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Vi ricordate i trenta all’ora a Bologna?

Poiché i numeri hanno l’enorme pregio di essere limpidi nella loro compostezza ecco quelli dati dal Comune di Bologna dopo l’introduzione del limite di trenta chilometri all’ora che ha così infastidito il ministro dei Trasporti Matteo Salvini. Secondo quanto registrato dalla polizia locale nel periodo 15 gennaio-10 marzo ci sono state 73 persone ferite in meno rispetto al 2023, con un calo del 19,4 per cento. Per quanto riguarda le multe per gli eccessi di velocità su 4.500 controlli sono state eseguite 61 multe per il superamento dei 30 km/h e 119 per i 50 km/h.

Nel dettaglio, spiega l’amministrazione, nelle prime otto settimane dall’avvio del progetto sulle strade urbane si sono verificati in totale 377 incidenti, di cui uno mortale; 252 incidenti con feriti – che hanno provocato 304 persone ferite – nessuno con feriti in prognosi riservata e 124 incidenti senza feriti. Nelle stesse settimane del 2023 – dal 16 gennaio al 12 marzo – gli incidenti erano stati in totale 452, di cui 3 mortali, 296 incidenti con feriti – che avevano provocato 377 persone ferite – uno con un ferito in prognosi riservata e 152 senza feriti.

Guardando alle percentuali, si registra un calo del 16,6 per cento degli incidenti totali, un calo del 14,9 per cento di incidenti con feriti, un calo del 19,4 per cento delle persone ferite (che corrisponde a 73 persone in meno rispetto allo scorso anno), un calo del 18,4 per cento di incidenti senza feriti, due incidenti mortali in meno (1 nel 2024 mentre erano stati 3 nel 2023) e un incidente con ferito in prognosi riservata in meno (0 nel 2024, 1 nel 2023). Il calo di pedoni coinvolti in incidenti è del 5,8 per cento (69 erano quelli coinvolti nel 2023, 65 nel 2024). Quanti ai controlli, i veicoli controllati sono stati 4.578: 61 i verbali elevati per superamento del limite dei 30 km/h e 119 quelli per superamento dei 50 km/h (con 2 patenti ritirate).

Il nuovo codice della strada voluto da Salvini va esattamente nella direzione opposta. 

Buon venerdì. 

Contro la strage dei diritti entra in azione l’avvocato Chiton

Uno dei più apprezzati e valenti avvocati del lavoro italiani rivela, nel suo folgorante esordio alla scrittura, un inconsueto talento letterario. L’idea al fondo del libro di Danilo Conte, Per giusta causa, Milieu, (vincitore del Premio Di Vittorio ndr) è tanto semplice quanto politicamente dirompente: trasformare una serie di cause seguite nel corso del tempo da materia consegnata ai freddi verbali giudiziari in una narrazione avvincente, capace di alternare registri opposti e di mescolare dramma e ironia. Non si ha voglia di smettere di leggere, racconto dopo racconto, i casi dell’avvocato Chiton, alter ego dell’autore, e ogni volta si vuol capire fin dove si spingerà il sopruso, il calpestamento di diritti fondamentali, il ricatto, l’estorsione, la disumanità esercitata da manager, padroni, capi e capetti in un crescendo di rabbia e incredulità, perché si è consapevoli che si tratta di storie vere, anzi verissime, per quanto letterariamente trasfigurate. E ogni volta si vuol vedere se alla fine, nelle aule del Tribunale del lavoro, sarà fatta giustizia e sarà data una pur parziale riparazione ai torti subiti dalle protagoniste e dai protagonisti delle vicende, dato che la politica non è capace di offrire alcuna soluzione strutturale, essendo anzi la prima causa della deregolamentazione del lavoro e della strage dei diritti in corso.
Gli sfruttati del settore della logistica e i rider, la pianista assunta per due decenni dal medesimo teatro con 108 contratti “per esigenze temporanee” e i postini precari, i commessi sotto ricatto che devono tornare nel pomeriggio a lavoro gratis e i custodi costretti a far pipì in sacchi di plastica, la modellista mobbizzata per non aver assecondato il capo violento e maschilista e le ricercatrici di un noto istituto spremute per dodici anni da mane a sera, salvo poi essere liquidate sprezzantemente con la complicità bugiarda del barone universitario di turno: queste e molte altre storie spesso terribili, a volte surreali, vengono raccontate in un modo che attribuisce pieno spessore umano ai protagonisti, restituendo loro voce e dignità. Senza raccontare le loro vite precarie e fatte a pezzi, senza descriverne paure, difficoltà e speranze, queste persone sarebbero destinate a rimanere numeri e statistiche. L’operazione letteraria di Danilo Conte è quindi un modo efficace per far comprendere universalmente cosa sta succedendo nel mondo del lavoro, ed è anche una forma di retribuzione, capace di riportare al centro della scena quell’umanità ormai fatta scomparire dai processi e dalle aule dei tribunali, oltre a essere l’omaggio simpatetico di un avvocato verso coloro che mai è riuscito a vedere solo come clienti, nel corso della sua vita professionale.

Con ogni evidenza questa è anche un’operazione politica, che si serve dell’invenzione di un nuovo genere letterario, il “social legal thriller”, per raccontare la strage dei diritti del lavoro del nostro tempo e individuarne i responsabili, mettendone in luce la disumanità, la bassezza, la meschinità. Moltissimi colpevoli di questi casi giudiziari vengono perfettamente descritti in ciascun racconto, dove i nomi sono stati cambiati ma risultano ben chiari i ruoli e le posizioni. Altri colpevoli, invece, restano sullo sfondo e sono però facilmente deducibili. Per giusta causa è infatti anche un testo post-apocalittico, dove l’apocalisse è avvenuta sotto i nostri occhi: dal pacchetto Treu e dalla riforma Fornero fino al Jobs act, il sistema delle tutele e delle garanzie è stato via via polverizzato fino a modificare radicalmente i rapporti di forza fra capitale e lavoro, rendendo più difficile e costoso lo stesso ricorso alla giustizia. Il fine dei mandanti di questa strage era arrivare dove si è effettivamente giunti, ossia a ingenerare paura e ricattabilità in lavoratori sempre più soli e frammentati, sia nel settore privato sia nel settore pubblico, dove parimenti dominano precarietà, appalti ed esternalizzazioni. Una paura e una ricattabilità che attraversa la gran parte delle storie narrate, pur con qualche eccezione, come nel caso dei portuali genovesi, i camalli, che impavidamente si rifiutano di imbarcare componenti di armi destinate alla guerra in Yemen, e che appaiono per l’appunto più un residuo inscalfito del Novecento che una prefigurazione del futuro. E però, nei racconti, oltre alla paura c’è la capacità di dire no e di interrompere abusi e sfruttamento esercitata proprio da lavoratrici e lavoratori che decidono di rompere lo schema, e che si rivolgono all’avvocato Chiton-Conte per ottenere giustizia in tribunale. E c’è infine anche un’altra paura, quella mostrata stavolta da chi sfrutta rispetto alla capacità dei lavoratori di organizzarsi in forme combattive e conflittuali; come dirà un collega della controparte a Chiton, in un dialogo realmente avvenuto: «Con te non faccio giri di parole. Meglio essere chiari: non assumeremo mai uno del sindacalismo di base, questo ci infetta tutti gli altri. Piuttosto lo paghiamo per stare a casa, ma questo in azienda non ci mette piede».
Nel corso della lettura si sorride, si riflette amaramente, si strabuzzano gli occhi, si matura un’autentica simpatia per l’avvocato Chiton e per la figlia Martina, ma sopratutto ci si arrabbia oltremodo. Ci si arrabbia per le violenze raccontate, per l’esercizio sfrontato di potere e dominio – talvolta micropotere e microdominio – messo a nudo da Chiton-Conte, e ci si indigna per la “mancanza di limite” e di pudore da parte dei responsabili e dei colpevoli inchiodati e svergognati in questi racconti giudiziari. Il libro pur ambientato fra le macerie del diritto del lavoro non lascia mai l’amaro in bocca: racchiude speranza sulla possibilità di costruire legami e sulla capacità di ribellione dei singoli, magari una ribellione e una disobbedienza originata da un moto di coscienza. Torna nel testo il tema della “responsabilità” e della parte che ciascuno di noi può giocare nella trasformazione del mondo. Non è un caso che il libro si chiuda con l’episodio già menzionato dei camalli che scioperano perché non vogliono neppure un frammento di correità nella morte di persone innocenti in una parte remota del pianeta, una vicenda che ha più di un significato considerato che l’autore, pacifista, è stato anche responsabile nazionale Arci per la formazione al servizio civile e per anni ha indirizzato gli obiettori di coscienza al servizio militare in varie strutture del Paese. I portuali vinceranno ed Eleonora, la modellista mobbizzata, riuscirà ad aprire la prima “sartoria sociale” in grado di ricucire anche le relazioni umane; Chiton-Conte, nel frattempo, si perde nei vicoli di Genova, «e fu in quel preciso istante che sotto i suoi passi gli parve di sentire la terra cantare».

Perché la possibile cessione di Agi dice molto di quello che siamo

I colleghi dell’Agi, la seconda agenzia di stampa più importante in Italia, hanno proclamato due giorni di sciopero contro la possibile cessione della testata al gruppo del deputato leghista e ras delle cliniche nel Lazio Antonio Angelucci. L’Eni, proprietaria dell’agenzia, ha provato a calmare gli animi con un comunicato che nega le trattative. 

Anche se da fuori la vicenda sembra roba da giornalisti (e tra giornalisti) l’interlocuzione tra Agi e Angelucci è una questione politica e dice molto del Paese che siamo. Angelucci più che deputato è l’editore di un polo editoriale di destra che a oggi comprende Libero, Il Giornale e Il Tempo. Tra gli azionisti dell’Eni che potrebbe vendere Agi c’è il ministero della Finanze guidato da Giancarlo Giorgetti che è anche compagno di partito del potenziale acquirente Angelucci. Per le leggi vigenti potrebbe aprire un’istruttoria sull’operazione che interesserebbe un ramo strategico anche Palazzo Chigi dove ha lavorato fino a pochi mesi fa come portavoce della presidente del Consiglio Mario Sechi, ex direttore di Agi e oggi direttore di Libero. Era stato Sechi a spingere alla direzione dell’Agi Rita Lofano, che era sua vice, quando lui decise di diventare portavoce di Giorgia Meloni. Rita Lofano proprio oggi partecipa al lancio dell’associazione delle giornaliste di centrodestra fortemente voluta da Giovanna Iannello, storica addetta stampa proprio di Giorgia Meloni. 

Alessandra Costante, segretaria della Fnsi, ieri ha detto che l’informazione non dovrebbe “essere coinvolta in conflitti di interesse”. Pd e M5s hanno presentato due interrogazioni sul caso. È l’editoria italiana, bellezza. 

Buon giovedì. 

Il massacro di Gaza e le proteste degli studenti. Dov’è finito il diritto al dissenso?

Come è noto Maurizio Molinari è il direttore di uno dei principali quotidiani italiani, La Repubblica. Per l’esattezza, il secondo per numero di vendite in Italia, sebbene in crisi da anni, con un crollo delle copie vendute che ha subito un’accelerazione dall’arrivo di Molinari nel 2020. Sempre lui, Molinari, è direttore editoriale del Gruppo Gedi (che possiede La Repubblica), di proprietà della famiglia Agnelli-Elkann e tra i principali gruppi editoriali del Paese. Al di là della carta stampata, Molinari è una presenza fissa in Tv. Dalle reti pubbliche a quelle private, le sue opinioni arrivano nelle case degli italiani praticamente ogni giorno. Come quando arrivò a esigere pubblicamente le scuse di una collega, la giornalista Lasorella, colpevole di aver messo in discussione la veridicità della notizia rimbalzata su tutti i media sui presunti 40 bambini decapitati da Hamas durante la strage compiuta il 7 ottobre. Notizia, quella della decapitazione di bambini, diffusa dalla stessa Repubblica e rivelatasi una fake news.

Pochi mesi fa ha pubblicato l’ultimo dei suoi tanti libri: Mediterraneo conteso. Perché l’Occidente e i suoi rivali ne hanno bisogno. Pubblicato con Rizzoli, storica casa editrice acquisita nel 2015 dal Gruppo Mondadori (controllato dal 1991 dalla Finivest, alla cui presidenza c’è Marina Berlusconi, figlia di Silvio); prima della cessione le rispettive quote di mercato erano del 14% e del 28%. Non proprio le briciole del mercato editoriale.

Molinari gira lo “stivale” per presentare il suo ultimo libro e per partecipare a dibattiti che hanno al centro delle riflessioni la congiuntura che ci troviamo ad affrontare.
Il 15 marzo arriva all’Università Federico II di Napoli, che quest’anno festeggia gli 800 anni di storia, per una discussione che vede tra i presenti anche il rettore dell’ateneo, Matteo Lorito.

Alcune decine di studenti e studentesse organizzano una contestazione: cartelli e cori all’indirizzo di Molinari, accusato di aver sposato la propaganda di Israele e, conseguentemente, di aver schierato La Repubblica, che pure è considerato quotidiano di punta del “progressismo”, a sostegno del genocidio in corso a Gaza.
Cosa tra l’altro sostenuta da un ex giornalista del Venerdì di Repubblica, Raffaele Oriani (Premio  Stefano Chiarini 2024), che con una lettera aveva così motivato le sue dimissioni dopo 12 anni di collaborazione: «Questo massacro [a Gaza] ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi. Non avendo alcuna possibilità di cambiare le cose, con colpevole ritardo mi chiamo fuori».

A quel punto, l’incontro salta. Secondo le parole dello stesso Molinari, che ricevono immediatamente enorme eco e il 16 marzo saranno pubblicate sul suo stesso quotidiano: “Con grande dispiacere ho scelto di rinunciare alla conferenza in programma […] in considerazione dei rischi per la sicurezza del pubblico causati da un ristretto gruppo di manifestanti”.
Come lui stesso scrive, dunque, non gli è stato impedito di parlare, ma ha deciso di non tenere l’incontro. Versione che, se qualcuno avesse voluto fare mezza domanda agli studenti, avrebbe visto confermata. E, anzi, avrebbe potuto aggiungere particolari: l’incontro era a invito – a proposito di restrizioni; gli studenti sono stati strattonati, spintonati e in alcuni casi presi a calcio dagli agenti presenti all’esterno dell’università; la proposta di incontro di Molinari era in realtà la proposta di ricevere una delegazione di soli due studenti “contestatori”, cui gli studenti hanno rilanciato chiedendo la possibilità di un dibattito collettivo, prontamente rifiutato. Alla luce della versione degli studenti, chi ha rifiutato il dialogo?

Nonostante tutto ciò, la narrazione che immediatamente viene diffusa è che gli studenti hanno impedito a Molinari di parlare, l’hanno privato della libertà di espressione.

Seguono le reazioni del mondo della politica. La ministra del Turismo Santanché che nel 2008 durante un comizio a Milano si era dichiarata “orgogliosamente fascista”, scrive che “i fascisti di sinistra continuano a manganellare la libertà di parola”. Forse per lei è una maniera di fare un complimento…
Il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida – la cui moglie, Arianna Meloni, sorella di Giorgia, qualche mese fa ha querelato un disegnatore, Natangelo, per una vignetta sul Fatto Quotidiano – si erge a paladino della libertà di espressione e addirittura sostiene che “la tolleranza del passato verso questi episodi ha portato al terrorismo”.
Posizioni riprese dal presidente del Senato La Russa, seconda carica dello Stato, orgoglioso del busto di Mussolini che tiene in bella mostra a casa, la cui lettera viene pubblicata su La Repubblica (ops!) lunedì 18 marzo e in cui sostiene che ciò che è successo a Napoli “richiama alla mente fatti e slogan degli anni ‘70 (“Fuori i fascisti dall’università” ecc.) […] che furono poi concausa della nascita del terrorismo”.

L’ex presidente del Consiglio Gentiloni (Pd), oggi commissario Ue all’Economia, su X parla di “Brutto episodio. Tira un’aria pericolosa”. A ruota la segretaria del Pd, Schlein: “è grave che qualcuno impedisca di svolgere iniziativa pubblica”. Per finire con Fratoianni, segretario di Sinistra Italiana: “la censura non può avere cittadinanza negli atenei italiani”.

Il fatto che comporta una svolta qualitativa è, però, la presa di parola del presidente della Repubblica. Mattarella esprime con una nota la propria solidarietà a Molinari e aggiunge che “quel che vi è da bandire dalle università è l’intolleranza, perché con l’Università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente”.

È “il mundo al revés” di cui parlava Eduardo Galeano.

L’intero arco politico parlamentare e la totalità delle istituzioni fanno passare Maurizio Molinari come “uno che non può parlare”. Uno dei volti del potere mediatico progressista (direttore del secondo quotidiano italiano, presenza fissa in Tv, pubblicato dalle principali case editrici italiane) una sorta di “senza voce”.

Per contro, gli studenti e le studentesse, sono etichettati come squadristi, violenti, intolleranti, ignoranti. E, ovviamente, antisemiti. Come dichiarato fin da subito dai presidenti delle Comunità ebraiche, che scrivono che Molinari sarebbe stato preso di mira “solo perché ebreo”. Diffamazione bella e buona.

A questi stessi studenti, sotto attacco da giorni, non viene concesso nemmeno il diritto di replica alle accuse.
La conferenza stampa che hanno convocato all’indomani della contestazione e delle parole di Mattarella viene disertata dai media. Il comunicato stampa che hanno inviato ad agenzie e redazioni non compare da nessuna parte, fatta eccezione per poche righe e qualche minuscolo trafiletto.

Gli stessi che si sono stracciati le vesti a difesa di Molinari, cui sarebbe stato impedire di parlare, non hanno evidemente più vesti da stracciare per gli studenti cui viene impedito di avere qualsiasi spazio mediatico per portare le proprie posizioni e difendersi da accuse a volte infamanti (come quella di antisemitismo).
A difesa del potere mediatico sì, a difesa dei veri “senza voce” anche no.

Per non parlare del fatto che, dall’ultradestra ai progressisti, salvo rarissime eccezioni, non si è alzata mezza voce a difendere il diritto al dissenso. Che viene dichiarato sacro quando potere mediatico e politico parlano di ciò che accade all’estero, ma che evidentemente qui da noi non è “sale della democrazia”, ma un vezzo tranquillamente sopprimibile.

Senza difesa del diritto al dissenso – che si difende non solo quando si è d’accordo con le posizioni espresse e i modi usati – non c’è argine agli attacchi a libertà individuali e collettive. Così, a poche ore dalla contestazione, il principale quotidiano italiano, il Corriere della Sera già avvisa che “gli episodi che si sono ripetuti nelle Università potrebbero portare a bloccare, o quantomeno limitare, le contestazioni fuori dalle aule dove si tengono convegni e incontri che potrebbero innescare la protesta pro Palestina e contro Israele. […] Non potendo prevedere ogni protesta, sarà aumentata la sorveglianza prima dei convegni che potrebbero essere a numero chiuso o ad inviti. Per impedire di fatto l’accesso a chi potrebbe aver organizzato una manifestazione che possa portare all’interruzione dell’evento” (Corsera, 17 marzo).

Insomma, altro che “libero fischio in libera piazza”, espressione dell’ex partigiano socialista ed ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini.
L’Italia in cui viviamo oggi è un Paese in cui proteste e dissenso sono sempre più considerate alla stregua di un fastidio da marginalizzare. Il modello che si persegue da parte del blocco sociale al potere non è tanto l’eliminazione formale di questi diritti, quanto il loro sostanziale svuotamento. Così che, sulla carta, potremo continuare a dissentire e protestare, ma senza disturbare.

È la democrazia sognata dal potere politico, mediatico ed economico, quella in cui il conflitto viene espunto o imbrigliato. Così che di “democratico” rimanga solo il nome.

L’autore: Giuliano Granato è portavoce di Potere al popolo. Collabora con CanalRed diretto da Pablo Iglesias

Nella foto: frame del video delle proteste alla Federico II, Napoli, 15 marzo 2024

Cosa succede a Bari?

A Bari il ministro Piantedosi ha deciso di avviare l’iter di scioglimento del Comune guidato dal sindaco dem Antonio Decaro per infiltrazioni mafiose. La mossa ha tempistiche elettoralmente perfette, cade esattamente nell’accelerazione per la campagna elettorale delle elezioni europee e colpisce uno tra i primi cittadini più noti tra i partiti dell’opposizione. 

Come nasce l’azione del Viminale? L’impulso è stato dato da un gruppo di parlamentari pugliesi di centrodestra, tra cui due vice ministri di governo, e fa riferimento alla recente operazione antimafia che ha portato all’arresto dell’avvocato Giacomo Olivieri e la moglie Maria Carmen Lorusso nonché il padre di quest’ultima, l’oncologo Vito Lorusso. 

Su alcuni furbeschi giornali di oggi leggerete che Maria Carmen Lorusso sta nella maggioranza di Decaro. Non è un’informazione sbagliata ma è incompleta. La consigliera comunale è stata eletta nel 2019 tra le liste che sostenevano il candidato sindaco del centrodestra, Di Rella, ed è poi transitata nel movimento Sud al centro, partito coordinato da Sandro Cataldo, marito di Anita Maurodinoia, assessora regionale ai Trasporti, che in comune sostiene Decaro. 

Secondo gli investigatori la consigliera comunale avrebbe sfruttato rapporti con il clan Parisi-Palermiti per farsi eleggere nel 2019.

Quindi, ricapitolando, un ministro di centrodestra su impulso di parlamentari del centrodestra ha decapitato un sindaco di centrosinistra per una consigliera comunale di centrodestra che avrebbe stretto patti con i boss. Non male. 

Buon mercoledì. 

 

Elena Popova: «Noi obiettori russi rischiamo tutto ogni giorno contro la guerra»

Elena Popova è la portavoce del Movimento degli obiettori di coscienza russi. Questo suo intervento ci è giunto dalla Campagna di obiezione alla guerra del Movimento nonviolento.

San Pietroburgo, 20 febbraio 2024
Cari amici sono passati due anni dall’inizio della guerra russa contro l’Ucraina e nessuno sa quando finirà.
Due anni fa le vite della maggior parte dei Russi erano a malapena toccate dalla guerra; oggi la guerra colpisce le vite di quelle persone che mai avrebbero pensato prima che le persone mobilitate sarebbero state al fronte per più di un anno: la maggior parte di loro è mentalmente e fisicamente esausta; dopo essere stati feriti ed essersi ritrovati in un ospedale sono stati rimandati di nuovo al fronte. Coloro che si rifiutano di andare in guerra sono torturati, picchiati, rinchiusi in prigioni illegali.
I parenti delle persone mobilitate si rivolgono ai funzionari ma non ricevono risposte adeguate o non ne ricevono.
Non possiamo ottenere giustizia mentre migliaia di persone sono in carcere per aver diffuso le cosiddette false informazioni sull’esercito ma nei fatti per aver detto la verità sulla guerra. Più di 4mila soldati sono stati condannati a oltre 5 anni di prigione per aver abbandonato le unità militari senza autorizzazione.
Queste persone volevano fermare la loro partecipazione alla guerra ma non sapevano come farlo legalmente.
È un peccato che non si siano rivolti al nostro movimento per un consiglio: se l’avessero fatto, essi stessi o i loro parenti, noi avremmo potuto aiutarli.
I soldati che sono riusciti a lasciare le loro unità militari e tornare a casa sono costretti a nascondersi perché la polizia militare può arrestarli.
Alcuni soldati hanno lasciato le loro unità ma non possono tornare a casa dall’Ucraina perché sarebbero arrestati al passaggio dei checkpoints, così affittano degli appartamenti o delle case nelle città ucraine per nascondersi. La maggior parte di loro ha già gravi problemi di salute e hanno bisogno di cure mediche ma non le possono ricevere.
Il ministro della Difesa recluta attivamente persone per la guerra nelle carceri promettendo loro di non mandarle al fronte: gli promettono buoni stipendi e, naturalmente, il rilascio dalla prigione; questo trucco funziona perché le persone in carcere non hanno la possibilità di usare internet e guardando la televisione sono esposte alla propaganda. Recentemente un piccolo gruppo di donne ha fondato il movimento “Strada verso casa”. Esse chiedono il ritorno di tutte le persone mobilitate, non soltanto dei loro parenti, e noi del Movimento degli obiettori di coscienza russi e altre organizzazioni per i diritti umani abbiamo pensato a come far tornare un mobilitato o un soldato sotto contratto dalla guerra per motivi medici: è difficile, ma se la tua famiglia è tenace e determinata è possibile. Purtroppo il numero di persone che intraprendono questo percorso non è alto, ma potrebbe esserlo.
Quando sento dire dalla gente che siamo persone comuni e non possiamo fare nulla per fermare la guerra, io rispondo sempre che forse non possiamo fare molto ma possiamo sicuramente non essere complici della guerra, aiutare i nostri amici a non partecipare e sostenere le persone che sono in prigione per le loro posizioni contro la guerra e per aver abbandonato le unità militari, aiutarli scrivendo lettere, inviando dei soldi, accogliendo i rifugiati ucraini che ora sono nel territorio russo.
Forse non è molto, ma più persone lo faranno e prima la guerra finirà.

Grazie per il vostro tempo.
No alla guerra!

(Si ringrazia Mao Valpiana presidente del Movimento nonviolento e direttore della rivista Azione nonviolenta)

Nella foto: polizia antisommossa nella piazza Rossa (adobestock)

Pezzo dopo pezzo se ne va la propaganda del Piano Mattei

Mentre Giorgia Meloni faceva la chierichetta a Ursula von der Leyen che in pompa magna staccava l’assegno al presidente egiziano al-Sisi per fare ancora di più e meglio il lavoro sporco da tappo dei migranti, il Tribunale de L’Aquila scriveva nero su bianco che la Tunisia non è un Paese sicuro riconoscendo la protezione speciale a un richiedente asilo. 

Il tribunale certifica che a Tunisi vi siano situazioni oggettivamente registrate: deterioramento del tasso di democraticità; violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali; magistratura non indipendente; arresti di massa; assenza di tutele per migranti, richiedenti asilo e rifugiati; seria crisi economica in atto; emergenza climatica ed ambientale in atto. 

“In primo luogo il ricorrente, – scrivono i giudici – in disparte il profilo della documentazione lavorativa prodotta (…), proviene dalla Tunisia, Paese che solo formalmente è inserito nella lista del Paesi c.d. di origine sicura. Invero nel recente periodo, si sono verificati in Tunisia eventi che hanno deteriorato il tasso di democraticità del Paese e una palese violazione dei diritti umani e delle libertà fondamentali”. 

I grandi accordi del governo italiano e di quello europeo si smontano pezzo dopo pezzo. Nel frattempo Italia e Ue firmavano accordi con al-Sisi, uno che da oltre 10 anni detiene il potere vincendo elezioni farsa con oltre il 90 per cento dei voti, arrestando, torturando, incidentalmente ammazzando migliaia di oppositori. Vale la pena di ricordare che al-Sisi è l’artefice del colpo di stato del 2013, fece arrestare almeno 40mila persone, condannare a morte centinaia di oppositori compreso l’ex presidente eletto Morsi e prese il potere grazie a elezioni farsa nel 2014 col 96% dei voti.

Buon martedì. 

Nella foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano al-Sisi, Il Cairo, 17 marzo 2024 (governo.it)

I torturatori fascisti della banda Koch. “Pensione Oltremare”, il nuovo libro di Andrea Maori

Esattamente 80 anni fa, tra il febbraio e l’aprile 1944 a Roma operava la famigerata “banda Koch”, un reparto speciale fascista che aveva l’obiettivo di reprimere gli oppositori della Repubblica sociale e gli ebrei. Sul processo che si svolse nel 1946, Andrea Maori ha scritto il libro Pensione Oltremare. Testimonianze dal processo alla banda Koch (Tralerighe libri), dal nome del quartier generale del gruppo di feroci torturatori rimasto finora nell’ombra e che nel 1978 divenne la sede di Radio Radicale. La presentazione del libro il 18 marzo a Roma (circolo Giustizia e libertà, via A.Doria, ore 18).

Una pensione, un esercizio commerciale, trasformato in luogo di sevizie e di torture della banda Koch, uno dei centri di polizia della Repubblica Sociale italiana più feroci della repressione dell’antifascismo durante l’occupazione nazista a Roma. Questo è stata la pensione Oltremare di Roma, situata al quinto piano di un palazzo in via Principe Amedeo, 2 in un quartiere residenziale nei pressi della stazione Termini tra febbraio e aprile 1944.
Attraverso lo studio degli atti processuali ho voluto dare voce alle dichiarazioni di coloro che salirono le scale di quel palazzo ed hanno poi avuto la sorte e la forza di raccontare i giorni di sofferenze passati nella pensione, con dichiarazioni, denunce, testimonianze rese di fronte a magistrati, cancellieri, avvocati e altri testimoni,
Un lungo iter giudiziario che si aprì subito dopo la liberazione della città, avvenuta il 4 giugno 1944, con l’istituzione dell’Alto Commissariato per punizione dei delitti fascisti, e che si protrasse fino al grande processo di Milano del 1946, apertosi con una novantina di imputati, che racchiuse i vari procedimenti contro i componenti del reparto di polizia a Roma e a Milano. Furono invece pochi i procedimenti giudiziari promossi da parenti delle vittime, successivi al processo di Milano, che finirono con assoluzioni.

I testimoni furono messi a confronto durante le udienze del processo. Emerse subito un quadro di accuse molto coerente e omogeneo contro i picchiatori e i delatori al servizio di Pietro Koch, il capo del reparto che prese il suo nome. Furono in particolare gli informatori e l’uso sistematico di sevizie che gli permisero di vantare successi nelle operazioni di polizia contro i partiti antifascisti e il fronte militare dinanzi al capo della polizia, al Ministro dell’interno e agli alleati tedeschi. Koch e i suoi crearono una rete di spionaggio molto efficace, grazie alla spregiudicatezza dei suoi uomini e all’uso indiscriminato della violenza. L’ampia autonomia di poteri polizieschi cui godette il reparto segnò però la sua fine. Infatti divenne una minaccia per lo stesso regime al punto che Mussolini ne decise lo smantellamento ad opera della rivale legione Muti.

Le testimonianze, anche se filtrate da vincoli processuali, come la risposta a domande dei magistrati, o ricordi arricchiti di informazioni successive ai fatti, fotografano un microcosmo fatto di relazioni umane, che a volte sfiorano il grottesco. I ruoli tra dominatori e dominati sono ben separati; questi ultimi potevano interagire con i primi solo su loro richiesta, non c’era possibilità di mediazione. Non c’erano soggetti esterni che avrebbero potuto prendere le loro difese: il dominio è totale.

L’impatto mediatico del processo milanese fu ampio. I giornali seguirono con grande attenzione le udienze con notizie di cronaca arricchite da note di costume, soprattutto per la presenza di donne nel banco degli imputati, un fatto che incuriosì non poco; fu però l’applicazione dell’amnistia Togliatti e il confronto drammatico tra testimoni e imputati a tenere viva l’attenzione per tutto il periodo di tenuta delle udienze.
Tra i luoghi di detenzione della banda Koch a Roma, la pensione Oltremare è stata quella meno citata nel dopoguerra. L’attenzione si è concentrata sulla pensione Iaccarino di Roma e su Villa Triste a Milano. Eppure lì passarono, per quasi tre mesi, dirigenti del Partito d’Azione, comunisti, membri del fronte militare, aderenti alla rete di O’ Flaherty e semplici cittadini sospettati. Inoltre la pensione servì come luogo di detenzione per un gruppo di vittime che trasportate nel carcere di Regina Coeli poi furono martirizzate alle cave ardeatine il 24 marzo 1944, a seguito della terribile rappresaglia nazista all’attentato dei Gruppi di Azione Patriottica di via Rasella del 23 marzo.

Anche negli atti processuali la pensione è poco citata, se non nelle testimonianze, molte delle quali riportate nella seconda parte del volume, a fronte di una ampia informazione sugli altri luoghi di detenzione.
Nei resoconti del processo di Milano, molti cronisti, usando una semplificazione insopportabile, citarono quasi esclusivamente la pensione Iaccarino, facendo passare lì fatti ed avvenimenti consumati nella pensione Oltremare. Quello che avvenne alla pensione Iaccarino fu poi amplificato dalla notorietà di alcuni sopravvissuti alle torture come il regista Luchino Visconti di Modrone e lo storico della letteratura italiana Carlo Salinari.
Il microcosmo repressivo seguiva regole comportamentali precise e monotone nella loro spietatezza. Koch e i suoi agenti procedevano con la parte investigativa e comandavano le operazioni di cattura; aguzzini ben addestrati provvedevano alle punizioni per le risposte deludenti con strumenti contundenti o con minacce di fucilazione. A margine agivano complici come le dattilografe e la cuoca, che avevano un ruolo marginale, ma che furono imputate nel processo di Milano e amnistiate. Le testimonianze rilevano un diverso grado di responsabilità degli imputati, che la Corte prese in considerazione quando emise la sua sentenza il 10 agosto 1946.

Nel dopoguerra nell’edificio, per un periodo, si installò la Delasem, la Delegazione per l’Assistenza degli emigranti ebrei, l’ente che aveva per scopo di assistere concretamente gli ebrei sopravvissuti alla deportazione che, per i suoi scopi, si appoggiò all’American Joint Distribution Committee e all’Unrra, l’organizzazione internazionale di assistenza ai paesi usciti gravemente danneggiati dalla guerra. La pensione Oltremare ritornò alla sua attività e prese anche un nuovo nome, Domus. Poi l’oblio.

Nel 1978 i locali si trasformarono nella sede di Radio Radicale, l’emittente del Partito Radicale. Venne inaugurata una stagione di democrazia e di libertà di informazione per tutto il Paese, ma l’amnesia collettiva verso quello che successe nel 1944 tra quelle mura rimase fino al 25 aprile 2012, anniversario della Liberazione. Quel giorno infatti fu inaugurata, con una piccola cerimonia all’ingresso dello stabile, una targa commemorativa a cura del municipio Roma centro storico, dell’Anpi Esquilino Monti Celio “don Pappagallo” e dell’associazione La Lotta Continua.
La mia ricerca è la continuazione di questo percorso di conoscenza su una delle pagine più buie della Repubblica Sociale Italiana e dell’occupazione nazista di Roma.

L’autore: Andrea Maori, saggista, collaboratore del’Archivio audio-video di Radio Radicale, si occupa da anni di storia politica del Novecento

La presentazione del libro Pensione Oltremare di Andrea Maori, lunedì 18 marzo a Roma

Scuola, ritorno al passato. A che serve la riforma del voto in condotta?

Rivolgendo il nostro interesse al mondo della scuola ci chiediamo quale sia il senso di molte delle posizioni dell’attuale ministero dell’Istruzione e del merito nei confronti della scuola e degli studenti. Dopo la carica della Polizia a Pisa nei confronti di studenti che manifestavano pacificamente – un atto violento nei confronti di adolescenti che avrebbero il diritto di essere accompagnati nel’ingresso alla società in tutt’altro modo – ci chiediamo quale sia il filo che lega quell’episodio ad interventi che vorrebbero riportare ad un passato che non esiste più: non c’è errore peggiore, quando ci si rapporta alle nuove generazioni, del non cercare di comprendere il presente in cui essi vivono.

L’ennesimo divieto dei cellulari in classe, nei termini in cui è posto, non solo rischia di far sembrare la scuola sempre più lontana dal mondo in cui i ragazzi vivono ogni giorno ma esprime anche l’ottusità di non comprendere che per la scuola è importante avviare riflessioni per un utilizzo delle tecnologie digitali che risponda alle finalità della scuola e non solo alle richieste del mondo del lavoro. Ricordiamo, inoltre, che è in discussione un disegno di legge in merito a “Revisione della disciplina in materia di valutazione del comportamento delle studentesse e degli studenti” nel quale non si tiene per nulla conto non solo delle attuali acquisizioni della psico-pedagogia in merito al tema della valutazione ma neanche dei cambiamenti che negli anni si sono avuti nella società e quindi nella scuola.

Negli ultimi decenni gli adulti vivono, con le nuove generazioni, sia in famiglia che a scuola un rapporto molto diverso dal passato. L’essere genitori si esprime con modalità di vicinanza, talvolta addirittura di tipo amicale, nei confronti dei figli e non dimentichiamo che in seguito ai movimenti del Sessantotto abbiamo assistito al crollo, sia in ambito scolastico che familiare, di una vecchia idea di autorità. Nei nostri giorni gli insegnanti debbono proporre di sé una immagine autorevole che non può essere imposta ma deve scaturire dall’identità professionale e personale. Chi vive nella scuola sa che “rispetto” e autorevolezza non si ottengono con proibizioni o imposizioni ma realizzando un contesto relazionale in cui i ragazzi abbiano la possibilità di esprimersi nella ricerca di sé stessi.
Ma, a vedere più in profondità, non si tratta solo di ritorno al passato: i manganelli dei poliziotti contro gli studenti minorenni forse sono sorretti da una idea dell’essere umano visto come “cattivo” per natura e che, pertanto, deve essere controllato, punito, umiliato. Ricordiamo le parole di Valditara, pronunciate nel novembre del 2022 in seguito ad un episodia di violenza in una scuola, parole che nessuna rettifica riesce ad attutire: «Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità».

Ogni adulto che si relaziona con un adolescente dovrebbe, sempre e comunque, essere mosso da interesse per la realizzazione umana della ragazza o del ragazzo. Per un insegnante l’aspetto relazionale della propria professione è fondamentale ed estremamente delicato: ogni giorno in classe egli vive quell’incertezza presente nelle relazioni umane, caratterizzate dal continuo movimento interiore dell’essere esseri umani. Cercare di comprendere alcuni comportamenti degli adolescenti può consentire all’adulto di andare incontro alle loro esigenze. Ogni ragazza o ragazzo, nella ricerca della propria identità, si cimenta con nuove esperienze di vita e può anche commettere degli errori ma sono gli adulti a sbagliare se pensano che i metodi punitivi possano essere la strada giusta. Per favorire la costruzione di identità di una ragazza o di un ragazzo è fondamentale il confronto aperto e non giudicante. Il solo provvedimento punitivo, come sa bene chi vive quotidianamente con adolescenti, non rappresenta mai nulla di buono perché non offre occasione per il cambiamento. Gli adolescenti, talvolta, arrivano alla scuola superiore con il pesante bagaglio di delusioni già riserbato loro dagli adulti senza essere in grado di riconoscere quanto queste delusioni abbiano incrinato le loro possibilità di espressione umana. Rapporti validi con gli insegnanti e i compagni potrebbero far vivere esperienze in grado di riaccendere fiducia nella ricerca della loro bellezza umana.

Se un insegnante è guidato dalla certezza, non solo del valore formativo di ciò che insegna, ma anche dal riconoscere che la ricerca di rapporti umani validi, della conoscenza di sé, degli altri e del mondo siano esigenze di tutti gli esseri umani è sulla strada per trovare il modo migliore di rapportarsi con un adolescente e nello stesso tempo perseguire le finalità della scuola. Un insegnante può riuscire a realizzare in classe quel clima positivo che favorisce non solo l’apprendimento ma anche la crescita personale e sociale degli studenti.
Essere insegnanti nella scuola di oggi è una professione di estrema complessità che dovrebbe essere sostenuta con adeguata formazione e riconoscimento sociale. Questa complessità richiede che gli insegnanti siano sempre attenti osservatori: un atteggiamento di continua ricerca è caratteristica della loro professionalità e, pertanto, diventano necessari confronto collegiale e adeguata formazione.

La professionalità dell’insegnante si esprime lungo tre direzioni che non procedono in modo lineare ma si intersecano e si alimentano a vicenda. Un insegnante per insegnare, per esempio, la matematica a Giulia, come afferma una frase famosa di John Dewey, deve amare la matematica, amare insegnare la matematica e amare Giulia. La parola amare si ripete tre volte ma ha tre significati necessariamente differenti, la comprensione di ognuno di questi significati intreccia sensibilità umana e conoscenza. L’insegnante di matematica deve conoscere profondamente la disciplina che insegna ma la sua attenzione per essa è ben diversa da quella del matematico che lavora in altro ambito e per realizzare questa particolarità deve amare insegnare. E questo “amare insegnare” non può prescindere dall’interesse per lo studente.

Un insegnante cerca ogni giorno il modo migliore per insegnare la matematica avendo sempre presente anche la realtà di quel particolare studente e di quella data classe, perché sa che altrimenti il suo lavoro rischia di fallire. Certamente qualche studente, sostenuto da particolari doti personali o proveniente da un ambito familiare favorevole, può raggiungere comunque buoni risultati, ma non sono questi studenti che veramente hanno bisogno dell’insegnante. Questo interesse-amore per ogni singolo studente, è sostenuto dalla incessante ricerca di conoscere come quello studente pensa, ragiona, si appassiona. Questo interesse nei confronti dell’adolescente non è “buonismo” e non ha nulla a che fare con quel “lassismo” a cui parole come controllo, punizione, merito pensano di opporsi. È invece un continuo lavoro di ricerca perché l’insegnante, non abbandonando mai le finalità della scuola della Costituzione e l’idea della funzione socializzante della cultura, pretende che lo studente esprima al massimo le sue potenzialità, quelle potenzialità che l’apparenza talvolta può nascondere.

Gli insegnanti sanno come tutto questo non sia affatto semplice e non sempre si raggiungano i risultati desiderati ma sanno che vale sempre la pena di cercare di offrire il più possibile ad un adolescente evitando, anche, di assumere i tanto declamati “atteggiamenti carismatici”, stile insegnante del film L’attimo fuggente il quale, nell’affermazione narcisistica di sé, non è in grado di entrare veramente in rapporto con i propri studenti. Ogni giorno gli insegnanti cercano di lasciare liberi i propri studenti nella loro realizzazione umana provando ad essere quello stimolo costruttivo e quel sostegno che sono possibili nella specifica realtà della scuola, nel suo non essere né ambiente familiare né intervento psicoterapeutico. Concludiamo con una frase della lettera degli insegnanti degli studenti di Pisa: «Come educatori siamo allibiti di fronte a quanto successo oggi. Riteniamo che qualcuno debba rispondere dello stato di inaudita e ingiustificabile violenza cui sono stati sottoposti cento/duecento studenti scesi in piazza pacificamente …».

L’autrice: Assunta Amendola, docente di informatica e matematica, psi­cologa dell’età evolutiva, coautrice di “Adolescenti nella rete” (L’Asino d’oro edizioni)

Campo largo, non così

Il primo risultato delle elezioni regionali non ancora svolte in Basilicata consiste nella dispersione di quel precedente mucchietto di speranza. Non era molto, certo, ma dopo le elezioni vinte in Sardegna e perfino dopo le elezioni perse in Abruzzo quel barlume di possibile futuro era l’unico capitale iniziale di una bozza di alleanza credibile. Questione di aritmetica, almeno. 

Il comunicato serale in cui Pd, M5s, Si, Ev, Psi, +Europa annunciano di avere estratto dal cilindro il nome di Piero Marrese, sindaco dem di Montalbano Jonico e presidente della Provincia di Matera, non basterà a risollevare l’elettorato locale sfibrato dal susseguirsi incerto e nevrotico di nomi, dal re delle cooperativa bianche Angelo Chiorazzo impallinato dal M5s, al chirurgo Domenico Lacerenza con il triste record di essere stato candidato nel giro di 72 ore fino alla ridda di veti, subbugli locali e rivendicazioni nazionali. 

Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere uno stiracchiato incastro di veti con l’aria ogni volta di avere avuto fortuna. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può apparire agli elettori un affannarsi alla ricerca di un nome a poche ore dalla presentazione delle liste. Il campo largo (o giusto o stretto o come diavolo si voglia chiamare) non può essere un balletto orribile con i centristi che pregano la cenere per poterci ballare sopra. 

L’alleanza è necessaria ma lo stare insieme deve essere la maturazione di ragioni limpide. Il caso della Basilicata è un ingarbugliato bugiardino leggibile solo dalle segreterie, roba da caminetto. Veramente troppo poco per spingere fuori casa i possibili elettori. 

Buon lunedì.