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Maryse Condé, il coraggio della verità

Se ne è andata una grandissima scrittrice, Maryse Condé, straordinaria voce della letteratura francofona, originaria della Guadalupa e poi cittadina del mondo, vivendo a lungo in Francia e negli Usa dove ha insegnato. Ha scritto una trentina i libri sull’Africa, sulla schiavitù, sulle molteplici identità nere. Con coraggio ha decolonizzato lingua e la cultura in senso ampio. La ricordiamo con questa intervista uscita su Left il 18 agosto del 2019

Una visione epica dell’esistenza e della letteratura. Una lingua ricca di aromi, carnale, nitida. Con grande spessore letterario e umano, Maryse Condé, premio Nobel alternativo 2018, ha raccontato la sua terra madre, l’isola caraibica di Guadalupe e le ferite del colonialismo. Grande viaggiatrice, dalla Francia, scelse di andare a vivere e a insegnare in Africa, rifiutando ogni mitologia delle radici, per conoscere quella immensa e variegata realtà con i propri occhi. A 82 anni ora lo racconta nell’autobiografia La vita senza fard (La Tartaruga), coraggiosa testimonianza di scrittrice e donna che si presenta senza infingimenti.

Maryse Condé, la verità chiede coraggio, identità, assunzione di responsabilità, cosa significa per lei la parola «verità» e quanto le è costato cercarla sempre?

C’è un’immagine che caratterizza ognuno di noi, che uno lo voglia o meno. Un’immagine fatta da propositi a volte concepiti senza troppe riflessioni, da reazioni momentanee, immediate. Questa immagine a volte ne nasconde una più profonda, più adeguata alla propria personalità più intima. Quello che io chiamo verità è la ricerca costante dell’espressione di sé più autentica, al di là delle idealizzazioni e dei malintesi. Non è un’impresa facile, è un lavoro di demistificazione, è il rifiuto di ciò che è comodo e facile ricordare. Questa ricerca è dolorosa e costa a coloro che vi si dedicano seriamente.

Nel dittico Le muraglie di terra e La terra in briciole lei riporta alla luce la storia di Segou e della sua islamizzazione, dall’arrivo del primo bianco sul Niger fino alla conquista coloniale francese. La verità storica ha una grande importanza collettiva, ma troppo spesso viene negata?

Non ho inventato nulla. Tutto il mondo sa che Mungo Park era stato inviato dalla Società di geografia inglese per scoprire in quale senso scorresse il fiume Niger, chiamato “Joliba” dagli africani. Sono partita da questo aneddoto per raccontare la vita dei primi abitanti dell’impero Bambara. Ho voluto mostrare lo iato profondo tra il racconto costruito dagli europei e quello autoctono degli africani su se stessi.

Le responsabilità coloniali dell’Occidente vengono ancora occultate da quegli stessi Paesi occidentali che oggi chiudono le porte ai migranti…

Rispetto al tema migranti non mi sono occupata nello specifico di come vengono accolti in Europa. Beninteso, è giusto che vengano soccorsi e ospitati da persone sensibili e attente. La mia analisi, i miei interessi sulla questione sono di altro ordine, però. Io vorrei scandagliare a fondo le origini delle migrazioni. Perché ci sono tanti conflitti nei Paesi in via di sviluppo? Chi ne è la causa? È una questione di sfruttamento (schiavitù) a spingere le persone a auto esiliarsi, ad affrontare la morte su imbarcazioni di fortuna? Cerco di capire dove siano le responsabilità e di immaginare i rimedi possibili a questa situazione così drammatica e dolorosa.

Nel libro Io, Tituba, strega nera di Salem (Giunti) racconta una terribile strage di accusati di stregoneria, avvenuta nel XVII secolo. Il mandante era anche l’ideologia puritana. Perché nella storia le grandi religioni monoteiste si sono sempre accanite contro le donne?

Non lo so, quello che posso dire è che Tituba è un libro in cui esploravo l’imposizione della perdita dell’identità della donna nera. Lo spiega bene la prefazione che Angela Davis ha scritto per nell’edizione americana del libro.

Con il suo lavoro lei ha contribuito a dare voce alle donne e agli uomini dei Caraibi. Il premio Nobel alternativo per la letteratura che le è stato assegnato nel 2018 è un riconoscimento particolarmente importante perché nasce dal rifiuto della violenza sulle donne.

Sono stata molto felice di ricevere il premio Nobel per i motivi che ho spiegato nel mio lungo discorso di Stoccolma. Nella società in cui sono cresciuta non c’era posto per la voce di una donna, per giunta nera.

Anche il Nobel Derek Walcott è stato voce poetica e civile dei Caraibi, che significato ha avuto per lei il suo lavoro?

Proprio in quel discorso ho ricordato come sia stata felice di far conoscere un altro aspetto insondato della realtà delle Antille, di lavorare sulle tracce di Aime Cesaire, Frantz Fanon e Derek Walcott. Una grande parte del mondo è stata ridotta al silenzio ed è stato difficile proprio per i miti e le menzogne che si sono accumulati durante gli anni della colonizzazione. Questo compito è lungi dall’essere colmato, restano ancora molti sforzi da compiere come dice la canzone «Un giorno la Terra sarà rotonda».

Per oltre vent’anni lei ha insegnato a Berkeley, Harvard e alla Columbia University e conosce profondamente la realtà americana. Gli Stati Uniti sono diventati un simbolo di libertà nel mondo, ma sono anche una nazione nata sul genocidio. Perché ancora oggi non se ne parla abbastanza?

Parecchie nazioni hanno conosciuto lo stesso destino. Certamente i genocidi degli Indiani sono un fatto per cui ci sentiamo in colpa, come è giusto che sia. La memoria è importante, ma credo anche che la storia moderna necessiti una epoché delle realtà del passato per arrivare all’armonia dello scambio e della vita in comune che oggi è indispensabile.

Qui i libri di Marise Condé nel catalogo Giunti

Meloni e i pieni poteri. Dialogo fra costituzionalisti

Illustrazione di Marilena Nardi

La proposta di premierato, con l’elezione diretta del presidente del Consiglio, voluta da Meloni, va avanti. Un progetto che, letto in un combinato disposto con la legge elettorale maggioritaria e con il Ddl Calderoli sull’autonomia differenziata, costituisce un rischio per la democrazia. Ne parlano qui Giovanni Russo Spena e Gaetano Azzariti.

Giorgia Meloni illustra, con orgoglio autoreferenziale, il proprio progetto di riforma costituzionale come “l’arrivo della Terza Repubblica”. Non ha tutti i torti. Sembra a me, infatti, un percorso eversivo della nostra Costituzione. Eversivo anche nel procedimento. Calamandrei ammoniva che, quando si dibatte di riforme costituzionali, bisogna farlo in Parlamento e i banchi del governo devono essere vuoti. Ora, invece, Meloni convoca, propone, detta tempi e modi. Le opposizioni parlamentari appaiono inerti.
È passata un’era geologica da quando Piero Calamandrei teorizzava che il governo dovesse rimanere estraneo ad ogni discussione sulla Costituzione. Ora siamo giunti a definire una procedura per la modifica della Costituzione diretta espressione del governo. Un ribaltamento. I passaggi che ci hanno portato sin qui sono diversi. Vale la pena ricordarli. Prima, negli anni 90, i tentativi di deroga della procedura ordinariamente prevista in Costituzione (art. 138), utilizzando le bicamerali cui assegnare compiti di modifica della intera seconda parte della Costituzione; poi l’approvazione a stretta maggioranza di riforme di grande rilievo (a partire dal Titolo V); infine l’assunzione diretta dei leaders di governo di progetti di stravolgimento della Costituzione (prima Berlusconi, poi Renzi). È segno di un cambiamento di cultura costituzionale: dalle costituzioni intese come pactum unionis a garanzia del pluralismo e dei conflitti che attraversano le società, alle costituzioni intese come decisione politica fondamentale che esprime la volontà di una contingente maggioranza parlamentare. In questo secondo scenario è chiaro che le opposizioni poco contano, anzi tendenzialmente nulla. Per fortuna la nostra Costituzione – ispirata al primo e non al secondo modello – ancora prevede alcune garanzie per evitare che tutto sia in mano alle maggioranze di turno. Forse non si può più confidare molto sulla garanzia espressa dal quorum necessario della maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere per l’approvazione della riforma in Parlamento (che, vigente un sistema proporzionale, almeno assicurava la corrispondenza della volontà parlamentare con la volontà della maggioranza degli elettori), quanto si può guardare al referendum che può essere richiesto se non si raggiunge la più elevata maggioranza dei due terzi dei suoi componenti in Parlamento. Non è bello dirlo, ma penso che le opposizioni dovranno puntare a convincere dei pericoli della riforma più il corpo elettorale che non l’attuale maggioranza. Mentre il primo, che pure è certamente frastornato dalla confusa propaganda sull’elezione del capo, può ascoltare le ragioni del dissenso, la seconda mi sembra decisa ad ottenere il risultato e poco propensa al confronto. Ciò ovviamente non vuol dire che non sia necessaria una chiara opposizione in tutte le sedi istituzionali.

Le Costituzioni vanno valutate a partire dal proprio impianto complessivo e dalla architettura di valori e diritti. La proposta di “premierato”, allora, va letta in un combinato disposto sia con la legge elettorale maggioritaria, con il 55 per cento dei seggi assegnati alle liste collegate al vincitore del plebiscito (forse portata in Costituzione), sia con il progetto di “autonomia differenziata”. Un Paese diviso, ha bisogno, secondo il governo, di un comando centrale “forte”. La democrazia parlamentare, di rappresentanza, vira verso la democrazia di investitura. Che appare uno strumento disciplinare di massa; non più partecipazione democratica, ma una delega assoluta quinquennale di un popolo inerte.
Il compromesso tra Lega e Fratelli d’Italia, la prima fautrice della più radicale forma di autonomia differenziata, la seconda della elezione diretta del presidente della Repubblica (oggi del premier), trova la sua sintesi in una comune visione di accentramento dei poteri, ora nelle mani del c.d. “governatore”, a scapito degli altri enti locali, delle città e degli stessi sindaci, ora nelle mani del capo del governo a scapito degli altri organi costituzionali, dal Parlamento al presidente della Repubblica garante. In entrambi i casi la partecipazione popolare viene considerata un ostacolo. La prospettiva è quella di conferire il potere e poi lasciare governare chi è stato investito. Non si avverte neppure l’esigenza che chi governa deve farlo in nome almeno della maggioranza della popolazione, lasciando aperti i canali delle opposizioni e della dialettica politica. Basta trovare un meccanismo di traduzione dei voti in seggi che assicurino una maggioranza assoluta a chi governa, possibilmente indisturbato, per il più lungo tempo possibile. Così si spiega la previsione di una unica elezione che assicuri non solo la scelta del capo, ma anche una sicura maggioranza parlamentare al suo seguito. Anche se dovesse essere espressione di una (relativamente) piccola minoranza di elettori. Oggi abbiamo già un Parlamento al servizio del governo, subissato da decreti legge e obbligato a votare continue fiducie, domani la dipendenza sarà ancora più forte dovendo sottostare ad un presidente eletto direttamente dal popolo. Senza neppure più la possibilità di cambiare governo e maggioranze. La norma c.d. “antiribaltone” sottrae al Parlamento ogni autonomia di indirizzo politico. Forse ogni autonomia, tout court.

Quale sarà la funzione del presidente della Repubblica? Non sarà sempre più evanescente? E il Parlamento non diventerà ornamentale? Comuni, Regioni, e ora premierato: tutta la complessa architettura costituzionale vedrebbe la prevalenza assoluta di governabilità fondata quasi esclusivamente sugli esecutivi… Il premier eletto dal popolo e il Parlamento insieme vivono e insieme cadono.
Non v’è dubbio che la figura del nostro presidente della Repubblica verrebbe ad essere travolta, sostituita da un’altra. Le affermazioni che si sentono ripetere secondo cui non si toccano i poteri attuali del capo dello Stato è pura retorica. Basta pensare che i due poteri che valgono a caratterizzare il presidente della Repubblica sono quelli di incarico e poi nomina del presidente del Consiglio e quello di scioglimento del Parlamento. Ora, l’uno si annulla, il presidente dovrà conferire l’incarico di formare il governo al premier eletto; così come dovrà sciogliere le Camere nei due casi già definiti in Costituzione (doppia sfiducia al premier eletto o di chi lo sostituisce della stessa maggioranza). Insomma, un notaio e non più un potere di garanzia e intermediazione, “reggitore degli stati di crisi”. In sintesi, potremmo dire che se oggi il Parlamento ha difficoltà ad affermare il proprio ruolo e la sua autonomia, domani avremmo compiuto l’intero percorso ed esso non avrà più nessun ruolo autonomo.

Giorgia Meloni afferma che andrà avanti anche da sola, con la sua maggioranza (che, sul tema, comprende anche Renzi, ovviamente). Settori dell’opposizione parlamentare ipotizzano una mediazione aggiungendo al progetto Meloni l’istituto della “sfiducia costruttiva”. Io ritengo che il progetto sia non emendabile, anche perché è frutto di una logica di revisionismo storico contro la Liberazione antifascista, vero cemento della Repubblica.  Dovremo sin da ora prepararci: opposizione in Parlamento, campagna civica, comitati per il referendum…
La battaglia parlamentare va combattuta. Non fosse altro per fare emergere le ragioni dell’opposizione all’attuale disegno di riforma costituzionale. Più che cercare di emendare l’attuale testo (sono d’accordo con te, difficilmente migliorabile), bisognerebbe far emergere un’altra idea di riforma della nostra forma di governo. Denunciare la debolezza del Parlamento, individuare le misure istituzionali che potrebbero favorire un recupero della sua centralità, proporre un riequilibrio tra governo, Parlamento e capo dello Stato, introdurre misure per assicurare in altro modo tanto la stabilità di governi, quanto la rappresentatività effettiva dei parlamenti e dei nostri rappresentanti, modificare le regole della rappresentanza politica (il sistema elettorale) e riflettere sulle forme della rappresentanza sociale (partiti e partecipazione alla vita politica). Insomma, c’è molto lavoro da fare. Se poi si arriverà al referendum avremmo almeno contribuito a preparare il terreno, per evitare il peggio.

Questo articolo è stato pubblicato nel numero di dicembre 2023 di Left dal titolo “Re Giorgia”

Illustrazione di Marilena Nardi

Foglie di fico dal cielo su Gaza

Non è cambiato niente. Sono passati giorni dalla risoluzione Onu per un cessate il fuoco tra Israele e Hamas ma si continua a morire. Come spiega Ispi a cinque mesi dall’inizio del conflitto, il deficit tra il volume dei rifornimenti che sarebbero entrati nella Striscia se non fosse stato per la guerra e ciò che è stato effettivamente ricevuto ha superato il mezzo milione di tonnellate. Secondo l’Integrated food security phase classification (Ipc) delle Nazioni Unite nessuno degli abitanti dell’enclave è ormai più al sicuro dal punto di vista alimentare. Da quando è stato istituito, 20 anni fa, l’Ipc ha dichiarato solo due carestie: in Somalia nel 2011 e in Sud Sudan nel 2017. A meno che non sia ripristinata la fornitura di aiuti, hanno fatto sapere, gli esperti dovranno dichiararne una terza.

Agenzie e organizzazioni umanitarie continuano a ripetere che gli aiuti aerei sono il metodo meno efficace per distribuire rifornimenti umanitari. Da allora diversi palestinesi sono annegati mentre cercavano di raggiungere a nuoto alcune casse che erano cadute in mare, o sono rimasti schiacciati quando i paracaduti non si sono aperti correttamente. L’alto funzionario per i diritti umani, Volker Türk  ha ripetutamente denunciato alla Bbc che l’ipotesi secondo cui Israele sta usando la fame come arma di guerra a Gaza è “plausibile”. Se l’intento fosse dimostrato, ha spiegato, equivarrebbe a un crimine di guerra. Accuse che il governo di Benjamin Netanyahu definisce come “una totale assurdità”. I camion intanto restano bloccati a Rafah. 

Buon martedì. 

Costituzione e diritti delle donne. Il fil rouge dell’emancipazione

Vorrei ragionare sul rapporto fra donne e Costituzione, mettendo al centro l’emancipazione, incrociando così il titolo di questi due giorni di incontri, Libere di essere. Donne resistenti ieri e oggi. Nella Costituzione la nostra emancipazione e la nostra libertà, con il cuore della Costituzione, l’articolo 3, comma 2, che disegna un progetto di emancipazione, sia personale («il pieno sviluppo della persona umana») sia collettiva («l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»).
Non solo: l’art. 3, co. 2, Cost., fonda i diritti nel senso che proclama l’uguaglianza sostanziale, quale terreno dal quale germogliano i diritti sociali (istruzione, lavoro, salute, …), e in quanto sancisce l’effettività dei diritti, ovvero il loro carattere concreto, la loro materialità, connotando in senso sociale la democrazia.
Non ho la pretesa di addentrarmi, ragionando di diritti delle donne, nelle tesi del pensiero femminista, mi limito tuttavia a osservare come molte declinazioni trovino spazio nella Costituzione, che si pone come compagna nelle lotte delle donne. Si pensi al pensiero fondato sul principio antidiscriminatorio (nel segno dell’universalità dei diritti, a partire dalla rivendicazione del voto); al femminismo fondato sul principio della differenza (la valorizzazione delle differenze e la denuncia della falsità della presunta astrattezza); al femminismo che insiste sul principio di antisubordinazione, ovvero sulla lettura del patriarcato come assetto di potere e sulla trasformazione sociale; al femminismo del simbolico (con la centralità del discorso sul materno).
Non intendo nemmeno ricostruire il rapporto delle donne con i singoli diritti, dal lavoro alla salute all’istruzione alla questione della parità nella rappresentanza politica, o trattare del tema delle azioni positive, vorrei invece ragionare mantenendo l’art. 3, co. 2, Cost., e l’emancipazione come fil rouge del rapporto fra donne e Costituzione, insistendo sulle convergenze che si possono riscontrare fra diritti delle donne e costituzionalismo. In primo luogo, una precisazione: l’uguaglianza della Costituzione, nel tendere al «pieno sviluppo» della persona e nel contesto di un approccio sostanziale ed effettivo si traduce in “libera uguale diversità” o in una “effettiva libera diversità”. Si ragiona, in altri termini, di una uguaglianza che si distingue dall’omologazione e dalla semplificazione omogeneizzante; le quali, sia consentita una breve digressione, rappresentano uno dei mali del nostro tempo: stanno uccidendo il pensiero critico, stringendolo nella morsa dicotomica amico, legittimato, versus nemico, delegittimato (come insegna la guerra, in Ucraina, come a Gaza) e privandolo della profondità della contestualizzazione storica. Ancora, l’uguaglianza della Costituzione poggia – necessariamente – sulla liberazione dagli ostacoli, ovvero si prefigge di tutelare le differenze al netto dei condizionamenti economici e sociali, e si pone su un piano concreto, non astratto. La prospettiva dell’art. 3, co. 2, Cost., implica una contestualizzazione del discorso sulle asimmetrie di genere nella materialità del complesso della realtà sociale ed economica: in una parola, la considerazione della donna come “persona situata”. La considerazione delle disuguaglianze sociali ed economiche, quindi, conduce alla prospettiva dell’intersezionalità e si presenta come nodo centrale, che esplicita la connessione fra i diversi profili dell’emancipazione. Quanto sin qui osservato rende evidente, per inciso, la distanza rispetto alla prospettiva del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che imposta il discorso delle disuguaglianze di genere in un’ottica funzionalista rispetto alla crescita economica, con un approccio ordoliberale e all’interno di una razionalità neoliberista: per tacere della considerazione che, come “effetto collaterale”, insistere sulle diseguaglianze di genere può occultare le diseguaglianze di classe, ovvero di condizioni economiche e sociali. La visione del Pnrr trova una sintesi nelle immagini della “donna come capitale umano” e della “parità di genere per il Pil”, per cui, ad esempio, in coerenza con un Piano centrato sulla figura dell’impresa, si insiste sulle misure relative all’imprenditoria femminile (Missione 5 del Pnrr) e sull’empowerment nelle «condizioni competitive». Si assiste, per dirlo con le parole di bell hooks, ad una «mercificazione del pensiero femminista», con il rischio che, come accaduto ad altri concetti (per tutti, “sviluppo sostenibile”), l’uguaglianza di genere venga cooptata e mistificata, privata del suo potenziale trasformativo. Non si tratta di incrementare la competitività delle donne, ma di garantire l’emancipazione, il «pieno sviluppo della persona» e l’«effettiva partecipazione» (art. 3, co. 2, Cost.). Questo, nella consapevolezza, si ribadisce, che occorre considerare la condizione femminile nel suo legame con le disuguaglianze sociali ed economiche, nella consapevolezza della complessità e della connessione degli ostacoli ad una effettiva liberazione, che causano un aumento esponenziale delle disuguaglianze (l’orizzonte dell’intersezionalità). È una lettura che si accompagna all’assunzione dell’uguaglianza come «principio di anti subordinazione» e va oltre la dimensione antidiscriminatoria.
La rimozione dello stato di subordinazione – subalternità per utilizzare un lessico gramsciano – innesta «un processo circolare di ri-definizione di tutti i soggetti coinvolti», così come della stessa norma: tuttavia intendo qui evidenziare non tanto la ridefinizione dell’universale che questo comporta, quanto sottolineare come la disuguaglianza di genere sia parte di un insieme di disuguaglianze “di classe” e come il suo superamento sia strettamente connesso con un progetto di trasformazione sociale in senso ampio.

Intersezionalità e convergenza
Da un lato, dunque, l’emancipazione femminile non può prescindere dalla considerazione della pluralità e dell’incrocio delle disuguaglianze da superare: il discorso dell’intersezionalità, per cui, esemplificando, l’oppressione deriva congiuntamente dall’essere donna, nera, precaria.
Dall’altro, emerge come esista un idem sentire fra le lotte contro l’oppressione di genere e le proteste per la dignità del lavoro, le rivendicazioni per il diritto alla casa, le azioni di disobbedienza civile in nome dell’ambiente, la denuncia contro la violenza dei confini: ad unire è la lotta contro il dominio e un progetto di trasformazione della società.
L’intersezionalità, in altri termini, si configura come interconnessione e trasversalità delle lotte contro l’oppressione. Il femminismo si pone nel conflitto sociale “dalla parte degli oppressi”, si situa nella galassia dei “contropoteri”, è parte di un “blocco storico”, ovvero di una classe intesa in senso trasversale, che mira a costruire una egemonia incardinata nell’uguaglianza e nell’emancipazione.
Un piccolo esempio: il reddito di autodeterminazione proposto dal movimento Non Una Di Meno. È una misura concepita come strumento di indipendenza e sostegno per uscire da relazioni violente e da stati di sopraffazione (familiari e lavorativi), ovvero ad un tempo mezzo di autonomia e liberazione rispetto alla violenza di genere, ma anche contro lo sfruttamento, i ricatti del lavoro, la precarietà.
Emblematica, in tal senso, ampliando lo sguardo, è la Carta del contratto sociale del Rojava, che connette democrazia, ecologismo, giustizia sociale, autodeterminazione dei popoli e liberazione delle donne.
Le disuguaglianze di genere denotano uno stato di subalternità, che è lo stesso delle condizioni servili dei lavoratori della logistica e dei braccianti agricoli, o della vulnerabilità che contraddistingue la persona migrante.
L’uguaglianza di genere è parte dell’uguaglianza in sé e condivide il suo precipitato: ossia l’essere contro la sottomissione e l’oppressione (che sia di genere, di classe, coloniale, postcoloniale, in versione estrattivista, …). L’elemento che accomuna, allora, estremizzando, è nell’essere donna che subisce uno stato di subordinazione, ma nello stesso tempo è (anche) oltre l’essere donna, ed è il rapporto di oppressione, di dominio, sono le condizioni sociali.
Non si intende sminuire il quid proprio della lotta delle donne ma andare alla sua radice così da vedere nitidamente gli ostacoli e le trappole che si incontrano lungo il cammino e trovare sinergie e alleanze, costruire convergenze.
Le donne appartengono storicamente alla «tradizione degli oppressi» e nell’eterna lotta della storia tra oppressori ed oppressi si situano “dalla parte degli oppressi”, con un portato controegemonico rispetto allo “stato delle cose presente”.
Sono due, dunque, gli elementi, connessi, che si possono evidenziare e sintetizzare nelle locuzioni: “intersezionalità delle disuguaglianze” e “trasversalità, ovvero convergenza, delle lotte contro il dominio”.
Il tracciato seguito riporta al punto di partenza: al costituzionalismo emancipante, che ha nella sua essenza il superamento delle disuguaglianze e la trasformazione della società, all’art. 3 della Costituzione, alla volontà di rimuovere gli ostacoli e liberare le differenze.

Il senso del collettivo
Altri elementi ancora, che accomunano la Costituzione e il femminismo sono il legame sociale e il senso del collettivo. Esiste una vicinanza fra la ricostituzione di legame sociale, del senso del collettivo, che si incontra spesso nei movimenti delle donne, e la prospettiva di chi rifiuta la concezione thatcheriana del “la società non esiste”, rivendica l’importanza della comunità e delle relazioni contro l’atomizzazione della società, sostiene la centralità dei soggetti collettivi in luogo della figura solitaria dell’imprenditore di sé stesso, così come assume e pratica la solidarietà e rifugge la competitività, ovvero rifiuta l’egemonia del neoliberismo, con il suo individualismo sfrenato, iconicamente rappresentato, ça va sans dire, da un uomo bianco, maschio e possidente. Si affaccia qui altresì, come elemento che unisce le lotte delle donne e la Costituzione, la centralità delle relazioni, ovvero l’idea di una persona che non è una monade isolata ma vive contestualizzata nel rapporto con altre persone e gruppi sociali; è l’immagine di una comunità fondata su diritti e doveri (art. 2 Cost.), laddove principio personalista e principio di solidarietà si illuminano a vicenda. Un elemento che percorre spesso i movimenti femministi, nella consapevolezza della difficoltà di generalizzare approcci differenti, è il richiamo alla comunità, alla partecipazione, all’azione come soggetto collettivo (nel rispetto delle persone, nella loro pluralità, che lo animano); così come nell’attenzione al soggetto, all’identità, si nota un aspetto relazionale e sociale lontano da un individualismo bellicoso e da una soggettività solipsistica.
La centralità dell’aspetto relazionale è consonante rispetto ad un concetto di dignità come sociale (art. 3, co. 1, Cost.) e ad un’identità non ripiegata su sé stessa ma costruita nella società (ritornano i discorsi dell’intersezionalità e della convergenza) e proiettata nella società.
Il senso del “collettivo” e di una identità “soggettiva-sociale” trova riscontro in un progetto costituzionale di emancipazione dove sono complementari il «pieno sviluppo della persona» e l’«effettiva partecipazione» (art. 3, co. 2, Cost.), ovvero l’idea di un processo di liberazione di ciascuno e di tutti, nella valorizzazione delle differenze ma anche nella consapevolezza dell’appartenenza ad una comunità.
La prospettiva, in altri termini, non è quella di una self made woman, o di tante self made women in (implicita) competizione con il self made man e con le altre self made women, ma di un percorso collettivo che mira a una liberazione e al riconoscimento di una pari dignità sociale per tutte e tutti.
Per essere chiara, con una battuta, femminismo non è certo “il presidente del Consiglio” Giorgia Meloni che rompe il soffitto di cristallo per sé, con il suo corredo di fascismo e conservatorismo “Dio, Patria e famiglia”, ma creare un terreno fertile per l’emancipazione collettiva.

Il costituzionalismo come compagno nella lotta delle donne
Le donne, dunque, incontrano sulla via il costituzionalimo e il costituzionalismo si presenta come loro naturale compagno. In comune vi sono, sintetizzando, il perseguire un progetto di emancipazione insieme personale e sociale e l’appartenenza ad un cammino tracciato sulla rotta dell’uguaglianza, contro il dominio, ma anche un approccio che si sostanzia nell’attenzione al dato reale, con la demistificazione di una artificiale neutralità.
Ancora: la lotta contro il dominio tende alla «pari dignità sociale» (art. 3, co. 1, Cost.), non alla “conquista del potere”, e, in quanto tale, si situa nello spazio della limitazione del potere proprio del costituzionalismo.
Non si tratta di sedersi tra gli oppressori, in aderenza ad un approccio di genere incentrato sui “posti da occupare”, spesso inscritto in un orizzonte elitario, ma di scardinare i meccanismi di dominio, limitando (ed equilibrando) il potere, attraverso un processo di emancipazione di ciascuna e ciascuno e di tutte e tutti.
Una Costituzione, come quella italiana, che disegna una democrazia fondata sul riconoscimento del conflitto e che si situa “dalla parte degli oppressi”, nel mondo del lavoro come nella società, con l’obiettivo di una eguaglianza effettiva, non può che essere una leale alleata nelle lotte delle donne. Rovesciando il discorso, i movimenti delle donne possono trovare nel costituzionalismo un punto di appoggio, un compagno di strada, uno spazio nel quale riconoscersi nell’orizzonte di una liberazione che tenga conto della complessità dell’essere situata della persona e, quindi, della trasversalità dei processi di emancipazione. Come affermava Teresa Mattei, partigiana e costituente: «È nostro convincimento, che, confortato da un attento esame storico, può divenire certezza, che nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile». Una precisazione, tuttavia, è necessaria: quanto osservato si verifica quando le lotte delle donne, il femminismo, o, meglio, tenendo conto della loro pluralità, i femminismi, si situano “contro il dominio”, esprimendo una volontà trasformativa rispetto ai rapporti di genere, che è congruente e parte (con le sue peculiarità) di un processo di emancipazione della società. Esiste, infatti, ed è in crescita, anche un “femminismo neoliberista”, con una connotazione individualista ed elitaria, che si muove nello spazio della meritocrazia.
L’impostazione delle rivendicazioni di genere come parità di accesso ai privilegi di una società disuguale è una mistificazione dell’uguaglianza di genere e non è l’uguaglianza del costituzionalismo.
Analogamente, si tradiscono l’obiettivo di una effettiva uguaglianza, e il costituzionalismo, quando eventuali misure siano previste unicamente come ammortizzatori sociali (con l’abbandono di un intento emancipativo), o evocando un ottocentesco approccio caritatevole, o quando l’insistenza sulla libertà (negativa) occulti i diritti sociali. Il conflitto, in tali casi, è neutralizzato e con una eterogenesi dei fini sussunto nella razionalità dominante.
Una effettiva uguaglianza di genere non può che costruirsi nel contesto di una trasformazione complessiva della società, di tutti i suoi assetti fondati sul dominio, sociali (dai rapporti di lavoro alle gerarchie sociali passando per le discriminazioni razziste), economici (la strutturale disuguaglianza e l’estrattivismo del capitalismo) e politici (la verticalizzazione e concentrazione del potere, della cui cultura è espressione il disegno di legge costituzionale sul “premierato” in discussione).
Chiudo, ancora con le parole della resistente Teresa Mattei, limpide nell’evidenziare il nesso fra antifascismo, giustizia sociale ed emancipazione delle donne: «trova posto, nell’articolo 7 (n.d.r.: ora art. 3), la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione, perché proprio in queste fondamentali cose il fascismo ha tradito l’Italia, togliendo all’Italia il suo carattere di Paese del lavoro e dei lavoratori, togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale, alla vita nazionale, e togliendo quindi anche alle donne italiane la possibilità di contribuire fattivamente alla costituzione di una società migliore, di una società che si avanzasse sulla strada del progresso, sulla strada della giustizia sociale».

L’autrice: Alessandra Algostino è professoressa ordinaria di Diritto costituzionale presso l’Università di Torino

Nella foto: il voto delle donne al referendum del 1946 (wikipedia)

Questo testo è pubblicato nel libro di Left Resistenti. Storie di donne libere di essere in collaborazione con il Coordinamento donne dell’Anpi

Il business delle armi non conosce tregua

L’invasione russa in Ucraina e la nuova esplosione del contesto Mediorientale, in particolare con l’attacco militare su larga scala di Israele a Gaza, hanno in un certo senso rimesso la guerra nel fuoco di attenzione dell’opinione pubblica occidentale. Non che i conflitti armati fossero spariti dalla faccia della Terra e ci fosse prima uno stato di pace: troppe altre guerre “vecchie” (Siria, Libia, contesti come Iraq e Afghanistan) e “nuove” (Nagorno Karabakh, Sudan, le situazioni di tensione in Sud America e nel Sudest asiatico) continuano ancora oggi ad essere ignorate. Nonostante le numerose vittime e i devastanti impatti riverberanti. D’altronde i dati ci dicono come il tasso di sicurezza globale sia in continuo calo (proprio perché i conflitti armati sono in aumento) e che il 2022 sia stato l’anno con maggiori morti a causa di violenza organizzata da almeno 30 anni. E il 2023 ancora peggio…

Un aspetto strutturale e cruciale di questo stato di conflitto e insicurezza permanente è quello della dimensione economica e di guadagno “esplosivo” per alcuni centri di potere e capitale. Alcune ricerche condotte da Rete pace disarmo avevano già sottolineato, dopo i primi mesi del conflitto in Ucraina, una robusta crescita in Borsa delle industrie militari in seguito alle decisioni internazionali prese in quel contesto. Un calo momentaneo si era configurato solo come pausa tecnica di “realizzo profitto” sul mercato finanziario, a dimostrazione del fatto che molte delle dinamiche di questo comparto hanno poco a che fare con politica, relazioni internazionali o grandi questioni come democrazia e diritti.
Non a caso l’acuirsi delle tensioni su molti scacchieri, spesso opportunamente alimentate, era esplicitamente indicato come opportunità e prospettiva di guadagno dai manager delle principali aziende militari. Che ne parlavano apertamente già ben prima del febbraio 2022.

La situazione attuale conferma questa lettura; anzi, una recente analisi del Financial Times sui dati tendenziali di borsa ne fornisce una dimostrazione che va oltre il livello di banali e consueti luoghi comuni. La media dei titoli del “settore Difesa” ha visto sperimentato un aumento del 25% nel corso del 2023; in particolare l’indice europeo Stoxx per aerospazio e difesa è salito di oltre il 50%. Dobbiamo però sempre ricordare che la tendenza azionaria è solo un indicatore indiretto degli affari armati, che si basa su una “previsione di guadagno” che ingolosisce investitori e speculatori più concretamente basata sui dati del portafoglio ordini, che sono in tal senso molto più significativi. Secondo i dati del quotidiano della City, riguardanti 15 tra le principali aziende militari, alla fine del 2022 (ultimo anno con dati completi disponibili) il totale degli ordini confermati era di 777,6 miliardi di dollari, in aumento sui 701,2 miliardi di dollari di due anni prima. Tendenza proseguita anche nei primi sei mesi del 2023 (con 764 miliardi di dollari già confermati), il che evidenzia come ci si trovi solo all’inizio di una nuova età dell’oro per l’industria militare.

Che però non nasce negli ultimi due anni, ma ha radici più profonde e lo si capisce bene considerando altri dati rilevanti. A fine dicembre il Sipri di Stoccolma (Istituto internazionale di ricerche sulla pace ndr) ha diffuso la sua lista annuale delle prime 100 aziende militari al mondo, riferita al 2022. L’analisi evidenzia un fatturato totale di poco meno di 600 miliardi di dollari che è rimasto in linea con l’anno precedente proprio perché l’industria non è stata ancora in grado di “assorbire” il grande salto, ormai già deciso, della spesa militare globale (che, va ricordato, proprio nel 2022 ha raggiunto al massimo storico di 2.240 miliardi di dollari). I motivi sono prettamente tecnici (riorganizzazione della produzione, implementazione di nuovi impianti, difficoltà nell’approvvigionamento di materie prime, necessità di adattare la logistica) perché dal punto di vista decisionale non ci sono certo nubi all’orizzonte per gli affari armati. D’altronde i tempi delle decisioni politiche sui bilanci pubblici e delle tempistiche su ordini, contratti e dettagli tecnici sono così lunghi che pure l’invasione russa di quasi due anni fa si sta oggi appena manifestando nel portafoglio ordini e quindi pochissimo nei fatturati. A parte ovviamente per quel tipo di materiali con immediata richiesta a seguito di conflitti ad alta intensità (come il munizionamento o le artiglierie, lo abbiamo visto in Ucraina) o per le produzioni particolarmente innovative (i droni, come sperimentato ormai dappertutto).

Per capire davvero cosa succede nel campo dell’industria militare abbiamo dunque bisogno di uno sguardo più allargato anche sul passato, che sappia cogliere una dinamica molto più elaborata e non dipendente solo da situazioni di conflitto specifiche. Non dobbiamo commettere infatti l’errore di considerare occasionali delle scelte che sono invece strutturali: che si facciano passare come “eccezionali” (dalla politica e dagli interessi armati) dipende solo dall’approccio di propaganda scelto per farle digerire senza proteste alle opinioni pubbliche di tutto il mondo. La retorica politica di sostegno alle armi, prima invece tendenzialmente occultato, è la vera novità che si è resa visibile nel comparto militare dopo la pandemia di Covid-19, mentre l’enorme crescita degli affari armati non è di certo iniziata due anni fa. Ancora una volta lo dimostrano plasticamente i dati del Financial Times sul portafoglio ordini delle prime 15 aziende militari: abbiamo già scritto come siano cresciuti di oltre il 10% negli ultimi due anni, ma il salto veramente “esplosivo” si è avuto già prima: l’aumento negli ultimi otto anni è stato del 76%, dai 441,8 miliardi nel 2015 ai già citati 777,6 del 2022.

Ancora una volta il motore di tutto è la crescita della spesa militare, ormai “sdoganata” e non più nascosta. Come notato con precisione dal recente Rapporto Arming Europe, pubblicato da Greenpeace, nell’ultimo decennio (2013-2023) le spese militari hanno registrato in Europa un aumento record di 14 volte superiore a quello del Pil (+46% nei Paesi Nato-Ue, +26% in Italia) trainato soprattutto dall’acquisto di nuove armi (+168% nei Paesi Nato-Ue; +132% in Italia). A livello globale la spesa militare è praticamente raddoppiata dal 2001 in poi, sperimentando un trend di crescita più forte soprattutto nell’ambito del procurement militare di nuovi sistemi d’arma. La già citata Sipri Top100 Arms ha visto un fatturato raddoppiato nello stesso periodo, e la crescita dal 2015 (da quando vengono valutate anche le aziende cinesi) è del 14%.

Non è un caso quindi che il trend in Borsa dell’industria militare post 2001 (beneficiando delle scelte legate alle “guerre infinite al terrorismo”) sia ancora più spaventoso di quello recente. Ad esempio un’azione di Lockheed Martin o di Northrop Grumman è passata da meno di 30 dollari ai 450 attuali, quella di General Dynamics da 27 a 250. Una di Rheinmetall valeva 10 euro ed ora ha un prezzo di oltre 300 e pure Leonardo (nonostante un calo fisiologico per motivi contingenti e specifici durante la dismissione del proprio civile) negli ultimi dieci anni ha decuplicato il proprio valore azionario.
Il che rafforza la tesi che si tratti di dinamiche strutturali, non episodiche, alimentate da scelte politiche sorrette da retoriche appositamente ideate per portare alla formazione di un complesso di cui oggi occorre allargare la denominazione: “militare-industriale-finanziario”. Ben diverso da quello del XX secolo. Tra i principali azionisti delle maggiori aziende di armi troviamo infatti sempre gli stessi nomi, quelli di “mega fondi” come BlackRock, Vanguard, Capital Group, Wellington, State Street, Jp Morgan… il che suggerisce anche l’idea che non sia certo la “concorrenza” la base di questo settore. Anzi.

Riassumendo: solo valutando un trend più esteso e articolato (in cui si mettono in connessione dati diversi) si può rafforzare l’intuizione quasi banale di un continuo sfruttamento della guerra (e di tutto quanto ne deriva, anche in termini di sofferenza e distruzione) da parte di certi attori. Per poter cercare di contrastare efficacemente la propaganda armata di chi ha interessi in questo campo e della politica ormai succube di questo mantra che non migliora di certo la condizione di sicurezza o di pace del mondo.

L’autore: Francesco Vignarca è coordinatore Campagne della Rete italiana Pace Disarmo

L’articolo è stato pubblicato sul numero di Left di febbraio 2024

Lo sguardo di Celine Song, fra arte e vita

New York. Interno notte. Una donna e due uomini siedono al bancone di un bar. Qualcuno, che non vediamo, commenta il loro incontro, interrogandosi sulla natura del loro rapporto, che possiamo ancora solo intuire. Fino alla scoperta, sorprendente, di riconoscersi parte di un medesimo viaggio.
Presentato in anteprima al Sundance film festival, e nelle sale dallo scorso 14 febbraio distribuito da Lucky Red, Past Lives, acclamata opera prima della regista sudcoreana Celine Song, colpisce, prima di tutto, per la capacità delle immagini di mettere in moto memorie e sensazioni – intense quanto impalpabili -, di frugare nell’intimità inconsapevole dello spettatore, svelando e rivendicando una tra le esigenze primarie del cinema: la ricerca di sempre nuove e profonde connessioni tra visione e rappresentazione. Tra arte e vita.
Past Lives è ispirato a una vicenda personale della regista, drammaturga di spicco della scena teatrale newyorkese. È la storia di Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo), due amici d’infanzia che, all’età di dodici anni, si separano quando la famiglia della ragazza decide di lasciare la Corea del Sud per trasferirsi in Canada. Ritrovatisi dieci anni dopo, Nora e Hae Sung instaurano un rapporto a distanza fatto di messaggi online e di videochiamate, interrotti infine dalla giovane donna, aspirante scrittrice, decisa a perseguire, liberamente, sogni e ambizioni («perché i coreani non vincono il premio Nobel per la letteratura» era stata la risposta incisiva di una già determinata e tenace adolescente Nora alla richiesta dei compagni di scuola delle motivazioni che la portavano ad andare via da Seoul). Fino all’incontro in una New York iconica quanto nostalgica, dove Nora vive con il marito Arthur (John Magaro), conosciuto anni prima in una residenza per artisti.
La circolarità del racconto, suddiviso in tre atti, pone in primo piano l’evoluzione interna dei personaggi, delineandone un sotto testo poetico che permette a Celine Song di esplorarne sfumature, dettagli e note emotive, anche solo mediante gesti, movimenti e sguardi.
Durante la performance di The Artist is Present – che Greta Lee afferma di aver visto più volte durante la preparazione del film -, Marina Abramović siede in silenzio e condivide lo sguardo con i partecipanti, tra cui il suo ex marito, l’artista Ulay, che non vedeva da decenni. «È come se ci fosse un posto dentro di te dove non posso andare» confessa Arthur a Nora che, soltanto nella percezione di sé stessa nel rapporto con l’altro, può finalmente ritrovare, attraverso i luoghi dell’infanzia e dell’adolescenza, una via d’accesso alle autentiche corde del sentire, e scovarvi il senso più profondo dei rapporti e delle separazioni, come evocato dall’inquadratura – un vero tuffo al cuore – che mostra ancora una volta i due amici uno di fronte all’altra in una stradina di Seoul. Una storia d’amore e di separazione: una questione che ci riguarda tutti.

Foto di Maxpoto – https://www.youtube.com/watch?v=kA244xewjcI, Copyrighted, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=9884220

L’autonomia differenziata non differenzia. Rende disuguali

Illustrazione di Fabio Magnasciutti

Nell’ambito della campagna di Left contro l’autonomia differenziata pubblichiamo il testo dell’audizione del costituzionalista e giurista Giovanni Russo Spena da parte della Prima Commissione Camera dei Deputati

Come membro dei comitati contro ogni autonomia differenziata e come attivista dei giuristi democratici esprimo valutazioni radicalmente e scientificamente critiche contro il disegno di legge Calderoli, che rischia di diventare legge tra pochissimi giorni. Ci battiamo da anni contro questa grave eversione costituzionale e continueremo a farlo in tutte le forme istituzionali, sindacali, conflittuali possibili. Non credo, infatti, che sia costituzionale trasformare, di fatto, il diritto di cittadinanza in “ius domicilii”, come lo chiama Giovanni Moro, subordinando la quantità e la qualità della fruizione dei diritti alla dimora o alla residenza. È questo, purtroppo, il nucleo fondante del progetto Calderoli. Il tutto nasce dalla sciagurata controriforma, voluta anche dal centrosinistra, del Titolo quinto della Costituzione nel 2001. Ero parlamentare nel 2001; feci, a nome del mio gruppo, la dichiarazione di voto contraria ad una controriforma che il grande costituzionalista Gianni Ferrara giudicò «un raro caso di insipienza giuridica e politica».

Sottolineo, per brevità, solo tre profili di illegittimità costituzionale.

a) Si frantuma l’unità nazionale in una “miriade di staterelli”. Vengono sovvertiti spirito e lettera dell’articolo 5 della Costituzione , che inquadra l’autonomia come autodeterminazione e autogoverno all’interno della «Repubblica una e indivisibile». Nel disegno di legge Calderoli l’autonomia è differenziazione, diseguaglianza, isolamento egoistico. Si crea un caos normativo, si destruttura il legame sociale. La prima parte della Costituzione viene, nei fatti, cancellata.

Il legame tra tasse e territori è la negazione del principio, per me fondativo, dell’orizzonte distributivo. Lo sviluppo duale Nord/Sud, già drammatico, diventa strutturale. Un esempio eclatante, in una materia delicatissima per la formazione sociale, è dato dalla sanità, anche perché, con i Lea (livelli essenziali di assistenza), la sanità è già da anni fortemente “differenziata”. Secondo la Fondazione Gimbe, che è una autorità scientifica nel settore, l’attuazione «di maggiori autonomie in sanità…non potrà che amplificare le disuguaglianze già esistenti» (Qui il rapporto Gimbe). Le quali si evidenziano nella minore speranza di vita nel Sud e nella mobilità sanitaria dal Sud al Nord. Uno dei rischi principali è costituito dalle sperequazioni e dalle gabbie salariali e dai contratti regionalizzati «con una fuga dei professionisti sanitari verso le regioni in grado di offrire condizioni economiche più vantaggiose». La sanità, nel Mezzogiorno, subirebbe il definitivo collasso. Ma, quel che è peggio, verrebbe dato «il colpo di grazia al Servizio sanitario nazionale». L’allarme viene lanciato perfino dalle Confindustrie meridionali.  Dove è, mi chiedo, il “fondo perequativo” previsto dall’articolo 119 della Costituzione? Questa è l’autonomia delle disuguaglianze, anzi la sistematizzazione giuridica e amministrativa delle disuguaglianze!

b) Voglio anche ricordare il puntuale giudizio della Banca d’Italia: si crea, con il progetto Calderoli, «una cornice normativa più complessa e disomogenea, un caos normativo, con conseguente incertezza del diritto e con inevitabili riflessi sulla stessa vantata efficienza e sui costi». Molto puntuali sono stati anche i dubbi esternati dai tecnici del servizio del Bilancio, cha ha rotto la falsa propaganda governativa che con l’autonomia differenziata hanno tutte e tutti da guadagnare. «Ci sarebbe – è la sintesi di un loro accurato lavoro – una forte crescita del bilancio regionale ed un ridimensionamento di quello statale. Così sarà difficile che il sistema tenga». Il governo risponde a questa decisiva obiezione con una presunta perequazione verticale, assegnando, cioè, allo Stato il compito di colmare i divari con proprie risorse. Ma queste risorse non vi sono e non sono previste nei documenti di bilancio della legislatura. Tra l’altro, come ha ricordato la Corte dei Conti, questo «comporterebbe oneri aggiuntivi insopportabili per le finanze pubbliche». Oneri che sarebbe difficile finanziare senza il contributo indispensabile delle regioni più ricche. Ma cosa accadrebbe (domanda a cui il governo non risponde mai) se tutte le regioni chiedessero l’autonomia sulle 23 materie consentite? Ha risposto, nel maggio 2023, lo stesso dipartimento per gli affari giuridici di Palazzo Chigi, in un parere nascosto e inascoltato dal governo: «Se tutte le Regioni chiedessero di gestire da sole 23 materie, questo potrebbe ripercuotersi sugli uffici e sulle strutture dell’amministrazione statale centrale e periferica, preposte allo svolgimento delle funzioni legislative ed amministrative trasferite». Forte sarebbe l’impatto (lo dico da amministrativista) sulle amministrazioni statali interessate «in termini di soppressione o ridimensionamento degli uffici e delle strutture». In definitiva, se ogni Regione gestisce la sua scuola, le sue infrastrutture, i suoi porti, le sue reti energetiche, le sue finanze, con il trasferimento di 500 competenze, cosa resterà della statualità italiana? La stessa Inps ed il ministero del Lavoro avvertono che il progetto Calderoli rischia di trasferire competenze previdenziali che sono, invece, di esclusiva competenza centrale.

c) In Costituzione è forte il rapporto tra risorse e diritti. Penso all’articolo 117 Cost. Ricordo la sentenza della Corte costituzionale 275 de 2016: «è la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione». Del resto, l’articolo 119 Cost. prevede un fondo perequativo e la pregiudiziale rimozione degli squilibri economici e sociali. L’autonomia differenziata, invece, riproduce ed alimenta le disuguaglianze regionali e sociali . Non “differenzia”, rende diseguali. Quella dei Lep (livelli essenziali di prestazioni), poi, è un’ambiguità insopportabile: sono uno strumento di garanzia dei diritti o uno strumento di dismissione delle tutele dei diritti stessi? Sappiamo che la determinazione dei Lep è, comunque, pregiudiziale, a prescindere dall’autonomia differenziata (articolo 117 Cost.). Ma non sono previste risorse nella legge di bilancio; né quest’anno, né quelli successivi. E si tratta di risorse ingentissime, pari all’importo di tre leggi finanziarie. Di che cosa, allora, parla il governo? Di promesse vane, vaghe , fatue? I livelli delle prestazioni, inoltre, non dovrebbero essere “essenziali” ma “uniformi”, altrimenti li si riduce ad una residuale marginalità. La garanzia deve concernere il diritto e non solo il suo livello essenziale. Si differenzia, si livellano i diritti al minimo comun denominatore, sempre più basso; così il pubblico, la gestione statuale viene sussunta completamente dal privato. I diritti diventano campo di regressione e di mercificazione. Si frantumano territori e diritti. Aumentano le disuguaglianze territoriali (Nord/Sud) e, quindi, sociali. È lo stravolgimento assoluto della concezione dell’autonomia prevista nell’articolo 5 della Costituzione, all’interno della Repubblica «una e indivisibile». Un’ultima considerazione, sull’ultimo articolo del disegno di legge Calderoli (articolo 11). Ci troviamo di fronte ad una anomala disposizione transitoria di salvaguardia delle vecchie intese. Sembra che, con una grave illegittimità, venga privilegiata l’invariabilità delle vecchie intese, con una corsia privilegiata per la rapida approvazione. È una norma transitoria “di favore”, del tutto incostituzionale, perché crea disparità rispetto alle altre regioni che potranno chiedere in futuro l’attuazione della disposizione costituzionale. Concordo con il giudizio della professoressa Alessandra Algostino:«ci troviamo di fronte ad un uso incostituzionale della Costituzione».

 

Qui il libro di Left contro ogni autonomia differenziata

Non basta rompere il tetto di cristallo

L’entusiasmo della prima volta di una presidente del Consiglio aveva indotto la speranza ed addirittura – non per tutte- la convinzione che si sgretolasse finalmente il “tetto di cristallo”.
Credo che l’idea che la parità si ottenga semplicemente rompendo il tetto di cristallo sia una trappola, come trappola è stato perseguire la conciliazione e non la condivisione del lavoro domestico.
Ovviamente, non intendo e non voglio sottovalutare il valore di coloro che sono riuscite ad affermare sé stesse superando gli stereotipi, così come non ha senso contrastare in astratto e a prescindere soluzioni di conciliazione che aiutano le lavoratrici.
Non è nelle singole esperienze che si annida la trappola di cui parlo, ma nell’assenza di prospettiva. Si celebra il risultato individuale anche se questo non rappresenta una leva per le altre, che rimangono incollate alla base delle piramide e discriminate.
Lo stesso vale per la conciliazione: il cambiamento è importante se è tale per tutte e non se è usato come alibi per evitare la condivisione.
Un po’ più di un anno dopo vediamo una conferma di questa trappola nelle politiche della presidente del Consiglio, che oserei dire rappresenta la conferma che non è sufficiente la biologia per realizzare la propria identità di donna (cfr Simone de Beauvoir): bisogna contrastare la costruzione sociale imperniata sul patriarcato, non usare il successo personale come modo per negare il problema.
Questo governo invece tratta la povertà come una colpa, le marginalità e le fragilità come devianze, moltiplica le soluzioni punitive, penali, i nuovi reati, lo stigma, quando occorrerebbe costruire soluzioni partendo dall’analisi delle condizioni, riconoscendo l’idea che vanno redistribuite risorse e poteri.
Provo a tradurre concretamente gli effetti delle scelte della presidente del Consiglio, premettendo che l’ossessione con cui parla di natalità è essa stessa discriminatoria: dal suo punto di vista donna diventa sinonimo di madre meglio se con almeno due figli. Già questo chiarisce quanto la libertà femminile sia misconosciuta.
Un esempio è il salario minimo negato. Sappiamo che le lavoratrici sono parte consistente del lavoro povero e sfruttato, non solo perché concentrate in settori con orari spezzati e spesso parziali (appalti, ristorazione, socio sanitario, agricoltura per citare i più numerosi), ma anche perché sono parte del mondo del lavoro grigio quando non nero e del lavoro sommerso, composto anche dal lavoro di collaborazione famigliare in tutte le sue accezioni.
Non è difficile capire che per quelle lavoratrici un messaggio semplice e chiaro – “nessuno deve avere un salario inferiore a 9 euro l’ora” – avrebbe una forza dirompente e permetterebbe emersione, possibilità di maggiore autosufficienza economica e – mai dimenticarlo – maggiori possibilità di sottrarsi alla violenza. Le politiche che determinano un diritto certo e universale facilmente rivendicabile e controllabile hanno infatti effetto soprattutto per chi è più indifeso. Credo che questo pensiero non abbia sfiorato la presidente, in quanto non considera la condizione delle lavoratrici, se non – forse – in quanto madri.
Non che sulla maternità vi siano interventi davvero efficaci. Nella scorsa legge di bilancio riuscimmo come opposizioni ad evitare che si limitasse alle madri l’aumento dei congedi parentali, evitando un ulteriore arretramento sul piano della condivisione della genitorialità. Non abbiamo invece ancora ottenuto i congedi paritari retribuiti obbligatori per padri e madri. Perché tanta resistenza alla genitorialità condivisa? Perché la paternità effettiva, riconosciuta anche sul lavoro, e con il diritto ad esercitarla assentandosi scombina un’organizzazione del lavoro fondata sulla totale disponibilità di tempo: la presenza, non la qualità del lavoro favorisce la carriera. È necessaria l’obbligatorietà per superare le reazioni che oggi tanti giovani padri si sentono opporre alla richiesta dei congedi parentali. La risposta “ma non hai una moglie?” suggerisce loro che non devono infrangere il tabù della cura come innata responsabilità femminile.
Cura che per le donne deve venire comunque prima ma non deve valere, né essere riconosciuta come lavoro, non deve essere riconosciuta come parte (fondante) dell’economia, perché femminile e come tale gratuita, fino al punto da non valere nemmeno sul piano previdenziale.
Altro esempio è proprio la previdenza. Non si riconosce il lavoro di cura come lavoro e fatica e quindi non è visibile né per criteri, né per rendimento sul piano previdenziale, come ben sanno le lavoratrici che hanno richiesto e continuano a chiedere di accedere ad opzione donna con i criteri di origine, perché quelli voluti dal governo Meloni sono penalizzanti e discriminatori.
Già in origine opzione donna era una forma di pensionamento molto costosa per le lavoratrici, a differenza di quanto accade quando le platee sono prevalentemente maschili come nei casi delle varie quote. Il suo successo riflette un dato che più indagini hanno messo in evidenza, che è la stanchezza delle lavoratrici data dal doppio lavoro, della solitudine che determina, con la constatazione che il loro lavoro è non visto, non riconosciuto. Si sentono non considerate oltre che meno retribuite e con meno possibilità di carriera; private di opportunità non perché incapaci ma proprio perché donne – ed hanno tutte le ragioni di sentirsi non riconosciute.
Come ultimo esempio vorrei citare il Pnrr. Durante la sua preparazione molte discussero di come affrontare un grande progetto di rilancio dell’Europa, la transizione ecologica, il contrasto del cambiamento climatico e la transizione digitale determinando nuova e qualificata occupazione femminile.
Non si poteva dare per scontato che sarebbe stato un risultato spontaneo del mercato, occorrevano vincoli per determinare il risultato. Nasce così il gender procurement nel Pnrr, un vincolo percentuale sulle nuove assunzioni, vincoli di applicazione del codice di parità, ma fu prevista purtroppo anche una derogabilità da parte delle stazioni appaltanti. Non si conoscono ufficialmente i dati, ma purtroppo sappiamo che molto, troppo, si è derogato. Sarebbe bastato uno sforzo più che possibile per applicare i vincoli già previsti. Non l’abbiamo visto. Ho fin il sospetto che questo governo ne ignori l’esistenza.
Tra gli stereotipi che non si citano mai c’è quello che il lavoro maschile, o meglio le professioni maschili valgano di più. Dal punto di vista delle retribuzioni, vale di più occuparsi di finanza e di economia che di medicina o di cura. Abbiamo dimenticato in fretta cosa abbiamo scoperto essere essenziale durante la pandemia, e che chi garantiva la gran parte dei servizi, erano lavoratrici.
Una diversa organizzazione, condizioni di lavoro che permettano di star bene a donne e uomini, riconoscimento e retribuzioni giuste oltre che uguali, questa sì sarebbe una vera rivoluzione. Per farla bisognerebbe superare gli stereotipi e i criteri che determinano quella gerarchia del lavoro che oggi è dettata dal mercato, ed il governo non sembra disposto né interessato ad affrontare questo tema. Non basta dunque rompere il soffitto di cristallo, non basta dire che ci saranno bambine che vedranno a cosa possono aspirare, bisogna rompere i muri, allargare gli spazi e permettere davvero alle ragazze di scegliere, condividere e cooperare non competere.

L‘autrice: Già segretaria generale della Cgil, Susanna Camusso è senatrice Pd

L’articolo è uscito sul numero di marzo di Left

Fabio Alberti (Rete Pace e disarmo): «I fondi Ue per la difesa vadano alla lotta contro le diseguaglianze»

Tra gli argomenti all’ordine del giorno al Consiglio Europeo del 21 e 22 marzo c’era la politica di sicurezza e difesa dell’Ue. Le intenzioni? “Aumentare la spesa per la difesa, e investire insieme in modo migliore e più rapido”, “migliorare l’accesso dell’industria europea della difesa ai finanziamenti pubblici e privati” e un invito alla Bei (Banca europea degli investimenti) ad “adeguare la sua politica di prestiti all’industria della difesa e la sua attuale definizione di beni a duplice uso”.
E ancora, una road map di azioni che dovrebbe rendere più flessibili gli approvvigionamenti e più veloce la catena produttiva di armi, meno macchinosi gli acquisti congiunti, come auspicava la presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen solo qualche settimana fa: entro il 2030 almeno il 40% del materiale di difesa dovrà essere acquistato in modo collaborativo, e almeno il 35% del valore degli scambi dovrà riguardare il commercio tra i 27 Stati membri.

La militarizzazione dell’Unione europea – che ora procede a passo sveltissimo per via di minacce percepite come imminenti, in primis la Russia, poi la destabilizzazione politica nel Mar Rosso – può contare su basi storiche: comincia con la politica di sicurezza e di difesa comune (Psdc) contenuta nel trattato di Lisbona del 2009, e si sviluppa negli anni attraverso missioni di pace, militari e di controllo delle frontiere, alcune delle quali con risultati discutibili. Alla Psdc si è aggiunta l’idea, mai sopita, di un esercito comune europeo prospettato già dall’ex presidente della Commissione Jean-Claude Juncker nel 2015 in seguito all’invasione russa della Crimea. La chiamata alle armi di allora, pur rimanendo solo un’idea per via delle incompatibilità tra i Paesi membri, rappresenta ancora “l’elefante nella stanza” di Bruxelles.
Nel bilancio pluriennale europeo 2021-2027 si conta una spesa per la difesa di 13 miliardi di euro, più del quadruplo di quanto era stato previsto nel decennio precedente. I bilanci annuali per la difesa degli Stati membri, messi insieme, hanno raggiunto i 240 miliardi di euro nel 2022, in linea con le indicazioni della bussola strategica.
Investimenti che, secondo Fabio Alberti, attivista di “Un Ponte Per”, membro dell’esecutivo della Rete italiana Pace e disarmo, potrebbero essere destinati ad altri scopi su tre direttrici «in un’ottica di equo sviluppo globale e quindi di prevenzione delle crisi»: prima di tutto «il contributo dei Paesi ricchi (che hanno creato la crisi climatica) alla transizione energetica dei Paesi poveri (che la subiscono)». Poi andrebbero investiti «nell’aiuto allo sviluppo, compreso l’annullamento del debito ingiusto, anche se andrebbe discusso l’approccio attuale agli aiuti». Infine «nel trasferimento di conoscenze e nella disponibilità di tecnologie, compresa la sospensione dei brevetti a favore dei Paesi terzi. Insomma, la riduzione delle disuguaglianze a livello globale tutela la sicurezza ed evita le migrazioni meglio degli armamenti».
Eppure, pare che gli stanziamenti europei non siano ancora abbastanza secondo le critiche della Nato, dal momento che non tutti i Paesi europei dell’Alleanza Atlantica (e tra essi l’Italia) investono il 2% del Pil nella difesa come richiesto. 
Secondo Alberti, «il relativo contenimento della spesa per armamenti, sempre troppo, ma meno dei desiderata atlantici e che è uno dei fattori dello sviluppo dello Stato sociale in Europa, sta venendo rapidamente meno. Ovunque in Europa vi sono previsioni che porteranno al superamento anche di questa percentuale e il tragico è che la corsa agli armamenti non viene più nemmeno giustificata come necessità di adempiere agli ordini atlantici, ma come scelta autonoma nella direzione dell’esercito europeo».
Quale che sia la ragione, ad oggi le armi sono la prima priorità dell’Europa.

Armi a doppio taglio, anzi a duplice uso

Il progetto di una difesa comune dell’Unione Europea inizia proprio con un think tank composto dagli amministratori di aziende produttrici di armi (Saab, Airbus, Leonardo, Bae System…) che avevano beneficiato dei finanziamenti in ricerca e sviluppo e che costituiranno, nel 2016, il gruppo di personalità per lo studio di una difesa comune, sotto il coordinamento di Federica Mogherini, nel ruolo di Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e vicepresidente della Commissione.
Tra i Paesi che ricevono le armi prodotte in Europa, molti sono teatri di guerra: secondo un’indagine di Sipri (Istituto internazionale di ricerche sulla pace di Stoccolma), tra il 2015 e il 2019 l’export di armi è aumentato del 5,5% rispetto al decennio precedente. In cima alla lista dei Paesi di destinazione, l’Arabia Saudita, che ha ricevuto per anni bombe prodotte in Italia e utilizzate in guerra contro lo Yemen. Il nostro Paese avrebbe indirettamente una parte nella destabilizzazione del territorio yemenita che ora si trova a fronteggiare con la missione Aspides.
Quanto all’impegno nella difesa dei Paesi membri, solo un mese fa Elbit System, la più importante società di armi israeliana, i cui sistemi di sicurezza, sorveglianza e aggressione sono i principali responsabili dell’apartheid palestinese, si è assicurata un contratto da 300 milioni di euro con un Paese europeo, non ancora noto, per l’acquisto di veicoli blindati e sistemi di ricognizione.
La stessa Elbit System che ha ricevuto negli anni, insieme a diverse aziende e università israeliane, 1,28 miliardi di euro dall’Unione europea per progetti di ricerca e sviluppo nel settore della difesa.

Secondo il report Un’Unione militarizzata dell’Enaat (Rete europea contro il commercio delle Armi) dietro le missioni europee per promuovere la pace c’è il concetto di “sicurezza per lo sviluppo”, ovvero l’idea che finanziando le forze armate in Paesi terzi si possa (es)portare la pace. Peccato che quando questo avviene nei governi autoritari, “il rafforzamento del settore della sicurezza porta solo a maggiore repressione”.
Ma come fanno le esportazioni ad aggirare il Trattato sul commercio delle armi che vieta la fornitura di armi a Paesi che si macchiano di violazioni dei diritti umani e di crimini internazionali? Con il “duplice uso”, militare e civile, che fa sbiadire il confine tra il settore civile e l’industria delle armi, proprio quello che l’ultimo consiglio europeo vuole deregolamentare.
Non suona, in questo modo, bellicoso “promuovere le sinergie tra ricerca e innovazione nell’ambito civile, della difesa e dello spazio e investire nelle tecnologie critiche” come da Dichiarazione di Versailles del 2022, tenutasi a pochi giorni dall’invasione russa dell’Ucraina. Ancora una volta, quindi, la difesa diventa preparazione della guerra sotto mentite spoglie.
Investimenti così massicci non sarebbero semplici da attuare se la loro approvazione passasse in modo sistematico dai Parlamenti nazionali e dal Parlamento europeo. Invece sempre più spesso questa chiamata alle armi tenta di aggirare il percorso democratico. Le decisioni sul budget per la difesa sono appannaggio della Commissione e del Consiglio Europeo mentre il Parlamento, in quanto codecisore insieme al Consiglio, è tenuto ad esercitare un controllo sul bilancio della Difesa ma non sullo Strumento europeo per la pace, dal momento che è fuori bilancio, nato proprio per rendere più flessibili i finanziamenti ed espandere territorialmente le missioni. È da lì che provengono, non a caso, i massicci aiuti militari all’Ucraina degli ultimi anni.
Secondo Fabio Alberti «la tendenza a sottrarre ai Parlamenti, considerati troppo condizionabili dalle opinioni pubbliche, le decisioni sulla guerra non è solo europea, ma generale. Se ne trova traccia anche nei documenti Nato. In Italia l’abolizione della competenza parlamentare sulla guerra (che è nella Costituzione) è stata tentata con il referendum costituzionale di Renzi ed è praticata di fatto con il decreto missioni che viene portato in Parlamento sempre più tardi (lo scorso anno è stato votato addirittura in novembre, quando ormai le missioni erano quasi concluse). Anche per la missione Aspides il ministro Tajani ha inizialmente affermato che non ci sarebbe stata necessità del voto parlamentare. Per fortuna su questo è stato fermato».
Nella relazione annuale 2022 sull’attuazione della Psdc è lo stesso Parlamento europeo che “deplora di non essere in grado di esercitare un adeguato controllo sui progetti Pesco (Cooperazione strutturata permenente)” e invita pertanto l’Ue a “rafforzare il controllo esercitato dal Parlamento sulla politica per la Difesa”.
Anche l’Italia è in linea con questo “stato di emergenza della difesa” che si va creando: proprio il 25 gennaio scorso è stato approvato dal Consiglio dei ministri il disegno di legge che riforma la legge quadro sulle missioni internazionali (145/2016) rendendo i procedimenti di autorizzazione e finanziamento delle missioni italiane più “snello”. La tendenza, commenta Alberti, è sempre la stessa: «L’accentramento delle decisioni militari sull’esecutivo e in alcuni casi addirittura sul solo dicastero della difesa. La cosiddetta semplificazione elimina doppi controlli e passaggi che limitano i rischi di decisioni avventate in nome della cosiddetta prontezza. Invece prima di impegnare il militare è bene pensarci due volte».
Forse è troppo tardi anche per il controllo parlamentare: secondo un sondaggio di Eurobarometer della primavera 2023, a un anno dall’invasione russa dell’Ucraina il 77% degli intervistati dell’Ue era a favore di una politica di difesa e sicurezza comune tra gli Stati membri, mentre il 16% si diceva contrario. Inoltre, l’80% riteneva che l’acquisto di attrezzature militari da parte degli Stati membri dovesse essere meglio coordinato e il 69% che l’Ue debba rafforzare la propria capacità di produrre attrezzature militari .
E mentre su Bruxelles aleggia il progetto di un’accademia militare europea finalizzata alla nascita dell’esercito comune, nel frattempo, dal canto loro, alcuni Paesi membri ripensano alla leva militare: la Danimarca l’ha resa obbligatoria anche per le donne, la Lettonia ha reintrodotto quella maschile dall’inizio del 2024, il presidente francese Macron ha ipotizzato l’invio di soldati degli eserciti europei in Ucraina.
Con l’intenzione dichiarata di prevenire le guerre, l’Europa della difesa è ormai pronta a tutto. Anche alla guerra.

Nella foto: La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen (CC-BY-4.0: © Unione europea 2022– Fonte: PE)

Scuola Pioltello. E anche questa settimana siamo riusciti a sprecarla parlando di niente

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«Ma perché mai imparare l’italiano, se un analfabeta di ritorno riesce comunque a fare il ministro?». Il sunto di questi ultimi giorni intrisi di ignorante propaganda l’ha scritto Tomaso Montanari dopo avere letto il ministro all’Istruzione Valditara mentre sputava uno sconclusionato messaggio sui social. 

Il ministro incapace di imbroccare la consecutio ci ha voluto fare sapere, tentando di farsi capire, che nelle scuole bisognerebbe insegnare un “italiano potenziato” per facilitare l’integrazione. Ci sono due problemi di fondo, i soliti di questi squinternati al governo: l’integrazione per loro consiste nella reductio delle altre culture (fondamento di ogni xenofobia) e la loro cultura è troppo bassa per essere in grado di gestire la cultura degli altri. 

Ripercorriamo questi ultimi giorni. Una scuola a Pioltello decide di gestire i giorni di chiusura com’è nelle facoltà della sua autonomia. Non è una questione religiosa: i dirigenti scolastici sanno meglio dei ministri che conviene chiudere quando le troppe assenze potrebbero minare il percorso didattico. Il ministro Salvini assetato di propaganda per oliare il suo sprofondamento politico ulula sulla pelle dei ragazzi, come al solito, senza sapere che in realtà un limite per il numero degli alunni stranieri a scuola è in vigore già dal 2010. Accortisi dell’enorme figura di palta al governo decidono di mandare avanti il ministro Valditara per dire «è vero, c’è già il limite, ma forse potremmo abbassarlo». Pochissimi giornalisti fanno notare che gli «stranieri» di cui si parla sono ragazzi nati in Italia. E anche questa settimana siamo riusciti a sprecarla parlando di niente. 

Buon venerdì.