro dovrebbe entrare in funzione laddove si verifichino crisi ed emergenze che portino ad aumenti non previsti degli arrivi in uno Stato membro e in cui si richiede un celere intervento dell’intera Unione europea.

Nei 3 anni trascorsi, ci sono state però raccomandazioni che hanno portato già ad interventi mirati: il 2 marzo 2022 è stato creato l’ufficio di un Coordinatore che si occuperà di rendere più rapidi ed efficaci i rimpatri. Lo stesso anno, il 22 giugno 23 Paesi Ue, con il voto contrario del gruppo Visegrad, hanno raggiunto un accordo per le ricollocazioni di rifugiati. La mancata unanimità, ribadita da Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria, dimostra come il piano votato non sarà considerato vincolante. Il Patto ha incontrato il voto contrario dei gruppi europei più oltranzisti come Identità e Democrazia (in Italia rappresentato dalla Lega di Salvini), che lo considerano un accordo al ribasso che pretendevano un impossibile blocco delle frontiere. Dopo un dibattito e numerosi emendamenti, il testo è stato votato in 3 blocchi: gestione asilo e migrazioni, filtraggio frontiere esterne, situazioni crisi immigratoria. In maniera differente e con eccezioni, hanno espresso voto contrario il gruppo The Left e i Verdi. Articolato il voto di Liberali e gruppo Socialisti & Democratici (il Partito Democratico ha espresso voto contrario su due blocchi, approvando solo quello relativo alle situazioni di “crisi”. A favore quasi tutto il Partito Popolare Europeo, il gruppo ECR di Giorgia Meloni, la maggioranza di Liberali e Socialisti e, come già detto, gli estremisti di destra di ID.

Il testo è stato presentato dicendo di voler coniugare sicurezza e accoglienza. Sicurezza per fermare e cacciare, mediante rimpatri, i “migranti economici”, accoglienza per chi ha, secondo le istituzioni UE, realmente diritto all’asilo.
Il testo definitivo andrà letto in maniera più approfondita dopo che una valanga di emendamenti ne ha mutato la versione originale ma alcuni elementi sono certi. In pratica l’accoglienza ai richiedenti asilo sarà sottoposta a limitazioni forti, i rilievi dattiloscopici e le fotosegnalazioni per il database Eurodac, aggiornato, riguarderà obbligatoriamente anche i bambini al di sopra dei 6 anni e chi chiede protezione potrà anche essere temporaneamente privato della libertà personale, per lo screening e l’identificazione, anche se minorenne.

Ma la vera natura del Patto è nella limitazione del diritto d’asilo che rischia di non essere più soggettivo ma legato al Paese di provenienza. I singoli Stati, altro che comunanza di azione, avranno maggiori risorse per la detenzione, potranno utilizzare investimenti per concludere accordi per bloccare le partenze, come fatto con Turchia, Libia e Tunisia, spese comuni per i rimpatri. In definitiva detenzione, rimpatri, delocalizzazione dei Centri di trattenimento ed esternalizzazione delle frontiere, i soliti ingredienti, lasciati alla gestione dei singoli governi, che hanno soltanto reso il Mediterraneo come la rotta balcanica, veri e propri cimiteri.
Gran parte delle organizzazioni umanitarie, come Amnesty International, avevano chiesto di non votare il Patto, così come ha fatto la sinistra. La scelta, maturata con questo testo che innalza le mura della fortezza Europa, non solo è crudele e offensiva del diritto internazionale, ma è anche suicida. Bloccare l’accesso di chi chiede di entrare in Europa per lavoro, mettere a rischio chi crede protezione o asilo, in un periodo che vede l’intero continente, in particolare l’Italia, in pieno inverno demografico e con un forte bisogno di manodopera da regolarizzare, significa, in nome di qualche seggio in più a Strasburgo, privare anche l’imprenditoria di opportunità. Invece, con una votazione che ha spaccato il Parlamento – i voti favorevoli nei 3 blocchi hanno oscillato fra i 322 e i 301, i contrari fra i 269 e i 250 – si è scelto di respingere con ogni mezzo, anche illegale e violento, di perpetrare un crimine che va avanti da decenni.
Va registrato col patto, in conclusione, il fallimento della richiesta di modifica del Regolamento Dublino, quello che obbliga a chiedere asilo nel primo Paese Ue in cui mette piede. Poter arrivare in Italia, Grecia, Malta, per indicare i Paesi più esposti, e consentire di chiedere protezione nei Paesi in cui sussistono legami parentali o migliori prospettive di inserimento socio lavorativo, avrebbe reso meno dura la fuga e di minor impatto l’accoglienza. Ma l’Unione Europea resta egoista e sorda anche di fronte alla ragione.

 

“La magistratura accerterà i fatti”, dicono

“La magistratura accerterà i fatti”. La frase è lì, bella piegata, pronta ogni volta che qualcuno muore sul lavoro. E ogni volta è spesso, spessissimo, tre morti al giorno come un tassametro che scende in un’auto parcheggiata sotto casa. Solo che qui scendono i morti, mica i soldi. 

La strage alla diga di Suviana – perché di strage si tratta quando i morti sono così tanti, così annunciati, così morti nella letargia di chi non interviene per evitarli – ripete la solita liturgia per le grandi occasioni, quando i morti vengono scaraventati da un treno in corsa, quando sono troppi o quando muoiono in un palazzo rovesciato sott’acqua. 

“La magistratura accerterà i fatti”, ci dicono, sperando che basti. Ma una magistratura che accerta le vittime di regole che già sappiamo essere mortali è una magra consolazione perché le eventuali condanne ogni volta scivolano nell’indifferenza della politica che si ripromette di cambiarle senza farlo mai. Al di là dello scempio di vite umane la strage di Suviana ci restituisce per l’ennesima volta una grande azienda incapace di dirci chi siano le persone che stanno sui loro cantieri, persa tra una filiera di appalti e di subappalti che a ogni stadio si impoverisce nel salario, nei diritti, nelle tutele. 

“Il costante stillicidio di operai morti nei cantieri, nelle fabbriche, nei campi sono l’esatta fotografia di un modello di sviluppo e di impresa che ha assunto il profitto come variabile indipendente e la svalutazione dei fattori di produzione come leva di competizione per tenere bassi i prezzi e massimizzare i guadagni”, ha detto ieri il segretario generale della Fillea Cgil Alessandro Genovesi. Non c’è niente da aggiungere. 

Buon giovedì. 

L’autonomia differenziata sarà una catastrofe. Lo dicono le stesse istituzioni dello Stato

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Nell’ambito della campagna di Left contro l’autonomia differenziata pubblichiamo il testo dell’audizione da parte della Prima Commissione Camera dei Deputati di Marina Boscaino, portavoce nazionale dei Comitati per il ritiro di ogni Autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti e del Tavolo NOAD.

I comitati per il Ritiro di ogni autonomia differenziata, l’unità della Repubblica, l’uguaglianza dei diritti hanno iniziato il proprio lavoro di contrasto al processo di autonomia differenziata dall’ottobre del 2018. I Comitati in tutti questi anni si sono documentati, hanno svolto azione di studio, (contro)informazione e mobilitazione, e sono stati promotori di un Tavolo contro l’autonomia differenziata che raccoglie oggi decine di associazioni, gruppi, sindacati di base, settori del sindacato confederale, partiti politici.
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Il nostro giudizio sulla riforma del Titolo V del 2001 si basa su alcuni pronunciamenti autorevoli: quello del prof. Gianni Ferrara, ad esempio, che la definì «un manifesto di insipienza giuridica e politica»; il prof. Giovanni Maria Flick ha parlato – in merito all’autonomia differenziata – di «riforma frettolosa e disorganica, destinata ad aumentare le diseguaglianze nel Paese»; il prof. Ugo De Siervo l’ha definita «una riforma para costituzionale, una riforma parziale e impugnabile davanti alla Corte, in cui a perdere sono solo gli italiani, che amplia la possibilità di estendere i poteri di alcune Regioni, ma senza modificare le altre norme costituzionali che già esistono». Nel corso della nostra ormai quinquennale attività, abbiamo insistito – quale provvedimento di emergenza, ferma restando la nostra critica radicale a tutto l’impianto della riforma del 2001 – sulla necessità della cancellazione del c. 3 dell’art. 116 Cost., che comporterebbe l’impossibilità per le regioni a statuto ordinario di accedere alla potestà legislativa esclusiva fino a 23 materie, previste nei c. 2 e 3 dell’art. 117 Cost. In generale, riteniamo che un governo, dei governi che avessero davvero a cuore il Paese, avrebbero pensato non all’autonomia differenziata, ma ad una rivisitazione dell’intero Titolo V, foriero – peraltro – di ricorsi continui in Corte Costituzionale, altrettanti quanti – pensiamo – ce ne saranno se l’ad dovesse diventare legge. Crediamo che l’autonomia differenziata colpirà, senza distinzione, le cittadine e i cittadini più deboli di ogni parte del Paese, ovunque risiedano, dal momento che essa sottende – come ad esempio dimostrano perfettamente i sistemi sanitari lombardo e laziale, privatizzati per il 50% dal 2001 ad oggi – la ricerca di profitto e dunque la privatizzazione, che escluderà proprio i più bisognosi dall’esigibilità dei diritti universali. Così come, prevedendo l’affiancamento al contratto collettivo nazionale di contratti regionali – e dunque parti diverse tra eguali – l’autonomia differenziata costituisce un attacco alle conquiste e ai diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.
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«Il report della Fondazione Gimbe fotografa un fallimento della sanità nel Mezzogiorno e una difficoltà anche nelle Regioni del Nord in sanità, a legislazione e a Costituzione vigenti. Il report, comunque, si dimentica che la vituperata sanità parzialmente regionalizzata viene classificata in tutte le graduatorie mondiali tra le top ten e, secondo Bloomberg, addirittura al terzo posto a livello mondiale. Per cui, con buona pace di Gimbe, noi stiamo male ma non troppo, e tutto il resto del mondo sta peggio». Così il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, Roberto Calderoli, il 21 marzo ha replicato ai dati contenuti in un report della fondazione Gimbe sugli effetti dell’autonomia differenziata in sanità. «L’autonomia differenziata è stata proposta per rimediare al disastro del Sud e ai problemi del Nord, quindi per rendere più efficienti le prestazioni in tutto il Paese. (…) Intendo proseguire su questa linea, piaccia o non piaccia a Gimbe e agli altri catastrofisti del Paese». In questo modo è stato liquidato lo studio di una fondazione indipendente, che da anni analizza il nostro sistema sanitario, evidenziando le conseguenze già drammatiche dell’attuale potestà legislativa concorrente stato/regioni in tema di salute. Inguaribili pessimisti anche gli scienziati che il 4 aprile hanno parlato di «crisi grave, assistenza a rischio»? E L’Anci, che parla di «gravi tagli alle regioni non autosufficienti dal 2027»? E la Corte dei Conti, con il suo recentissimo documento? I “catastrofisti”, come li ha chiamati il ministro, sono moltissimi, e non solo esimi costituzionalisti, quali quelli che ho citato precedentemente. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dall’Ufficio Parlamentare di Bilancio, alla Banca d’Italia, dalla Corte dei Conti persino alla Commissione europea (che nel Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Relazione per Paese 2023 – Italia,{COM(2023) 612 final}, Bruxelles, 24.5.2023, p. 19) ha affermato: «Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali») non c’è che l’imbarazzo della scelta. Tra i catastrofisti c’è addirittura la Cei – Conferenza episcopale italiana – che quotidianamente esprime la propria avversione all’autonomia differenziata, insistendo sull’aumento delle diseguaglianze che essa comporterà. Da ultimo le Acli hanno lanciato l’ennesimo allarme. A tali pronunciamenti aggiungo un fatto ugualmente significativo: le dimissioni dalla Clep (Comitato per i livelli essenziali di prestazione), presieduta dal prof. Cassese, di alcuni degli artefici della Riforma del Titolo V: in particolare Giuliano Amato e Franco Bassanini. È un fatto che indica esplicitamente l’irricevibilità delle procedure che stanno portando alla conclusione di questo percorso, e – nella fattispecie concreta – la mancata determinazione dei Livelli essenziali di prestazione e la possibilità di procedere sulla base del vincolo di bilancio di sanare le enormi sperequazioni che esistono tra territori nel nostro Paese. L’art. 3 della Costituzione al c. 2 parla chiaro, là dove individua nei compiti della Repubblica la rimozione degli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona. Lì risiedono – a nostro avviso – i Lep, e su questo compito il governo dovrebbe insistere in via prioritaria. Non nella frammentazione della Repubblica stessa e nella determinazione dei diritti sulla base del certificato di residenza. Crediamo davvero che il Ponte sullo Stretto renderà più uguali i cittadini e le cittadine di due regioni che soffrono di una carenza infrastrutturale che li colloca tra le zone più depresse del mondo occidentale? Fate un viaggio sulla Ionica, linea a binario unico che collega Taranto a Reggio Calabria. O – ancora – provate ad andare in auto da Palermo a Catania: viaggi della speranza.
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Perché, dunque, il governo va avanti senza tentennamenti? Come mai non ci si chiede per quale motivo soggetti e istituzioni certamente non “di parte” esprimano un allarme così generalizzato? Per quale motivo un passo di fatto irreversibile non ispira un minimo di cautela, e si preferisce – invece – la prova muscolare? Qualsiasi convinzione delle proprie buone ragioni non può non tener conto di una valanga di allarmi che piove quotidianamente sul governo; così è stato nel corso delle audizioni informali in Senato; altrettanto qui alla Camera dei deputati. Si tratta di catastrofismo o di comprensione profonda e motivata delle conseguenze di carattere amministrativo, legislativo, costituzionale, economico, imprenditoriale (anche le piccole aziende del nord che svolgono la propria attività su più regioni non resisteranno alla gestione differenziata delle normative), in termini di diritti universali, di diritti sociali e civili, di forma istituzionale della Repubblica, di vulnus alla democrazia? Tutti stanno chiedendo di fermarsi adesso: dopo sarà troppo tardi; perché dopo, come predisposto dal testo del ministro Calderoli, sarà impossibile, considerando il criterio della decennalità.
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Il 20 febbraio scorso il ministero della Sanità – ancora non un pericoloso manipolo antigovernativo – ha rivelato che i Lea – Livelli essenziali di assistenza – sono garantiti solo in 8 regioni su 20. L’esercizio del diritto universale alla salute è diventato una chimera; tanto più da quando, con la Riforma del Titolo V, sono state avocate alle regioni – in virtù della potestà legislativa concorrente – importantissime funzioni in quel settore. Le criticità ora non riguardano più il Mezzogiorno: le nuove regioni inadempienti sono quelle del Nord Ovest (Piemonte e Liguria) e del Centro (Lazio e Abruzzo). Questi dati parlano al cuore del Paese, ma non evidentemente al cuore della maggioranza. Questi dati, però, dimostrano chiaramente che la gestione regionale della sanità ha provocato un arretramento generalizzato di un diritto che segna il limite tra la vita e la morte. O, quantomeno, tra una qualità della vita dignitosa garantita dalla Repubblica e da una Costituzione sulla quale i membri del governo hanno giurato.
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Come siamo arrivati fin qui? Il 7 ottobre 2001 si celebrò il primo referendum costituzionale nella storia repubblicana, che vide la prevalenza dei sì col 64,2% dei voti, con un’affluenza attestatasi al 34,1% dei votanti. Il 22 ottobre 2017 si celebrò il referendum veneto (e porto l’esempio più eclatante rispetto all’omologo referendum consultivo in Lombardia) – con il seguente quesito: Vuoi che alla regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia? Con il 57,2% di votanti, che per il 98,1% si espressero per il sì, si suggellò l’inizio delle procedure che dettero via alle pre-intese del 28 febbraio 2018. È evidente che il passaggio referendario (con qualsiasi risultato) legittimi formalmente chi sta procedendo; ma è responsabile devastare la repubblica e i principi fondamentali della Carta forti di consultazioni che hanno coinvolto pochissime persone, peraltro orientate nel 2001 da vistose ignoranza e noncuranza, nel 2017 da una domanda che omette completamente la complessità del tema? «Non è una secessione dei ricchi, ma una opportunità per tutti», ha detto qualche giorno fa Luca Zaia. Sulla base di quali dati? La maggioranza conta sulla disinformazione dell’opinione pubblica rispetto a cosa sia effettivamente l’Ad e quali ne saranno le conseguenze; e purtroppo c’è stato un silenzio stampa a livello nazionale e solo poche forze si sono impegnate in un’azione di informazione e di dibattiti pubblici; oggi certo l’Ad è spesso nelle cronache politiche e, ciononostante, una recente statistica ha evidenziato come solo il 19% delle italiane e degli italiani sanno oggi cosa sia l’Ad. Noi abbiamo sempre chiesto che si attivassero canali di dibattito pubblico, che venissero coinvolti i Comuni, che le istituzioni pubbliche a partire da quelle regionali, si facessero promotrici di pubbliche discussioni e attivassero i propri mezzi di informazione, anche social. Nulla di tutto ciò è avvenuto. D’altra parte, quando le istituzioni, chiamiamole esperte in materia economica, hanno indicato al governo gli effetti devastanti dell’Ad – penso all’Upb (Ufficio parlamentare di bilancio), alla Banca d’Italia, alla Confindustria, soprattutto quelle del Mezzogiorno – il governo ha fatto ‘orecchie da mercante’. Ai puntuali rilievi critici contenuti anche nelle Memorie consegnate alla I Commissione del Senato e ora a questa Commissione, il governo e la sua maggioranza non hanno mai risposto e hanno proceduto all’approvazione del ddl Calderoli in un ramo del Parlamento. Vorrà questa Commissione tenerne conto? Per quanto pensano le forze della maggioranza che la mancanza di una diffusa informazione da parte delle cittadine e dei cittadini potrà tutelarle dalle conseguenze catastrofiche – da tutti quei punti di vista – che le intese tra governo e regioni produrranno? Il bacino elettorale del Sud quanto potrà rimanere inalterato nel momento in cui le persone si renderanno conto che sulle loro esistenze è stata compiuta una scelta di mortificazione e dismissione del loro futuro? Nel momento in cui la Calabria si renderà conto che le proprie 0 terapie infantili pediatriche con 2 milioni di abitanti contro le 4 del Veneto con 4 milioni di abitanti non sono destinate a variare? Che gli asili nido di Reggio Calabria rimarranno 2 contro i 60 di Reggio Emilia? E alle donne di tutto il Paese cosa racconterete? Che di asili nido non c’è bisogno perché tanto il lavoro non c’è? E che di consultori ancor meno, perché tanto il loro destino è rimanere a casa? Avete tenuto conto del fatto che l’abolizione del valore legale del titolo di studio porterà – come nel caso della mobilità sanitaria – un ulteriore spopolamento del Sud, con una migrazione dei e delle giovani delle famiglie benestanti di quelle zone, per accedere alle certamente più quotate scuole del Nord; perpetuando un fenomeno che già ha investito l’università? Mi si dirà: c’è un mandato elettorale. Pensate davvero di considerarlo – in una campagna elettorale che ha detto tutto e il contrario di tutto (autonomia differenziata e presidenzialismo) – indizio di consenso nei confronti del progetto distruttivo della Repubblica. Non alimenterà tutto ciò l’astensionismo? Le omissioni di ciò che bolle in pentola anche per chi ha votato centro-destra sono colpevoli quanto il silenzio trasversale sulla raccolta firme che i comitati dell’Emilia Romagna hanno portato a termine con successo per presentare una legge di iniziativa popolare che chiede al presidente Bonaccini di recedere dalle pre-intese. In Campania la Lega porta avanti la campagna “Differenziamoci”: incontri secretati o clandestini, si dovrebbe pensare, non pubblicizzati dai giornali, evidentemente per evitare che la democrazia prevalga e vi acceda chi è contro o chi sia in grado di controbattere. Le nostre proteste ai rarissimi giornali che ne hanno dato notizia, omettendo data e orari degli incontri stessi, sono rimaste inascoltate. Omissioni e silenzi sono le prove di una volontà autocratica, che toglie voce ai cittadini e alle cittadine, comprime gli spazi di partecipazione, nella convinzione che il popolo, la gente, la persona umana conti ormai nulla.
***
Il ministro Calderoli – in Senato e in diverse dichiarazioni – ha ripetutamente affermato che sta attuando la Costituzione. Dimentica, però, che la Carta non si esaurisce negli artt. 116 e 117, ma – nell’ambito dello stesso Titolo V – prevede le disposizioni del 119, così come – e prioritariamente – i primi 12 artt. i fondamenti e i principi della Costituzione, e tra questi l’art. 5, che afferma il principio del regionalismo solidale e la sussidiarietà verticale, che individuerebbe nei Comuni i destinatari di quel tipo di autonomia, determinata nell’alvo della Repubblica “una e indivisibile”. Quei comuni che saranno ulteriormente penalizzati dal centralismo regionale che l’autonomia
differenziata sdogana. Alla luce di quei principi, nei quali crediamo profondamente e intransigentemente, e a cui abbiamo ispirato la nostra partecipazione all’ «organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (cui ci chiama esplicitamente la Costituzione), ringraziamo per averci dato in questa sede la possibilità di esprimere le nostre ragioni, nella speranza che possano apportare riflessioni, dubbi, ripensamenti rispetto ad un progetto di divisione della Repubblica e di frantumazione dei diritti dei suoi cittadini e cittadine, differenziati sulla base del loro certificato di residenza e di un presunto “merito” che non può – pur nella consapevolezza di quanto talvolta la gestione della cosa pubblica al Sud sia stata deficitaria – essere pretesto e condizione per scardinare uguaglianza, solidarietà, centralità della persona umana, regionalismo cooperativo.

Nella foto: il ministro per gli Affari regionali e le autonomie Roberto Calderoli, frame del video di Porta a Porta, 16 febbraio 2023

Qui il testo dell’audizione del giurista e costituzionalista Giovanni Russo Spena

Qui il libro di Left contro ogni autonomia differenziata

C’è un bel clima a Strasburgo

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È una sentenza storica anche se piccola quella che arriva dalla Corte europea dei diritti dell’uomo contro la Svizzera. I giudici di Strasburgo hanno pronunciato la prima sentenza che sancisce che l’azione contro il cambiamento climatico sia un diritto. La causa è stata intentata da “Anziane per il clima”, un’associazione che conta più di 2mila associate, alcune delle quali – tutte nate tra il 1931 e il 1942  – avevano fatto causa alla Confederazione elvetica per avere violato l’articolo 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ovvero il diritto al rispetto della vita privata e familiare, in quanto non ha preso sufficienti misure per mitigare gli effetti dei cambiamenti climatici.

La Svizzera, ha spiegato la Corte, non ha agito «in tempo e in modo appropriato per concepire, sviluppare e attuare le leggi e le misure opportune». Aggiungendo, che questo «elemento viola i diritti umani». La Corte europea per i diritti dell’uomo fa parte del Consiglio d’Europa, che è composto da 46 membri. Le cause (anche quelle rigettate) sono state comunque trattate come priorità dalla Grande Camera, la cui decisione in merito alla Svizzera va a costituire un precedente legale potenzialmente cruciale.

Per la giudice della Corte, Siofra O’Leary, il governo svizzero ha disatteso i suoi stessi obiettivi climatici: «Le generazioni future avranno probabilmente un fardello sempre più pesante dato dalle conseguenze degli attuali fallimenti e omissioni nella lotta al cambiamento climatico». «La sentenza stabilisce un cruciale precedente giuridico vincolante», spiega fuori dalla corte di Strasburgo Ruth Delbaere dell’associazione Avaas, che ha seguito questo e altri climate litigations, ovvero casi dove associazioni e cittadini chiedono conto dell’inazione ambientale di aziende e governi. «Fungerà d’ora in poi da modello per come denunciare con successo il proprio governo per i fallimenti climatici, la loro inerzia e le inadempienze ai trattati internazionali come quello di Parigi del 2015».

Buon mercoledì. 

Nella foto: frame del video di Anziane per il clima a Strasburgo

Il razzismo negli stadi è frutto del razzismo istituzionale e mediatico, all’opera ogni giorno

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Domenica 17 marzo. Sono le 22:00 circa e 1,6 milioni di italiani sono davanti agli schermi per assistere alla partita Inter – Napoli, valida per la Serie A di calcio. Partita che nella scorsa stagione sarebbe stata interessante per la corsa scudetto, ma non quest’anno. Troppo avanti l’Inter, troppo indietro in classifica il Napoli.

Il motivo d’interesse è un altro. È il minuto 59. La partita si arresta. Juan Jesus, 32enne difensore brasiliano del Napoli, richiama l’attenzione dell’arbitro La Penna. «Mi ha detto ne*ro, a me questo non sta bene», si legge dal labiale del calciatore. Parole che sarebbero state pronunciate dal 36enne difensore dell’Inter, Francesco Acerbi.

Juan Jesus indica anche la patch “Keep racism out” sulla propria maglia, visto che la Lega Serie A ha deciso che proprio la 29sima e la 30sima giornata del campionato debbano servire per promuovere “iniziative dedicate alla lotta al razzismo e ad ogni forma di discriminazione” con “una campagna che punta a prendere una posizione forte anche al di fuori del mondo calcistico”.

Sempre dalle immagini televisive si vede Acerbi, convocato dall’arbitro, scusarsi con Juan Jesus. La partita può riprendere. Tutto sembra finito lì, sul terreno di gioco. Tanto che il difensore del Napoli, intervistato alla fine del match, getta acqua sul fuoco: «lui ha visto che è andato oltre e ha chiesto scusa».

In realtà, è solo l’inizio di un caso che ha riempito le cronache italiane per due settimane prima di inabbissarsi e sparire dai radar.

Acerbi, infatti, è costretto a lasciare il ritiro della nazionale italiana, dopo esser stato inizialmente convocato dal Ct Spalletti; alle domande dei giornalisti, risponde negando di aver mai proferito offese razziste: «Dalla mia bocca non sono mai uscite. Sono 20 anni che gioco a calcio e so quello che dico. Sono tranquillo».

Non si fa aspettare la replica di Juan Jesus, che entra stavolta nei dettagli: «Per me la questione si era chiusa ieri in campo con le scuse di Acerbi […]. Oggi però leggo dichiarazioni di Acerbi totalmente contrastanti con la realtà dei fatti, con quanto detto da lui stesso ieri sul terreno di gioco e con l’evidenza mostrata anche da filmati e labiali inequivocabili in cui mi domanda perdono. Così non ci sto. Il razzismo si combatte qui e ora. Acerbi mi ha detto: “Vai via nero, sei solo un ne*ro…”. In seguito alla mia protesta con l’arbitro, ha ammesso di aver sbagliato e mi ha chiesto scusa aggiungendo poi anche: “per me negro è un insulto come un altro”. Oggi ha cambiato versione e sostiene che non c’è stato alcun insulto razzista».

Nel frattempo si muove la giustizia sportiva. Si apre un’inchiesta che potrebbe portare alla squalifica di Acerbi per un minimo di 10 giornate. I due calciatori vengono auditi dalla Procura federale che, infine, emette il proprio verdetto: nessuna squalifica per Acerbi, perché non ci sono prove sufficienti dell’insulto razzista a Juan Jesus.

La Società sportiva calcio Napoli pubblica un comunicato nel quale si dice “basita” per la decisione dei giudici sportivi. E aggiunge che la società “non aderirà più a iniziative di mera facciata delle istituzioni calcistiche contro il razzismo e le discriminazioni”, denunciando dunque la presunta ipocrisia delle istituzioni sportive.

Juan Jesus, invece, inizialmente risponde senza ricorrere ad alcuna parola. Cambia l’immagine del suo profilo Instagram, facendo campeggiare un pugno chiuso. Che a molti ricorda uno dei simboli del Black Power, la potentissima immagine di Tommie Smith e John Carlos sul podio delle Olimpiadi di Messico ‘68.

La vicenda si chiude – almeno per il momento – con un’intervista ad Acerbi pubblicata il 29 marzo sul principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera; e con i calciatori del Napoli schierati sabato 30 marzo in ginocchio al centro del campo in attesa del fischio d’inizio di Napoli-Atalanta, riprendendo un gesto simbolo delle proteste del movimento Black Lives Matter.

Sbaglia chi pensi che si tratti di una semplice storia di sport. E sbaglia ancor di più chi ritenga di poter snobbare quanto successo, perché in fondo stiamo parlando di due privilegiati, di due calciatori che in un solo mese percepiscono quanto un “normale” lavoratore non riesce a guadagnare nel corso di tutta la sua vita.

Sbaglia perché la vicenda Juan Jesus – Acerbi è l’ennesima emersione a galla di un fenomeno sempre più presente: il razzismo. Che emerge, con cadenza quasi settimanale, nel mondo del calcio. Ma nella maggior parte dei casi i razzisti sono i “cattivi” perfetti: i tifosi, quelli brutti, sporchi e cattivi. Quelli è facile condannarli. Più complicato quando a esprimere un’offesa razzista è uno dei tuoi beniamini, uno dei simboli della tua squadra del cuore, della tua nazionale.
Così in questi giorni è stato un proliferare di commenti tendenti a relativizzare, a sostenere che in fondo Juan Jesus avrebbe esagerato. Come ha fatto in sostanza lo stesso Acerbi che, sulle colonne del Corriere della Sera, quando ha affermato che «in campo si sente un po’ di tutto […]. Però finisce lì, altrimenti diventa tutto condannabile, anche gli insulti ai serbi, agli italiani, alle madri». Curioso che ad Acerbi siano venuti in mente proprio gli insulti ai serbi…
E poi ci sono quelli di “Non si può dire più niente”, pronti a lanciarsi nelle crociate contro quello che definiscono “politically correct” e che fanno finta di non sapere/vedere che oggi anche le più atroci espressioni sono invece consentite, al contrario di espressioni di mero buon senso, come uno “stop al genocidio a Gaza”, che è al contrario ancora tabù.

Sbaglia perché il racconto mediatico che c’è stato intorno all’episodio mette bene in luce alcuni fenomeni che vediamo spesso in azione. A partire dalla vittimizzazione secondaria. Com’è accaduto nell’editoriale di Dotto, editorialista di punta della Gazzetta dello Sport, principale quotidiano sportivo del Paese e ai primi posti della classifica dei giornali più venduti in Italia (più di 150mila copie quotidiane). A due giorni dall’episodio di San Siro, Dotto si rivolge a Juan Jesus, la vittima, dicendo che “ha sbagliato tre volte”. Ha sbagliato «quando s’è limitato a confessare all’arbitro il fattaccio»; quando «ha preteso di assolvere l’eventuale peccatore»; quando «ha raccontato nei social […] quello che avrebbe dovuto dire la sera prima davanti alle telecamere».
È la vittima che sbaglia. Sempre. Magari perché indossa una minigonna o perché percorre una strada isolata o perché beve una birra di troppo. O perché denuncia o perché non denuncia o perché denuncia ma con parole insufficienti.

Sbaglia perché il Corriere della Sera, che si è preso la briga di intervistare Acerbi (e non Juan Jesus), mostra bene cos’è troppo spesso il giornalismo italiano. In un intero paginone dedicato alle risposte del difensore dell’Inter c’è un file rouge ben presente e un elemento invece del tutto mancante. Il file rouge è il vittimismo dell’intervistato. Vittimismo che vediamo di solito all’opera quando a essere intervistate sono personalità dell’ultradestra del governo Meloni, sempre pronte a dipingersi come agnellini. Una modalità comunicativa che evidentemente ha fatto scuola anche nel calcio.
L’elemento mancante è l’unica domanda che probabilmente avrebbe avuto senso: “Acerbi, cos’ha detto davvero a Juan Jesus, visto che la versione è cambiata più volte in pochi giorni?”. Manca e così viene meno uno dei compiti chiave del giornalismo, quello di accertare come si siano svolti i fatti e su quella base – sulla base di un principio di realtà – produrre commenti e considerazioni.

Sbaglia perché il calcio, che piaccia o meno, non è solo ciò che accade nei 90 minuti di gioco. Né tantomeno un’isola, felice o infelice che sia. Il razzismo che vediamo negli stadi, sul terreno di gioco e sui giornali sportivi è il frutto del razzismo istituzionale e mediatico che vediamo all’opera tutti i giorni. Le campagne d’odio contro i migranti, contro gli “stranieri che vogliono comandare a casa nostra” non si fermano ai cancelli degli impianti sportivi. Ci entrano. Senza incontrare ostacoli.

Sbaglia, infine, perché il calcio e il racconto mediatico che ci si costruisce intorno contribuiscono a loro volta a plasmare il senso comune collettivo. Non è con lo snobismo di certe intellighenzia che lo trasformeremo in quello che Gramsci chiamava “buon senso”.

Questo articolo di Gliuliano Granato (portavoce di Pap) è pubblicato in collaborazione con Canal Red, fondato e diretto da Pablo Iglesias

Nalla foto: I titolari e la panchina del Napoli si inginocchiano per protesta contro il razzismo prima della partita con l’Atalanta,  30 marzo 2024 (dal sito SscNapoli.it.)

 

Il conflitto sociale genera democrazia

Il livello di diseguaglianze della società occidentale contemporanea è simile a quello che si registrava nel periodo della Belle époque.
Diminuite nei Paesi ricchi tra il 1915 e il 1945 e durante il Trentennio glorioso, le diseguaglianze economiche e materiali sono tornate a crescere dalla metà degli anni Settanta per attestarsi oggi a questi livelli: in gran parte dell’Europa il 10% dei patrimoni più elevati rappresenta circa il 60% del patrimonio nazionale mentre il 50% più povero sta al disotto del 5%, come appunto nel 1910; e negli Usa, rispettivamente, il 72% ed il 2%. Ci ricorda questo dato Luca Baccelli nel suo solido ed informato lavoro su Il conflitto sociale, uscito recentemente per la collana fondamenti della casa editrice della Cgil. Non è l’unico paragone illuminante e, parimenti, inquietante presente.

La realtà attuale si caratterizzerebbe infatti come una società a diritti differenziati per quanto concerne i diritti reali e formali dei subalterni, un po’ come avveniva nella democrazia ateniese, che escludeva dal demos giovani, donne, metechi e schiavi: tra i lavoratori farebbero parte a pieno titolo della società politica – seppur in maniera subordinata e marginale – solo gli autoctoni, maschi e in età non giovanissima, restandone escluse donne, giovani, disoccupati e precari, a cui vanno aggiunti gli immigrati “regolari”, che assommano a quasi sei milioni – in grandissima parte lavoratori – e che risultano sostanzialmente privi di diritti politici come quelli dell’elettorato attivo e passivo, e quelli irregolari in condizione servile e soggetti a forme brutali di sfruttamento che non si fermano all’ambito lavorativo (sono in Italia, stabilmente, dalle seicento alle ottocentomila persone che neppure la pandemia ha permesso di regolarizzare). Società nelle quali il conflitto sociale viene non solo represso (come dimostrano le recenti precettazioni del ministro Salvini rispetto agli scioperi della Cgil e della Uil contro le misure economiche e sociali del governo Meloni) ma considerato come una patologia di compagini nazionali organicistiche basate su elementi regressivi come il sangue, la razza e l’impresa.

È questa in verità, come ci ricorda efficacemente Baccelli, una posizione di lunghissima durata che affonda le radici negli albori del pensiero politico occidentale. Per Aristotele gli uomini sono per natura diversi e complementari, socievoli ma asimmetrici. L’individuo intelligente è per natura padrone e quello forte schiavo. L’uomo è un animale sociale dove però la complementarietà di sovraordinazione e sottomissione è antropologicamente data come fatto di natura, così come la polis è essa stessa una entità naturale: il conflitto è pertanto una patologia del corpo politico.

È questo tratto della diseguaglianza come fatto antropologico e naturale – positivo se immutabile all’interno della comunità – che costituirà fino ai nostri giorni il fondamento di tutte le teorie politiche antidemocratiche, che affermano sostanzialmente l’impossibilità/incapacità del popolo – sempre ridotto a plebe – di porsi come classe dirigente superando tramite il conflitto e l’organizzazione di parte il proprio stato di minorità niente affatto naturale. Basti pensare al “vecchio malvissuto” di manzoniana memoria.
Il topos negativo del conflitto, ridotto alla sfera dei singoli individui, ritorna e si irrobustisce con Hobbes, dove la nascita della forma artificiale dello Stato si legittima con il compito di neutralizzare il conflitto, sempre ridotto a violenza bestiale e mai atto collettivo e consapevole. Ed è questo un paradigma che sarà fatto proprio da pensatori ed attori sociali abitualmente ascritti al campo progressista, siano pur’essi Kant e Rousseau fino ad arrivare alla stessa Hanna Arendt.

È solo con l’uomo politico e pensatore Niccolò Machiavelli che il conflitto non solo viene considerato ineliminabile, ma dove i “tumulti” hanno una funzione positiva. Ogni comunità politica è divisa in gruppi, dove si sostanzia la polarità tra due “umori”, il popolo e l’élite sociale e politica. Siamo dunque di fronte a componenti sociali che esprimono differenti fini e interessi contrastanti.

Machiavelli, rivendicando la propria appartenenza al popolo e il punto di vista di parte, afferma e ribadisce la dimensione collettiva della lotta tra gruppi e proprio questo conflitto considera come una caratteristica fisiologica della società. Non solo, l’ordine non è pensabile se non in relazione al conflitto e «le buone leggi [nascono] da quelli tumulti che molti inconsideratamente dannano». Tramite il conflitto quindi non solo il popolo assume un ruolo attivo e viene incluso nella cittadinanza, ma per questa via si realizzano cambiamenti istituzionali in grado di vivificarsi incessantemente. Ma oggi, soprattutto in Italia, Machiavelli è morto. Ed è questo, assieme alla mancata capacità/volontà delle forze politiche variamente ascrivibili al campo progressista di rappresentare i bisogni materiali della “classe più numerosa e più povera”, il limite più grave e la responsabilità più grande della cosiddetta “sinistra”.

Eppure tra i nostri maggiori abbiamo avuto Gramsci ed il livello attuale delle diseguaglianze in Italia è, se possibile, ancor maggiore della gran parte dei Paesi occidentali. Eppure la società dei due terzi, che avrebbe rilegato in soffitta la lotta di classe includendo la parte maggioritaria del movimento operaio nel ceto medio attento ai bisogni postmateriali avendo risolto definitivamente quelli primari, cede il passo ad una polarizzazione che se non è quella dell’1% contro il 99% vede scomparire il ceto medio e polarizzare le estreme. Eppure, a fronte di quanti facevano derivare meccanicamente dalla disarticolazione e complessificazione della classe dei subalterni la fine della classe in quanto tale e conseguentemente del conflitto socialmente connotato pensatori ed attori politici come Sorel, Laclau e soprattutto il già ricordato Antonio Gramsci avevano ampiamente dimostrato nella teoria e più ancora nella prassi che le classi non si sono mai prodotte spontaneamente come risultato automatico di processi economici e sociali.

Il momento dell’egemonia e del conflitto come elemento che definiva, identificava e consolidava i soggetti in lotta è stato necessario finanche, se non soprattutto, nella fase classica di formazione del movimento operaio e socialista negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento.

Non solo, soprattutto a partire dalla crisi del 2008 si è aperto uno squarcio che ha coinvolto intellettualità e giovani generazioni rispetto alla globalizzazione del mondo unipolare come non solo unica possibilità ma la migliore dei mondi possibili. E il conflitto sociale è ripreso, e organizzazioni sindacali come Cgil e Uil hanno messo il conflitto e la mobilitazione come postura di lungo periodo in questa fase classista dall’alto verso il basso e postdemocratica, temi come l’ambientalismo innervato dalla lotta di classe assumono una centralità rilevantissima a livello globale e locale, unendo associazioni storiche dell’ambientalismo popolare come Legambiante ai Fridays for Future per arrivare a Extinction rebellion e Ultima generazione.

E qualcosa di profondo si è smosso nel corpo della nostra società: il femminicidio di Giulia Cecchettin, le parole della sorella, l’umanità del padre hanno portato centinaia di migliaia di donne (e uomini) a riempire piazze e strade in un moto individuale e collettivo di cambiamento necessario e possibile. Lotta al patriarcato e femminismo del 99% hanno dimostrato di non esser solo temi da convegni o da saggi brillanti. Ed anche questo è un ritorno alle origini del marxismo per andare avanti, dall’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di Friedrich Engels alla rilettura dell’alba dell’umanità da parte dell’antropologo e attivista troppo presto scomparso David Graeber, dove si dimostra che sono esistite per millenni società avanzate senza differenziazioni sociali, o dove le differenziazioni non producevano una differenza di status, dove case e città non avevano fortificazioni e dove, udite udite, società hanno scelto di tornare indietro dalla stessa rivoluzione agricola per le più egualitarie società di cacciatori-raccoglitori, dove le società non erano patriarcali e gli dei erano donne. E Luca Baccelli ci chiede con forza di inserire nella nostra cultura politica – tesa all’emancipazione dei singoli e della collettività – il femminismo intersezionale che da Angela Davis conduce a Nancy Fraser. Non solo pensiero, ma pratiche e vissuti, individuali e collettive. È stato possibile, potrà tornare ad esserlo, assieme ad un “Moderno Principe”, che lotti per l’egemonia e sia novello fondatore di IstituzioniPotrebbe essere un'immagine raffigurante pasta e il seguente testo "含 2F LUCA BACCELLI IL CONFLITTO SOCIALE ก Presso la sede CGIL di Lucca Martedì 9 Aprile 2024 Ore 17:30 Via G. Luporini, 1115/F ስር Partecipa Maurizio Brotini IRES CGIL Regionale Presentazione di Luca Baccelli CGIL LUCCA"

Ben arrivati a quelli che sorridevano quando si parlava di pericolo autoritario

«Ormai siamo a un passo dall’Eiar: il passaggio definitivo dal servizio pubblico a quello di Stato e di governo. A questo esecutivo non basta aver occupato in Rai tutto l’occupabile, ora si lavora anche a norme per piegare la par condicio alla propaganda di governo». Non usa giri di parole il presidente della Fnsi Vittorio Di Trapani commentando gli emendamenti proposti dai partiti di governo alla delibera in Vigilanza Rai sulla par condicio in previsione delle elezioni nei prossimi mesi. 

Decidere di escludere dal computo delle presenze Giorgia Meloni perché presidente del Consiglio, Matteo Salvini perché ministro dei Trasporti e Infrastrutture e Antonio Tajani perché ministro degli Esteri fingendo che non siano anche i leader dei loro rispettivi partiti significa puntare all’occupazione delle reti pubbliche con una prepotenza inimmaginabile perfino ai tempi dell’onnivoro Berlusconi. 

L’emendamento 4.13 prevede che i programmi di approfondimento siano tenuti a “garantire la più ampia possibilità di espressione” fatto salvo “il principio della notiziabilità giornalistica”, ma soprattutto “la necessità di garantire ai cittadini una puntuale informazione sulle attività istituzionali e governative”. In sostanza significa che la par condicio diventa un hobby per i partiti dell’opposizione. 

L’ipotesi di modifiche è talmente schifosa che è riuscita a riunire tutte le opposizioni in un comunicato congiunto. A definire “illiberali” gli emendamenti di Fratelli d’Italia ci sono anche quelli che sorridevano quando si parlava di pericolo autoritario. Ben arrivati. 

Buon martedì. 

 

Poesie in musica. L’originale ricerca di Diana Torti e Sabino de Bari

Diana Torti, musicista, cantante e lirista, e Sabino de Bari, chitarrista e compositore, formano una coppia artistica impegnata sin dal 2006 in progetti assai particolari, caratterizzati da una continua ricerca che va ad esplorare territori diversi ed apparentemente lontani, dalla musica popolare, al jazz, alla musica classica contemporanea, che vengono utilizzati e rielaborati in una direzione del tutto originale, come brillantemente dimostrato nelle loro più recenti collaborazioni nei dischi On a Cloud (a nome di Diana del 2019 e dedicato alla cantante jazz Jeanne Lee) e Lo racconta il mare, intestato a Sabino e ispirato alla propria terra natale (Molfetta) e pubblicato nel 2022. Da alcuni anni hanno trasferito la propria residenza a Londra dove hanno trovato terreno fertile per la realizzazione dei propri progetti. Li abbiamo incontrati in attesa di ascoltarli dal vivo il 10 aprile a Roma al Teatro l’Arciliuto.

Il nuovo album It’s all we have (Tambora Music) per sola voce e chitarra, si caratterizza come un emozionante racconto di poesie in musica, laddove la voce suadente di Diana esplora le liriche di Emily Dickinson e di Christina Rossetti, muovendosi tra profonde inquietudini ed aperture luminose, e rapportandosi dialetticamente con l’originalissimo fraseggio di Sabino.
Per prima cosa gli chiediamo dell’idea da cui nasce questo nuovo disco che giunge dopo due importanti progetti, assai diversi tra loro, come On a Cloud e Lo racconta il mare. «Questo progetto è per noi davvero nuovo – ci spiega Sabino – e diverso dai precedenti. Il modus operandi nel nostro lavoro quotidiano di ricerca di nuovi codici espressivi ci impedisce di ripeterci e di percorrere nuovamente strade già battute. In questo caso- aggiunge il musicista – il nucleo del progetto ha una valenza “politica” in senso lato e nell’accezione più ampia del termine: un’occasione di riflessione su alcune tematiche che partendo dalla sensibilità personale, vanno poi a sfociare in un discorso che investe l’intera società».
«Direi che è una reazione agli eventi esterni – aggiunge Diana -, nasce un’esigenza di reagire e di non rimanere passivi che scatta nel momento in cui ci si rende conto che la bellezza del rapporto con la natura e con gli altri esseri umani viene costantemente negata dal potere esercitato in molteplici forme, attraverso l’estremismo violento, il neoliberismo che acuisce le disuguaglianze, le politiche populiste, che portano alla negazione dei diritti umani e alla minaccia dell’ambiente. Come artisti non possiamo tacere, non possiamo chiudere gli occhi di fronte a tutto ciò che accade intorno a noi».
Potremmo dire che la vostra è una ribellione che si realizza in questo caso attraverso la poesia?  «Nello sviluppo del progetto – risponde Diana – hanno avuto fondamentale importanza i testi. Oltre a quattro nostre liriche originali, due mie e due di Sabino, tutte in inglese, troviamo tre poesie di Emily Dickinson e una di Christina Rossetti riportate in lingua originale. Le immagini che ci proponevano queste poetesse di fine Ottocento ci sono apparse invece perfettamente attuali, le loro liriche rispondevano totalmente a ciò che volevamo esprimere, a partire da aspetti e sentimenti universali e senza tempo. Amando queste poetesse, abbiamo realizzato l’idea che una voce femminile portasse con sé un’immagine di positività e di speranza (come in “Hope” di Emily Dickinson) nell’affrontare tematiche complesse, che potevano suscitare viceversa rabbia o rassegnazione. In questo modo si collegano a un movimento interiore più intimo, ed il titolo dell’album It’s All We Have vuol rappresentare l’urgenza, come artisti, di produrre musica, esprimere idee, valorizzare la bellezza umana anche nella lotta che ognuno di noi affronta nella vita di tutti i giorni. A queste medesime tematiche si ricollegano i due testi scritti appositamente da me: “Beyond The Clouds”, dedicata al tema dell’amicizia, e “In Spite of Everithing”, che chiude l’album e che proponiamo alla fine dei concerti proprio come un inno alla speranza».
«Nei miei testi – aggiunge Sabino – ho operato una sorta di assemblaggio di materiali preesistenti. Il brano di apertura del disco The Extra Something è una sorta di ironico collage di slogan pubblicitari per una bevanda miracolosa, una specie di super-aperitivo in grado di soddisfare e rigenerare chiunque. Il testo di “Cuba Libre” è invece estratto di peso da un discorso del generale della guerra ispano-americana di fine Ottocento, John Hay,  che nella sua banalità surreale rappresenta, ieri come oggi, l’inutilità e l’assurdità totale di tutte le guerre». E ancora racconta Sabino de Bari:«“Whisky” va invece a recuperare alcune strofe tipiche della tradizione del Blues più arcaico, che si appoggiano però ad una base musicale nella quale il retaggio del Blues, almeno nella forma oggi usualmente riconosciuta, è a stento ravvisabile. Si tratta di un brano in realtà scritto da me molti anni fa, e la parte musicale risente delle mie ricerche intorno alla musica seriale».
Musicalmente il lavoro ha una sua peculiarità non riconducibile alle usuali categorie musicali, rileviamo. «L’intento di questo album – continua Sabino che è l’autore di tutte le musiche – vuole essere più “leggero” rispetto ai precedenti, e pur partendo dai presupposti della mia ricerca che coniuga musica etnica, ed in particolare mediterranea, folk e Jazz, rimane questa volta più legata alla forma-canzone alla ricerca di una capacità comunicativa più diretta e spontanea».
Il jazz ed il canto blues riecheggiano in particolare nelle inflessioni vocali e nella pronuncia delle note di Diana, ed in particolare nei pezzi più virtuosistici che si sviluppano senza parole, come “Sonhos de Marcelo” e in “Melodia”. «La scrittura musicale di Sabino – precisa Diana – si realizza in stretta relazione con l’immagine sonora della mia voce e del mio modo di cantare. Lavorando insieme da tanti anni si è creato tra noi un rapporto umano, oltre che professionale, con una prassi lavorativa che naturalmente si evolve nel tempo di pari passo al nostro rapporto personale ed artistico, e che oggi non è, e non potrà più essere, lo stesso di tre o quattro anni fa».
Come procedete nella composizione? Nasce prima la musica e poi i testi o viceversa?
«In realtà non abbiamo uno schema creativo preordinato, difficile da proporre in maniera razionale – approfondisce Diana – uno di noi ha un’idea o una suggestione, sia essa di parole o di suoni, e la propone all’altro, e da lì in poi procediamo insieme mettendo insieme un passo dopo l’altro». Alla luce di tutto questo, siamo curiosi di sapere che direzione prenderanno i prossimi progetti. «Devo ammettere – commenta Sabino – che man mano che andiamo a proporre questo lavoro dal vivo, il nostro rapporto con il senso più profondo dei testi della Rossetti e della Dickinson, stesse ancora maturando e fosse ancora in divenire, andando a scoprire volta per volta nuove sfumature o significati nascosti e più profondi, grazie anche al feed back che ci restituisce il pubblico che ci ascolta».
«In questo momento – aggiunge Diana – ci stiamo focalizzando nel rapporto dialettico con chi ci ascolta, cercando di aprire nuovi canali di comunicazione mediante nuove connessioni. Tutto ciò ci sta portando ad un ampliamento del progetto con nuovi sviluppi e con nuovi brani che vedranno la luce con una nuova formazione allargata ad un quartetto anziché ad un duo come è stato fino ad ora».«Un album di solito è considerato un punto di partenza o a volte un punto di arrivo – conclude Sabino – in questo caso vorremmo considerarlo una tappa di transizione verso nuovi sviluppi che abbiamo in animo di realizzare abbastanza presto. In questa direzione, negli ultimi concerti dal vivo tenuti in Italia, proprio per l’esigenza di realizzare un più stretto contatto con il pubblico, superando anche eventuali difficoltà di comprensione legate all’uso della lingua inglese, abbiamo incluso nel set le voci recitanti di Fabiana Aniello e dalla poetessa Silvia Luminati, proponendo sia le liriche incluse nel disco, tradotte in italiano, sia proprie poesie originali».