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Una controffensiva, una roba così?

Gaza, foto di ActionAid

Sei mesi dopo l’attacco di Hamas nel sud di Israele la controffensiva israeliana si può leggere nei numeri. 

Il Ministero della Sanità di Gaza parla di 33.137 persone uccise (i dati si riferiscono alla giornata di ieri). Qualcuno con un grande stomaco risponde che quei numeri sono falsi perché provengono da Hamas. Guardiamo gli altri. Save the Children (non Hamas) denuncia che sono stati uccisi più di 13.800 bambini. La Mezzaluna Rossa Palestinese (non Hamas) scrive che circa 1.000 bambini hanno perso una o entrambe le gambe. L’Unicef parla di almeno 17.000 minori palestinesi attualmente non accompagnati o separati dai loro genitori. Ovviamente migliaia sono orfani. Oltre 75 mila persone – sempre secondo Unicef – sono rimaste ferite e non possono essere assistite perché il sistema sanitario di Gaza è in gran parte distrutto o danneggiato.

L’Onu (non Hamas) fa saper che 2,3 milioni di persone fanno la fame e che la carestia sarà diffusa entro maggio in diverse parti di Gaza. Sono una trentina – sempre secondo l’Onu – le persone morte per fame e per sete. L’80% della popolazione è sfollata. Per terra ci sono 26 milioni di detriti del 62% di case distrutte. Otto scuole su dieci sono state devastate, almeno 625mila studenti non hanno nessuna forma di distruzione. 

Funzionano solo 10 ospedali su 36. L’Ufficio stampa governativo di Gaza indica che sono stati uccisi 140 giornalisti. Non bisogna rifarsi dei datiti Hamas, dicono. l Comitato per la Protezione dei Giornalisti stima in 90 il numero di reporter e cameraman uccisi.

Buon lunedì. 

Rwanda trent’anni fa. L’ultimo genocidio?

Trent’anni fa, il 7 aprile del 1994, in Rwanda iniziò l’agghiacciante genocidio della minoranza Tutzi (e degli Huti moderati) da parte degli Huti. Il genocidio causò la morte di quasi un milione di persone. E molta parte del mondo occidentale voltò la testa da un’altra parte derubricando quella immane tragedia a conflitto inter-etnico, quando era il risultato del dominio di Paesi occidentali colonialisti, in primis il Belgio e della Chiesa responsabili di aver differenziato le etnie per metterle le une contro le altre, in nome del dividi e impera e per evangelizzare.

Così nel piccolo Paese africano, stretto fra Tanzania, Congo e Uganda, nel giro di cento giorni fu una carneficina in una guerra fratricida istigata da colonizzatori occidentali. Fra questi anche la Francia che apparentemente si adoperò per fermare il conflitto e di fatto finì per favorire il regime genocidario. Lo stesso presidente Macron che nel 2021, all’indomani della pubblicazione del rapporto Duclert, aveva ammesso la responsabilità politica, istituzionale e morale di Parigi, ieri ha detto che “la Francia avrebbe potuto fermare il genocidio in Rwanda ma non ne ha avuto la volontà”. Da quell’inenarrabile dramma colpevolmente non abbiamo voluto imparare nulla. Non abbiamo fatto nulla perché non si ripetesse lì o altrove. E oggi torna lo spettro del genocidio a Gaza.

In Rwanda quel fantasma si aggira ancora perché è mancata una vera elaborazione collettiva, nonostante tentativi di pacificazione sul modello Sudafricano. Nel Paese due terzi della popolazione ha meno di trent’anni e per fortuna non ha vissuto direttamente quel dramma. La realtà economica rwandese è fra le più rampanti d’Africa, specie sul versante high tech, ma le ferite sotterranee sono enormi, mentre da un punto di vista politico pesa il giogo della stretta autoritaria. Il presidente Paul Kagame è al potere dal 2000, fra repressione, campi di solidarietà e tribunali comunitari, dove le vittime superstiti sono state chiamate a incontrare i carnefici. Ma è avvenuto in un corto circuito fra tentativo di riconciliazione e negazione di dinamiche democratiche. Intanto molti responsabili del genocidio sono tranquillamente all’estero. Sul genocidio del Rwanda venne istituito dalle Nazioni Unite un tribunale internazionale in Tanzania con un dibattimento durato ben 21 anni, il risultato nei fatti è stato fallimentare. Molti dei responsabili del genocidio sono riusciti a fuggire perlopiù in Francia e in Belgio. Altri hanno trovato riparo in Congo.

Continuando a interrogarci su quegli inimmaginabili cento giorni – dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994  quando centinaia di migliaia di persone furono uccise a colpi di machete, armi da fuoco e bastoni chiodati – con mille domande sulle radici di tanta furia omicida, torniamo a leggere il libro di Vania Lucia Gaito Il genocidio del Rwanda pubblicato da L’Asino d’oro che indaga a fondo le responsabilità coloniali e il ruolo della Chiesa.

Una chiave di lettura letteraria viene invece dal graphic novel Rwanda i giorni dell’oblio realizzato qualche anno fa da Martina Di Pirro (già autrice di reportage per Left, come La rinascita al femminile del Paese delle mille colline) realizzato con la disegnatrice Francesca Ferrara e pubblicato da Round Robin. Il libro nasce dall’esperienza viva e dolorosa di alcuni testimoni, soldati arruolati inconsapevoli e vittime e smaschera la fandonia che si sia trattato solo di un conflitto tribale, interetnico, legato ai clan locali, una lettura imperniata sull’idea che alla base ci sarebbe stata una (inesistente) questione razziale, dunque biologica, immodificabile. Il libro prende le mosse dalla storie vere di un ex soldato francese Jean, che giovanissimo lasciò gli amici e la cameretta con il poster di Thomas Sankara, l’eroe civile del Burkina Faso, pensando di partecipare a una missione di pace, e Marie, scampata da bambina al massacro proprio grazie a Jean. Lei riesce a ritrovarlo, a scovarlo nel buio di una crisi personale profonda, a tirarlo fuori dall’assedio dei sensi di colpa e dalla disperazione per ciò che ha visto, riaccendendo in lui la forza di vivere e di denunciare. Nella memorie di infanzia di Marie, immaginata dalle autrici, ci sono immagini vivide di compagni di scuola Hutu e Tutsi, ugualmente amici, indistinguibili. D’un tratto poi, costretti a diventare nemici, a combattersi a colpi di machete.

«Sistematicamente lo sterminio si estese alle scuole, alle chiese, agli ospedali, in una serie di episodi atroci che videro torbe di contadini armati di machete, di mazze chiodate, degli strumenti più disparati, dare la caccia, inseguire, ferire, uccidere i loro vicini, i loro ex amici tutsi, per cancellarne la presenza e la memoria», scrive Vania Lucia Gaito nel libro Il genocidio del Rwanda dell’Asino d’oro che richiamavamo poc’anzi. In Rwanda gli estremisti Hutu chiamavano inyenzi, scarafaggi, i Tutsi e attuarono il massacro dicendo di voler sradicare le erbe cattive. «Furono massacrati a colpi di machete anche migliaia di bambini» scrive Gaito «uccidendoli si obbediva all’ordine di estirpare le radici». Marie non è solo sopravvissuta fisicamente alle atrocità perpetrate da una parte della popolazione Hutu, ma è riuscita anche a non farsi avvelenare la vita dall’odio. Non odia e non perdona, ma vuole sapere, cerca la verità e coraggiosamente s’interroga su come sia possibile che un essere umano possa arrivare a vedere un altro essere umano come un animale, come una cosa, da eliminare.

È la domanda cruciale che ci portiamo dietro dal Novecento, è la voragine aperta dalla Shoah. Come e perché alcuni esseri umani arrivano a negare l’umanità di propri simili perdendo così irrimediabilmente anche la propria? Perché è accaduto? Come evitare che possa accadere di nuovo? Primo Levi in Se questo è un uomo descrive il lucido e sistematico processo con cui i nazisti non solo sterminavano fisicamente ebrei, rom e comunisti, fino a farne sparire anche i corpi come se non fossero mai esistiti, ma prima perversamente cercavano di annichilire e annientarne l’umanità, cancellando i loro nomi, sostituendoli con un numero inciso sul braccio, annullando la loro realtà affettiva, il loro mondo interiore, cercando di bloccare in loro ogni traccia di pensiero e di immaginazione, attraverso la tirannia di una quotidianità vessata dalla fame e dalle torture, ridotta a soli bisogni primari, come quella degli animali.

I processi di deumanizzazione, in forme diverse, hanno segnato le guerre sporche dell’America latina dove i nemici erano descritti come sovversivi, pidocchi, parassiti, larve, scarafaggi infestanti. Un processo simile di negazione dell’umanità dell’altro, da colpire e sterminare, è stato messo in atto dall’esercito statunitense ai danni della guerriglia e della popolazione civile in Vietnam. È accaduto in Darfur. È accaduto in Bosnia. Accade oggi a Gaza dove la popolazione civile, ostaggio di Hamas al pari degli israeliani sequestrati nel pogrom del 7 ottobre, viene braccata e sterminata dall’esercito israeliano, istruito dai capi dell’ultra destra di governo che chiamano i palestinesi animali.

La Shoah è un fatto unico nella storia, il più disumano. Ma non possiamo non vedere che continuano ad essere perpetrati anche altri atti genocidari. È necessario capire i processi, distinguere, e ogni volta vedere le cause della violenza visibile e invisibile, che si può e si deve rifiutare e fermare, perché non è innata negli esseri umani, non è un destino ineluttabile.

La mina antidemocratica che punta a far saltare le elezioni in una città di 300mila abitanti

Bari

Sembra quasi che il ministero dell’Interno abbia intrapreso una competizione con la procura della Repubblica di Bari, con cui la maggioranza di governo cerca di strumentalizzare e scavalcare l’efficace azione che la magistratura sta ponendo in essere con tempestività: una gara sul tempo contro chi riesce a spazzare via a suon di arresti i rischi di inquinamento del voto, affinché il voto democratico possa svolgersi.
Dinanzi a questa corsa del centrodestra, il maggior partito della coalizione di centrosinistra sta però mostrando debolezza, arroccandosi nella difesa strenua e ugualmente strumentale del pur importante operato degli ultimi vent’anni in Puglia e a Bari, ma che abbisogna di un salto in avanti e di coraggio. Perché per bonificare una terra come questa non bastano vent’anni e occorre dirselo, affrontarlo e andare molto più avanti, non difendere le manchevolezze. Il Pd ha temporeggiato per mesi nel tentativo di imporre un proprio candidato a sindaco, inizialmente sostenendo la candidatura di Marco Lacarra, attualmente parlamentare, in un gioco del 15 che avrebbe collocato alcune caselle tutte locali. I giornali locali ci hanno ricordato che l’eventuale elezione a sindaco di Lacarra avrebbe liberato in Parlamento il posto per la prima dei non eletti nelle file del Pd, Anita Maurodinoia, che nel frattempo ricopriva la carica di consigliera regionale e di assessora ai trasporti nella giunta regionale del presidente Emiliano, dopo un’ascesa dovuta anche- si ipotizza – a usi disinvolti della doppia preferenza. Non solo, se fosse scattato il seggio parlamentare per l’assessora, le sarebbe succeduto in consiglio regionale il segretario regionale del Pd, Domenico De Santis.

Tutto perfetto. Solo che in questa astratta rappresentazione, tutta politicista e interna al Pd è mancato il contatto con la città e con la cittadinanza attiva, non quella delle liste civetta ma quella vera, fatta di persone che davvero pubblicamente discutono – litigano anche – su cosa è meglio per il proprio territorio.
Nell’amministrazione, invece, e nel Pd, è mancato il polso sulla stanchezza della città per pratiche note, acquisite da tradizioni politiche molto diverse da quelle familiari a sinistra, fatte invece di strada, studio, contatto con i bisogni. Soprattutto è mancato il polso sulla condizione di difficoltà nella quale la cittadinanza si trova, privata della mediazione dei corpi intermedi ed esclusa a causa di pratiche di relazione non politiche, bensì amicali, quando non clientelari, dopo gli anni della pandemia, la crisi energetica, la crescita dell’inflazione e il riaffermarsi dei settori informali dell’economia, dopo l’eliminazione del reddito di cittadinanza.

A Bari, ad esempio, come nel resto d’Italia, l’emergenza abitativa è diventata ormai vera e propria crisi. E su questa l’impatto della turistificazione, purtroppo non governata ed anzi promossa come risorsa per lo sviluppo, di cui tuttavia non si percepisce un ritorno in termini di giustizia e di redistribuzione di ricchezza, è uno degli elementi di immediata percezione insieme alla sensazione plastica che il governo del territorio stia sfuggendo alla pianificazione, nella mancanza del Pug. Ma è solo un esempio, nel quale bruciano però 3200 sfratti esecutivi.

Bari è anche in cima alle classifiche dell’Ispra per consumo di suolo. Poi, è vero, è più bella rispetto a vent’anni fa, almeno nei quartieri più centrali, ma questa bellezza è troppo poco distribuita. Siamo a Bari, in Puglia, un Sud dei Sud che voleva competere con Milano e che ha lavorato al proprio riscatto a partire dal 2004 e soprattutto dal 2005, con la prima inaspettata elezione di Nichi Vendola alla presidenza della Regione – la promessa della Primavera.
Ma qualcosa si è inceppato e, già dal secondo mandato di Nichi Vendola e poi dall’elezione di Michele Emiliano alla presidenza della Regione, la devastazione dei corpi intermedi ha sfilacciato le cinghie di trasmissione tra la società sana e la sua rappresentanza politica. Non diciamo niente di nuovo. Pagine e pagine sono state scritte su quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni nel sistema di produzione della rappresentanza. La costruzione del consenso ha smarrito la strada della politica ed ha intrapreso quella più comoda dei gruppi di interesse, più o meno legali, ha sussunto i trasformismi.

Nel maggior partito di governo locale, il Pd, è inoltre mancata negli ultimi anni la percezione del lavoro messo in campo in città da molti gruppi ed individui, sempre più distanti da palazzi sordi alle critiche, anche quelle costruttive. E tra questi “non hanno visto arrivare” nemmeno Michele Laforgia (la citazione è sua, ed è sottilmente pungente), un possibile candidato civico ma chiaramente connotato e con una storia a sinistra, espressione di uno di questi gruppi, l’associazione La giusta causa, che era parso ai più il candidato naturale per il campo del centrosinistra. Un candidato con una posizione progressista, che non ha risparmiato le critiche e ha cercato di offrire uno slancio in avanti all’amministrazione uscente, e che è sostenuto da alcune associazioni politiche ben caratterizzate, oltre che da Sinistra italiana (ma non dai Verdi, che sono allineati con il candidato Pd) e persino dai 5 Stelle. E che avrebbe potuto essere sostenuto anche da altri soggetti, anche più a sinistra (Pci Up), che però sono stati frenati dalla rigida, e allo stato dell’arte ingiustificata, hybris dei dem con le loro molte anime.
La mancanza del polso della situazione ha, quindi, fatto sì che il Pd non rinunciasse alle sue pratiche. Ha preteso che tra Laforgia e il proprio candidato, finalmente individuato in gennaio, Vito Leccese, si svolgessero primarie, contrastando altresì ogni richiesta di porre regole certe. Primarie invise a molti perché falsamente rappresentate come festa della democrazia, specialmente nel contesto dato: consultazioni private che – a differenza dei primi esperimenti innovativi, cui naturalmente partecipavano i soli militanti – invece facilmente si prestano, come è accaduto negli anni recenti, a manipolazioni, proprio perché tutto sono meno che urne democratiche. Non ci sono regole, non è determinato il perimetro di chi può esprimersi, non fanno che minare la struttura di qualsiasi organizzazione democratica. Chi passa decide per chi invece resta.

Poi è arrivato uno tsunami, dai 130 arresti per presunta compravendita di voti dello scorso mese di febbraio, con il coinvolgimento di una società municipalizzata, agli arresti della mattina del 4 aprile 2024, tra i quali quelli quello del sindaco di un Comune limitrofo al capoluogo pugliese, Triggiano, di una coalizione opposta a quella che governa invece il capoluogo; ma anche quello del marito di Anita Maurodinoia, la quale ha rassegnato le sue dimissioni.
Ma il Pd ha reagito con un arrocco. Il tentativo di tenere insieme la coalizione del campo largo, spinto per Laforgia soprattutto da 5s e Sinistra Italiana, è quindi naufragato dinanzi alla realtà che la Procura ha dimostrato di tenere sotto controllo, senza necessità di interventi governativi. Laforgia, supportato da Conte, dal palco del comizio che lo stesso 4 aprile doveva essere la conclusione della sua campagna per le primarie, ha comunicato di fatto la sua indisponibilità a sottostare a una competizione senza regole nel contesto che il Pd non ha inteso arginare né riconoscere.

Ma la priorità è la città: si faccia un accordo, ha detto con responsabilità Laforgia, si mettano insieme su un’idea più progressiva di città le forze sane del centrosinistra tutto, intendendo con ciò l’arco dal Pd ai comunisti passando per i 5s, si mettano fuori le persone (i cosiddetti capibastone) e le pratiche che non garantiscono trasparenza e che inficiano i processi democratici – e non perché siano in grado di condizionarli, ma perché è loro concesso di farlo, per una distorta idea di pace sociale che può serenamente essere ribaltata, che va abbandonata. Auspicando che anche il centrodestra si proponga con una candidatura e un approccio costruttivi per la città, dismettendo la minaccia di scioglimento palesemente strumentale in un quadro giudiziario nel quale lo stesso centrodestra è coinvolto.
Ma Elly Schlein, a Bari quest’oggi (ndr 5 aprile), non ha inteso cogliere l’occasione che veniva offerta, di dare una scossa al suo partito su decisioni politiche per la città che avrebbero giovato al suo stesso partito e soprattutto all’idea di partito come luogo nel quale dirimere il conflitto politico per il bene collettivo. Ha invece avallato quanto già annunciato dal livello locale, di voler continuare a sostenere la candidatura espressa dal Pd, e di voler andare direttamente al voto con due candidati, in una logica da braccio di ferro calata nel clima delle tifoserie che rischia soltanto di far precipitare la città in decisioni strumentali del governo, privandola del diritto democratico di autodeterminarsi nel voto.

Si è persa un’occasione storica per mettere in piedi un nuovo laboratorio che potesse rappresentare un esperimento di innovazione politica per il Paese. A questo punto, e salvo cambiamenti dell’ultimo secondo, credo che il “centrosinistra-senza-Pd”, libero di selezionare il proprio personale politico su base ideale e programmatica, non debba avere paura di affrontare la contesa elettorale con lo slancio di una opportunità nuova, per la città e per la sinistra. Ci vediamo alle urne, dunque. Quelle vere. E vedremo le liste.

foto di Nicholas Chieco – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=118285778

Cpr, la voragine dei diritti umani

Questa storia inizia con l’approvazione della legge 40 (Turco-Napolitano) nel luglio 1998, quando, in nome dell’esigenza di “coniugare sicurezza e accoglienza”, nacquero i primi Cpta (Centri di permanenza temporanea e assistenza) che vennero realizzati in maniera improvvisata prima ancora di dare loro un quadro normativo.
Per la prima volta in Italia – nel resto d’Europa era già una prassi – si potevano privare le persone della libertà personale in virtù del fatto che la loro presenza non era considerata regolare. La finalità dei centri riguardava gli «stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile». Persone che non avevano commesso reati, rinchiuse per ciò che erano. Per facilitare i rimpatri delle persone considerate irregolari, l’allora ministro dell’Interno si affrettò a siglare i primi accordi bilaterali di riammissione con alcuni Paesi del Nord Africa che raramente produssero i risultati sperati.

I centri in cui allora si poteva restare rinchiusi fino ad un mese in attesa dell’espulsione nacquero da un giorno all’altro e in modo non organico. A Lampedusa non c’era ancora la struttura di Contrada Imbriacola, quindi le persone venivano tenute nei pressi dell’aeroporto e poi nell’ex base militare Loran che non risultava inquadrata come Cpta ma che di fatto aveva quella funzione. A Trapani venne preso in affitto un ospizio in disuso, il “Serraino Vulpitta”, tramutato in struttura con celle, a Roma si utilizzò parte di una caserma nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino, a Ponte Galeria, e poi fu la volta di Agrigento, Bari, Brindisi. Già da allora i servizi di “assistenza” (sanità, pasti ecc.) vennero dati in gestione a imprese o cooperative che a volte partecipavano a gare pubbliche, più spesso ottenevano un affidamento diretto: un business enorme. La sorveglianza esterna e la repressione interna in caso di emergenze era (come ancora oggi) gestita dalla locale prefettura e quindi attraverso personale dei diversi corpi dello Stato. Furono in molti a “offrirsi” per fornire strutture adeguate, da don Cesare Lodeserto che in Puglia fece rapidamente trasformare il suo centro Regina Pacis, prima adibito all’accoglienza, in un Cpta, alle città di Milano (via Corelli), Torino, (Corso Brunelleschi), Bologna (via Mattei). A Modena ne sorse uno gestito dalle Misericordie il cui presidente era Daniele Giovanardi, fratello del più noto uomo politico Carlo Giovanardi. E poi Foggia, Crotone (Isola Capo Rizzuto) accanto a un immenso campo di accoglienza, Lamezia Terme, (gestito da un responsabile della protezione civile e realizzato al posto di una comunità di accoglienza per tossicodipendenti). Nel 2006 venne aperto il Cpt di Gradisca D’Isonzo, ribattezzata la “Guantanamo italiana” per l’uso di tecnologia avanzata atta a impedire fughe, rivolte, socialità eccessiva fra gli “ospiti”. Sì perché chi vi era trattenuto non era considerato detenuto ma “ospite” al punto che le fughe non potevano essere addebitate agli addetti alla sorveglianza per negligenza. A Ragusa venne aperta una struttura solo per donne in pieno centro, con personale quasi esclusivamente maschile.

E poi una serie di aperture e chiusure: chiuso il Cpt di Agrigento per difficoltà di gestione, ne venne aperto uno a Caltanissetta (Pian Del Lago), si spostò quello di Bari, per pochi mesi ne restò aperto uno a Trieste mentre nelle altre città venne resa difficile la realizzazione di queste strutture sia per l’opposizione degli enti locali sia più spesso della popolazione e dei movimenti sociali, oltre che per le difficoltà di reperire strutture idonee, come nel caso di Corridonia, nel maceratese. Nel frattempo era entrata in vigore la legge Bossi-Fini, che raddoppiava i tempi massimi di trattenimento (da 30 a 60 giorni) e si andava rapidamente dimostrando il fallimento di tale approccio all’immigrazione. I centri, sin dalla loro apertura si erano dimostrati luoghi da cui si tentava di fuggire e in cui si moriva. La notte di Natale del 1999 venne trovato senza vita, nel Cpt di Ponte Galeria, Mohamed Ben Said, con una mascella rotta e forse imbottito di psicofarmaci. Pochi giorni dopo, il 28 dicembre, alcuni “ospiti” tentarono la fuga dal “Serraino Vulpitta” di Trapani, vennero ripresi, rimessi in cella e, sembra, uno di loro dette fuoco al materasso. Non si trovarono le chiavi per aprire i locali, non funzionavano gli estintori e in 6 trovarono una morte atroce (uno di loro dopo 3 mesi di agonia): insomma, una strage annunciata in una struttura anche inadeguata al trattenimento.

C’è un calcolo macabro scomparso dalla storia ufficiale, in triste e perenne aggiornamento: quello di coloro che hanno perso la vita a causa della detenzione in questi spazi dove non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari. Fra tentativi di fuga, malori dalle cause mai chiarite, suicidi parliamo, per difetto, di una trentina di morti. Senza contare gli innumerevoli atti di autolesionismo, l’equilibrio psicofisico spezzato da mesi di privazione della libertà, la repressione sempre seguita a rivolte e sommosse per la scarsa qualità del cibo, per poter ottenere colloqui con parenti e avvocati, per difficoltà strutturali derivanti da spazi pensati esclusivamente come “zoo” temporanei per esseri umani.
Per parecchi anni, soprattutto fino al 2007, si sono susseguite mobilitazioni per chiedere la chiusura dei centri, giudicati dai più irriformabili, la più grande a Torino nell’inverno 2002, ma furono tante e in tutte le città in cui c’erano Cpt o in cui si minacciava di aprirli. Mobilitazioni a volte creative e che riuscivano a parlare alla popolazione e alle persone rinchiuse, in altri casi aspramente e duramente conflittuali, spesso represse dalle forze dell’ordine. Ma anche nei palazzi della politica, per alcuni anni, ci si interrogò sul senso di queste strutture che non sono state “imposte dall’Europa” come ha lasciato passare una vulgata pseudo progressista (l’Europa con l’accordo di Schengen ha solo chiesto a ogni Stato di vigilare sui propri confini), ma create più per soddisfare istanze propagandistico securitarie che già da allora venivano utilizzate in Parlamento.

Ci furono però parlamentari, senatori ed europarlamentari che, essendo gli unici ad avere il mandato ispettivo, cominciarono a visitare quei luoghi, a denunciarne le carenze e le condizioni di vita che vi venivano imposte, a provare a scardinare questo sistema. Certo, di centri ce ne erano in tutta Europa, nel 2005 (fonte Migreurop) 174, in Italia si arrivò a un massimo di 14 strutture che costarono milioni di euro l’anno e che, anche in base agli scopi per cui erano state aperte, si dimostrarono fallimentari. I dati di 14 anni fa indicano che al massimo il 48% delle persone trattenute veniva poi effettivamente rimpatriato, con costi che si aggiravano attorno agli 8mila/12mila euro per ogni espulsione. Il tutto per detenere 2mila/3mila persone, rispetto ai dichiarati “600mila clandestini”, in parte rinchiusi nei centri dopo periodi di detenzione in cui non erano stati identificati, i cui provvedimenti di convalida del trattenimento erano affidati a giudici di pace (mai utilizzati fino ad allora per autorizzare la limitazione della libertà personale). Queste persone una volta non rimpatriate, tornavano fuori in condizioni di irregolarità con l’obbligo di lasciare entro pochi giorni il territorio nazionale ma senza alcun Paese intenzionato ad accoglierle.
Un mix di propaganda e costruzione della fortezza escludente per rinchiudere il “nemico interno”, con l’intento di dimostrare che lo Stato si prendeva cura della sicurezza dei cittadini. Oltre che gli ex detenuti sono finiti nei centri persone che avevano perso il lavoro e quindi il diritto di restare in Italia, richiedenti asilo a cui non era stata riconosciuta la protezione internazionale o umanitaria, lavoratori e lavoratrici al nero (in particolar modo nel lavoro di cura), vittime di tratta per sfruttamento sessuale che non usufruivano delle normative atte a tutelarle, a volte persino minori.

Estratto dall’introduzione del libro di Left Non Ci Potete Rinchiudere. La vergogna italiana dei lager per immigrati a cura di Yasmine Accardo e Stefano Galieni

Qui l’intervista di Radio Radicale a Yasmine Accardo e Stefano Galieni

Il segreto per diventare ricchi? Nascere ricchi

Il segreto per diventare ricco? Nascere in una famiglia ricca. Sembra la scoperta dell’acqua calda ma come tutte le storture merita di essere ossessivamente ripetuta, almeno per smontare la favola terribile del sogno americano che di tanto in tanto spunta su certa stampa – anche progressista- dove si legge di giovani rampanti omettendo la dichiarazione dei redditi dei loro genitori.

Per la prima volta in 15 anni, secondo i dati di Forbes, tutti i miliardari sotto i 30 anni hanno ereditato la loro ricchezza. L’ascensore sociale decantato dai sacerdoti del capitalismo è l’oppio per gli incagliati. 84mila miliardi di dollari nei prossimi 20 anni – lo dice la società di consulenza Cerulli Associates – nei prossimi anni passeranno da padre in figlio, da nonno ai nipoti. Con tanti saluti al feticcio del merito. 

Il giovane più ricco italiano è Clemente Del Vecchio, 19 anni, che alla morte del padre ha ottenuto la sua bella quota di partecipazione in EssilorLuxottica ed è diventato il più giovane miliardario al mondo nel 2023. Dividere la sua eredità con i suoi 5 fratelli non ha minato la sua possibilità di entrare in classifica. 

La brasiliana Livia Voigt ha 19 anni e possiede un patrimonio 1,1 miliardi di dollari grazie alla sua partecipazione di minoranza nel produttore di apparecchiature elettriche Weg, co-fondato dal suo defunto nonno. Negli Stati Uniti, i nati prima degli anni Sessanta detengono 95,9 trilioni di dollari su un totale di 147,1 trilioni di dollari di ricchezza familiare, secondo la Federal Reserve. Una montagna di soldi pronta a passare di mano in mano. Intanto iIn 52 paesi, i salari reali medi di quasi 800 milioni di lavoratori sono diminuiti. I lavoratori hanno perso complessivamente 1,5 trilioni di dollari negli ultimi due anni, equivalenti a 25 giorni di salario perso per ciascun lavoratore. 

Buon venerdì. 

Parlamento sordo, cieco e muto. È il risultato del premierato

Confesso di essere preoccupato. Proprio perché su Left abbiamo seguito con meticolosa attenzione e passione critica l’attacco eversivo del governo Meloni alla Costituzione antifascista, perseguito attraverso l’Autonomia differenziata ed il cosiddetto “premierato”. Il piano del governo, infatti, avanza con arroganza, come uno schiacciasassi, non tenendo in alcun conto osservazioni scientifiche e critiche politico/istituzionali. È necessario che l’allarme democratico cresca e che si infittiscano le mobilitazioni.

Il 29 aprile la maggioranza imporrà la rapida approvazione anche alla Camera dell’Autonomia differenziata, che diventerà legge. Non ci arrenderemo, ovviamente. Continuerà la nostra critica sui terreni sociale, istituzionale, giuridico/costituzionale, affinché venga bloccata la parte esecutiva delle “intese” tra il ministro Calderoli e le singole regioni che già lo richiedono, frantumando la Repubblica italiana. E 48 ore fa, in Commissione Affari costituzionali del Senato, le destre hanno approvato il nuovo articolo 3 del disegno di legge Casellati sul “premierato”, che introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio. Il testo, che modifica l’articolo 92 della Costituzione aggiunge: «le elezioni delle Camere e del Presidente del Consiglio hanno luogo contestualmente». Quest’ultimo avverbio, indefinito e preoccupante, allude, ovviamente, ad una legge elettorale sulla quale le forze della maggioranza sono ancora rissose e divise. In verità nessuna di esse mi pare pensi alla qualità della rappresentanza; pensano, piuttosto, ai propri interessi partitici, identitari e di potere. Mentre il centrosinistra non sembra avere alcuna proposta alternativa. Le destre pensano, in tutta evidenza, ad un premio di maggioranza molto alto che garantisca in entrambe le Camere una maggioranza larga alle liste ed ai candidati collegati al presidente del Consiglio.

Perché mi preoccupa molto l’avverbio “contestualmente”? Perché esso, probabilmente indica che la proposta delle destre sia quella di legare pregiudizialmente l’elezione dei parlamentari al voto dato al presidente del Consiglio. Sarebbe un’ulteriore incostituzionalità, perché l’elettrice e l’elettore non potrebbero scegliere i propri rappresentanti alle Camere. Il governo diventerebbe la massima ed unica rappresentanza; il Parlamento sarebbe sordo, cieco e muto, come piace ai regimi autocratici. La proposta di “premierato” , ricordiamo, va letto in un combinato disposto sia con la legge elettorale largamente maggioritaria, sia con il progetto di Autonomia differenziata. Un Paese, insomma, diviso e frantumato (contro l’articolo 5 della Costituzione, che prescrive la Repubblica “una e indivisibile”) ha bisogno, secondo il governo, di un comando centrale “forte”. La democrazia parlamentare, di rappresentanza, vira verso la democrazia di investitura, il comando assoluto del “capo”, come strumento disciplinare di massa. Non più partecipazione democratica, ma una delega assoluta quinquennale data, con un voto, da un popolo inerte. Emerge un tema grave: la funzione del presidente della Repubblica sarebbe sempre più evanescente, mentre il Parlamento diventerebbe ancor più una struttura ornamentale. Se pensiamo alle leggi elettorali delle Regioni, dei Comuni, in definitiva, tutta la complessa architettura costituzionale potrebbe, in futuro, essere ancor più fondata solo sugli esecutivi, sul comando assoluto. Lo confesso: sono preoccupato.

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, Bruxelles, 22 marzo 2024

Per approfondire: Left, dicembre 2023, Re Giorgia

L’autonomia differenziata non differenzia. Rende diseguali

Meloni e i pieni poteri. Dialogo fra costituzionalisti

Slam poetry, il fuoco della poesia

Slam poetry foto di Gabriele Ratano

Martina Lauretta foto di Gabriele Ratano

«Se vi dicono che la vostra generazione è morta, date loro fuoco. Se vi dicono che la vostra generazione ha sprecato le chance che le erano state regalate, date loro fuoco… e che non puoi spiegare vele se ti hanno rubato il vento».
Questi sono alcuni versi tratti da un monologo di Giuliano Logos, un giovane artista performativo o, in inglese, di Slam poetry, che racconta e descrive attraverso la poesia le frustrazioni di tanti ragazzi nati nel secondo millennio.
Giuliano è stato il primo italiano ad aggiudicarsi il titolo di campione del mondo in questa disciplina, conquistato alla XV edizione della Coupe du monde de Slam Poésie di Parigi nel 2021. La poesia performativa non è un movimento appena nato, ha radici negli Stati Uniti e ha origine nei movimenti artistici e culturali degli anni 80 e 90. La sua storia è una combinazione di tradizioni poetiche antiche, che arrivano dall’epoca classica degli aedi, e influenze moderne che si contaminano con le esibizioni rap, con un’enfasi particolare sulla partecipazione del pubblico e sull’espressione individuale. Le origini di questo movimento poetico risalgono alle open mic nights (serate a microfono aperto), durante le quali artisti di varie discipline potevano esibirsi liberamente in locali e club. Negli anni 80, Marc Smith, un poeta operaio di Chicago, iniziò a organizzare eventi chiamati Poetry Slams presso il Green Mill Tavern, prendendo ispirazione dalle competizioni di poesia orale dei movimenti beatnik e jazz.
Per il campione mondiale l’approdo al mondo dello slam è stata un’esigenza artistica: «Mi sono avvicinato alla poesia performativa venendo dal mondo del rap – dice Giuliano Logos -. A un certo punto ho avuto la percezione che alcuni dei contesti hip hop dove portavo le mie produzioni non fossero particolarmente predisposti all’ascolto di determinate tematiche. Così, dopo una ricerca, trovai il mondo dello Slam e fondai un collettivo di poeti di nome Wow incendi spontanei».

Voltairine contro Stato e Chiesa

Leggere gli scritti di questa donna, Voltairine de Cleyre, inusuale anche nel nome, è come essere travolti da un fiume in piena, né si può restare indifferenti sotto lo scrosciare irrefrenabile di parole, immagini, analisi storiche e sociologiche. Si è travolti da sentimenti contrastanti: ammirazione, amore, mentre a volte ti cresce dentro un muro di non accettazione. Mentre in Francia è appena uscito De l’action directe suivi de: L’idée dominante da Les éditions L’Alchimiste, in Italia sono stati pubblicati, dopo più di cento anni, due libri: Una poetessa ribelle (Stampa alternativa, 2018) e Un’anarchica americana (Eleuthera, 2021), che ci forniscono un’idea della vasta produzione di lettere, poesie, traduzioni, racconti, saggi, novelle, conferenze. Ma chi era Voltairine de Cleyre? Una donna difficilmente incapsulabile in parole quali anarchica, poetessa, libertaria, scrittrice, ribelle, femminista. Di lei Emma Goldman scrive: «La più dotata e brillante donna anarchica che gli Stati Uniti abbiano mai generato».
Si conoscevano per la collaborazione di Voltairine a Mother Eart (rivista diretta da Goldman dal 1906 al 1917), nonostante le divergenze su questioni rilevanti; Emma ama la vita e cerca di goderla, Voltai (come la chiamano in famiglia) non cerca la felicità ma la realizzazione umana, a dispetto del pessimismo con cui guarda alla società. Uno sguardo, il suo, che rasenta la depressione e che affonda le sue radici nell’ambiente familiare, funestato dall’annegamento di una sorellina e negli anni sofferti dell’istituto di suore in cui il padre, socialista povero e libero pensatore, la manda per darle un’educazione che sviluppi a pieno le sue capacità. Sospettiamo che tale decisione fosse dettata dall’incapacità o impossibilità di imbrigliarla in comportamenti socialmente accettabili. Se c’è un termine, infatti, che meglio la descrive è “ribelle”. A quattro anni impara a leggere da sola e si arrabbia per non essere stata accettata dalla scuola pubblica. E a sei anni scrive poesie. Gli anni del collegio la vedono “ragazzina smarrita” in un ambiente ipocrita e autoritario: «Sarei dovuta diventare una suora, passando il resto della mia vita a celebrare l’Autorità nella sua forma più manifesta», racconta in Un’anarchica americana e prosegue: «Ero una povera anima che combatteva solitaria nelle tenebre della superstizione religiosa. Ricordo bene con quanta energia e rabbia mi rifiutai di sottostare alle ingiunzioni della mia insegnante, dicendole che non avevo alcuna intenzione di scusarmi per una colpa che non mi poteva essere imputata e che se l’avessi fatto, le mie parole non sarebbero state sincere. “Non è sempre necessario – mi rispose lei – dire sinceramente ciò che pensiamo, mentre è sempre necessario obbedire ai propri superiori”. Io non mentirò».

Revolucionaria! Il canto che viene da dentro

Ilustrazione di Giulia Anania

La creatività è un uccello senza un piano di volo» scrive Violeta Parra. Questa affermazione è quanto di più vicino abbia trovato per rendere le sensazioni che suscita la lettura del testo scritto da Lavinia Mancusi: un viaggio attraverso linguaggi diversi che non permettono di inserirlo in un genere definito.
Racconto per voce? Teatro-canzone? Biografico? Leggere queste pagine di Revolucionaria! (Redstar Press) significa prima di tutto aprire uno scrigno pieno di immagini, corpi che prendono vita correndo come fiumi impetuosi che trascinano e rimescolano nei loro flutti suoni, colori, parole.
Le crisi sono necessarie, a volte si rivelano feconde, così Lavinia Mancusi, giovane interprete di musica popolare, viene presa, nei giorni di forzata immobilità della pandemia, da una febbre di domande che rivolge a sé stessa: “Chi sono? Cosa amo? Cosa sto costruendo?”. Lavinia non spegne il tormento di quel lungo tempo di silenzio ma lo trasforma in una ricerca non solitaria, perché la musica popolare per sua natura non è solitudine, nasce come antidoto al dolore privato, da gesti quotidiani che appartengono a migliaia di persone sconosciute e si alimenta e cresce di bocca in bocca. La fatica, il dolore, la miseria, la paura, l’amore, la festa, la morte e la rivolta, pensati e poi cantati da artisti senza nome. Poi ascoltati, ripetuti, moltiplicati.
Una musica che ha in sé una vocazione epica.
Lavinia attraversa questo silenzio “senza un piano di volo”, forse sapendo che il Nulla non esiste, e trova in sé quel poco di calma necessaria per aspettare senza angoscia che affiori qualcosa e lasciare che si formino dei puntini che poi si attraggano sino a tracciare linee che si caricano via via di senso, componendo alla fine una partitura di vite e di voci.
Prende vita questo libro che non è un testo di etnomusicologia, o la raccolta, lo studio di canti tradizionali e dei loro interpreti, ma qualcosa di più urgente per cui servirebbe un verbo di movimento: “rincorre”, ecco, le pagine sembrano rincorrere il senso della memoria, per afferrare il segreto della resistenza di alcune autrici ed interpreti di musica folk, seguendo passo dopo passo le briciole, i petali e le lacrime di cui hanno disseminato le loro esistenze. Sono Violeta Parra, Mercedes Sosa e Chavela Vargas: Cile, Argentina e Messico.

“Dahomey”, indagine sul postcolonialismo

Ben poca risonanza ha avuto, sulla nostra stampa mainstream la vittoria alla Berlinale 2024 da parte di Dahomey, il film documentario di Mati Diop sulla recente restituzione di 26 opere d’arte saccheggiate dai francesi nell’omonima colonia alla fine del XIX secolo.
Difficile, del resto, che tematiche come quelle trattate nel lungometraggio di Diop risultassero appetibili ad una informazione come la nostra da sempre caratterizzata da una pervicace e generalizzata afasia sul nostro e l’altrui passato coloniale. Eppure l’attuale revival, sebbene velleitario e a tratti farsesco, di talune posture neocoloniali nel cosiddetto piano Mattei dovrebbe per lo meno sollecitarci ad approfondire un tema – quello del colonialismo europeo in Africa – che è radice ineludibile degli equilibri geopolitici di oggi e di domani.
È questo, d’altronde, l’obiettivo del lungometraggio francese, che unisce una prima parte di finzione onirica ad una seconda prettamente documentaristica e in cui gli oggetti di un tesoro artistico del passato sono l’innesco per raccontare le ambiguità e le incertezze del presente. Dahomey era la denominazione di un antico regno dell’Africa subsahariana occidentale, presente, come risulta dalle fonti, almeno dal XVII secolo e la cui ricchezza fu dovuta anche al commercio degli schiavi. La penetrazione coloniale francese, avviata fin dai primi decenni del XIX secolo, fu poi sancita nella Conferenza di Berlino del 1884-1885, durante la quale le principali potenze europee si spartirono a tavolino i territori africani, come se il continente fosse di fatto terra nullius. Fu il così detto struggle for Africa, ultima fase del colonialismo moderno europeo, caratterizzata da massacri generalizzati e dal primo genocidio del ’900, quello delle popolazioni Herero e Nama, nell’odierna Namibia, ad opera dell’esercito tedesco.
Esito collaterale delle aggressioni militari europee nel continente africano divennero i reiterati saccheggi del patrimonio culturale, considerato dalle truppe coloniali quale preda di guerra risarcitoria e che andrà ad arricchire sia i musei che, per molti decenni e ancora oggi, il commercio occidentale d’arte.