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Ribellarsi è necessario

Abbiamo studiato la storia e sappiamo che il fascismo è stato un movimento politico nato in Italia all’inizio del Novecento che è riuscito a diventare maggioritario e a prendere il governo del Paese per più di vent’ anni.
In quegli oltre 20 anni sono accadute tante cose tragiche, prima tra tutte l’entrata in guerra dell’Italia accanto alla Germania nazista. E siamo abituati a pensare al fascismo come quella “politica” che non si fa scrupolo di usare la violenza fisica verso l’avversario, agita in termini di pestaggi, distruzione di luoghi, intimidazioni, violenza verbale e censura, fino all’estremo dell’omicidio dell’avversario. Sappiamo che il fascismo è stata l’invenzione di Mussolini, già militante socialista e direttore dell’Avanti! Un inizio in politica in un partito che aveva nell’idea di socialità degli esseri umani il suo fondamento. Dobbiamo pensare che Mussolini avesse in qualche modo aderito a questi pensieri? Ad un’idea di solidarietà e di uguaglianza e di un’idea di politica che lavorasse per il riscatto, per la liberazione delle classi lavoratrici, di tutti coloro che pensavano di non essere liberi, di trovarsi in una condizione di impossibilità di realizzare una vita degna di essere vissuta, di impossibilità di realizzare la propria realtà umana. Il socialismo nasce e si sviluppa con un intento umanista. Con l’intento di riscattare, liberare chi libero non è, con un pensiero di uguaglianza più estesa, universale, tra gli esseri umani, non limitata ai più ricchi o ai nobili, che fa sì che la politica debba lavorare per raggiungere l’uguaglianza nella misura in cui essa non c’è.
Cosa ha portato Mussolini a pensare ad un “socialismo” violento, che non fosse più per la liberazione umana? Forse un’idea positivista e meccanicistica dell’essere umano? Forse un’idea di un essere umano che non ha un’autonomia, non può avere realmente un’identità se non è parte di una massa? Certamente c’era un’idea di identità che si realizzava nell’appartenere alla “classe”. Il proletario, il borghese, il nobile. Un’identità che era per l’appartenenza ad un gruppo, cioè una non-identità personale.
Fatto sta che il fascismo si configura come movimento politico che fa dell’umano solo corporeità, fa dell’attività politica solo l’azione violenta. In questo fatto, certo e noto, per cui il “fascista” è colui che esalta l’uso del manganello e lo scontro violento come “dialettica”, credo vada evidenziata una realtà nascosta.
Perché potremmo pensare che il fascista agisce la violenza fisica perché vuole che l’altro sia come sé stesso, un essere umano che ha rinunciato al pensiero e alla parola, alla dialettica e al rapporto con l’altro, per essere solo azione distruttiva.
Tutti coloro che vogliono avere un pensiero diverso dall’assenza di pensiero che dice che la violenza è l’unica politica possibile devono essere fermati o eliminati, messi in condizione di non nuocere.
Lo slogan è «credere, obbedire, combattere». Credere, ovvero non pensare, fare quello che viene ordinato e agire violenza sugli altri.
L’altro slogan è «me ne frego», ovvero non esiste per me, non ha alcuna importanza. La fatuità e l’anaffettività fatta sistema politico.

Io credo che questo aspetto sia troppo spesso trascurato. Dobbiamo denunciare il fascismo ogni volta che ci troviamo di fronte a qualcosa che in qualche modo vuole spingerci a rinunciare a pensare, quando ci troviamo di fronte a quanto ci vuole confondere le idee, quando ci troviamo a confrontarci con chi ci vuole impedire di fare ricerca, di comprendere quanto ci circonda.
Potremmo dire che il fascismo è tutto ciò che ci vuole impedire, in ogni modo, di pensare. Ma a questo punto bisogna vedere bene e cercare di capire quale pensiero il fascismo vuole eliminare. Perché se si guarda alla storia e anche alle realtà politiche più recenti che si ispirano al fascismo, dobbiamo notare che non tutte le attività di pensiero vengono condannate. Il fascismo non ha alcun problema con tutto ciò che serve alla sopravvivenza. Anzi ne favorisce lo sviluppo perché è funzionale alla sopravvivenza della società. Il fascismo non ha alcun problema con il pensiero razionale che serve all’utile e all’aggressione.
Quello che il fascismo vuole eliminare è un pensiero di ribellione, di rifiuto del noto e costituito, di rifiuto dell’autorità stupida e violenta, del rifiuto della violenza come metodo politico.
Del rifiuto della proibizione di pensare, del rifiuto di farsi confondere.
Il nostro tempo è pieno di contraddizioni. Le possibilità materiali che abbiamo sono enormi rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto. Malgrado ciò è come se si fosse smarrito qualcosa, sembra che ci sia nuovamente confusione su ciò che è stato il fascismo, sembra che improvvisamente non sia più ovvio che gli esseri umani sono tutti uguali a prescindere dal luogo di nascita. Improvvisamente c’è una differenza, esseri umani che sono più umani degli altri ed altri che non sono veramente esseri umani e quindi possono e devono essere eliminati.
I fascisti moderni, per lo meno quelli che sono immersi nelle moderne democrazie, non sono più così banali e approssimativi da ricorrere alla violenza fisica per imporre agli altri il loro non-pensiero.
Forse perché hanno scoperto di essere molto più efficaci nel diffondere il loro non-pensiero spargendo confusione, mettendo il veleno nei pensieri altrui, spacciando sinistra per destra e destra per sinistra, facendoci assistere alle tragedie quotidiane delle morti in mare per non aver soccorso chi chiedeva aiuto, volendo farci pensare che siamo tutti naturalmente violenti, volendo farci pensare che dobbiamo tutti fregarcene, facendo morire la voglia di vivere dei ragazzi, deludendo la loro infinita sete di conoscenza e di vita.
I fascisti non lo sanno quello che fanno e perché lo fanno, perché non sanno pensare. Sono ciechi, non capiscono nulla di realtà umana, ed è per questo che sono violenti. Sanno solo della realtà materiale, sanno solo accumulare quello che li circonda, vedono solo il potere della realtà materiale con il suo fascino luccicante. E quindi pensano che la realizzazione massima cui un essere umano può aspirare sia diventare una marionetta, attaccato ai fili del credere ed obbedire, pronto a combattere per un ideale di umanità disumana, pronto a uccidere per eliminare ciò che non è come loro.
Il vero pericolo dei fascismi moderni è questa sottigliezza, questo essere violenti senza agire la violenza fisica. Perché la violenza fisica si vede e si sente chiaramente. La violenza psichica invece è sottile, invisibile e può fare danni profondi nella nostra realtà più intima, in ciò che più profondamente siamo.
Noi continueremo a ribellarci. Sempre. Continueremo a cercare le risposte che vogliamo tenendo bene aperti i nostri occhi.

L’astrattismo sensibile di Carla Accardi

Riemerge come un flusso travolgente di forme astratte e colori squillanti l’opera di Carla Accardi inondando le sale bianche del Palazzo delle Esposizioni a Roma. Nel centenario della nascita dell’artista siciliana la Capitale le dedica un’ampia e coinvolgente retrospettiva (fino al 9 giugno).
Le sue creazioni sono presenti nei circuiti museali internazionali ma negli ultimi anni la sua opera è stata alquanto trascurata da critici e curatori. E sul perché ci sarebbe molto da interrogarsi, visto il grande significato che la sua opera ha avuto sul piano artistico ma anche nell’aprire la strada ad altre artiste nell’avanguardia del Novecento.
All’indomani della guerra, mentre il suo docente all’Accademia di Venezia Arturo Martini le ripeteva che l’arte non è roba per donne e il padre le diceva che non si era mai vista una Raffaello donna, Carla Accardi realizzava due intensi autoritratti in pose raffaellesche e, nel frattempo, sperimentava a tutto raggio, abbandonando la figurazione, costruendo un proprio alfabeto personale di segni, fino a trovare una propria cifra originale con la serie dei “Bianchi e neri” che catturano potentemente lo sguardo dopo le prime prove scolastiche (e tuttavia interessanti proprio per capire l’entità della sua coraggiosa svolta).
Quelle danze di segni percorse da un crescente ritmo interiore che ci attraggono nella prima grande sala suscitarono l’interesse del critico francese Michel Tapiè, che cominciò a parlare di lei come esponente della corrente dell’Art autre, mettendola accanto a Alberto Burri, Antoni Tàpies e Georges Mathieu. Ed era solo l’inizio.

Carla Accardi, Autoritratto (1946)

Attraversando le sale della mostra romana (ciascuna quasi monografica nel documentare le varie fasi creative dell’artista) curata da Paola Bonami e Daniela Lancioni si resta via via sempre più intrigati dalla fervida e continua ricerca di Carla Accardi.
Dagli esordi in una attardata Sicilia, emulando Kandinskij, i Fauves e Picasso, fino a trovare un proprio linguaggio visivo che si esprime in continui e sempre nuovi giochi di forma e colore. Andando oltre ogni steccato che all’epoca era anche di genere.
Certo lei era cresciuta in una famiglia siciliana colta che le aveva permesso di studiare, di frequentare l’accademia a Venezia, a Firenze e poi di trasferirsi a Roma, in via del Babuino, in quella casa con vista sui tetti che poi sarebbe stata sempre una casa studio, aperta agli incontri e al confronto con amici e colleghi, ma anche sede del gruppo Rivolta femminile, fondato nel 1970 insieme a Elvira Banotti, e Carla Lonzi da cui si allontanò perché la prassi dell’autocoscienza le andava stretta e le suonava troppo razionale e lontana dalla sua ricerca sulle immagini.

Vittorio Giacopini: In viaggio con lo zingaro

Illustrazione di Vittorio Giacopini

Il romanzo di Vittorio Giacopini L’orizzonte degli eventi (Mondadori) è una opera picaresca che ha visto la luce dopo aver ricevuto una serie di rifiuti perché considerata “troppo cupa e sarcastica o troppo amara”. Il romanzo-pamphlet dello scrittore (disegnatore e voce di Radio3) ha avuto una vita editoriale “avventurosa”. L’autore l’aveva messo in conto: «È il clima del nostro tempo, lo Zeitgeist: alla lettera si richiede implicitamente di essere consolatori o edificanti. Raccontare la realtà in modo intimista-descrittivo o secondo i canoni scontati dell’Impegno o dell’autofiction serve a poco», dice lui stesso. E aggiunge: «Quando il reale e la storia si fanno grotteschi, lo sberleffo e il grottesco diventano il linguaggio più adeguato. L’artista, l’intellettuale deve trasformare il suo disagio in visione e pensiero. Alla fine la grande scommessa è sempre immaginare il mondo e le cose con un altro sguardo, e vivere e scrivere come se prima o poi fosse possibile una rivoluzione». L’arte, quindi, è un atto politico e non un mero esercizio stilistico. La contestazione contro il verso e le retoriche dominanti del mondo Giacopini la affida al suo scritto: «Questo libro è anche una pacata, divertita invettiva contro quella che potremmo definire l’ideologia italiana. Ma più in generale è un tentativo di riflettere sulla Storia, e sul possibile rapporto tra il soggetto e la Storia, dopo una fase in cui la Storia sembra come essersi spezzata o messa in pausa. La pandemia, il lockdown, e il clamoroso, conformistico intreccio di nuove obbedienze e false rivolte che hanno coinciso con questa situazione inedita sono state un’occasione formidabile per metterci davanti a uno specchio e tornare a ragionare sui nostri modelli di socialità e cultura e politica». Il romanzo non è il risultato di un’illuminazione mistica o di un’ispirazione sacra. Tutt’altro. Semmai è figlio di un’insofferenza che l’autore ha voluto trasformare in livore pensante, in sarcasmo intelligente. Giacopini scrive con stile movimentato e stravagante, costruendo una struttura narrativa intricata e complessa, di quelle ore e di quei giorni che si sono fatti stranamente irreali e paradossali.

L’oceano di Beckett

Brendan Behan, uno dei tanti grandi scrittori irlandesi che finirono, per gran parte della vita, esuli volontari, racconta un aneddoto buffo che riguarda Samuel Beckett. Condannato in patria in quanto comunista, alcolista, e pure membro dell’Ira, Behan in un’occasione andò, con tanta birra in corpo, al Pike Theatre di Dublino a vedere Aspettando Godot. A un certo punto della pièce, da spettatore si fece improvvisamente attore, suscitando lo scalpore del teatro intero. Ecco la scena. Siamo nel passaggio in cui Estragone propone a Vladimiro di impiccarsi. I due si trovano di fronte al dilemma dei dilemmi: la mancanza della corda. Estragone suggerisce di usare la propria cintura, ma l’amico gli fa notare che è troppo corta, e allora gli dice: «Mi tirerai tu per le gambe». Ma Vladimiro giustamente gli domanda: «E me chi mi tirerà?» Proprio in quel momento, big Brendan – ex imbianchino partito arruolatosi nell’Ira e partito a sedici anni in missione solitaria per piantare bombe nei porti inglesi – prende la parola dalla galleria e strilla: «Io, ti tiro io!».

Potrà sembrare un affronto alla grande opera, ma non lo è per nulla. Anzi, fosse stato presente Beckett, avrebbe probabilmente apprezzato questa identificazione dell’audience col suo testo: un coinvolgimento che non ha nulla di sprezzante e banale. E infatti, Behan adorava Beckett, sebbene non risulti che tale sentimento di stima fosse, diciamo, “ricambiato”. Si erano incontrati a Parigi negli anni Cinquanta, ma allora Behan sbarcava il lunario scrivendo prosa pornografica, procurando prostitute a ex soldati americani, e spiegando Joyce e Wilde ai turisti in cambio di qualche bicchiere di Pernod. Le poche volte che avvicinò Beckett non fu accolto, pare, da calorosi abbracci. Behan, allora astro nascente del teatro, tra una scarcerazione e l’altra ebbe spesso parole di elogio per il connazionale. Come quando, in uno dei suoi ultimi libri registrati (il diabete e l’alcolismo lo costrinsero a smettere di scrivere materialmente attorno all’età di trentotto anni), disse di non capire assolutamente nulla dell’arte di Beckett, ma di amarla nel profondo: come non si capisce l’oceano, spiegò, eppure si ama nuotare tra le sue onde mondanti.

La lezione di Gaza per l’Europa

Mentre circolano notizie guidate di un possibile “cessate il fuoco”, i bombardamenti (ora “mirati”) e l’occupazione della Striscia di Gaza da parte dell’esercito israeliano continuano. Israele, peraltro, è sostanzialmente in guerra con tutti i suoi vicini come non mai. E mentre i nostri media ripropongono ad libitum immagini del feroce pogrom compiuto da Hamas il 7 ottobre, ben poche testimonianze ci vengono offerte sulle sofferenze patite dai palestinesi. L’enormità della risposta israeliana a quell’attacco è stata più volte denunciata ma questa non conosce sosta.
In Europa e in molti Paesi, però, manifestazioni e proteste continuano. Quello che colpisce, è stato già sottolineato, è il silenzio degli alleati occidentali di Israele. Non un reclamo, una richiesta a Israele da parte dei governi. Le opposizioni parlamentari, dal canto loro, si sono dichiarate a favore del “cessate il fuoco”, con molti distinguo. In pochi, però, hanno denunciato con forza i singoli atti di violenza gratuita da parte dei soldati israeliani di cui abbiamo avuto notizia.
Il fatto è che su questa vicenda di Gaza e del destino dei palestinesi si sta consumando l’ormai evidente incapacità di molti di capire e di pensare il futuro. Se è vero che la distruzione di Gaza sta mobilitando le coscienze, è anche vero che l’intera questione sta mettendo a nudo, una volta di più, la fragilità di molte nostre convinzioni e del pensiero politico occidentale, fino ad incrinare le sue fondamenta. Senza però che vi sia chiara percezione che ciò sta avvenendo.
La distruzione di Gaza e lo sterminio dei suoi abitanti ha riportato la questione palestinese al vaglio di quello che appare ormai come un proposito vecchio, quello dei «due popoli in due Stati». Vecchio perché è stato ripetutamente consumato e superato dagli eventi. Senza addentrarci in disquisizioni antropologiche, per le quali non vi sarebbe spazio, va intanto affermato che non esiste un popolo palestinese. Esiste una popolazione che abitava una terra – la Palestina nella sua accezione ampia – che però non è diversa da quella che abitava la Giordania. Le popolazioni di quelle terre, evolutesi nei secoli, hanno in larga parte abbracciato l’Islam, anche se vi sono (vi erano) fasce cristianizzate, armene, ma anche Drusi e Curdi e altre popolazioni “etnicamente” distinte (oltre agli ebrei, naturalmente).

La corsa alle armi dell’Unione europea

Ad oggi, le minacce reali a cui deve far fronte Bruxelles hanno a che fare con il commercio, l’export e l’approvvigionamento di materie prime. Quasi tutto ruota intorno alla crisi nel Mar Rosso, che starebbe provocando pesanti conseguenze anche sull’indotto del sistema portuale italiano. Con queste motivazioni si giustifica l’obiettivo principale dell’operazione Aspides (“scudo” in greco antico), lanciata il 19 febbraio: vale a dire proteggere le navi mercantili dagli attacchi degli Houthi yemeniti, supportati dall’Iran, realizzati per manifestare solidarietà alla Palestina sotto attacco dell’esercito di Israele. A guidare il comando tattico di Aspides è l’Italia, la Grecia si occupa di quello operativo e vi partecipano anche Francia e Germania.
Siamo in guerra?
Al testo che descrive la missione come “eminentemente difensiva” è stato eliminato, su richiesta del M5s, l’avverbio “eminentemente”. ma nel corso della discussione in Senato, il 5 marzo è stato detto che «la protezione dei navigli in transito e l’autoprotezione delle unità militari impiegate nell’area delle operazioni può essere attuata in forma passiva, neutralizzando gli attacchi in arrivo, oppure in forma attiva, eliminando le sorgenti di fuoco e i mezzi e le infrastrutture militari dell’aggressore» e che «è opportuno che anche la seconda (forma) venga presa in considerazione, nel caso l’evoluzione della situazione la renda necessaria». Giriamo la domanda a Fabio Alberti, attivista dell’Esecutivo della Rete italiana Pace e disarmo. Siamo in guerra?
«La missione Aspides, a differenza dalla missione Atalanta contro la pirateria e quindi contro la criminalità comune, interviene attivamente in un conflitto internazionale la cui evoluzione e possibile estensione è fonte di apprensione non solo dei pacifisti ma di tutta l’opinione pubblica mondiale. Le possibilità che, anche senza volerlo, l’Italia si trovi coinvolta in una guerra più ampia decisa altrove (a Washington o a Teheran non importa) sono elevate».

“Le radici profonde non gelano”

L’uccisione di migliaia di civili da parte dell’esercito di Israele, perpetrata durante la guerra contro Hamas, avviene anche con armi italiane?
Da anni Tel Aviv è un grande cliente delle imprese italiane di armamento. A cominciare da Leonardo S.p.a., fiore all’occhiello dell’industria bellica nazionale, che fornisce all’Idf (Israel defence forces) parti e sistemi d’armi. Come è noto, Leonardo è controllata per oltre il 30% dal ministero dell’Economia e delle finanze (quindi direttamente dall’esecutivo) e intesse stretti rapporti con Israele e vari think tank del Paese anche attraverso altri canali. A giugno 2023, ad esempio, presso la sede della Fondazione Leonardo Med-Or si è svolto un workshop di studio sulla situazione in Medio Oriente realizzato insieme all’Institute for National security studies di Tel Aviv, al quale hanno partecipato anche membri di spicco del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, il dicastero guidato da Tajani. E, sempre lo scorso anno, Leonardo ha firmato due accordi con la Israeli innovation authority e l’Università di Tel Aviv per la cooperazione nell’ambito della creazione di start-up. Ma, come si legge sul sito ufficiale della S.p.a., l’obiettivo principale rimane la creazione di una «partnership strutturale per i processi di business». Un affare, per Leonardo, è stato certamente la vendita degli aerei addestratori Aermacchi M-346, utilizzati dall’Idf non in combattimento ma per esercitare i piloti che andranno in guerra. Sono invece già sul campo i cannoni navali Oto 76/62 Super Rapido, che Israele monta sulle sue corvette classe Sa’ar 6 (e anche su altri modelli). Questi vascelli, come ha scritto il Jerusalem Post il 17 ottobre scorso nell’articolo “Cutting-edge Israeli warship used for first time in Gaza attack”, sono stati utilizzati per coprire con il fuoco l’avanzata delle truppe israeliane a Gaza nei giorni successivi all’attacco di Hamas del 7 ottobre.

La dignità del lavoro ai tempi dell’algoritmo

L’accordo sul trattamento dei lavoratori delle piattaforme digitali raggiunto l’11 marzo dal Consiglio d’Europa dei ministri del Lavoro e degli affari sociali squaderna sotto i nostri occhi tre interrogativi estremamente concreti. Primo, il futuro immediato del lavoro stesso; secondo, quanto sia urgente una reale e ben più robusta integrazione europea; terzo, quanto, di fronte all’evoluzione tecnologica dei rapporti di lavoro, sia adeguato alla realtà circostanze il sistema della contrattazione.
In primo luogo, di cosa si parla quando si tratta l’argomento del lavoro nelle piattaforme digitali, ossia, quella che si chiama anche Gig economy? Nella vulgata più comune, il pensiero corre subito ai cosiddetti “ciclofattorini” che consegnano cibo a domicilio. Si tratta di una visione abbastanza riduttiva della realtà di questo settore. Certamente, il rider è estremamente visibile e, perciò, capace di attirare l’attenzione su di sé. Una figura che è diventata emblematica di questa forma di relazione di lavoro. Ma la realtà è assai più articolata.
Perciò, cominciamo a definire questo aggregato di lavoratori nelle sue realtà, dimensione, composizione. L’Unione calcola che, nel 2022, la forza lavoro delle piattaforme digitali fosse costituita da oltre 28 milioni di persone, molto vicina a quella dell’industria manifatturiera che ammonta – sempre riferendoci al 2022 – a 29 milioni di attivi. Una coorte che si calcola destinata a crescere esponenzialmente per raggiungere i 43 milioni di operatori nel 2025. Il reddito proveniente dal lavoro per piattaforme digitali è così suddiviso: 39% autisti di servizi assimilati ai taxi per esempio, l’App Uber; 24% consegne di cibo, traslochi, trasporti e spesa a domicilio; 19% servizi domestici; 7% servizi professionali come la contabilità; 6% attività freelance di graphic design e photo editing; 3% assistenza a domicilio all’infanzia e per la salute; 2% altri “micro compiti”. Una varietà di funzioni, perciò, ben più ampia di quanto si possa immaginare di primo acchito.

Il benessere del neonato

In questi giorni si è aperto l’ennesimo dibattito politico e sociale sulla “questione delle culle vuote”; le cause della denatalità vengono ascritte alla mancanza di risorse materiali: crisi economica, disoccupazione femminile, aumento dell’età riproduttiva, carenza di servizi per l’infanzia.
Non si prende in considerazione che non tutte le donne in fondo sentano la necessità di essere madri, e che alcune lo fanno sulla spinta di una cultura colpevolizzante senza essere realmente pronte a questa transizione. Se è vero che le tecniche di procreazione medicalmente assistita da una parte garantiscono il diritto alla genitorialità quando è una scelta personale, dall’altra non si soffermano a rivolgere un’attenzione particolare a questo momento della vita complesso e delicato di cui non sempre le coppie sono pienamente consapevoli. La donna senza figli viene tacciata di egoismo, giudicata individualista e se davvero esistesse l’istinto materno non saremmo bombardati da drammatiche storie di cronaca nera che vedono protagoniste proprio le donne, omicide dei propri figli. Sempre negli ultimi giorni si è svolta l’udienza in Corte d’Assise per Alessia Pifferi, imputata per l’omicidio della figlia di 18 mesi, lasciata morire di stenti nel 2022. La donna viene giudicata dal perito capace di intendere e volere, affetta da dipendenza ed alessitimia ma non malata di mente, con la proposta di continuare a scontare la pena in regime carcerario. Il caso Pifferi scuote gli animi di noi tutti, che ci chiediamo che tipo di risposte, ancora una volta, potrà dare la psichiatria alla giustizia per chiarire quali dinamiche profonde sottendono ad un comportamento del genere.

Quei virus culturali che infettano la scuola

Candidato a moltissimi premi, La sala professori di İlker Çatak, regista turco-tedesco al suo quarto lungometraggio, non ne ha ancora vinto uno, e c’è da domandarsi il perché. Intanto, fuori dalle sale cinematografiche si fa una lunga, bellissima fila per vederlo, e alla fine ne è valsa davvero la pena: si sente negli applausi del pubblico e si respira nell’aria densa di emozioni e di domande all’uscita. Domande ed emozioni che hanno trovato nella critica risposte diverse, almeno in apparenza: c’è chi ripercorre la storia del cinema a tema “educativo” (qualcuno incredibilmente classifica questo film come di genere educativo-didascalico), chi all’opposto cerca di svelare il senso dell’allegoria o della metonimia, chi lo trova kafkiano – non proprio un omaggio, nel centenario della morte, allo scrittore, chiamato ingiustamente in causa allo scopo di proporre ancora e sempre che la verità non è di questo mondo. E c’è perfino chi chiosa, col classico ma mortale attacco alla speranza di chi denuncia la violenza, sintetizzando la morale del film col motto “la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni”: il male è dentro ognuno di noi ed è inutile e perfino dannoso combatterlo.
Una scuola tedesca, istituto comprensivo che va dalla primaria alla nostra terza liceo (16-17 anni), è teatro del dramma che si consuma in una seconda media, ovvero nell’età più fragile, perché meno libera: tanto esplosiva nell’esigenza di realizzare una propria identità, quanto ancora incerta e dipendente dal giudizio e dalla volontà degli adulti. Malgrado la magistrale interpretazione di Leonie Benesh, Frau Carla Nowak non è la vera protagonista di questo film. Professoressa di matematica ed educazione fisica, ne è casomai l’icona, a cominciare dal bizzarro tentativo di ravvicinare mente e corpo che la scuola affida proprio a lei, rigida e contratta in una tensione che fin dall’inizio rappresenta bene la solitudine di un mondo interno sofferente e incoerente, tanto da arrivare a sfiorare la malattia mentale vera sotto i colpi del caos che finisce involontariamente per scatenare con l’applicazione dei suoi algoritmi alla vita reale, tragicamente perdendo il rapporto con la realtà umana.