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L’omicidio di Marielle Franco e di Anderson Gomes: crimini di Stato

La mattina del 24 marzo scorso, sono stati arrestati dagli agenti federali tre dei presunti mandanti dell’omicidio di Marielle Franco, la consigliera comunale di Rio de Janeiro, barbaramente uccisa nel 2018, assieme al suo autista, Anderson Gomes. Le manette scattarono al termine delle indagini condotte dalla Polícia Federal, dalla procura generale della Repubblica e dai pm di Rio, formando una task force messa in piedi dal ministero della Giustizia e fortemente voluta dal governo Lula.
Su mandato del giudice della corte suprema, Alexandre de Moraes, furono condotti in tre diversi carceri di massima sicurezza, il deputato João Francisco Inácio Brazão, soprannominato Chiquinho, della formazione di centrodestra União Brasil (il terzo partito con maggior rappresentanza in Parlamento), suo fratello, nonché socio in affare Domingos Brazão, consigliere della Corte dei conti dello Stato, e Rivaldo Barbosa de Araújo Jr che, da direttore del Reparto omicidi della Polícia Civil, divenne capo della polizia il giorno prima degli assassinii. Stando alle rivelazioni del collaboratore di giustizia Ronnie Lessa, ex poliziotto e uno degli esecutori materiali del delitto, la nomina di Rivaldo Barbosa alla massima carica della Polícia civil era avvenuta su raccomandazione dei fratelli Brazão e, per loro, rappresentava una condizione imprescindibile alla buona riuscita dell’azione omicida, giacché avrebbe garantito la totale impunità dei coinvolti.

Forte del compito affidato dal clan Brazão di insabbiare il caso, Rivaldo Barbosa affida a Giniton Lages, questore di sua fiducia, la conduzione delle indagini sugli omicidi della consigliere e dell’autista, nonché il ferimento della sua assistente. Su richiesta di Lages, un centinaio di agenti della Polícia civil che costituivano la sua consolidata équipe specializzata in depistaggio, occultamento e distruzione di prove, procrastinazione, ostruzionismo e coercizione di testimoni, vengono spostati, al fine di sostenerlo nell’operazione. Ad aver apposto la firma sul nome di Barbosa come capo della polizia fu il generale Walter Braga Netto, allora nominato commissario per la Pubblica sicurezza di Rio dall’ex presidente golpista Michel Temer, appartenente allo stesso partito di centrodestra dei mandanti del crimine all’epoca dei fatti, il MDB (Movimento Democrático Brasileiro).

Vinte le elezioni del 2018, Jair Bolsonaro nominò Braga Netto ministro della Difesa e lo scelse come vice alle ultime elezioni. Tale commissariamento, a Rio, era avvenuto in un contesto politico-sociale in pieno fermento, con le proteste di buona parte della società civile, inclusi la consigliera Marielle Franco e il suo partito, il Psol (Partido Socialismo e Liberdade).
Franco sosteneva che affidare all’esercito la sicurezza di Rio, senza il minimo controllo da parte della società civile, non sarebbe stata la soluzione giusta per contrastare la criminalità urbana, trattandosi di forze addestrate ad agire in caso di guerra, non di criminalità urbana.

Da quanto emerge nel rapporto della task force, reso pubblico alla stampa, il clan Brazão era capitanato dal Consigliere della Corte dei Conti Domingos Brazão, uomo politico che «nel corso degli anni, è stato avvolto da una nebbia criminale che non si è mai dissipata, a causa delle relazioni politico-statali che ha stabilito». Rispettato perfino da agenti e funzionari di polizia, politici, impiegati e Consiglieri della Corte dei conti, oltre ad aver stretto rapporti con i leader di diverse organizzazioni criminali, sin dal suo ingresso in politica, nel 1996, Domingos cercò di tutelare gli interessi economici del clan, avvalendosi di minacce, intimidazioni e azioni violente contro chiunque ritenesse fosse un ostacolo e, assieme al fratello Chiquinho, eletto più volte consigliere comunale a Rio, formulò (e ottenne l’approvazione) leggi “ad personam” che facilitarono, per decenni, i loschi affari e le azioni criminali della famiglia.

Il movente: la lotta contro la gentrificazione di Rio
Marielle Franco, nata nella Favela da Maré, nel 1979, figurava la quinta più votata al consiglio comunale di Rio, alle elezioni del 2016. Nel corso del suo corto mandato, interrotto tragicamente a colpi di mitra contenenti proiettili il cui uso era stato riservato a esercito e forze dell’ordine, la consigliera aveva ideato, proposto progetti e preso parte a iniziative di sostegno alle popolazioni delle realtà periferiche. Il lavoro di Franco al consiglio comunale, il suo voto contrario alle leggi “ad personam” proposte dal clan Brazão, così come il suo carisma nel tentativo di convincere le comunità a non soccombere alla violenza dei narcos e dei gruppi paramilitari, soprannominati “milizie”, incentivandole a resistere al processo di “borghesizzazione” della città, la rese un ostacolo agli interessi economici ed elettorali dei fratelli Brazão, portandoli a commissionarne l’omicidio. Noto per l’accaparramento di interi pezzi di territorio carioca, perlopiù occupati dai più poveri, il clan aveva a disposizione gruppi paramilitari, composti essenzialmente da forze dell’ordine deviate.
Franco è stata uccisa subito dopo un dibattito promosso dal Psol, presso la Casa das pretas (casa delle donne nere), istituita con lo scopo di affrontare il problema della violenza contro le donne nelle favelas.

Avvalendosi della logistica e dell’armamento fornito dallo Stato, le milizie disputano con i narcos il controllo economico, politico e sociale delle comunità. Ma non solo: possono esigere dai commercianti pagamenti equivalenti al pizzo in cambio di protezione, controllare la distribuzione dei segnali Tv, dei servizi essenziali, la vendita delle bombole di Gpl per uso domestico, il trasporto alternativo a quello pubblico e, infine, intraprendere la via della vendita di sostanze stupefacenti e armi. In relazione al rapporto della task force, nella sola città di Rio de Janeiro, le milizie dettano le regole ad oltre due milioni di persone; i narcotrafficanti a circa un milione e mezzo e quasi tre milioni vivono terrorizzate dalla guerra in corso tra loro, per controllare il territorio in cui vivono. Sono dati sconcertanti. Nelle innumerevoli denunce, puntualmente archiviate dalle questure di Rio, sotto la guida del capo della polizia piazzato dai generali dell’Esercito, emerge la violenza dei miliziani a soldo dei Brazão.

Nelle carte rese pubbliche dai magistrati, risulta agli atti che intere popolazioni sono state costrette a promuovere le campagne elettorali dei mandanti, o chi per loro, obbligate ad acquistare da loro terreni, pagando in contanti e a rate, senza però ottenere mai alcun titolo; infine, tanti sono stati costretti all’esilio o comunque allo spostamento dal luogo di origine, affinché il clan potesse costruire ville e palazzi destinati alla classe medio-alta.
Poco prima di essere uccisa, Marielle aveva votato contro una legge proposta da uno dei mandanti, il consigliere comunale Chiquinho Brazão, volta a regolarizzare le proprietà illegalmente costruite nel ridotto elettorale che comandava assieme al fratello deputato. Inoltre, avvertiti dal loro infiltrato all’interno del Psol, i Brazão sono stati messi al corrente del fatto che la Franco, in alcuni incontri comunitari, avrebbe chiesto alla popolazione di non aderire a nuove lottizzazioni situate in zone controllate da milizie.

La solitudine del Psol, un partito di sinistra

I fratelli Brazão avrebbero infiltrato Laerte Silva de Lima nei ranghi del Psol per la raccolta di informazioni interne su figure emergenti, come Marielle Franco e il deputato Marcelo Freixo. Ai sicari assodati per uccidere la Consigliera, venne assegnato il compito di eseguire l’attività di dossieraggio sulle loro famiglie.
Per i magistrati, «il lavoro combattivo del Psol» nel contrastare i progetti delle destre, tanto nello Stato, quanto nel Comune di Rio de Janeiro, «è noto da anni».
Ammettono che «la profonda carica ideologica, che contraddistingue il partito, si traduce nell’intensa e combattiva azione politica di alcuni dei suoi correligionari».
In questo senso, il Psol avrebbe votato contro la nomina di Domingos Brazão, il capo clan, alla carica di consigliere della Corte dei conti, sostenendo il mancato rispetto della procedura prevista dalla legge e presentando ricorso alla magistratura. In più, in altre occasioni, il partito avrebbe provato ad impedire la presa di potere istituzionale del clan di centrodestra, segnalando proposte di legge “ad personam”, conflitti di interessi o incarichi istituzionali e onorificenze assegnati a soggetti di cui l’operato risultava intrinsecamente legato alla criminalità organizzata.
In conclusione e a seguito di tutto ciò che è stato riportato, è opportuno dare risalto alla straordinaria capacità di mobilitazione sociale di Marielle Franco, che si recava regolarmente nelle comunità più disagiate di Rio, con il proposito di rendere conto del suo operato presso il consiglio comunale, accogliendone le domande. La reale possibilità di togliere ai Brazão fette sempre più significative di elettorato, senza l’uso del terrore e della violenza, al quale loro, invece, facevano ricorso, l’avrebbero reso un urgente bersaglio da eliminare, con il fine ultimo di intimidire l’intero partito.
Marielle Franco poneva l’accento sul dialogo, rendeva più consapevoli le persone dei diritti a loro negati e di ciò che, come donna di sinistra, credeva e poteva fare per loro.
È stata uccisa per la sua onestà intellettuale e i risultati politici laddove, scrivono i pm, il grado di reverenza che i criminali paramilitari hanno per gli agenti politici che li proteggono genera un ecosistema malato in cui l’unica regola accettabile è l’assoluto disprezzo per le norme più elementari del patto sociale, di fronte all’assoluta sovrapposizione dei loro desideri più primitivi in relazione alla vita umana e alla convivenza civile.

Qui per leggere e scaricare il rapporto integrale:https://www.poder360.com.br/poder-flash/leia-a-integra-do-relatorio-da-pf-sobre-o-caso-marielle/

Omissione pubblica

Ieri il procuratore capo di Napoli Nicola Gratteri ha risposto alla propaganda dei test psicoattitudinali nei confronti dei magistrati esprimendo un pensiero che hanno in molti: “se vogliamo farli per tutti i settori apicali della pubblica amministrazione sono favorevole, però facciamoli anche per chi ha responsabilità di governo e della cosa pubblica”. Aggiungendo: “facciamo anche il narco test e l’alcol test, perché uno che è sotto l’effetto di stupefacenti non solo fa ragionamenti alterati ma può essere anche sotto ricatto. Dunque, visto che ci troviamo, facciamo anche narco test e alcol test”.

Il direttore di Rainews deve avere pensato che nello scontro tra politica e magistratura c’era una parte da proteggere senza indugio e quindi ha deciso di omettere le parole di Gratteri. Il comitato di redazione sottolinea che “a un certo punto nei nostri notiziari le dichiarazioni di Gratteri sono scomparse. Ci chiediamo perché? Sul sito RaiNews.it la notizia è stata data solo grazie alla pubblicazione del servizio del Tg3 delle 19”. “Questo comportamento – si legge nella nota del Cdr – da parte del direttore non è più accettabile. Chiediamo rispetto per tutti i colleghi che intendono svolgere la propria attività senza condizionamenti di parte. L’assemblea ha dimostrato che la misura è colma ed è pronta a ogni iniziativa che restituisca dignità al servizio pubblico informativo”. 

Il servizio pubblico che omette le notizie è il modus di Paese antidemocratico. La deriva più pericolosa è quando la censura non diventa più notizia. Per questo la scriviamo qui. 

Buon giovedì. 

Alla ricerca della socialità perduta. Laboratori di (r)esistenza collettiva lungo l’Appennino

Il tuo futuro è da un’altra parte?
Per gli abitanti dei 4mila comuni periferici, intermedi, o ultra periferici d’Italia, (milioni e milioni di persone) la risposta è “sì”. E per i giovani il “Sì” è con la maiuscola.
La periferia da anni cerca il mercato che chiama, la sanità che cura, la competenza che forma. Si scappa da quattro case, un forno, ospedali senza aghi, garze e sale operatorie, pluriclassi. Del resto, perché impiegare, nella migliore delle ipotesi, tra i 41 e i 67 minuti per raggiungere un centro di assistenza sanitaria, una stazione ferroviaria dell’alta velocità, istituti di istruzione superiore? Questa è la realtà del 59% del territorio, abitato “solo” da 13, 4 milioni di persone.
Il futuro è altrove? Sì, se si guarda solo a questo.
La risposta però cambia grazie al fattore (r)esistenza, al fattore umano. Negli ultimi anni in queste aree poco conosciute, quasi abbandonate, e nelle zone più marginali delle grandi città sono nati dei laboratori di (r)esistenza.

È il caso di Gagliano Aterno, storico borgo sulle montagne abruzzesi, una volta centro nel quale confluivano persone da tutta la Vallata Subequana. Tutti quanti andavano a fare la spesa laggiù. Ci abitavano migliaia di gaglianesi. Quando l’Appennino tremò, la sera del 24 agosto 2016, nelle case di quello stesso borgo non c’erano più di trecento persone. L’economia e le produzioni locali erano ormai un ricordo dei gaglianesi che negli anni 50 erano adolescenti.

Era così quando tre anni fa Raffaele Spadano, antropologo e ricercatore del progetto Montagne in Movimento, ha avviato il suo lavoro sul campo a Gagliano. È stato un esperimento di comunità nato grazie alla convenzione stipulata dal giovane sindaco del comune, Luca Santilli, e dal Dipartimento di Scienze umane e sociali dell’Università della Valle d’Aosta.

Gagliano Aterno, frame dal documentario Energie in movimento

Gli abitanti del paese allora non avrebbero immaginato che le strade del borgo si sarebbero popolate di studiosi e studiose ospiti della residenza universitaria creata dal progetto. Come non avevano consapevolezza di cosa fosse una comunità energetica e di come questa potesse essere una nuova spinta vitale per il loro paese. E anche per il loro tornare a sentirsi parte di una collettività. Oggi Gagliano Aterno è una dimostrazione di come si può scegliere un modello di sviluppo che nasce dal basso, che si prende cura dei luoghi e delle persone. La storia di questa trasformazione è stata raccontata anche nel documentario Energie in movimento. Gagliano Aterno, paese futuro, finanziato da Fondazione Cariplo. Ed è stato un progetto possibile prima di tutto grazie ad un percorso di recupero storico, culturale, e di un sapere che rischiava di andare perduto.

La speranza non è qualcosa di preformato, ma si costruisce con le azioni e avendo una visione più ampia delle cose. La speranza è stata, per esempio, Riace con Città Futura. Un progetto realizzato nella Calabria jonica alla fine degli anni 90 grazie alla perseveranza e all’umanità di Mimmo Lucano. Riace era all’epoca un paesino da cui gli abitanti emigravano, nel quale anche l’ultimo bar del centro aveva chiuso. Poi ci fu lo sbarco dei curdi del 1998, e iniziò una storia diversa: fatta di accoglienza e di condivisione, che regalò, tra l’altro, una seconda vita a quei luoghi ormai semi abbandonati. (V. libro di Left n.8 È stato il vento. Mimmo Lucano e Riace. Storia di una rivoluzione gentile)

Sono due esempi di realtà in cui c’era un vuoto che è stato riempito da una visione. «In antropologia alpina esiste un concetto su cui ragionare in questi casi: vuoto relativo» racconta a Left l’antropologo del “progetto Gagliano Aterno” Raffaele Spadano. «Il decremento demografico e la ritirata strategica tanto dello Stato che del mercato ci offrono degli spazi». Spazi che il giovane studioso abruzzese ha dimostrato che è possibile recuperare e “neo-popolare”. Nel paesino dell’entroterra abruzzese di cui parlavamo all’inizio, insieme ad altri ricercatori dell’Università della Valle d’Aosta e agli abitanti del luogo, è stato creato un esperimento di comunità, e un centro dato ormai per spacciato sta riconquistando la vita.

Questo doversi immaginare la vita e la felicità in un altro luogo è una cosa che accomuna gli abitanti delle aree interne della Penisola. Ed è una costante anche del percorso di vita di quelli che nascono nelle periferie d’Italia. È la marginalità il comune denominatore. La scarsità dei servizi, la mancanza di una progettualità che parta dalle caratteristiche dei territori, ha reso questi luoghi “a fallimento di mercato”.

Una definizione molto chiara di questo concetto è contenuta nel testo Comunità Appennino. Superare l’«internità» (a cura di Piero e Gianni Lacorazza), volume pubblicato da Rubbettino editore a gennaio 2024. Nel saggio a firma di Dora Iacobelli, vicepresidente di Legacoop, e Paolo Scaramuccia, responsabile per la stessa associazione del progetto sulle cooperative di comunità, possiamo leggere: «Un numero considerevole di territori è a cosiddetto “fallimento di mercato”, spiegano. Sono territori che, a causa dello spopolamento e per difficoltà nei collegamenti, non sono sufficientemente remunerativi e quindi le imprese, in particolare le più grandi, non vi investono e non vi sviluppano la loro attività».

Nel caso delle aree interne il copione si è ripetuto immutabile: crisi (economica e/o catastrofe naturale), spopolamento, decadimento dei servizi e delle comunità. A questo si è andata ad aggiungere una mentalità che da almeno due generazioni spinge i più giovani a non immaginare più una possibile ripresa. Il classico: “Chi te lo fa fare”. Un mantra che parenti, amici e conoscenti ripetono a chi vorrebbe mettersi in gioco tentando di costruire qualcosa.

A questo si è aggiunta una politica di soluzioni calate dall’alto. Come ha spiegato a Left il professor Augusto Ciuffetti, docente di Storia economica nell’Università Politecnica delle Marche: «Le Regioni dalla loro costituzione ad oggi hanno prodotto tante norme sulle aree montane o aree interne. Non hanno però varato delle vere politiche di riequilibrio dei territori da un punto di vista economico e sociale, anzi hanno sistematicamente tagliato servizi. In qualità di presidente dell’associazione RESpro – Rete di storici per i paesaggi della produzione – ho avuto modo di investigare e supportare le comunità dell’Appennino e sono convinto che sia necessario ribaltare la prospettiva e di ricostituire le comunità. Così potremmo rendere le persone consapevoli dei loro bisogni e delle potenzialità».

«Non si tratta di una spinta singola, c’è una letteratura molto interessante anche in America a proposito delle aree interne. In Italia ci sono diversi attori, già scesi in campo con progetti concreti, penso alla Fondazione Appennino, al progetto RESpro, alla Fondazione Magna Carta», ci racconta Florindo Rubbettino. L’editore di Soveria Mannelli (paese delle zone interne del catanzarese) ha intuito l’importanza di un movimento che in Italia è già realtà e, difatti, nei giorni 13 e 14  giugno si terrà la seconda edizione del Festival dedicato ai temi del lavoro e delle aree periferiche, organizzato proprio dalla sua casa editrice (è stata pubblicata la Call for papers and poster con scadenza il 7 aprile ndr). «L’interesse per le aree interne è connaturato nella nostra storia e nel nostro essere parte di un territorio che ha certe caratteristiche. Proprio per questo però crediamo nel potere del progettare, nel realizzare nuovi spazi e nuovi modi di abitare e di innovare anche in questi luoghi. Senza senso di inferiorità o di sfiducia. Se guardassimo solo ai problemi non muoveremmo mai un passo». Anche Rubbettino vede nella comunità una delle chiavi di volta di queste realtà: «Dove c’è comunità c’è socialità e c’è felicità. Queste nascono dove ci sono opportunità di futuro che sono generate dal lavoro e prospettive di vita. Le aree interne non devono essere messe sotto una campana di vetro per turisti e studiosi. Non devono essere oggetti, ma devono diventare soggetti».

Questo fenomeno di marginalizzazione non è poi così diverso da ciò che avviene tra centro e periferie delle città. In questi casi si potrebbero sottolineare le differenze nell’efficienza dei servizi (meno trasporti, uffici più distanti, condizioni peggiori delle strutture sanitarie) o nelle possibilità economiche tra cittadini e cittadine. Il dato che evidenzia in modo indiscutibile una differenza di accesso alle possibilità è quello relativo all’istruzione.

Secondo l’Istat nei comuni capoluogo, nel 2022, i residenti con la laurea o con un dottorato di ricerca nelle prime cinture urbane sono il 21%, con un calo di 2 punti e mezzo nei territori delle seconde cinture. In città metropolitane come Milano, Bologna e Roma la percentuale di persone nella fascia d’età tra 25 e 64 anni con laurea va dal 29 al 31%. Come dimostrano questi numeri, le disuguaglianze non riguardano solo le aree interne o impervie e le città, lo stesso meccanismo di esclusione è replicato in modo perfetto tra centri urbani e zone marginali.

E se questi dati non fossero sufficienti, ci sono quelli emersi dal rapporto Periferie urbane di Save the Children, pubblicato ad ottobre 2023. La ricerca ha disegnato mappe cittadine in cui sono evidenti le forti disuguaglianze tra quartiere e quartiere in termini di opportunità per i minori. Sono proprio le zone più disagiate ad offrire meno strumenti che permettano un’ascesa sociale attraverso lo studio. A Roma in 9 municipi su 15 ci sono forti elementi di svantaggio, a Napoli in 7 su 10. E questo rende molto più difficile per queste persone emergere dalla condizione in cui si trovano.

Ogni storia però ha due facce. E se questi numeri potrebbero portare a pensare a questi luoghi come senza speranza, ci sono altre vite che raccontano una realtà diversa.
A Napoli, ad esempio, esiste un progetto per il recupero delle acque disperse che ha come obiettivi: proteggere le biodiversità, sostenere la rigenerazione urbana, creare un sistema resiliente ai cambiamenti climatici. Alexander Valentino, architetto e attivista di LAN (Laboratorio di Architettura Nomade), in una lunga chiacchierata ci ha spiegato come sotto la città partenopea ci siano gli antichi canali che fornivano acqua ai napoletani. Sorgenti che si trovano ancora sotto le vie di Conca di Agnano, Volla-Ponticelli e a Santa Lucia in pieno centro cittadino. E con il progetto Cool City l’associazione vuole creare un percorso per rintracciare questi fiumi sotterranei, per restituire la memoria delle acque ai cittadini e alle cittadine.

Quella che ci descrive Valentino è una realtà in cui vediamo competenze per cambiare e una progettualità in grado di instaurare un modo più rispettoso di vivere i luoghi. E più comunitario che individualistico. Sono azioni che hanno un impatto poi sulla collettività e che restituiscono un senso di bene comune. Allo stesso tempo questa iniziativa crea un impatto sulla vita delle persone, le riporta a prendersi cura dei luoghi in cui vivono e restituisce loro il senso dei beni comuni, il rispetto per le risorse. Secondo un concetto organico di sostenibilità. Quest’ultima è una parola che forse stiamo svuotando di senso a furia di farne un uso generico. Sostenibilità è ritrovare un’armonia con i tempi e con i luoghi che si abitano. Sostenibilità è un riscoprire i legami e il senso della collettività. Sostenibilità è un ragionare per impatti: ambientale, economico e sociale, ma anche relazionale.

Ed è proprio ripartendo da questo concetto, e dall’attenzione al territorio e alla sua storia – sia culturale che produttiva – e al senso dell’abitare che sono nati progetti in tutta Italia che capovolgono del senso di inevitabile sconfitta che ben conosciamo. Si tratta di laboratori di (r)esistenza che si sviluppano dal basso, che hanno come primo obiettivo il recupero della comunità nel suo significato più intimo, nel suo indicare un’unità. Anche nelle idee e nel vivere.

L’ultimo Rapporto Istat ha previsto che entro il 2050 il 70% di italiani e italiane migrerà verso coste e grandi poli urbani. Sono numeri che non tengono conto di coloro che, come scrive Vito Teti ne La restanza (Einaudi editore), «al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di sé stessi».

In apertura: frame del trailer del documentario Energie in movimento

La scrittrice Benedetta Sabene: «Alle Europee votiamo per la pace»

Benedetta Sabene

Benedetta Sabene è una giovane impegnata da anni nell’analisi del conflitto fra Russia e Ucraina. Laureata in Scienze politiche e Relazioni internazionali, segue il conflitto ucraino dal 2017 e su questo tema ha già pubblicato, per Meltemi, il saggio Ucraina. Controstoria del conflitto. Lavora con Michele Santoro sul web media Servizio Pubblico e ha accettato di candidarsi con lui nella lista “Pace, Terra e Dignità” le cui attiviste e attivisti sono in questi giorni impegnati a raccogliere almeno 75 mila firme su tutto il territorio nazionale per poter essere presente alle elezioni europee di giugno. «Ho accettato di candidarmi perché credo nel profilo di questa lista, ma il mio impegno principale resta nell’ambito dell’informazione. – racconta –. Considero la lista come un’altra piattaforma su cui portare alcuni temi che si rivolgono ad un settore più ampio dell’opinione pubblica, non più solo su un piano informativo, ma anche sul piano politico. Trovo l’invasione di un Paese e tutto ciò che ne consegue, in termini di distruzione e sofferenza dei civili, ingiustificabile. Ma non penso sia accettare tacciare di filoputinismo chiunque parli di pace. Se è pur vero che in Italia ci sono alcuni che supportano l’invasione russa e chi si riconoscono, soprattutto a destra, nel “modello russo”, mi domando però perché deve finire nello stesso calderone chi si oppone all’invio delle armi? Secondo tutti i sondaggi effettuati dall’inizio dell’invasione a oggi la maggioranza degli italiani è contraria alla strategia militare per risolvere il conflitto e vorrebbe che si intraprendessero vie diplomatiche. Questa maggioranza non trova però rappresentazione né mediatica né politica».

Informazione unilaterale e assenza di una forte proposta politica di mediazione sono simili anche, secondo Sabene, nel massacro che sta avvenendo a Gaza: Si continua giustamente a parlare  della strage di israeliani commessa da Hamas il 7 ottobre «ma non altrettanto degli oltre 32 mila morti fra i civili palestinesi a Gaza in meno di 5 mesi. Vengono usati due pesi e due misure. Servirebbe un’informazione più plurale e coraggiosa. Servirebbe soprattutto ascoltare anche le voci dei palestinesi» E poi aggiunge: «Questi conflitti sono scoppiati anche a causa dell’inazione dell’Unione europea, che in politica estera è totalmente schiacciata sulle posizioni Usa e Nato, andando contro gli stessi interessi europei: la bilancia commerciale della Germania, il motore dell’economia europea, è in negativo per la prima volta dopo decenni. Questo- ricostruisce la giornalista – perché il mercato tedesco era legato a doppio filo all’energia a basso costo proveniente dalla Russia. La guerra ha creato un aumento dell’inflazione e del prezzo dell’energia, che sta danneggiando i cittadini europei, in particolare quelli più poveri. Anche per questo è importante che l’Europa si imponga come mediatore non solo in Ucraina, ma anche nel mediterraneo orientale, in Palestina. Persino Erdogan è riuscito a far concludere alcuni accordi tra Russia e Ucraina, come quelli sul grano o sullo scambio di prigionieri. In questo modo l’Unione Europea finisce per ricoprire un ruolo di ultimo piano nelle relazioni internazionali, e in questo vuoto si inseriscono inevitabilmente terze parti. Questi conflitti poi non sono nati da un giorno all’altro: si poteva e doveva intervenire prima e in modo radicale per evitare a tutti i costi un’escalation e garantire la stabilità del continente europeo». Riguardo l’impatto della guerra sulla vita quotidiana dei cittadini europei e italiani, Benedetta Sabene risponde: «La scelta della guerra come condizione di “normalità” ha soltanto accentuato quanto accade da tempo. I bisogni e le esigenze dei cittadini sono spesso all’ultimo posto. Io sono nata negli anni Novanta e la mia è la prima generazione più povera rispetto a quella che l’ha preceduta dai tempi del dopoguerra. La mia è la generazione del “lavoro povero”: lavoriamo ma fatichiamo a poterci permettere anche solo l’affitto di una stanza. Mentre l’Ue spende soldi pubblici per il riarmo e la Nato impone che il 2% del Pil venga destinato alle spese per l’alleanza, si continuano i tagli su settori strategici come sanità e scuola. Viviamo in un Paese che ha i salari fermi agli anni Novanta e, con l’aumento dell’inflazione causata anche dalla guerra, il potere d’acquisto dei lavoratori è in costante diminuzione. Questo è indipendente dalle politiche di guerra, che hanno però acuito queste dinamiche». Sabene è espressione di quella generazione che si affaccia alla politica e rompe, almeno in parte, la vulgata che vuole chi è giovane distante dall’impegno. Tesi che lei respinge al mittente: «Secondo me è nell’interesse primario di ogni cittadina e cittadino interessarsi a quanto accade nel Paese e nel contesto internazionale. Come lo è essere informati. Poi ognuno di noi trova un modo diverso per agire nella maniera che gli risulta più consona. La candidatura è un esempio, ma va di pari passo a qualsiasi forma di partecipazione alla vita pubblica, in un collettivo, in un’associazione, nelle mobilitazioni. Ognuna di queste forme di attivismo è importante. Io oggi vedo tante e tanti coetanei, anche molto più giovani di me, impegnarsi sui diritti civili o per la difesa dell’ambiente. E quindi smentisco i pregiudizi noi giovani disinteressato alla vita pubblica, anzi. Vedo tante ragazze e ragazzi molto più consapevoli su alcuni temi, come la violenza di genere, i diritti civili, la tutela ambientale, rispetto alle generazioni più grandi. Il problema è che spesso la politica ci allontana dalla partecipazione».

Antisemitismo come se piovesse: il caso Zuckermann

Sul magazine tedesco Overton si racconta l’aria che tira intorno a Moshe Zuckermann, professore emerito di storia e filosofia dell’università di Tel Aviv, firmatario della Dichiarazione di Gerusalemme sull’antisemitismo nata in risposta alla definizione adottata nel 2016 dall’Ihra che include undici «esempi» di antisemitismo, sette dei quali incentrati sullo Stato di Israele, generando – secondo i firmatari della dichiarazione – confusione e controversie e indebolendo perciò la stessa lotta contro l’antisemitismo.

Zuckermann, che è uno dei maggiori studiosi di ebraismo e Shoah al mondo, è stato invitato dal Consiglio per la pace di Heilbronn a un evento che avrebbe dovuto svolgersi martedì 12 marzo. Era prevista una conferenza seguita da una discussione, che avrebbe dovuto includere una spiegazione della situazione attuale in Israele/Palestina, un’analisi della storia del conflitto e una discussione sulle prospettive future e sulle possibili soluzioni. L’iniziativa avrebbe dovuto tenersi presso la sede della locale Università popolare. 

La Deutsch-Israelische Gesellschaft (Dig) ha condannato l’iniziativa affermando che l’oratore sarebbe un sostenitore del movimento Bds (Boicottaggio disinvestimento e sanzioni). Poi, l’Università popolare come «misura precauzionale» ha ritirato la compartecipazione e ritenuto addirittura necessario rivolgersi al ministero degli Interni. Inevitabile scatta la risposta con l’accusa bisbigliata del consigliere personale del Commissario del governo federale per la vita ebraica in Germania e la Lotta all’antisemitismo: «Zuckermann è effettivamente molto controverso a causa delle sue posizioni su Israele». 

La risposta di Zuckermann è da leggere con attenzione: “Quindi ora posso vantarmi di essere stato ufficialmente dichiarato antisemita dal governo federale tedesco. – scrive il professore – Si potrebbe semplicemente respingere questa affermazione: cosa capisce il governo federale tedesco, compreso il suo “commissario per l’antisemitismo”, riguardo all’antisemitismo? Ma poi il verdetto resta sospeso: l’istituzione dominante tedesca ha ritenuto l’ebreo Moshe Zuckermann un antisemita. Non che io possa farci qualcosa, ma penso comunque che alcune cose da chiarire o chiarire siano opportune. Quindi ecco alcune note sulla farsa”. Zuckermann scrive: “sono le mie posizioni su Israele , non sugli ebrei o sull’ebraismo, a rendermi controverso tra gli amici di Israele. Ora sono cittadino israeliano e, come ogni cittadino responsabile, ho non solo il diritto ma anche il dovere civico di prendere posizione nei confronti dello Stato in cui vivo. Se necessario, ciò include posizioni critiche che potrebbero non essere accettabili per il Dig o il commissario per l’antisemitismo”. 

Infine: “Di conseguenza, – scrive il professore emerito – ne consegue che l’antisemitismo, l’antisionismo e la critica a Israele devono essere tenuti separati. Ricorda che non tutti gli ebrei sono sionisti, non tutti i sionisti sono israeliani e non tutti gli israeliani sono ebrei. Ma coloro che usano tale diffamazione polemica (come fa Leonard Kaminski) evidentemente non pensano nemmeno che si possa essere antisionisti senza antisemitismo e critici nei confronti di Israele senza antisionismo; sì, si può anche essere sostenitori di Israele e del sionismo, ma allo stesso tempo essere antisemiti. Diventa particolarmente grave – secondo Zuckermann – quando, in questo contesto, i non ebrei accusano gli ebrei di antisemitismo, e alcuni ebrei non hanno altra scelta che ricorrere alla perfidia di accusare gli ebrei critici nei confronti di Israele (anche gli ebrei israeliani) di “odio ebraico verso se stessi”. .” A proposito, questa è una tattica ben nota dell’Hasbara israeliano”. 

Buon mercoledì. 

 

Fra i libri di Zuckermann Faith no more, Living the secular life

Qui una conferenza di Zuckermann sul’etica senza religione

Cosa c’è dietro l’attacco di Isis- Khorasan a Kandahar, (cuore del potere talebano) e a Mosca

Base militare talebana a Kandahar, foto di Guglielmo Rapino

Kandahar-Due giorni prima del tragico attentato di Mosca, l’IS-KP ha rivendicato un attentato suicida che a Kandahar ha ucciso venticinque persone, in maggioranza militari, e ferite più di cinquanta. È la prima volta dall’ascesa al potere nel 2021 che in Afghanistan si è assistito a un attacco nel cuore del potere talebano.
È ancora un Ramadan senza pace quello dell’Afghanistan. Il fuoco di una instabilità politica che sembrava soffocato dall’autoritarismo militare del governo talebano e dalle azioni dei servizi di intelligence della scorsa estate, ha ripreso a soffiare con forza proprio nei luoghi più sensibili del potere dell’Emirato Islamico.
Nella giornata dello scorso 21 marzo, due attentati hanno scosso le città di Kandahar e Kabul. Nella prima mattina di giovedì, un attentatore suicida si è fatto esplodere davanti alla Kabul Bank di Kandahar nel momento in cui i miliziani del governo erano in fila per ritirare il proprio stipendio. Il risultato è drammatico: 25 persone uccise, tra forze armate e civili, e più di cinquanta feriti.
Nella stessa sera, poco dopo l’ultimo azan che annuncia la fine del digiuno, nella zona di Trafiq Square, il centro di Kabul, un vaso imbottito di esplosivo è stato fatto saltare con un meccanismo a distanza. Fortunatamente non sono stare riportate vittime a seguito dell’esplosione.
La rivendicazione del primo attacco non si è fatta attendere, mentre la matrice del secondo resta incerta ma è facile intuire una connessione. L’IS-KP, ramo dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante attivo nell’Asia meridionale e centrale, ha reso noto tramite i propri social network che sono loro dietro al terribile attentato della mattina.
L’attacco arriva dopo un periodo di relativa quiete, in cui la capacità militare dello Stato Islamico nel Paese sembrava ridotta dall’intervento dei servizi segreti talebani che in vari raid durante la seconda metà del 2023 avevano ucciso alcuni tra i principali leader del movimento fondamentalista nel Paese, tra cui Mavlavi Ziauddin, primo esponente nell’area e governatore del Califfato per gli affari legati all’Afghanistan.
Questi ultimi eventi, uniti al drammatico attentato del Crocus City Hall a Mosca, mostrano come il potenziale militare dell’IS-KP sia tutt’altro che ridotto.
Il governo afgano ha affidato la propria replica ai canali X del ministro dell’Interno, dichiarando che “condanna l’attacco e assicura che gli autori saranno identificati, arrestati e consegnati ai centri giudiziari il più presto possibile”.
Lo sconcerto più grande per le forze al potere è che questa volta ad essere obiettivo dell’attacco è stata (anche) Kandahar, il cuore pulsante dell’egemonia talebana e residenza del leader supremo, Haibatullah Akhundzada, alla guida del movimento dal 2016.
Sin dall’ascesa al potere nel 2021, Kandahar non era stata interessata da attacchi di questa entità. La presenza massiccia di check point e una rete distribuita sul territorio dell’intera provincia di presidi militari vicini ai vertici dell’Emirato, hanno garantito una protezione duratura per la città a prevalenza pashtu.
Sino a giovedì scorso, data di frattura per le flebili certezze del governo di Kabul.
L’IS-KP contesta al governo talebano una eccessiva apertura alle ventate internazionaliste provenienti dagli Stati del Golfo e i vicini paesi dell’Asia Centrale, abdicando all’integrità di un islamismo senza mediazioni. Allo stesso tempo, l’asse degli Stati occidentali a guida Usa, insieme a numerose agenzie Onu, non smette di condannare senza mezze misure la violazione dei diritti delle donne che continua a perpetrarsi nel Paese a seguito degli editti del 2022 che hanno vietato ogni forma di educazione secondaria femminile e imposto l’inaccessibilità di uffici pubblici e privati alle donne in tutta la nazione.
La recente ondata di attacchi terroristici non può che contribuire a destabilizzare ancora di più un contesto politico e sociale che appare già particolarmente complesso e fragile, proprio mentre Paesi come Cina e Azerbaijan riaprono le proprie ambasciate a Kabul e si intravedono spiragli per nuovi negoziati economici volti a riabilitare il ruolo di partner commerciale a livello internazionale dell’Afghanistan.
Intanto, la situazione interna del Paese vive una condizione sociale di crisi umanitaria vicina alla cronicità. Secondo gli ultimi dati diramati dal Programma alimentare mondiale più di 16 milioni di persone nel paese sono in uno stato di insicurezza alimentare e la ong Norwegian Refugee Council, in un recente rapporto, ha dichiarato che oltre il 50% della popolazione versa in uno stato di profonda povertà.
La speranza è che gli ultimi attentati restino casi isolati e il governo dell’Emirato non insabbi il processo di internazionalizzazione che con molta lentezza sembra essere stato intrapreso da qualche mese a questa parte.
Il rischio altrimenti è di piombare in un nuovo fondamentalismo se possibile ancor più violento sull’impronta di quello della fine del secolo scorso. L’intenzione di movimenti estremisti come l’IS-KP sembra essere esattamente questa.

La prima mezza verità sull’omicidio di Marielle Franco

Dopo sei anni e dieci giorni sono stati arrestati in Brasile i tre presunti mandanti dell’omicidio di Marielle Franco. Sono Domingos Brazão, consigliere della Corte dei conti dello stato di Rio de Janeiro; suo fratello Chiquinho Brazão, eletto al parlamento federale; e Rivaldo Barbosa, all’epoca capo della Polizia civile di Rio de Janeiro. 

Le vedove di Marielle Franco, Monica Benicio, e di Anderson Gomes, Agatha Arnaus in una nota parla di “un grande giorno dopo 2.202 giorni di attesa”, dicendosi sorprese del coinvolgimento del capo della Polizia Barbosa che poco dopo l’omicidio le aveva ricevute per assicurare giustizia. 

È lo stesso Barbosa che, preoccupato di vedersi sfilare il caso dalla Polizia federale nel caso in cui si fosse intravisto un movente politico, aveva suggerito ai suoi complici di “stare alla larga” durante le indagini. 

La chiave della svolta nelle indagini è stato l’ex poliziotto poliziotto Ronnie Lessa, in carcere dal 2019 come esecutore dell’omicidio, che aveva raccontato ai magistrati dell’avversione dei fratelli Brazão fin dal 2017 nei confronti di Marielle Franco, vissuta come ostacolo alle loro mire immobiliari su San Paolo. 

Esulta, per ora, il figlio dell’ex presidente Bolsonaro, che secondo diverse testimonianze sarebbe stato in collegamento con gli uomini del clan. «Bolsonaro non ha alcuna relazione con il crimine», ha detto ai giornalisti. Le relazioni pericolose però sono scritte nero su bianco e corroborate dalla testimonianza – poi ritirata – del portiere di un condominio. 

Marielle Franco, all’epoca consigliera comunale di Rio de Janeiro, era stata nominata relatrice di una commissione speciale, creata dal consiglio comunale, per monitorare la progressiva militarizzazione della sicurezza e l’impiego di forze di sicurezza federali nella città. 

Buon martedì.  

Il Sud scippato anche del diritto di voto

La Repubblica italiana nega i diritti costituzionali fondamentali ai cittadini del Mezzogiorno. Non mi riferisco a quanto già più volte denunciato, dai minori trasferimenti statali rispetto alla percentuale del 34% della popolazione che poi si riflettono in cure mediche minori (che incidono sulla stessa aspettativa di durata di vita dei cittadini meridionali più bassa che al Nord), o agli asili, alle scuole senza palestre o mense, alla scarsità di insegnanti, infrastrutture e così via.
No, mi riferisco proprio a quanto di più sacro per una democrazia: parlo del diritto di voto e di conseguenza di rappresentanza politica negata!

Addirittura?! Proprio così!
Ai cittadini del Mezzogiorno o almeno a larga parte di loro, è negato il diritto di voto che (in teoria) è un diritto costituzionale. Negato, come in una dittatura o come più rispondente al nostro caso in uno Stato in cui vige l’apartheid. Il tutto è ovviamente taciuto dai media, proni ai dettami del potere, così come dalla politica politicante.

Ma perché e come è vietata la rappresentanza politica ai meridionali?

Iniziamo l’analisi da quanto accaduto col Referendum del 2020 sul Taglio dei parlamentari. Come avevo già ho scritto sul numero 37 di Left del settembre 2020: «Un argomento che quasi nessuno ha sottolineato e cioè come la vittoria del Sì al referendum potrebbe essere l’ultimo imbroglio, forse quello definitivo, per il Sud ed i suoi cittadini, aggravando ancor di più la mancanza di rappresentanza del Mezzogiorno in Parlamento e approfondendo la spaccatura già presente nel Paese».

Come argomentavo allora: «La densità di popolazione al Sud parametro per l’assegnazione dei seggi alla Camera e al Senato, è più bassa del Nord, e, mentre la desertificazione demografica causata dall’emigrazione cresce di anno in anno, la conseguenza è che il Sud, in un Parlamento ridotto, avrebbe un peso politico minore dell’attuale».
A posteriori i dati odierni confermano che la crisi demografica che sta colpendo l’Italia riguarda in particolar modo il Mezzogiorno: nel 2050 il Nord e il Centro sommati avranno un milione di persone in meno rispetto ad oggi, mentre il Sud e le Isole ben 3,6 milioni.
Per il 2080 si stima che il 54% della popolazione vivrà nel Nord (contro l’attuale 46%), il 20% nel Centro (come ora) e il 26% nel Sud e nelle Isole (oggi è il 34%). Le regioni meridionali proseguendo con l’attuale andamento si spopoleranno sempre più. In soli 30 anni, il Mezzogiorno passerà dall’essere la macro area più giovane del Paese ad essere la più anziana. E tra il 2050 e il 2080, mentre l’età media del Nord e del Centro Italia rimarrà uguale o scenderà, quella del Mezzogiorno crescerà.

Scrivevo poi che: «Sicilia e Sardegna avrebbero minori rappresentanti in termini percentuali al Senato rispetto alle altre Regioni a Statuto speciale e la Basilicata, così come l’Umbria, subirebbe il taglio maggiore al Senato, i rappresentanti passerebbero dagli attuali 7 a soli 3 (-57%) e qualsiasi partito sotto la percentuale del 20% dei voti non eleggerebbe alcun rappresentate, inoltre visto che il Senato è eletto su base regionale, la Sardegna finirebbe per avere un senatore ogni 328mila abitanti, mentre il Trentino-Alto Adige uno ogni 171mila, rendendo evidente la sperequazione per cui il voto di un cittadino trentino varrebbe il doppio di quello di un cittadino sardo».

Nell’articolo ponevo poi l’accento sul fatto che non bisogna dimenticare che la riduzione degli eletti avrebbe comportato una loro minore autonomia, visto che su di essi si sarebbe concentrata la pressione di lobby gruppi di potere e chi più ne ha più ne metta, così da spingerli eventualmente a prendere anche decisioni che potrebbero essere contro l’interesse dei territori che dovrebbero rappresentare…
Senza dimenticare che con la riduzione, poi avvenuta grazie alla vittoria al Referendum, pur coi seggi ridotti non si sarebbe fermata la “transumanza” di politici del Nord verso collegi sicuri del Mezzogiorno. I famosi “paracadutati”. Candidati che non hanno collegamenti con il territorio, ma che sono collocati dalle segreterie dei partiti in base alla probabilità altissima di vincere. Per cui ora a consuntivo il Sud si trova non solo con una rappresentanza parlamentare territoriale di partenza già inferiore in percentuale rispetto al Nord, come visto sopra, ma questa viene anche ulteriormente ridotta di circa un 25% perché tutti i partiti da destra a sinistra hanno fatto largo uso di “paracadutati dal Nord. Non a caso provvedimenti scellerati come l’Autonomia differenziata faticano a trovare una opposizione parlamentare consistente.

Oggi a posteriori possiamo dire che quanto previsto nel 2020 non solo si è pienamente realizzato, ma il panorama è ancora più cupo.

Come scritto nell’introduzione lo scippo di rappresentanza, dopo la riduzione dei parlamentari, si traduce oggi in una ulteriore condizione di negazione di diritti politici grazie al cosiddetto “astensionismo”. Astensionismo che al Sud spesso non è altro che impossibilità, a questo punto espressamente voluta dal potere politico, di recarsi al voto nei Comuni di residenza per tantissimi cittadini meridionali che si trovano al Nord Italia per lavoro, studio o per curarsi. Figli di quell’emigrazione lavorativa, scolastica e sanitaria che continua implacabile da oltre 163 anni e che sta via via desertificando, come visto, le Regioni meridionali. Perché il Parlamento non vara una apposita normativa e permette a questi cittadini di poter esigere un diritto costituzionale, ad esempio di poter votare nel luogo di domicilio o per posta come fanno tanti altri Paesi? In questo quadro non va dimenticato il prezzo di treni, auto, aerei, per potere tornare al Comune di residenza per votare, che in pochi ormai possono permettersi.

Ecco perché quando sentirete parlare di astensionismo al Sud più alto che al Nord, dovreste fare la tara con la percentuale dei cittadini che avrebbero voluto esercitare il diritto di voto, casomai per opporsi alla deriva imperante nel Paese, ma a cui non è stato permesso di votare da politici che si stanno via via dimostrando sempre più nemici del Mezzogiorno (non a caso nelle ultime elezioni politiche meno di 1 elettore su 5 ha votato per la coalizione al governo), disinteressandosene o più spesso banalizzando e irridendo il dato dell’ astensionismo maggiore nel Mezzogiorno, certificando ancora una volta il permanente atteggiamento di disprezzo di ampie fasce delle classi dirigenti nazionali verso ciò che accade al Sud. E tutto ciò avviene nel disinteresse quasi completo anche delle forze di sinistra, malgrado il Mezzogiorno sia all’opposizione già dal giorno delle ultime votazioni …

Natale Cuccurese è presidente nazionale del Partito del Sud

Puntare all’abitudine all’orrore

Il capo dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (Unrwa) Philippe Lazzarini scrive su X che Israele ha informato le Nazioni Unite che non approverà più i convogli alimentari dell’Unrwa verso il nord di Gaza. “Nonostante la tragedia che si sta consumando sotto i nostri occhi, le autorità israeliane hanno comunicato all’Onu che non approveranno più alcun convoglio alimentari Unrwa verso il nord. Questo è oltraggioso e rende intenzionale ostacolare l’assistenza salvavita durante una carestia provocata dall’uomo“.

Per avere un’idea delle proporzioni del disastro occorre ricordare che sabato il portavoce dell’Unicef James Elder ha affermato che “Mai prima d’ora così tanti bambini di Gaza avevano avuto bisogno di cure mediche. Nel nord della Striscia un bambino su tre sotto i due anni soffre di malnutrizione acuta”. Come spesso si sente ripetere “un cessate il fuoco umanitario immediato offre la migliore possibilità di salvare vite umane, porre fine alla sofferenza e consentire la consegna urgente di aiuti salvavita”, spiega Elder. 

Il direttore generale dell’Organizzazione mondiale per la Sanità Tedros Adhanom Ghebreyesus spiega che “bloccare la consegna del cibo significa negare alle persone la possibilità di sopravvivere. Questa decisione deve essere urgentemente revocata. I livelli di fame sono acuti. Tutti gli sforzi per consegnare il cibo non solo dovrebbero essere consentiti, ma ci dovrebbe essere un’immediata accelerazione”.

Il governo di Israele si è limitato ad accusare di antisemitismo l’Onu perché il segretario Gutierrez ha sottolineato la drammatica situazione dei civili a Gaza. Sembrano ogni giorno le stesse notizia e invece è lo sviluppo di una tragedia che si accumula mentre all’orizzonte si addensa la possibilità di abituarsi all’orrore. Forse il governo israeliano punta proprio a questo poiché ha sempre funzionato negli ultimi decenni. 

Buon lunedì. 

foto:Di Palestinian News & Information Agency (Wafa) in contract with APAimages, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=141020707

Giovanni Semerano e la linguistica come stella polare della storia

Era il 28 luglio 2006 quando il settimanale Left, nato in quell’anno dalla trasformazione editoriale di Avvenimenti, pubblicava l’articolo «Siamo tutti babilonesi. Giovanni Semerano e l’invenzione dell’indoeuropeo». Il provocatorio titolo redazionale era di Simona Maggiorelli, storica redattrice e dal 2017 direttrice della testata, che aveva accolto con entusiasmo la proposta di presentare l’originale e discussa teoria del linguista, pugliese di origine e a lungo direttore delle storiche biblioteche fiorentine.
Laureata in Storia antica all’università di Padova, sulle tracce degli antichi viaggiatori ero da sempre un’appassionata esploratrice, oltre che della Grecia, anche dei Paesi che dalle coste del Mediterraneo, passando attraverso l’Egitto e il Vicino Oriente, si estendono fino alla Persia.
Con interesse nel 2001 avevo letto il primo dei tre libri che Giovanni Semerano dedicò alla divulgazione delle sue ricerche, L’infinito, un equivoco millenario. Le antiche civiltà del Vicino oriente e le origini del pensiero greco. Ne avevo apprezzato l’originalità e la consonanza con una convinzione, sempre più radicata nel corso degli anni, che non aveva trovato conferme adeguate da parte degli specialisti delle lingue antiche.
Il saggio di Semerano fu seguito nel 2003 da Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua, in cui era anche presentata la traduzione delle lamine auree di Pyrgi in etrusco e in punico, e nel 2005, anno della sua scomparsa, da La favola dell’indoeuropeo, editi da Bruno Mondadori.

Solo allora scoprii che, a partire dal 1984, il filologo e linguista aveva pubblicato con l’editore fiorentino Olschki i due monumentali volumi de Le origini della cultura europea. Alle Rivelazioni della linguistica storica. In appendice: Il messaggio etrusco, nel 1994 seguì il secondo, Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indoeuropee, articolato in Dizionario della lingua greca e Dizionario della lingua latina e di voci moderne. L’opera fondamentale, che subito mi procurai, fu ristampata nel 2002, quasi a salutare l’apertura del millennio all’insegna della nuova scoperta, facendola uscire dai circoli degli specialisti. E poiché la conoscenza della storia delle parole è per lo storico un’autentica bussola di navigazione, da allora essa costituisce per me, accanto ai vocabolari delle lingue greca e latina consacrati dalla tradizione, uno strumento di lavoro prezioso, e non solo nell’ambito dell’antichistica.

Quantunque la ricerca di Semerano avesse dunque riscontrato negli ambiti accademici un’accoglienza per lo più fredda, quando non apertamente ostile, lo studioso non cessò mai il suo lavoro di ricerca. Indomito, continuò a svolgerlo fino alla fine con una tenacia pari a quella di Shahrazad, la coraggiosa fanciulla persiana che nelle Mille e una notte intrattiene con una novella diversa il sovrano che, inferocito per il tradimento, ha ucciso la moglie. E ad ogni successiva alba uccide la schiava ancora vergine con cui ha trascorso la notte.
Divenuta sua sposa, la bella Shahrazad ad ogni nuovo sorgere del sole interrompe la narrazione, con la promessa di riprenderla al calare delle tenebre. E sono mille storie che si svolgono sotto il vasto cielo d’Oriente, dall’India alla Persia, attraverso la Mesopotamia e la Mezzaluna fertile, fino alle coste del Mediterraneo. Finché, ammaliando lo sposo con il potere delle parole, l’indomita giovane donna ne vince la violenza, insegnandogli che mentre l’odio acceca e uccide, l’amore per la vita che lei esprime nel narrare, intrecciando rischiosamente storie di fedeltà e tradimento, di povertà e agiatezza, di odi e passioni, cura la mente che si è ammalata e incanta il cuore. Un messaggio quanto mai prezioso in questi nostri tristi giorni.

La complessa storia della trasgressiva raccolta, da cui Boccaccio trasse ispirazione per il Decameron, e che ancora nel 1985 fu fatta oggetto della censura egiziana, si presta a suggestive analogie con l’instancabile e contestata ricerca di Semerano. E come in arabo il numero 1000 delle novelle di Shahrazad significa “innumerevoli”, e 1001 vale per un numero infinito, nell’inesausta vena narrativa del linguista ostinato e gentile esso ben rappresenta l’infinita quantità di etimologie e di storie addotte a sostegno della propria teoria, contro la tradizionale interpretazione aristotelica dell’ápeiron anassimandreo come astratto e metafisico “infinito”.

La ricerca linguistica di Semerano veniva da lontano, aveva radici estese e dava risposte alle suggestioni suscitate da tante testimonianze archeologiche che, da Creta all’Anatolia fino alla Persia, nelle altre isole del Mediterraneo e nei paesi che si affacciano alle sue coste meridionali, avevo visitato nel corso degli anni. Offriva a larghe mani un fondamento prima inimmaginabile e risposte concrete alle tante domande sulle incongruenze, emerse rispetto a quanto avevo appreso negli anni di studio all’ateneo patavino. Dove tuttavia avevo avuto la fortuna di poter cogliere le aperture del corso di glottologia di Carlo Tagliavini, linguista apprezzato da Semerano, e delle straordinarie lezioni di letteratura greca di Carlo Diano. Ma soprattutto la curiositas sincera con cui Franco Sartori, stimato commentatore di Platone, accolse l’inusuale tema che proposi per la mia tesi di laurea, La società etrusca nella storiografia greca.

A lui devo l’incontro del 1967 a Torino con lo storico siciliano Santo Mazzarino, che quando l’Italia con la Costituzione repubblicana lasciò finalmente alle spalle anche le nefaste leggi razziali, appena trentenne era stato autore dell’illuminante opera Fra Oriente e Occidente. Ricerche di storia greca arcaica. Il volume allargava l’indagine nel campo fino ad allora meno indagato della grecità «micrasiatica», ovvero alla storia arcaica delle città greche delle coste dell’Asia Minore tra il decimo e il sesto secolo, prima della nascita e dello sviluppo dell’impero persiano.

Attraverso una minuziosa rassegna delle fonti letterarie, a partire dalla lirica greca arcaica e dall’epopea omerica fino ad Erodoto, il giovane storico siciliano aveva ricostruito lo sviluppo dei due termini Asia ed Europa nel valore semantico e dal punto di vista territoriale. Da quando essi apparvero nei miti, attraverso la storia delle colonie greche comunemente dette ioniche, fino alla nascita dell’impero persiano, fondato nel 540 a. C. I rapporti dei Greci con i popoli micrasiatici, inventori della civiltà urbana e della scrittura, erano stati prima di allora pacifici, di integrazione e di scambio, tanto da poter parlare di una koinè linguistico-culturale, come prova con evidenza la diffusione dell’arte detta «orientalizzante» anche nella Grecia continentale e nel Mediterraneo.

Ne è testimonianza la diffusa presenza in Etruria dei rilievi policromi in terracotta che decoravano i templi, e della fastosa pittura funeraria. Ma anche il fatto che la Troia descritta nell’Iliade di Omero non sia dissimile dalle città greche, che Ettore sia un eroe non diverso da quelli greci, che l’asiatico Enea, in esilio dopo la caduta della città, diventi addirittura il proto-fondatore della potenza romana.
L’opposizione si radicalizza dopo la caduta di Babilonia, nel 499 a.C. con la rivolta antipersiana delle città greche della costa asiatica, Efeso e Mileto, e con le successive invasioni persiane. Le battaglie di Maratona e Salamina, avvenute rispettivamente nel 490 e nel 480 a. C., segnano il passaggio dell’egemonia culturale greca dalle coste anatoliche, dove essa era nata con i poeti e i filosofi naturalisti ionici, alla Grecia continentale, e ad Atene in particolare. Da allora le diadi Asia-Europa e Greci-barbari, ovvero popoli definiti con disprezzo balbettanti, feroci e dalle donne lussuriose, indicano entità opposte, se non addirittura irriducibili.

Nuovi stimoli e conferme trovai più avanti nell’ateneo fiorentino, nel corso di Filosofia greca di Francesco Adorno, autore di una innovativa Storia della filosofia antica. Ma solo all’inizio del nuovo millennio venni a conoscenza dell’appartata ricerca di Giovanni Semerano. Altri anni sono trascorsi da allora. Da una prospettiva anche politica di storica dell’antichità questo lavoro, rispondente a una sollecitazione della casa editrice L’Asino d’oro, intende proporre una ricostruzione dell’originale ricerca del glottologo di Ostuni al quale, in successive occasioni, ho dedicato altri interventi su Left. Negli anni il lavoro di Semerano è stato considerato con favore da accreditati archeologi, storici e filosofi, e ha mostrato la sua validità e la sua fertilità, intrecciandosi con il mio modo di concepire e anche di mettere in scena la storia.

Il lettore perdonerà l’andamento sinuoso, rapsodico e a tratti labirintico dell’esposizione, che procede tra mitologia, archeologia, filosofia e filologia, con riprese da una prospettiva diversa di temi già toccati, come la materia, tanto estesa nello spazio e nel tempo, e lo stesso lavoro di Semerano richiedono.
Avendo dedicato questo ultimo decennio allo studio di Antonio Gramsci, il rivoluzionario che giunto a Torino dalla Sardegna ebbe una formazione universitaria di promettente linguista e fu anche un grande scrittore, fin dalla prima lettura delle Lettere dal carcere riscontrai con sorpresa che il lavoro di Semerano costituiva lo sviluppo, certo inconsapevole, di un progetto che il leader comunista aveva formulato nel 1927, all’inizio della sua carcerazione, e che in cella non ebbe poi modo di sviluppare. Da qui partiremo.

In apertura illustrazione di Francesco Del Casino

Il testo di Noemi Ghetti è stato pubblicato su Left, febbraio 2024