Home Blog Pagina 145

Andrea Filippi (Fp Cgil medici): Politica e psichiatria, quell’incontro mancato

«Cento anni fa nasceva a Venezia Franco Basaglia, un uomo, un medico, uno scienziato a cui non solo la psichiatria, e nemmeno solo la sanità, deve molto ma l’intera nostra comunità nazionale», ha detto la vicepresidente della Camera, Anna Ascani, intervenendo al convegno Franco Basaglia. A cent’anni dalla nascita, il 19 marzo a Montecitorio, sottolineando: «Ci ha insegnato che conta sempre e solo la persona, l’uomo o la donna, l’anziano o il bimbo con la sua storia, il suo volto, i suoi sogni e le sue disperazioni, la sua dignità». Riconoscere e difendere la dignità umana è fondamentale. Ma il compito dello psichiatra è altro, riguarda la cura della malattia mentale per la guarigione. Perché questa parola “cura” sembra ancora fare paura, chiediamo allo psichiatra e segretario nazionale Fp Cgil medici Andrea Filippi.
«Sono temi molto delicati perché riguardano la dimensione umana nella sua complessità, toccano la filosofia, l’antropologia, la scienza. È necessario affrontarli con rigore scientifico e rispetto della storia per evitare fraintendimenti e per superare alcune mistificazioni che ancora persistono. In primis direi che è un errore contrapporre la tutela dei diritti e la lotta all’emarginazione alla dimensione prettamente scientifica di cura della malattia. Prendersi cura e curare fanno parte dello stesso processo terapeutico. L’una non esclude l’altra soprattutto quando si parla di patologie gravi come le psicosi».

Come leggere oggi la storia di quegli anni che portò alla chiusura dei manicomi?
All’epoca tutti i movimenti in ambito psichiatrico erano giustamente finalizzati alla chiusura dei manicomi. Ma avvenne una spaccatura fra quella parte del movimento che ricercava la cura nella relazione clinica, nella psicoterapia e nell’umanizzazione dei luoghi di cura e un altro filone che invece vedeva i luoghi di cura solo come istituzione, che andava abolita e basta. Per alcuni l’iniziativa prettamente politica di lotta all’emarginazione, di chiusura dei manicomi, di assistenza dei più fragili e di reinserimento sociale e lavorativo, esauriva la proposta terapeutica, come se la causa della malattia andava ricercata solo nelle istituzioni e non piuttosto nell’individuazione delle dinamiche patologiche relazionali.

E Macron si fa bello con i partigiani immigrati

Con tutta la solennità che i francesi sanno infondere alle loro cerimonie, il 21 febbraio scorso le salme di Missak e Melinée Manouchian hanno fatto il loro ingresso nel Pantheon di Parigi. Nel momento culminante di un complesso percorso commemorativo, il coro dell’esercito francese faceva risuonare la più classica delle canzoni della resistenza d’Oltralpe: Le chant des partisans.
La pantheonizzazione di Missak e Melinée, per utilizzare il brutto neologismo usato in Francia, ha segnato molte “prime volte”. Nonostante il ruolo avuto a suo tempo nella resistenza sono stati i primi comunisti ad entrare nel sacrario dove viene celebrata la memoria nazionale. Ma sono soprattutto i primi immigrati a ricevere un simile onore, anche se non furono pochi coloro che avevano combattuto in prima fila contro il nazismo e il collaborazionismo.
Missak Manouchian era sfuggito ancora piccolo al genocidio degli armeni ed era riuscito ad arrivare in Francia nel 1924. Aveva fatto l’operaio cambiando spesso lavoro per cogliere le occasioni che l’economia francese offriva agli immigrati. Lavori sempre duri dato che è soprattutto agli stranieri che questi vengono affidati. Ma Missak era anche un intellettuale ed è riconosciuto come uno dei grandi poeti della letteratura armena contemporanea. Avvicinatosi alle idee comuniste, sull’onda della spinta unitaria del 1934 entrò nel Pcf e svolse un’intensa attività nelle associazioni di solidarietà rivolte ai lavoratori stranieri. Nel corso di una festa della comunità armena, Missak conobbe Melinée che divenne poi sua moglie. Seguendo tutte le traversie politiche del periodo, subendo vari arresti, Manouchian divenne una figura importante dei Franc tireur partisan – Mains d’oeuvre immigrée (Ftp-Moi). Un’organizzazione che colpì duramente le forze tedesche di occupazione arrivando anche a giustiziare il colonnello nazista Julius Ritter.

L’allergia di Meloni & C. alla Costituzione antifascista

Illustrazione di Marilena Nardi

Il testo della riforma proposta dalla presidente Meloni nella sua formulazione originaria prevedeva di inserire nel testo della Costituzione un premio di maggioranza pari al 55% dei seggi parlamentari disponibili, senza peraltro indicare la percentuale dei voti che farebbe scattare il premio. L’assurdità della previsione ha indotto il governo ad evitare di indicare l’entità del premio e della percentuale di voti validi che lo farebbe scattare e a rinviare la disciplina alla formulazione della prossima legge elettorale. Basta questo particolare aspetto per indicare quale dilettantismo e quanta confusione si nasconda dietro alla proposta di revisione costituzionale.
Del resto l’inserimento nel testo costituzionale della soglia del premio di maggioranza sarebbe una novità nella storia costituzionale. Occorre notare che una norma così fatta sarebbe a sua volta esposta ad un vizio di costituzionalità, come ha chiarito la Corte Costituzionale. Ma proprio questa mancata previsione potrebbe essere l’occasione per avviare una trattativa con la parte più disponibile dell’opposizione, nel tentativo di garantirsi qualche soccorso al momento del voto in Parlamento. Certo appare difficilmente contestabile che la logica plebiscitaria che ispira la riforma abbia bisogno di un Parlamento affidabile e alle complete dipendenze del capo del governo, non esposto dunque alle logiche del confronto parlamentare e questo si può ottenere solo con un affidabile premio di maggioranza.
Comunque garantire un robusto premio di maggioranza dei seggi in ciascuna Camera ai candidati collegati al presidente del Consiglio, vuol dire da un lato mettere il governo al riparo da qualsiasi incidente, ma dall’altro significa svalutare in modo eccessivo le posizioni della minoranza senza introdurre contemporaneamente nessun correttivo o bilanciamento possibile. Per questa via, anzi, sparirebbero i contrappesi oggi esistenti, dal momento che sarebbe facile per una maggioranza così blindata impadronirsi anche degli istituti e degli organi di garanzia.

Come la destra ribalta il senso delle parole

In un un seminario divulgativo sul linguaggio della politica in corso in questo periodo, stiamo discutendo di LTI. La lingua del Terzo Reich, del filologo tedesco Viktor Klemperer, una serie di annotazioni fatte clandestinamente e in presa diretta durante gli anni del regime, per osservare come il nazismo manipolava la lingua – e con essa cultura, storia e modo di pensare. Klemperer pubblicò questi taccuini come un monito didattico, per insegnare a stare attenti anche ai più piccoli segnali. La lettura di questo testo, davanti all’attualità del nuovo anno, fa sì che gesti, parole, prese di posizione o di distanza mancate, tutto cominci stranamente a risuonare con gli avvertimenti di quel passato, così prossimo. Non ci soffermeremo tanto su singoli fatti di cronaca che l’attualità ci presenta ogni giorno, perché vogliamo prestare attenzione alle parole, che forse aiutano a mettere a fuoco l’atteggiamento complessivo che sottende questi vari eventi. Mi sembra, infatti, che le intenzioni di fondo di chi ci governa si coagulino in certe scelte comunicative, addirittura in singole parole – deformate – e che tutto ciò sia indizio di qualcosa di più ampio. D’altronde, Enzo Golino sosteneva che lo spoil system non è una novità: già Mussolini e Hitler lo perseguirono, e riguardava anche la lingua (vedi: Parola di Duce. Il linguaggio totalitario del fascismo e del nazismo. Come si manipola una nazione, Rizzoli, 2010). Oggi, però, questo processo viene messo in atto in maniera più strisciante e, se possibile, più subdola: non si tratta di fare bottino lessicale ma di confondere le acque, generando capovolgimenti che, se non fossero gravi, potrebbero apparire come battute di una commedia degli equivoci, mentre in realtà siamo davanti ad un preoccupante e triste teatro dell’assurdo.

Quest’anno si è aperto in nero, con le braccia tese di Acca Larenzia, seguite dal gran borbottio del Paese, reazione che lascia alquanto delusi (che differenza plastica con la Germania insorta in tutte le piazze, contro i neonazisti e contro Afd!). Se si osserva la piazza romana in modo schematico, appare questo: un gruppo di militanti di estrema destra, emuli delle camicie nere fin nel vestiario, con braccia tese, e rituali di violenza militare. Questo evoca direttamente il mondo dello squadrismo… Ed ecco la parola incriminata.

Il senso di Liberazione del nostro 25 aprile

Murale di Orticanoodles a Milano

Nel nostro incerto tempo presente il modo migliore per conferire un orizzonte di senso compiuto all’anniversario dell’insurrezione nazionale del 25 aprile 1945 come data fondativa del nuovo Stato italiano (che diverrà Repubblica il 2 giugno 1946 con il voto popolare) non è certo quello della retorica celebrativa.
Le donne e gli uomini della Resistenza hanno sempre insistito sulla necessità di utilizzare quel lascito storico come chiave interpretativa per comprendere cosa fosse stato il fascismo nella sua identità economico-sociale e politico-culturale nonché quali e quanto profonde fossero state le sue radici dentro il corpo della nazione italiana. Su questo concetto tornavano spesso, negli ultimi anni della loro vita, comandanti partigiani come Rosario Bentivegna (Gruppi di azione patriottica di Roma e Brigate Garibaldi in Jugoslavia) o Massimo Rendina (Brigate Garibaldi in Piemonte).
Era la loro capacità di cogliere le fragilità sociali, civili e culturali della società italiana a spingerli ad indicare quella strada come la principale eredità da valorizzare della guerra di Liberazione. Come se prima ancora di solennizzare l’epica resistenziale fosse indispensabile capire i motivi per cui l’Italia fosse giunta alla dittatura terroristica, alle guerre coloniali, alle leggi razziali, alle aggressioni militari nei Balcani e al «Patto d’acciaio» con i nazisti.
Alla fine della prima guerra mondiale il fascismo si presentò come un fenomeno eversivo inedito, esprimendo caratteri peculiari che trovarono nella nostra società (e non altrove) le condizioni per l’avvento al potere di un regime reazionario per la prima volta strutturato su base di massa ovvero in grado di raccogliere un largo consenso in tutti gli strati della società nazionale.
Un favore cui fece eccezione la classe operaia che alla Fiat di Torino accolse sempre con malcelata ostilità le visite di Mussolini nel 1932, 1934 e 1939 e che con gli scioperi del marzo 1943 e del marzo 1944 (sotto occupazione nazista) impresse un segno indelebile a quella che sarebbe stata la Liberazione.
Il fascismo fu senz’altro quella «autobiografia della nazione» descritta da Piero Gobetti, caratterizzata dall’arretratezza culturale e politica del Paese e dalle aporie strutturali del suo processo di unificazione nazionale. Insieme fu anche espressione di quel «sovversivismo delle classi dirigenti» indicato da Antonio Gramsci il cui esito venne preconizzato dallo stesso fondatore del partito comunista sulle pagine de L’Ordine Nuovo il 21 luglio 1921: «Esistono oggi in Italia due apparecchi repressivi e punitivi: il fascismo e lo Stato borghese.

Il coraggio di Nawal contro la sharia

Una società patriarcale, una famiglia in cui il ruolo subalterno della donna è portato agli estremi a causa dell’espressione normativa della sharia. Una storia come tante della zona popolare di Amman est, ma non estranea alle famiglie del centro ricco della capitale giordana. Inshallah A Boy film sbocciato a Cannes, alla Semaine de la critique, poi portato in giro per il mondo convincendo pubblici diversi è ora nelle sale italiane. Una grande conquista grazie al coraggio di Satin Film, distributori italiani che si sono imposti per cambiare la consuetudine di mercato che vede sempre più spesso film non mainstream, nonostante i riconoscimenti internazionali, tagliati fuori dal nostro circuito cinematografico.
L’opera prima di Amjad Al-Rasheed, proposta anche come candidata all’Oscar per la Giordania, è una vera sorpresa di talento, autenticità. Un film semplice. «Volevo raccontare tutti i risvolti di una legge inconcepibile e l’unica scelta era farlo con il linguaggio della realtà, senza il superfluo, perché la realtà era già tremendamente assurda. Dovevo trovare il tono della quotidianità per fare un film accessibile a tutto il pubblico e per trasmettere in tutta la sua verità la follia della legge islamica classica.

Inshallah a boy narra la storia di Nawal, una giovane sposa e madre di Amman che, rimasta improvvisamente vedova, si ritrova a combattere con la famiglia del defunto marito per l’eredità che le spetta e per proteggere la propria casa e il destino della sua bambina. Con poco tempo a disposizione per trovare una soluzione, Nawal deve fronteggiare non soltanto sfide personali ma anche quelle culturali radicate nel suo Paese, arrivando a superare le proprie paure, convinzioni e moralità per mettere in discussione una società dove, avere un figlio maschio, cambia le regole del gioco e sembra essere, per una donna, l’unica tutela.

Il tema dell’emancipazione femminile a partire dal concetto di proprietà, un diritto considerato dalle leggi della sharia di dominio esclusivamente maschile e che impedisce alle donne di avere diritti ereditari.
Suprema l’interpretazione di Mouna Hawa, giovane attrice palestinese, che in ogni pezzetto di immagine colpisce al cuore per la sua intensità. Le camminate incerte e poi sempre più sicure, gli acquisti al supermarket, i viaggi in autobus, i gesti delle vicine di casa, i momenti di cura al lavoro, le parole dette in famiglia, il rapporto tra madri e figli, la relazione tra sorelle e fratelli e tra maschi e femmine. Scrittura, luci, fotografia, i movimenti della macchina da presa e il lavoro fatto con gli attori, tutto all’insegna della semplicità in una progressiva tensione.
Il linguaggio del corpo dell’attrice e il suo modo di occupare lo spazio ha reso la sua partecipazione fondamentale per dare profondità espressiva al lungometraggio.
«Questo film parla di persone che vogliono lottare, non mi viene in mente nessun combattente più forte e più determinato dei palestinesi a Gaza, in questo momento», spiega il regista. «Questa per me è una storia vera comune a molte donne, la storia vera di una donna come tante, una storia di liberazione che racconta tutti i livelli di oppressione che subiscono le nostre madri, sorelle e figlie. Una mia parente stretta, è stata la fonte di ispirazione. Lei si è trovata in una situazione analoga. Aveva comprato la casa dove viveva con la sua famiglia, ma il marito per vergogna aveva preteso che l’atto di acquisto fosse firmato solo a suo nome. Quando è morto i parenti di lui hanno invocato la sharia che dava il diritto di entrare in possesso della casa. Ho poi scoperto che ci sono tantissimi casi analoghi in nome della tradizione. La bellezza del cinema è la capacità di raccontare e la possibilità che dà al pubblico di conoscere, riconoscersi, di indagare e di riflettere». Una finestra sul mondo. E questo è un contesto che ancora conosciamo troppo poco. Un tema però presente. Perché la modernizzazione dei sistemi giuridici in molti Paesi musulmani non ha toccato le disparità di genere previste dalla giurisprudenza classica. Musawah, per esempio, un movimento globale famosissimo e nato a favore dell’uguaglianza e della giustizia all’interno della famiglia musulmana si è occupato tantissimo di questi temi e dell’attivismo al fine di introdurre nuove prospettive negli insegnamenti islamici e contribuire in modo costruttivo alla riforma delle leggi e delle pratiche famigliari.
Ecco un frammento del film

Insistere sempre, sempre di più, per proteggere Rafah

Gaza, foto di Action Aid

“A una settimana di distanza da quando il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione che chiedeva un cessate il fuoco immediato, e dopo solo alcuni giorni da quando la Corte internazionale di Giustizia ha emesso ulteriori misure provvisorie a proposito della causa per genocidio sostenuta dal Sudafrica contro Israele, gli Stati devono ancora agire con urgenza per garantirne l’applicazione e prevenire crimini di atrocità a Rafah, mentre prosegue l’escalation degli attacchi”. È l’allarme lanciato oggi da 13 organizzazioni umanitarie e per i diritti umani in un comunicato stampa coingiunto. A firmarlo Save the Children, International Federation for Human Rights, Amnesty International, Doctors of the World/Médecins du Monde France, Spain and Switzerland, ActionAid International, Oxfam International, Norwegian Refugee Council, Plan International, Handicap International – Humanity & Inclusion, Medical Aid for Palestinians (MAP), International Rescue Committee (IRC), Danish Refugee Council, DanChurch Aid.

“La settimana scorsa, il governo israeliano ha chiarito la propria intenzione di espandere le operazioni militari a Rafah indipendentemente dalla risoluzione giuridicamente vincolante del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che chiede un cessate il fuoco immediato. Nell’ultima settimana a Rafah questo scenario ha iniziato a realizzarsi. I bombardamenti israeliani, infatti, solo tra il 26 e il 27 marzo hanno ucciso almeno 31 persone, tra le quali 14 bambini. Le Organizzazioni umanitarie e per i diritti umani hanno lanciato l’allarme ripetutamente su una pianificata incursione di terra israeliana a Rafah che promette di decimare la vita e compromettere la possibilità di aiuti di prima necessità per oltre 1,3 milioni di civili, tra questi ci sono almeno 610mila bambini che sarebbero ora sulla linea diretta del fuoco”, sottolinea la nota.

“Non esiste un piano di evacuazione fattibile o condizioni che possano proteggere i civili nel caso in cui un’incursione di terra dovesse essere portata avanti. Per rispettare il divieto assoluto di trasferimento forzato e deportazione di civili previsto dal diritto internazionale umanitario, Israele è obbligato ad adottare ‘tutte le misure possibili’ per fornire ai civili evacuati beni di prima necessità per la sopravvivenza e garanzie di un ritorno sicuro e dignitoso una volta terminate le ostilità. Tali misure includono la garanzia di sicurezza e protezione adeguate, alloggi, acqua, servizi igienico-sanitari, assistenza sanitaria e nutrizione. A oggi non esiste alcun posto del genere né all’interno né all’esterno di Gaza. I bombardamenti israeliani della Striscia di Gaza, dopo sei mesi di ostilità, hanno danneggiato o distrutto più del 60% delle unità abitative e annientato la maggior parte delle infrastrutture nella parte settentrionale e centrale di Gaza”, prosegue il comunicato.

“A Gaza non c’è nessun posto sicuro in cui le persone possano rifugiarsi. Le forze israeliane hanno ripetutamente attaccato aree che in precedenza avevano definito “sicure”. Gli attacchi aerei israeliani dentro e intorno alla cosiddetta zona sicura di Al-Mawasi hanno ucciso almeno 28 persone, mentre le forze di terra israeliane entravano e occupavano la zona settentrionale. In tutta Gaza, anche quando le Organizzazioni umanitarie hanno dato informazioni alle forze israeliane rispetto alle sedi per le operazioni di aiuto e ai membri del personale, queste aree hanno continuato a essere attaccate. Gli operatori umanitari sono stati uccisi, i convogli umanitari sono finiti sotto il fuoco israeliano e i rifugi e gli ospedali sostenuti dalle Organizzazioni vengono danneggiati o distrutti sotto i bombardamenti. Le nuove proposte del governo israeliano di costringere i civili nelle cosiddette ‘isole umanitarie’ probabilmente fornirebbero un’altra falsa pretesa di sicurezza e spingerebbero invece i civili in aree piccole, ristrette e con scarse risorse dove rischiano di essere attaccati, sia che si trovino all’interno o all’esterno di queste ‘isole’. Non c’è nessun posto a Gaza che abbia a disposizione assistenza e servizi sufficienti per garantire la sopravvivenza della popolazione. Nella stessa Rafah, i servizi e le infrastrutture essenziali funzionano solo parzialmente, compresi ospedali, panifici e strutture per il rifornimento idrico o quelle igienico-sanitarie ormai al collasso. Il centro e il nord di Gaza sono devastati, con interi sistemi, infrastrutture e quartieri cancellati dalla mappa e mentre continuano le restrizioni di accesso all’area per le agenzie di assistenza umanitaria. Un’ulteriore escalation delle operazioni militari israeliane a Rafah avrebbe anche conseguenze catastrofiche per la risposta umanitaria già fortemente ostacolata in tutta Gaza, poiché maggior parte del coordinamento degli aiuti e delle infrastrutture istituite dall’ottobre 2023 ha sede proprio a Rafah”, si legge ancora nel testo.

“Tutti gli Stati hanno l’obbligo di proteggere le popolazioni dai crimini di atrocità. I bambini e le famiglie di Rafah vivono in un costante stato di paura e pericolo. Il governo israeliano ha annunciato l’intenzione di espandere le operazioni militari nella zona e questo rischio si è ulteriormente aggravato dal 31 marzo, quando il gabinetto di guerra israeliano ha approvato i piani per le operazioni di terra nel governatorato più a sud. Sebbene alcuni stati abbiano espresso pubblicamente disapprovazione, le pressioni diplomatiche e le dichiarazioni internazionali non sono state finora sufficienti a produrre risultati e ad evitare l’incursione pianificata. Tuttavia, esistono una serie di misure di protezione a disposizione degli Stati, che sono obbligati a rispettare e garantire il rispetto del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani, come dimostrato in precedenza in altre crisi internazionali. Gli Stati devono ora intraprendere azioni urgenti per garantire l’attuazione immediata di un cessate il fuoco permanente ed esplorare tutte le opzioni disponibili per proteggere i civili, in linea con i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani. Ciò include l’interruzione immediata del trasferimento di armi, parti di ricambio e munizioni laddove vi sia il rischio che vengano utilizzate per commettere o agevolare gravi violazioni del diritto internazionale umanitario o dei diritti umani. Qualunque azione in meno non è semplicemente un fallimento. Qualunque azione in meno non rispetterà gli obblighi morali, umanitari e legali”, conclude la nota.

Lidia Menapace, partigiana armata di idee per costruire la pace

Lidia Menapace

Uno scricciolo dall’aspetto fragile e dalla forza interiore grandissima. Così ci appare Lidia Menapace all’inizio del film che le ha dedicato il regista e attore Massimo Tarducci. Uno scricciolo di donna ma pronta a fare la rivoluzione. Una rivoluzione senza armi, ma con la cultura e con le idee.
Le armi, quelle materiali, si rifiutò di imbracciarle anche quando, giovanissima, partecipò alla lotta partigiana. Poi, nel percorso della sua lunga vita, la scelta del pacifismo si fece in lei sempre più radicale: pacifismo inteso come non violenza e insieme come proposta culturale, di cambiamento della mentalità (anche di linguaggio: «non usiamo il verbo combattere, meglio “lottare”. La lotta è nobile») e al contempo come azione concreta, senza scendere a compromessi.
«Via la guerra dal mondo», diceva da ultimo, rileggendo in chiave internazionalista «L’Italia ripudia la guerra» che è il cardine dell’articolo 11 della Costituzione antifascista. «Bisogna abolire l’esercito e investire in sanità», affermava con grande lungimiranza. Manca fortemente il suo impegno pacifista oggi che venti di guerra spirano in Europa.
Mentre scrivevo questo articolo (agli inizi di febbraio del 2022) l’Italia, obbediente alla Nato, aveva già speso 78 milioni per schierare mezzi nelle aree calde dell’Europa dell’Est e il ministro della Difesa Guerini aveva già raggiunto quota 15 miliardi per missioni di guerra in un anno. Oggi la situazione è ulteriormente peggiorata, con due guerre in corso, in Ucraina e a Gaza e il governo Meloni impegnato ad inviare armi a Kiev e ad Israele ( nonostante le rassicurazioni di Tajani) e nella sedicente missione difensiva Aspides in Mar Rosso. Mentre l’Europa di Von Der Leyen si impegna a investire in armi come un po’ fece invece saggiamente per i vaccini.
Ritroviamo dunque, più attuali che mai le parole della partigiana pacifista nel film Per Lidia Menapace, appunti di viaggio a Bolzano che ci restituisce una Lidia spiritosa, resistente, come lo è stata fino al 2020 quando il Covid purtroppo se l’è portata via a 96 anni.
Il film di Tarducci ci fa ritrovare la sua gioia di vivere, di incontrare, di spostarsi, di conoscere, di ospitare, in un flusso di immagini di partenze e arrivi, di stazioni e treni su cui amava viaggiare sempre rigorosamente in seconda classe.
Scorrono in questo film scorci della sua amata Bolzano, città di confine mitteleuropea, laboratorio di dialogo e di confronto fra culture diverse. Balenano gli spazi dove più amava stare: le piazze, la cucina, lo studio stracolmo di libri.
Lidia Menapace era un’insegnante, una ricercatrice (fu cacciata dall’Università del Sacro Cuore nel 1968 per aver preso posizione con uno scritto dal titolo Per una scelta marxista). È stata donna impegnata in politica e senatrice eletta nelle liste di Rifondazione comunista, partito a cui era iscritta fin dalla sua nascita nel 1991. Ma prima di tutto Lidia Menapace era una partigiana. «Sono una ex insegnante, una ex parlamentare, ma non una ex partigiana», dice perentoria nel film. «Perché essere partigiani è una scelta di vita».
E questo suo antifascismo calato nel presente era ciò che affascinava i più i giovani che andavano a trovarla, che le chiedevano di parlare a scuola. Ogni volta che gli studenti la interpellavano lei rispondeva sempre generosamente, raccontando la Resistenza e la ricostruzione in modo appassionato e in chiave anti eroica: «Venivamo da vent’anni di fascismo, eravamo ignoranti come le capre, non avevamo alcuna formazione politica, se ce l’abbiamo fatta noi, ce la può fare chiunque», dice Lidia ad incipit del film, passando idealmente il testimone a una studentessa, Emma Tarducci, che nel film interpreta la parte di una liceale. Il professore le ha dato da fare una ricerca su Lidia Menapace. E la giovane studentessa fiorentina si appassiona alla sua storia, la fa sua, fino a immaginarsi davanti allo specchio di essere la staffetta Bruna (nome di battaglia di Menapace), pronta a inforcare la bicicletta per portare messaggi ai compagni e disposta a nascondere nel reggiseno il plastico da piazzare su rotaie e snodi di comunicazione per impedire il passaggio di convogli nazifascisti. Sono le sequenze più suggestive del film, girate in bianco e nero diversamente dal resto dell’opera, e interpretate con grande spontaneità e freschezza da questa giovane attrice non professionista che ci ha riportato alla mente la protagonista di un rivoluzionario e originale film d’autore: Il cielo della luna di Massimo Fagioli. Ci è parsa quasi una citazione. I riferimenti al cinema d’autore (fra questi anche a opere di Reitz e Tarkovskij) a ben vedere sono molteplici e tutto sommato ben fuse con le parti di ricostruzione storica di questo lavoro che non potremmo definire solo un documentario.
Il modo con cui la telecamera accarezza il paesaggio e scova angoli imprevisti di poesia dando risonanza alle parole di Lidia e di Emma, il modo con cui il regista a partire dalla verità biografica delle due protagoniste crea due splendide immagini di donna fanno sì che Per Lidia Menapace appunti di viaggio a Bolzano esuli dagli stretti canoni di genere. Come del resto unica e fuori dagli schemi è stata l’avventura umana e politica di Lidia. Antifascista «perché il regime era autoritario, violento, corrotto, razzista, ignorante e guerrafondaio»; donna «indipendente, autonoma, vagabonda», come si definisce nel film. Ma anche femminista. Di un femminismo nuovo, che vuole essere anche femminile, come ha raccontato nei suoi libri.
Nata a Novara nel 1924 come Lidia Brisca veniva da una famiglia mazziniana, laica, antifascista. Suo padre ferroviere fu deportato prima in Polonia poi in Germania. Lidia si rese conto per la prima volta della violenza fascista quando due compagne di scuola di origine ebraica furono allontanate dalla scuola e lei invece ricevette il timbro sulla pagella: «Di razza ariana». La madre le disse di strapparla perché «noi non siamo animali. Gli esseri umani non si dividono in razze». Fu lei a incoraggiarla ad essere indipendente. E Lidia Menapace lo è stata davvero, battendosi per il divorzio e per l’aborto e negli ultimi anni anche per abolire il Concordato. Senza sudditanze psicologiche stigmatizzava il bigottismo morale non solo della Dc (di cui aveva fatto parte come assessore della provincia di Bolzano) ma anche del Pci: «Togliatti disse che le donne non dovevano sfilare il 25 aprile del 1943, perché il popolo non avrebbe capito», ricordava sempre. Anche con libri autobiografici come Canta il merlo sul frumento (Manni, 2015) e Io, partigiana (Manni 2014) Menapace ha voluto raccontare l’altra metà della Resistenza, a lungo negata. «Senza le donne la Resistenza non ci sarebbe mai stata – dice nel film di Tarducci -. Rischiando la vita davano rifugio, un piatto di minestra. E non era solo un’attività domestica, fu decisivo»: Si ribellava alla narrazione “ancillare” della partecipazione delle donne alla Resistenza. Che per le donne in certo modo, è un cimento che dura da millenni. «Il movimento delle donne è come l’acqua che scorre ovunque», dice Lidia Menapace in un altro bel docufilm Non si può vivere senza una giacchetta lilla di Novella Benedetti, Chiara Orempuller e Valentina Lovato. E aggiunge: «Ogni tanto però si perde. Sembra che si imbuchi, ma poi riemerge. Ha un andamento,un modo sotterraneo che rappresenta una vitalità nascosta – racconta -. A me piace dire che il femminismo assomiglia a questo. È un fenomeno tra ombre e luce, tra superficie e sottoterra, è sempre vissuto insieme all’umanità. Ogni tanto sprofonda e sono tempi di terribile dominio maschile e basta. Qualche volta emerge un pochino. Non è ancora mai emerso definitivamente. Non è ancora quel grande fiume placido che occupa tante pianure quando va in piena. Però pensando che è una storia lunga millenni non possiamo neanche lamentarci – scherza Lidia – abbiamo fatto abbastanza baccano».

Questo articolo è un estratto dal libro di Left Partigiane dei diritti.

La foto di apertura è di Zintosch7 – Opera propria, CC BY-SA 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=97724457

 

Cornelia Hildebrandt: «Elezioni Ue, in Germania la sinistra di Die Linke per la pace»

Cornelia Hildebrandt è, insieme a Marga Ferré, la co-presidente di Transform! Europe. È componente della Fondazione Rosa-Luxemburg (RLS).
Ha partecipato il 23 marzo all’assemblea Per la pace promossa da Transform! Italia alla Casa Internazionale delle donne a Roma (qui il video). Le abbiamo rivolto alcune domande relative all’attuale e complessa situazione in Europa, con uno sguardo prettamente rivolto alle dinamiche interne alla sinistra.

Per la sua esperienza europea, ma anche dal punto di vista tedesco, cosa significa “lotta per la pace”?

Per Die Linke la lezione della Seconda guerra mondiale è il punto di partenza vincolante, per tutte le idee di politica per la pace. Non deve iniziare mai più una guerra dal suolo tedesco. Nel programma per le elezioni europee del partito questo significa concretamente la richiesta di fermare il riarmo e la militarizzazione della Ue, il rifiuto di una forza militare europea, dell’obbligo di riarmo per i Paesi Ue e delle missioni militari all’estero dell’esercito federale. La Ue dovrebbe, invece, aderire al trattato di non proliferazione per le armi nucleari, chiudere le basi militari statunitensi e sviluppare ulteriormente l’Ocse. Proponiamo anche un servizio civile per la pace, obbligatorio. Per la Linke, il problema fondamentale, soprattutto per quel che riguarda la guerra in Ucraina, trae origine dal fatto di non essere percepito come un partito per la pace con sue proprie iniziative e che nei media ha varie posizioni. Per esempio, per quel che riguarda la fornitura di armamenti, anche se tutti condannano decisamente l’attacco della Russia contro l’Ucraina. La sua credibilità di forza di pace è stata danneggiata dalla sua adesione non convinta alla sola grande manifestazione contro la guerra in Ucraina svoltasi nel febbraio del 2023 e dalle prese di posizione pubbliche a favore della fornitura di armi da parte di alcuni rappresentanti della Linke.

Come vede l’Unione europea oggi? Che cosa dovrebbe fare l’Ue e quali dovrebbero essere le sue priorità politiche? Inoltre, quale potrebbe essere, secondo lei, una proposta per realizzare una istituzione europea più democratica?

La Linke è un partito a favore dell’Europa ma anche critico verso la Ue. Di fronte alla militarizzazione della Ue, l’estensione della fortezza Europa con una politica migratoria militarizzata che di fatto cancella il diritto individuale all’asilo e una politica climatica che punta unicamente su tecnologie migliorative messe sempre più in discussione dallo spostamento verso destra, la sinistra europea deve puntare su un’alternativa giusta dal punto di vista sociale ed ecologico, pacifica e democratica. Bisognerà rinegoziare i trattati e puntare su un referendum in modo che i cittadini della Ue possano esprimersi in merito.

Cosa pensa delle numerose scissioni all’interno della sinistra?

Le scissioni della sinistra hanno cause varie. Da una parte le società sempre più frammentate che si rispecchiano nei panorami politici e dall’altra i conflitti inerenti alla sinistra stessa. I partiti europei di sinistra si assomigliano, quando si parla di problemi sociali. Ma hanno grosse differenze per quel che riguarda questioni socioculturali come il femminismo, i diritti LGBTQOA+, la politica migratoria e per i rifugiati. Hanno posizioni differenti per quel che riguarda il peso da dare al cambiamento climatico e addirittura opposte rispetto alla guerra in Ucraina e la Nato. Ma queste differenze non devono necessariamente portare ad una scissione, se si riesce a discuterne in modo che il Partito della Sinistra europea riesca ad approvare un programma elettorale comune. Per via delle posizioni di Sahra Wagenknecht sulle politiche migratorie, per la Linke, non era più possibile rimanere su una base comune: lei rifiuta le frontiere aperte e la migrazione irregolare, rifiuta ogni forma di sussidio per i richiedenti asilo a cui non è riconosciuto il diritto a restare e ha una posizione aperta verso destra. E già prima che formasse il suo partito “Alleanza Sahra Wagenknecht”, essendo la sua leader, insieme a Gregor Gysi quasi la sola personalità carismatica della Linke, avendo posizioni diverse su immigrazione e Russia ha fatto sì che la Linke venisse percepita come partito dilaniato.

E per quanto riguarda le sinistre degli altri Paesi?

Le scissioni della sinistra greca, francese e spagnola hanno ragioni diverse. Dei leader carismatici possono parlare a persone che sono al di là della solita cerchia elettorale e le possono entusiasmare e convincere. Ma allo stesso tempo, queste loro capacità di rivolgersi direttamente alle masse indebolisce la democrazia all’interno del partito che poi può essere facilmente aggirata, come nel caso di Syriza e del suo nuovo segretario. Questo significa che proprio quando il partito viene caratterizzato da una personalità carismatica sono proprio le regole democratiche a garantirne l’esistenza. Ma una simile personalità in Spagna non c’era più in Unidas Podemos ed è quasi invisibile in Sumar. In Francia, in Nupes era possibile solo sotto la guida di Mélenchon che non è riuscito a tenere unita la coalizione realizzata, quando la situazione è cambiata nel vasto schieramento di sinistra e sono
prevalse le divisioni. Chiedersi se una guida più collettiva della coalizione avrebbe portato al successo anche in presenza di un partito comunista francese più tradizionale è una domanda puramente ipotetica. Ma se le scissioni nazionali continuassero anche a livello europeo allora davvero si bloccherebbe lo sviluppo europeo – e questo di fronte ad uno spostamento radicalmente a destra a cui rischiamo di assistere dopo le elezioni europee 2024.

(Si ringrazia Esther Koppel per la traduzione)

 

Sempre a proposito di Delmastro e Pozzolo

Ha ragione Matteo Renzi quando dice che la vicenda dello sparo di Capodanno è terribilmente scivolata nelle retrovie, come se si trattasse di un retroscena o peggio, un’invenzione giornalistica. Il deputato di Fratelli d’Italia (ora sospeso) Emanuele Pozzolo aveva giurato di non essere colui che aveva fatto partire il colpo e soprattutto aveva giurato di spiegare tutto ai magistrati.

Non l’ha fatto. Di Pozzolo si conoscono solo i silenzi e l’ostinazione con cui si dichiara innocente. Peccato che la perizia balistica scriva nero su bianco che “il revolver in sequestro era impugnato da Pozzolo Emanuele, che si trovava in posizione eretta sul lato lungo del tavolo rivolto verso il muro”.

Fantasiose e contraddittorie anche le versioni del sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro, uomo forte del cerchio magico di Giorgia Meloni. In un primo momento Delmastro aveva raccontato che al momento dello sparo si trovava fuori, a 300 metri di distanza, dove si era recato per caricare la macchina con gli avanzi della cena, e di non aver udito il rumore del colpo. Pochi giorni dopo in Procura ha fornito una versione diversa, sostenendo di aver sentito il rumore dello sparo, e di aver pensato fosse un petardo, mentre fumava una sigaretta all’esterno della sala. 

L’uomo colpito dal proiettile vagante – Luca Campana – racconta che Delmastro era presente nella stessa stanza, anche se distante tre metri dal punto in cui è partito lo sparo. Il capo scorta di Delmastro invece riferisce che il suo scortato fosse serenamente fuori dalla stanza con la scorta serenamente all’interno. 

L’omertà, le contraddizioni, il mancato rispetto dei protocolli, l’avventatezza e la presenza di bambini rendono il tutto piuttosto grottesco.

Buon mercoledì. 

Nella foto (da fb): Andrea Delmastro e Emanuele Pozzolo