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La mostra di Riccardo Acerbi. Immagini di volti e luoghi dal mondo

Sguardi dal mondo è la personale del fotografo Riccardo Acerbi dal 15 al 23 marzo a Roma, Palazzo Velli (Piazza Sant’Egidio, 10). Pubblichiamo il testo critico della curatrice, Ludovica Palmieri.

Oltre cento fotografie, in bianco e nero, fanno vibrare le pareti di Palazzo Velli e accompagnano i visitatori in un metaforico viaggio attraverso diversi Paesi. Italia, Stati Uniti, Brasile, Inghilterra, Sud Africa, Paesi dell’Est Paesi, Canarie. Ognuno particolarmente rappresentativo nell’immaginario di Riccardo Acerbi artista, fotografo, viaggiatore, che ritrova in questi luoghi la Rappresentazione di un volto che ha amato.

Per Riccardo Acerbi, romano, classe 1962, attore e regista per professione, cresciuto davanti all’obiettivo, la fotografia rappresenta una naturale estensione dello sguardo. È stato dunque spontaneo per lui sviluppare precocemente una passione per lo strumento fotografico e adottarlo da autodidatta come principale mezzo di espressione.

Riccardo Acerbi

Nella visione di Riccardo Acerbi la fotografia non ha una funzione descrittiva o documentaristica, quanto piuttosto emotiva. Le sue opere hanno poco a che vedere con le tradizionali fotografie di viaggio, perché raccontano i luoghi attraverso punti di vista inusuali, si potrebbe dire poco battuti, come gli itinerari che preferisce. Per Riccardo Acerbi viaggiare non significa percorrere percorsi canonici ma perdersi tra la folla, mischiarsi agli abitanti del luogo, entrare in empatia con lo stesso, capirlo e respirarlo, facendolo scorrere come ossigeno dentro di sé.
Le sue fotografie, immagini a tratti intime e silenziose, sono un’alternanza di ritratti, posati o rubati, paesaggi dalle inquadrature originali, dettagli di architetture o strade, momenti di vita. Nella maggior parte dei casi si tratta di foto in esterno. Strade, spiagge, edifici, paesaggi. Immagini che intendono cogliere il momento, una particolare situazione.

La loro singolarità risiede nella vivacità della visione dell’autore, specchio della sua libertà interna che lo svincola dall’obbligo di obbedire a dogmi, stereotipi o fredde regole accademiche. Le sue opere non hanno nulla di studiato o premeditato, sono figlie del momento, al cui altare l’artista è ben disposto a sacrificare la perfezione tecnica. Per cui non importa se un’inquadratura non è centrata o se la luce poteva essere migliore, quello che conta è mescolarsi alla realtà, vivere l’hic et nunc. In altre parole: nelle sue opere la sostanza prevale sulla forma, l’urgenza creativa e la passione si impongono sulla perfezione tecnica.
L’artista sceglie continuamente e seleziona una determinata porzione di realtà, in un processo velocissimo che rifiuta gli scatti multipli in favore di un romantico ritorno allo scatto unico, perché unico è il momento. Come se la purezza del suo sguardo si andasse a imprimere, senza filtri, direttamente sulla carta fotografica. In un processo creativo che conferisce alle immagini quella genuina freschezza che si respira nella mostra. A questa poetica del momento fa da contraltare la perfezione fragrante della stampa che genera un ossimoro, creando un corto circuito emozionale che rapisce lo spettatore.

Questo approccio schietto e sincero alla fotografia si riflette nel fatto che per ogni Paese emergono delle caratteristiche peculiari che non discendono da elucubrazioni teoriche ma, semplicemente dalla sua apertura mentale al mondo e all’accoglienza del diverso da sé. Per cui, come nei rapporti d’amore, l’adattamento all’altro avviene in modo impulsivo ed immediato, senza bisogno di regole o convenzioni.

In mostra sono presenti anche due installazioni video che, realizzate sempre con la macchina fotografica, si pongono in naturale continuità con le immagini. Il primo video, Man at Work, Brazil, 2021, dedicato al Brasile, è esasperatamente rallentato e presenta le attività che un pescatore compie ogni mattina, come togliere la plastica dalla spiaggia o sciogliere la rete. Il video procede senza colpi di scena, in un’esaltazione della normalità e un elogio alla lentezza che ricorda la filosofia zen, ripresa in maniera magistrale da Wim Wenders nel suo ultimo film. Il principio alla base è quello tratto dalla cultura buddhista del saper cogliere la felicità nelle piccole cose, in linea con il concetto di Ikigai molto popolare ultimamente. Termine che, composto da due parole traducibili con “vivere” e “ragion d’essere” o “qualità”, identifica la pienezza esistenziale nella consapevolezza del proprio scopo e nel metterlo in pratica quotidianamente, in un’azione che nello stesso tempo appaga se stessi e contribuisce al benessere altrui.

La seconda installazione video: People, 2010-24, seppur diversa dalla prima, è legata alla mostra dal medesimo cordone ombelicale, per usare le parole dell’artista, che è la potenza dello sguardo. Ovvero, la capacità di cogliere la bellezza attraverso la connessione profonda con ciò che ci circonda. In questo caso, l’opera deriva dal montaggio di una selezione di video brevi, di pochi secondi, in cui l’artista, nel riprendere impercettibili movimenti, è come se offrisse ai visitatori la possibilità di entrare nel suo processo creativo volto a cogliere l’attimo. L’opera esprime quell’esigenza di immediatezza che diventa ancor più urgente nei ritratti, in cui lo scopo dell’artista è quello di riuscire a restituire in video l’espressione del soggetto nell’istante immediatamente antecedente lo scatto.
Tutte le opere di Acerbi, seppur appartenenti a periodi diversi, riconducibili ad un arco temporale compreso tra il 2010 e il 2023, sono in bianco e nero. Una scelta distintiva per l’artista, nonché indispensabile per mettere a fuoco la scena, spogliandola da dettagli chiassosi che rischierebbero di distogliere l’attenzione dell’osservatore dal focus della stessa. La mostra è voluta e prodotta da Alberto de Marinis, esperto ed appassionato d’arte che da anni sostiene e supporta come mecenate l’attività di vari artisti.

In apertura, Riccardo Acerbi, Italia, Milano, 2019

Per fotografare devi vivere.
Ci sono tanti luoghi, tante situazioni, tante persone e tanti volti che trasmettono emozioni.
A volte mi piacerebbe dare una voce a coloro che compaiono nelle foto,
sperando che quella voce arrivi anche a chi guarda le mie immagini.
Io abito a Roma, il volto da me più conosciuto e amato.
La passione e non l’esigenza mi ha sempre accompagnato quando metto la macchina fotografica al collo,
pronto per quell’emozione improvvisa…
Quel momento dello scatto diventa una scena viva, reale
e quando tolgo l’occhio dal mirino sembra già passato tutto,
però io sono ancora lì e al prossimo scatto non ci penso, tanto arriva.
La vita è come un lungo film e il mio ogni tanto si prende una pausa per fermare l’attimo.
Riccardo Acerbi

 

Esseri precari

Qui intorno una volta era tutto un filosofare sulla precarietà poi improvvisamente abbiamo smesso. Solo che i precari sono aumentati, eccome, e il processo di normalizzazione sembra essere perfettamente riuscito. 

Dice l’Istat che sono 3 milioni gli occupati a termine in Italia e sono impiegati in tutti i settori, nel privato come nel pubblico, al Nord come al Sud e al Centro. Secondo le rilevazioni Inps per il settore privato, la retribuzione media annua di una persone con contratto a tempo determinato è di 10.400 euro, il numero di giornate retribuite 155, pari a circa 6 mesi. Sono soprattutto giovani under 35 (il 48,9 per cento), più uomini che donne (52,4 contro 47,6), tra i settori spiccano noleggio, agenzie di viaggio, supporto alle imprese (21 per cento) e alloggio e ristorazione (15 per cento).

Nel settore pubblico i numeri sono spaventosi. 500 mila dipendenti a termine, di cui più di 100 mila nella pubblica amministrazione, dalla sanità alle funzioni locali, 205 mila docenti nella scuola, altri 200 mila lavoratori del settore della conoscenza (scuola, ricerca, università alta formazione). I numeri sono la faccia del disinvestimento nel settore pubblico a discapito dei servizi che andrebbero offerti. 

In cambio ci offrono un’ampia letteratura secondo cui essere precari significherebbe essere smart, imprenditori di sé stessi, perennemente in sfida. La precarietà è bella – vorrebbero convincerci – perché ci permette di rimanere vigili. Così accade che la sanità pubblica preconizzata non riesca a offrire servizi stabili a lavoratori precari che non hanno comunque soldi per affidarsi alle cure private. Bello, no?

Buon venerdì. 

Arte viva e che respira. La mostra di Rothko a Parigi

foto di Amarilda Dhrami

Un veliero grande, imponente, immerso nel verde degli alberi e del prato che lo circonda. Allo stesso tempo questo maestoso veliero si infrange tra le onde. Un’ immagine fuori dal comune e che fa pensare all’impresa di Fitzcarraldo nel voler portare una nave oltre la montagna nell’omonimo film di Werner Herzog. Il visionario sognatore riesce nel suo intento e non possiamo non ricordare la celebre frase del film «Chi sogna può muovere le montagne». Questa immagine però non è di un film, ma è una meravigliosa opera architettonica realizzata dall’architetto Frank Gehry. È la sede della Fondazione Louis Vuitton situata nel sedicesimo arrondissement di Parigi, tra gli alberi del Bois de Boulogne (il “Bosco di Boulogne”).

Fino al 2 aprile 2024 la Fondazione Louis Vuitton ospita una mostra altrettanto meravigliosa dedicata all’artista Mark Rothko. Mostra curata da Suzanne Pagé, Christopher Rothko, François Michaud e Ludovic Delalande, Claudia Buizza, Magdalena Gemra, Cordélia de Brosses. Iniziando il percorso viene da subito voglia di porsi in totale ricettività e di lasciar parlare soltanto l’artista attraverso i suoi 115 dipinti, mettendo a tacere dentro di sé quanto già visto, letto, studiato in precedenza. La mostra infatti si snoda in un racconto completo per immagini della sua vita interiore, un libro sorprendentemente aperto sul percorso di un uomo che ad ogni tela ci grida il suo sentire.

foto di Amarilda Dhrami

L’esposizione è stata pensata in ordine cronologico. Nella prima sala sono presenti una serie di quadri figurativi per lo più ambientati in situazioni urbane, stazione della metropolitana, una strada angusta, l’autoritratto con gli occhi neri che ci presentano un Rothkovitz (Markus Yakovlevich Rothkowitz è il nome originario di Rothko) che si esprime nello stile del tempo. La sala si chiude con una immagine femminile, la rappresentazione di una giovane donna nuda che tiene lo sguardo leggermente abbassato. Ci piace leggere qui il punto di partenza dell’artista alla ricerca di un suo linguaggio intimo che esprime un sentire quasi di ribellione ad una normalità che lo portava verso la china della depressione. Come se volesse parlarci di una ricerca che passa attraverso l’immagine femminile. È il 1938 e sapremo in seguito leggendo la sua storia che anni addietro era andato a trovare un amico all’Arts Students League dove gli studenti erano intenti a ritrarre una modella nuda. Rimase pensoso e capì che quella sarebbe stata la sua strada.

La seconda sala espone il periodo che va dai primi anni Quaranta, periodo surrealista e mitologico fino all’irruzione dell’esigenza di esprimersi mediante forme e colori. “Col passare del tempo – racconta il figlio Christopher Rothko – decise che quei miti erano ancora troppo specifici e si spostò sempre più verso l’astrazione, verso dipinti che, attraverso la loro stessa astrazione, potrebbero toccare una parte di noi. Anche questo è preverbale. Non si tratta di una storia. Si tratta di una comprensione più generale di cosa significhi essere umani”. In questa ricerca di cosa significhi essere umani, Rothko rifiuta la parola astrazione «La mia arte non è astratta, vive e respira». Nel 1944 Rothko si separa definitivamente dalla prima moglie, Edith Sachar, di cui dirà che con lei era “come vivere con un frigorifero”.
Nel 1945 c’è la sua prima mostra in America di venti dipinti presso la galleria Art of This Century di Peggy Guggenheim. Nello stesso anno incontra la sua futura moglie, Mary Alice Beistle, conosciuta come Mell. Arriva il 1946 e con la serie di dipinti conosciuta come Multiforms, il suo stile continua a evolversi e si unisce alla Betty Parsons Gallery, dove esporrà ogni anno fino al 1951.

foto di Fiammenta Nante

Ed è proprio in questo periodo che nasce Rothko, l’espressività artistica e potente con cui lo conosciamo, un nuovo rapporto con una giovane donna, un suggestivo viaggio in Europa, l’inizio dei riconoscimenti. «Quando si realizza un grande quadro si è al suo interno, non si può decidere nulla» leggiamo sui pannelli della mostra.

Dalla sala successiva in poi con i Multiforms è tutta meraviglia, ci avviciniamo alle opere come da lui richiesto, a 45 centimetri di distanza: «in questo modo l’osservatore viene inglobato negli spazi cromatici e apprende il loro movimento interno e la mancanza di limiti esterni ben delineati sia come malessere dinnanzi a quanto non può essere percepito sia come libertà di superare i limiti dell’esistenza umana» (Jacob Baal-Teshuva, Rothko. Taschen 2003).

È difficile descrivere la bellezza di queste opere, il colore qui tocca corde profondissime. Lo stesso Rothko ci dice che negli occhi di uno spettatore insensibile le sue opere non sarebbero nulla. Ed è proprio vero, bisogna lasciarsi andare, spogliarsi di ogni pensiero razionale. Solo così quei colori e quelle forme arrivano nel profondo suscitando emozioni a volte fino alle lacrime.

Ad un certo punto del percorso troviamo a tutta parete la celebre foto di Hans Namuth del 1964 che ritrae Rothko di spalle intento a guardare dentro il suo quadro, forse potremmo pensare, nel desiderio di oltrepassare ogni strato di colore alla ricerca del mondo che c’è dietro: «I quadri, pensava talvolta, erano come paraventi dietro ai quali lui nascondeva il suo essere sé stesso» (Jan Brokken, Anime Baltiche, Iperborea). E poi ancora lo stesso Rothko «I miei dipinti sono in verità facciate. A volte apro una porta e una finestra, altre volte due porte e due finestre».

È in questa sala che si cominciano ad aprire le grandi vetrate curve e si comincia a leggere la struttura dell’edificio che ci ospita. Continuando a salire ci viene offerta la possibilità di una pausa, un tour all’esterno fin sulle terrazze che ci permette di osservare la costruzione in tutta la sua complessità ed il panorama parigino a 360 gradi, dalla Tour Eiffel ai grattacieli della Défense. Ma ciò che imprigiona la nostra attenzione da subito sono queste vele di vetro tenute su da un fitto incrociarsi di travi, questo spettacolare veliero che racchiude l’edificio formato da più corpi candidi detti “iceberg” all’interno dei quali vengono ospitate le mostre, i convegni, gli eventi culturali. Vista da qui è una struttura complessa, impossibile da tener su, se non al prezzo di questa strabiliante talvolta ponderosa foresta tecnologica. L’impressione che ne abbiamo verrà mitigata all’esterno guardando il vascello dal parco, dove le vele si distendono tra la vegetazione confermando le suggestioni che avevamo provato all’arrivo.

Riprendendo il percorso all’interno, troviamo ulteriori opere di Rothko in cui colore e luce assumono toni dal rosso scuro al blu, dai marroni al viola. La sensazione qui è come se l’aria si facesse densa come i colori impressi sulle tele. Si tratta della serie Seagram murals commissionati per il ristorante Four Seasons di New York. L’artista rendendosi conto che in quell’edificio non ci sarebbe stata la giusta atmosfera per le sue opere, decise di rinunciare alla commissione. In un secondo momento le opere verranno esposte alla retrospettiva al MoMa nel 1961 e alcune donate alla Tate Gallery di Londra e al Kawamura Memorial Museum in Giappone.

foto di Amarilda Dhrami

Dopo un’immersione nella serie Seagram murals attende lo spettatore un’altra immersione nel colore, un colore ancora più scuro. In quella della serie Blackforms.
“È proprio con questa serie che Rothko capì che la luce non proviene solo dai faretti posizionati in una stanza per illuminare i dipinti. Realizzò che questa luce, quando l’intensità luminosa circostante veniva abbassata, poteva provenire direttamente dal dipinto stesso. Ed è in quel momento che comprese qualcosa che sarebbe diventato quasi un filo conduttore in tutta la sua opera successiva” racconta Francois Michaud, uno dei curatori.

foto di Fiammetta Nante

Siamo alla penultima sala, quella del suo toccante incontro con Alberto Giacometti. I due artisti si conobbero nell’ottobre 1965 in occasione del grande ricevimento in onore dello scultore le cui opere erano esposte in una personale al MoMa di New York. Rothko aveva iniziato a lavorare alle tele grigie e nere per la cappella De Menil a Houston, Texas (all’interno del percorso è presente anche una riproduzione della cappella) e Giacometti già malato non lavorava quasi più e morirà di lì a pochi mesi. In questa sala della mostra, che ricrea il progetto non realizzato per una sede Unesco, le sculture verticali di Giacometti e i piani orizzontali di Rothko sembrano dialogare, in un silenzio denso e carico di tutto il percorso e dell’epilogo della loro vita di artisti.

«Per noi l’arte è un’avventura sconosciuta in un mondo sconosciuto che solo chi accetta di prenderne il rischio può esplorare».

Nell’ultima sala torna inaspettatamente il colore. Forse è proprio in questo momento che ci arriva una suggestione, quella che le opere dell’artista, quelle più cupe forse non sono state dettate dalla depressione come in molti pensano. Forse sono dettate da una ricerca personale, profondissima. Prendere il rischio dicevamo poco fa, e il suo prendere il rischio di “guardare dove non si è mai potuto guardare” è ben raccontato da Massimo Fagioli in un articolo sulle pagine di Left (Left n° 45 del 9 novembre 2007 “Un ritorno all’immagine”):
“È giunto al colore senza linea e si è ucciso. Era il 1970. La ricreazione della prima immagine mentale è soltanto colore, dice Rothko. Ma tendere al colore puro senza linea ci fa morire. Non ho potuto dirgli che è vero soltanto se la vitalità è senza linea”.

Parole forse un po’ difficili ma che profondamente risuonano bene.

Se sei povero soffri meno degli altri. Parola di giudice

C’è voluta la Corte di Cassazione per rimediare a una spaventosa sentenza secondo cui l’ingiusta detenzione di un senza tetto valesse il 30% in meno di un altro qualsiasi cittadino. Secondo la Corte d’Appello di Milano un senza tetto con una “subalternità culturale” derivante dalla marginalità socio-economica avrebbe sofferto meno degli altri. Secondo il calcolo standard il cittadino ingiustamente detenuto avrebbe dovuto avere 235 euro per ogni giorno di carcere immeritato. Ma i 107.630 euro, sono diventati 75mila. Un taglio del 30% giustificato dalla condizione del ricorrente. Per i giudici d’Appello il prevenuto “almeno per il periodo, in cui fu sottoposto alla misura custodiale, era quella di un uomo che viveva in una situazione di accentuata marginalità socio-economica e di subalternità culturale”. Senza affetti e privo di una abitazione stabile ed è per questo che la corte di merito ha ritenuto congruo tagliare di un 30% l’indennizzo per la carcerazione patita, d’altronde l’aver vissuto in una baracca e l’assenza di un’occupazione “e di rapporti affettivi di qualsivoglia natura”, sono fattori che avevano certamente inciso molto negativamente sulla qualità della sua esistenza. Tutto questo secondo i giudici doveva dunque necessariamente aver mitigato il patimento naturalmente connesso alla carcerazione.

La terza sezione di Cassazione con la sentenza numero 9486/2024 ha rimediato alla sentenza classista parlando di “principio rovesciato”. “Per non parlare – scrivono i giudici – dell’incomprensibile richiamo, pure utilizzato nell’ordinanza impugnata, alla subalternità culturale”.

Buon giovedì. 

La Ue si dota di regole sull’intelligenza artificiale. Basterà?

L’AI Act è passato al Parlamento Europeo con 523 voti favorevoli. L’Ue è la prima al mondo a dotarsi di regole sull’Intelligenza artificiale. È un importante passo avanti. Ma non sufficiente in un mondo globalizzato. Come fare perché l’intelligenza artificiale sia davvero al servizio della società e non del profitto? Ecco alcune riflessioni di Andrea Ventura, curatore del libro Pensiero umano e intelligenza artificiale (L’Asino d’oro edizioni)

Per come si è evoluto in Occidente negli ultimi decenni, il sistema economico va assumendo aspetti che rievocano le prime fasi dell’industrializzazione, quando la crescita dell’industria e dei profitti si associava all’aumento della disoccupazione e della povertà. Fu la miseria della classe operaia inglese dell’inizio dell’Ottocento a spingere i fondatori del marxismo a studiare il sistema produttivo che si stava affermando. I macchinari che sfruttano il lavoro, osserva Marx, sono essi stessi prodotti dal lavoro, dunque sono “lavoro morto” che sfrutta il “lavoro vivo”. Il profitto non ha dunque una giustificazione propria, ma deriva dal lavoro non pagato. Questa denuncia ha segnato due secoli di lotte sociali. Socialisti, socialdemocratici e comunisti, pur negli scontri anche assai aspri che li hanno divisi, hanno dato vita ad un movimento che ha condotto i popoli di tutto il mondo a lottare per i propri diritti. Fu quel movimento che ha portato al miglioramento della condizione umana, non lo sviluppo dell’industria e dei mercati che di per sé, se orientati esclusivamente al profitto, arricchiscono solo quelle ristrettissime élite che controllano l’industria e la finanza. Non sono cioè le tecniche la fonte del progresso, ma l’uso che se ne fa.

Quest’ultima considerazione assume oggi un rilievo particolare. Non vi è campo né attività umana che non sia coinvolto dalla digitalizzazione dei processi. Il valore delle imprese che guidano questa nuova fase del capitalismo è ormai in grandissima parte legato a componenti immateriali quali avviamento, brevetti, licenze, programmi, banche dati. Indubbiamente anche in passato la scienza e la tecnologia erano decisive per il valore dell’impresa, eppure oggi siamo in presenza di un fatto nuovo: il capitale non è costituto soltanto dal “lavoro morto”, come notava Marx, ma, appunto, da elementi che derivanti dal pensiero umano e che producono informazioni. Fin da quando hanno inventato la ruota e utilizzato gli animali per i lavori più gravosi, gli uomini si sono ingegnati per alleviare lo sforzo fisico. Oggi si cerca di sostituire gli esseri umani in ciò che è la loro massima espressione, ossia nel pensiero. Fino a che punto il capitale può essere “pensiero morto”, rendendo superflue quelle funzioni mentali che contraddistinguono gli esseri umani?

Fin dalla costruzione delle prime “macchine pensanti” ci si è chiesti se il risultato di quei processi avesse a che fare col pensiero. Oggi si ottengono risultati così sofisticati che ci si domanda se dalle macchine possa emergere un pensiero e una coscienza simili a quelle umane. Gli studi sull’intelligenza artificiale hanno peraltro alcuni punti di contatto con le neuroscienze, tra cui l’idea che le forme più evolute di pensiero siano prodotte dal superamento di una soglia critica di connessioni neuronali (detta singolarità), cosicché anche le macchine prima o poi arriveranno al pensiero e alla coscienza di sé. Non manca chi prefigura una società post umana dove, a causa di un insieme di fattori quali l’avanzamento tecnologico, la complessità dei problemi da gestire e i limiti della nostra natura biologica, gli esseri umani saranno costretti a delegare sempre più funzioni a macchine pensanti più potenti di noi. Il dominio delle macchine, o il posizionamento nel cervello di componenti elettroniche finalizzate ad aumentare le nostre capacità cognitive, sarebbe l’esito naturale dell’evoluzione della specie.

Per affrontare la questione va ricordato anzitutto, ancora una volta, che l’intervento umano è decisivo nella fase di produzione dei dati, nell’elaborazione dei programmi, nell’addestramento delle macchine, nella correzione degli errori e anche nell’uso che tutti noi facciamo di questi dispositivi, uso che segnala incongruenze, aumenta la quantità di dati e consente ai tecnici di affinarne il funzionamento. Le risorse finanziarie necessarie per queste attività sono ingenti, cosicché il campo è dominato da pochissimi colossi informatici.

È inoltre essenziale un sistema legale che da un lato, grazie al possesso delle infrastrutture, consenta a società private di intercettare le tracce delle attività in rete, dall’altro garantisca il rispetto dei diritti di proprietà sulle tecniche (particolarmente accesa è la competizione tra Stati Uniti e Cina sui chip a maggiore capacità di calcolo) e sui programmi: senza quel passaggio decisivo per il quale il pensiero umano, contro la propria natura, è reso una merce, non vi sarebbe alcun “capitalismo cognitivo”, come talvolta questa fase dello sviluppo capitalistico viene denominata. Oltre alle rendite generate dal possesso di piattaforme ormai essenziali per ogni attività (vedi A. Ventura, L’Unione dei diritti e i padroni digitali, Left, febbraio 2024) il lavoro, la ricerca scientifica e la determinazione di quali diritti meritino una protezione e quali no, costituiscono le componenti essenziali dei profitti di queste grandi società.

Non è chiaro quanto la scommessa secondo la quale silicio e corrente elettrica possano produrre il pensiero sia un elemento di propaganda, e quanto sia invece frutto di confusione intellettuale. Ogni investimento capitalistico è una scommessa sui profitti futuri, ma questa scommessa sembra un po’ azzardata: se essa trova credibilità, l’errore non consiste nelle potenzialità di queste tecniche, indubbiamente enormi, ma sugli esseri umani. Un punto è indubitabile: questi algoritmi devono essere istruiti con estrema precisione, fornendo loro delle regole, o milioni di esempi per l’addestramento, e nessuno ha idea di come l’assistenza umana possa essere rimossa. I programmi di riconoscimento delle figure “imparano” dopo una serie lunghissima di tentativi ed errori. Quelli che generano il linguaggio umano non sono basati sulla comprensione dei testi, ma sul calcolo delle probabilità che a una parola ne segua un’altra, e a una frase ne segua un’altra con un contenuto analogo. Pertanto i testi così prodotti riproducono, senza alcuna comprensione, quanto in media è stato detto sull’argomento, svolgendo un lavoro che in molti contesti è estremamente utile e che può ben essere confuso con quello prodotto da un essere umano, ma che non ha alcun carattere innovativo.

Infine, se non si conosce l’argomento, è facile incorrere in gravi errori: qualche settimana fa ho chiesto a Chat GPT di raccontarmi “la storia dei tre cappuccetti rossi e il lupo” e mi ha risposto che “è una storia popolare di tre cappuccetti rossi, spesso fratelli, che vanno a trovare la nonna malata nel bosco e incontrano il lupo…”. Sebbene errori di questa natura possono essere facilmente corretti grazie all’interazione con gli utenti, si deve essere consapevoli dei limiti di questi processi e delle gravi conseguenze che possono derivare dal loro uso in campi che investono la vita delle persone.

Il punto è che le macchine hanno potenzialità immense per tutti quei problemi che richiedono grandi capacità di calcolo, ma non sono appropriate per riprodurre i processi mentali e per dar conto di come il pensiero comprende la realtà circostante. Il pensiero, infatti, si caratterizza per dimensioni non razionali legate alla sensibilità, alla fantasia e alle immagini, e si sviluppa sulla base di affetti ed emozioni legate al vissuto del soggetto. Esso compare alla nascita come “capacità di immaginare” per la reazione della retina, che è materia cerebrale, allo stimolo luminoso. Il neonato è del tutto alieno alla ragione e al calcolo. I suoi sensi fisici sono imperfetti ed egli vede inizialmente solo luci e ombre, ma queste immagini indefinite hanno un senso profondo legato al rapporto con chi lo accudisce. Solo secondariamente, con la maturazione dei cinque sensi, si sviluppa un rapporto più preciso con la realtà materiale circostante: eppure gli affetti e le immagini dei primi mesi di vita non possono essere annullati, pena la perdita del pensiero stesso. L’importanza delle dimensioni psichiche non razionali dei bambini è riconosciuta da alcuni grandi personaggi dell’arte e della scienza, come ad esempio Picasso e Einstein. Il primo ha affermato di aver impiegato tutta la vita per imparare a dipingere come un bambino, mentre per Einstein la spinta alla ricerca della verità e della bellezza hanno origine nella curiosità e nell’attività di gioco dei bambini.

L’attività umana è caratterizzata da una spinta vitale verso la conoscenza e il cambiamento, non dall’apprendimento meccanico e dalla riproposizione dell’esistente. Dunque non siamo macchine calcolanti, né le macchine possono riprodurre il pensiero, né abbiamo bisogno di chips nel cervello per pensare meglio. L’opposizione a queste idee – indispensabile per un uso delle macchine in funzione del progresso, e non a fini di controllo e sfruttamento – necessita la rivendicazione di una identità umana completa, che ponga in primo piano gli affetti, la creatività e le immagini, e solo in seguito sviluppi la razionalità e il rapporto con l’utile e le cose: in breve, nonostante la cultura dominante affermi il contrario, non è il rapporto con la tecnica che contraddistingue l’umano, ma il valore del rapporto sociale, al quale la tecnica va sempre subordinata.

Concludiamo con un’ultima considerazione. Lo sviluppo economico è stato sostenuto dalla diffusione dell’attitudine alla precisione industriale e dalla crescita dei livelli di scolarizzazione. Un alto livello di istruzione è ovviamente essenziale sia per la progettazione delle macchine, sia per la possibilità che cittadini e utenti facciano uso di quei sofisticati dispositivi che fanno ormai parte della nostra vita quotidiana. Inoltre, come ho già argomentato (Una nuova antropologia per la sinistra, Left, aprile 2023), in tutti i Paesi di vecchia industrializzazione si è avuto un profondo mutamento nel rapporto tra orientamenti politici e livelli di istruzione. In passato le forze conservatrici erano maggioritarie tra l’elettorato più istruito, e quelle che si ispiravano al socialismo raccoglievano le preferenze di quello meno istruito; dagli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la situazione si è ribaltata: l’elettorato più istruito vota prevalentemente a sinistra, quello meno istruito a destra. Nell’insieme, sia per la crescita dei livelli di istruzione, sia per il tipo di sviluppo che caratterizza i settori più avanzati del capitalismo, oggi la dialettica sociale investe aspetti legati alla cultura, all’istruzione, all’informazione, alla scienza.

La sfida odierna è saldare l’eliminazione della sofferenza legata a miseria, malattie e guerre (cioè la soddisfazione dei bisogni di base, purtroppo ancora a repentaglio), con la piena realizzazione dell’identità della nostra specie nei suoi aspetti legati alla realtà mentale e alla socialità. È dunque vitale la ricerca sul pensiero. Affrontare queste questioni è indispensabile per fornire linfa nuova a quelle rivendicazioni che hanno caratterizzato le lotte sociali dei due secoli trascorsi.

I militari Nato sono già in Ucraina?

Non ci ha fatto caso nessuno alla frase pronunciata dal ministro degli Estero polacco Radosław Tomasz Sikorski che in un’intervista a Sky News ha testualmente detto: “In Ucraina sono già presenti militari della Nato. Vorrei ringraziare gli ambasciatori di quei Paesi che hanno corso questo rischio. Questi Paesi sanno chi sono, ma non posso rivelarli. Contrariamente ad altri politici, non li elencherò”. 

Sono parole dal suono simile a quelle del presidente della Repubblica Ceca Petr Pavel che in un’intervista al canale della rete pubblica ha testualmente detto che “dopo l’annessione della Crimea e l’occupazione di parte del Donbass, che fu essenzialmente un’aggressione anche se su scala molto più piccola di oggi, sul territorio ucraino operava una missione di addestramento della Nato, che un tempo comprendeva più di 15 Paesi e contava circa 1.000 persone”. Nessuna novità quindi per Pavel. 

Pochi giorni fa è stata resa pubblica l’intercettazione di una conversazione riservata tra il capo dell’Aeronautica della Germania Ingo Gerhartz e alcuni collaboratori. L’audio, della durata di 38 minuti e risalente al 19 febbraio, riguarda la possibile consegna dei missili a lungo raggio Taurus all’Ucraina. Gli intercettati citano la presenza di soldati britannici, statunitensi e francesi in Ucraina – ufficialmente negata da Londra, Washington e Parigi – per supportare le forze kievane nell’utilizzo dei sistemi d’arma occidentali.

L’Ue con Macron in testa sta discutendo la possibilità di inviare militari Nato in Ucraina. Qualcuno teme l’escalation. Ma siamo sicuri che i militari non siano già lì?

Buon giovedì. 

Nella foto: una stazione di servizio vicino a Kiev dopo un attacco missilistico russo, 7 febbraio 2024

Fine dell’8 marzo

Non si è esaurita l’eco della retorica sull’8 marzo e all’improvviso irrompono i numeri. Scorrendo i risultati delle elezioni regionali in Abruzzo si scopre che sui 31 consiglieri totali, le donne saranno solo tre: meno del 10 per cento. Come sottolinea Pagella politica questo numero è in calo rispetto alle scorse elezioni regionali del 2019, quando le consigliere elette erano state cinque (16 per cento).

Secondo le elaborazioni fatte dal quotidiano sardo La Nuova Sardegna, le consigliere donne elette sarebbero dieci, il 16 per cento circa sul totale dei consiglieri regionali. Alle precedenti elezioni regionali del 2019 le consigliere elette erano state due in meno: otto.

Una legge nazionale del 2004 poi ritoccata nel 2016 impone alle regioni la «promozione delle pari opportunità tra donne e uomini nell’accesso alle cariche elettive». Più nello specifico, la legge stabilisce che se una legge elettorale regionale prevede le preferenze per l’elezione del Consiglio regionale, in ogni lista i candidati di un sesso non possono eccedere il 60 per cento del totale e deve essere consentita l’espressione di almeno due preferenze, entrambe di sesso diverso. Nel caso in cui non siano previste le preferenze, le liste dei candidati devono essere comunque composte da uomini e donne in modo tale che i candidati di un sesso non superino il 60 per cento del totale.

Secondo il World Economic Forum, nel mondo, si è chiuso solo il 22% della differenza tra uomini e donne nel campo della politica. L’Italia si posiziona al 40° posto su 146 paesi, al di sotto della media europea. Dopo le ultime elezioni nazionali, la percentuale di donne in Parlamento si è abbassata al 31%, segnando il primo calo in 20 anni.

Buon martedì. 

La nascita meticcia di Roma

Il destino di Enea era segnato: il figlio della dea Afrodite (Venere) e del mortale Anchise, dopo aver partecipato alla guerra di Troia, fugge con il figlio Ascanio e il padre Anchise che porta con se le cose sacre. Enea che, dopo peregrinazioni, approda nelle coste laziali e darà origine alla stirpe che fonderà Roma, è protagonista del poema l’Eneide di Virgilio,
La storia è nota fin dagli studi scolastici, ma il mito-storia sulla fondazione di Roma è molto complesso e ricco di varianti, come Fabio Vander presenta nella approfondita riflessione filosofica del libro Mundus, Roma o della fondazione, per le edizioni Mimesis, con la prefazione di Miguel Gotor, interamente dedicata a questo tema, con metodo filosofico analizzando tuttavia con piena competenza le fonti letterarie tradizionali e la ricerca archeologica. (E presentato pochi giorni fa a Roma).
Oggetto di studi eruditi e filosofici, oltre che storici, il mito dell’origine di Roma si avvale anche delle ricerche di decenni di scavi sul Palatino con ipotesi che avvalorerebbero quanto è stato tramandato dalle fonti letterarie antiche relativamente all’atto fondativo. Di tutto questo patrimonio di racconti, di intrecci della storia con il mito, l’autore offre una esposizione esaustiva. Il saggio, tuttavia, è costruito essenzialmente sul fenomeno del mito di fondazione e sui contenuti politici e sociali che hanno interessato da sempre il pensiero europeo, come quello dello storico Johann Gustav Droysen sostenitore della tesi che “i due fondatori sono preceduti da una lunga serie di mediazioni”.
La storia ha bisogno del mito che anticipa il pensiero della storia, per la necessità di credere in qualcosa che sia una certezza sulle origini, con una morale in cui riconoscersi; i miti dunque si riferiscono a storie vere e alla realtà originaria, forse dimenticata, non frutto della fantasia di una comunità ingenua, ma prodotto creato con un senso da qualcuno in un determinato momento. Come tale il mito entrerà a far parte del popolo romano come una eredità di cui avrà cura e in cui si identificherà.
Nella fondazione di Roma si individuano elementi comuni a diverse tradizioni, come la discendenza da genitori di alti natali, condizioni del concepimento complesse con l’intervento di un dio nella paternità, l’abbandono, l’elemento dell’acqua, il concetto di fondatore eponimo che da leggi alla nuova città.
Romolo e Remo discendono dalla stirpe di Enea che, giunto nel Lazio, sposa la principessa Lavinia, figlia del re Latino. Il figlio Ascanio fonda una nuova città, Alba Longa dove regneranno i suoi discendenti per numerose generazioni, tali da colmare il divario cronologico dal periodo successivo alla distruzione di Troia (XII sec.a.C.) fino alla data della fondazione di Roma (VIII sec. a.C.). Il re Numitore vede il trono usurpato dal fratello Amulio e la figlia Rea Silvia costretta a diventare Vestale, senza quindi la possibilità di una discendenza Il dio Marte, però, invaghitosi della fanciulla, la possiede con violenza e dall’accoppiamento nascono i due gemelli che sopravvivono alla morte prevista, raccolti da un pastore nelle acque del Tevere e allattati da una lupa. La tentazione di raccontare le diverse redazioni di questo mito-storia deve lasciare il posto alla esposizione che l’autore ne fa senza trascurare dettagli e versioni, ma entrando nel cuore di Roma, città unica al mondo perché così era segnato dal destino, fin dai primi passi che avvicinavano alla sua fondazione.
Il mito-storia ha un impulso nell’età di Augusto quando Roma è ormai il centro politico del mediterraneo e il princeps, nel porre mano alla riorganizzazione della struttura amministrativa, sociale, religiosa, ne fa uso per nobilitare i propri natali divini per discendenza da Venere e Marte, legittimando così la propria posizione, per ottenere il consenso e assegnare ragioni culturali al suo dominio sul mondo. Le principali fonti letterarie antiche che trattano della fondazione sono infatti quelle che risalgono alla prima età imperiale, come l’Eneide di Virgilio, gli Annali ( o Ab urbe condita) di Tito Livio e le Antichità romane di Dionigi di Alicarnasso.
I miti della fondazione entrano nell’iconografia. Numerose sono le rappresentazioni del mito e delle figure che ne fanno parte nei monumenti di epoca imperiale e anche successivi, con scene di battaglia tra le popolazioni del Lazio, il salvataggio dei gemelli nella cesta sul Tevere, occultato per anni, o con le divinità protettrici che si trovano su monumenti ufficiali, come l’Ara Pacis Augustae o privati, come il fregio dipinto di una tomba dall’Esquilino nel Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo.
E’ stato giustamente affermato il primato del mito sulla storia poiché non è destinato ad essere superato in una fase successiva. Romolo e Remo rimandano a una preistoria di cui non avremo mai la prova ma di cui il mito garantisce verità storica.
Roma fu fondata con un solco circolare tracciato da Romolo con l’aratro a partire da un centro detto Mundus, come scrive lo storico Plutarco nella Vita di Romolo; nel Mundus ognuno dei compagni getta un pugno della propria terra di origine. Roma nasceva come centro del mondo. Secondo un’altra tradizione la città aveva pianta quadrangolare divisa in quattro parti dalle due vie principali, ma questa versione apre altre ipotesi e comunque non muta la sostanza della fondazione. Romolo avrebbe dunque compiuto i riti necessari per “ufficializzare” la fondazione della città, tracciando con un aratro i suoi confini sacri, poi fortificati con l’elevazione di un muro difensivo, e organizzando la comunità di pastori in un gruppo civico. Il centro di Roma nasceva come centro del mondo. Nel solco Romolo lascia libere le porte, Roma nasce come città aperta, inclusiva e se ne spiegano le ragioni nelle origini fondative e di accrescimento della popolazione. Roma è nata e si è sviluppata grazie alla fusione e alla integrazione di gruppi umani differenti, asilo e rifugio per reietti, città promiscua, che cresce accogliendo gli stranieri e i vinti, concedendo la libertà agli schiavi, dove mescolare il sangue non è un tabù, ma una virtù: così appare Roma ai suoi albori attraverso i luoghi della memoria e i miti di fondazione. Così i Romani costruirono la propria “identità” civile e politica con una costituzione “aperta”, che si esprime nella capacità di accogliere e integrare lo straniero. Si poteva nascere Romani, ma, cosa ben più importante, lo si poteva diventare. Dionigi di Alicarnasso (I sec d. C.) al riguardo ricorda Roma come “la più accogliente e la più umana delle città”.
Romolo procura patria, famiglie donne alleanze, ingloba popolazioni preesistenti, da un coacervo eterogeneo riesce a trarre un insieme unitario, secondo un sistema politico.
Il saggio di Fabio Vander si conclude con le riflessioni del filosofo Michel Serres che si interroga sulle origini della vita collettiva a partire dall’opera di Tito Livio, gli Annali o Ab Urbe condita, dalla fondazione di Roma: “Roma non smette mai di essere fondata”, la fondazione non è solo un atto originario, è la “normalità” di Roma.

Fabio Vander, autori di vari libri, ha studiato Filosofia e Scienze politiche e lavora presso il Senato della Repubblica.

Rita Paris,archeologa e già direttrice del Parco dell’Appia antica è presidente dell’Associazione Bianchi Bandinelli 

Test Invalsi, non solo contro i diritti degli studenti ma anche contro il Sud

Recentemente Flc-Cgil, Usb Scuola, Cobas, e altre associazioni, hanno avanzato un “reclamo” al Garante della Privacy, per il pericolo, gravissimo, che i risultati dei test Invalsi, obbligatori e da allegare al curriculum dello studente, (secondo il Dl 19 del 2 marzo ndr)  anche insieme con il diploma di maturità, possano essere resi noti o comunque noti ad alcuni (scuole, ministeri, e altri). Il problema è serio. I test Invalsi sono nati per dare indicazioni “nazionali”, non sono e non devono essere test per valutare i singoli studenti. Lo studente, inoltre, non ha nessuna difesa: non sa perché è stato giudicato in un certo modo (in maniera “automatica”, peraltro); non può sapere se/dove/cosa ha sbagliato; non potrà mai (così sembra) cancellarsi di dosso un eventuale bollino di insufficienza o di “fragilità”, come si chiama.

Ancora. Ci sono studenti, in genere al Sud, con voti di maturità alti o molto alti, a fronte di generalizzati insufficienti risultati nelle prove Invalsi. Qualcuno “ha stabilito” che i voti più veritieri siano quelli ottenuti alle prove Invalsi. Chissà perché? Non c’è motivazione alcuna. Senza neanche un dubbio, una riflessione, in genere si stabilisce, in sequenza: i test Invalsi misurano bene la qualità degli studenti; gli studenti del Sud non possono che essere meno bravi di quelli del Nord; gli insegnanti del Sud premiano incapaci (familismo amorale); è una ingiustizia. Autorevoli esperti (Bianchi, Latempa, Viesti) si spendono contro questa narrazione. Qualcuno si è chiesto: non potrebbero essere davvero bravi gli studenti del Sud? Io, in aggiunta, mi chiedo: un voto più “basso” perché dovrebbe essere garanzia di maggiore “severità” e addirittura di maggiore “qualità” complessiva?

Un ex-presidente Invalsi, l’autorevole pedagogista Benedetto Vertecchi, sostiene che la valutazione di uno studente è tanto altro, non certo il saper rispondere a quiz, solo su tre “materie”, per giunta. Eppure, puntuale, la levata di scudi di soliti moralizzatori, Fondazione Agnelli, politici e amministratori di tutte le regioni del Nord, che chiedono “giustizia” per i “loro” studenti, che verrebbero così danneggiati in concorsi, premi, scelte di università, e altro. La tesi, sinteticamente, è che se gli studenti del Sud hanno voti più alti nella maturità, e quelli del Nord ottengono risultati migliori nelle prove Invalsi, le valutazioni degli esami di Stato non sono veritiere poiché poco attendibili al confronto con l’affidabilità di prove standardizzate, uguali in tutta Italia. Io però mi chiedo: perché il presunto differenziale negativo di preparazione non viene utilizzato, come dovrebbe essere, per sostenere la necessità di politiche scolastiche perequative, che significherebbe più attenzione e più risorse al Sud?

Al contrario, adesso ci si muove in direzione opposta a quella ragionevole ed intelligente di far “avanzare” chi eventualmente è più indietro. Con le oscene richieste di autonomia differenziata delle regioni “ricche” del Nord, per la Scuola in particolare si sta chiedendo in maniera «eversiva» che il gettito fiscale locale rimanga nelle disponibilità della Regione: chi più ha, avrà ancora di più, a svantaggio della perequazione nazionale prevista dalla Costituzione.
Nel Sud per rafforzare la fiducia degli studenti nei confronti dell’istituzione scolastica non è facile puntare su strutture attraenti come avviene in molte scuole del Nord. E per loro il contrasto alla dispersione scolastica è vitale, come tutte le lotte alle illegalità che si combattono quotidianamente al Sud. La scuola resta un baluardo di democrazia e di legalità, oltre che di conoscenza. Questo lo misurano i test Invalsi?

«I test standardizzati non possono misurare l’intraprendenza, la creatività, l’immaginazione, il pensiero concettuale, la curiosità, lo sforzo, l’ironia, il giudizio, l’impegno, o una serie di altre tendenze e attributi preziosi. Ciò che essi misurano e considerano sono abilità isolate, fatti e funzioni specifiche, cioè gli aspetti dell’apprendimento meno interessanti e meno significativi» (Ayers).
Alcune forze politiche si stanno muovendo, insieme con i sindacati, su questi temi. Credo che il Pd innanzitutto, ed i partiti e movimenti di sinistra, democratici, progressisti, i sindacati, debbano farsi coinvolgere, e non possano far mancare la propria voce, di netta condanna dei test Invalsi (è partita anche una petizione su Change ndr), e specialmente dell’uso (di “schedatura”, e/o di utilità per aziende private, o per il governo) che se ne vuole fare.

L’autore: Giuliano Laccetti è ordinario Università degli Studi di Napoli Federico II

Quell’anaffettività che uccide silenziosamente. Il geniale film di Glazer

In occasione della Giornata della memoria 2025 torna nelle sale fino al 29 gennaio il film La zona d’interesse di Jonathan Glazer. Qui la recensione di Giusi De Santis pubblicata per l’uscita del film. 

Vincitore del premio Oscar per il miglior film internazionale e per il miglior sonoro –  dopo il gran premio speciale della giuria al Festival di Cannes e numerosi altri premi, tra i quali tre Bafta (miglior film britannico, miglior film in lingua non inglese, miglior sonoro) – La zona d’interesse è un’opera potente e imprescindibile che, già nel primo weekend di proiezioni nelle sale italiane, aveva ricevuto un importante riscontro da parte del pubblico, conquistando il secondo posto al box office.
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, La zona d’interesse (Einaudi) è la storia di una famiglia tedesca apparentemente normale che vive una quotidianità cadenzata e priva di particolari slanci. Ma la loro casa, immersa in uno scenario bucolico e lussureggiante alla periferia di Oświęcim, in Polonia, è collocata al confine con il campo di concentramento di Auschwitz, di cui Rudolf Höss (Christian Friedel) è il comandante. La luminosa serenità che sembra pervadere gli spazi è, in realtà, un agghiacciante contraltare di quanto accade dall’altra parte del muro, a pochi passi dall’artefatto e idilliaco ritratto familiare.

Glazer racconta, nel suo ultimo film, una delle pagine più buie e drammatiche della Storia, con uno sguardo estremamente scientifico, evitando – come afferma lo stesso regista – il ricorso a qualsivoglia artificio cinematografico. «Hanno disposto le macchine da presa in tutta la casa. Alcune erano nascoste, altre visibili. Ma non c’erano operatori… Sapevi in ogni istante di essere solo con la storia, con tutti gli oggetti che si trovavano in quella casa»: è quanto riporta, dell’esperienza sul set, Sandra Hüller (anche protagonista del film Palma d’oro al Festival di Cannes, Anatomia di una caduta di Justine Triet) che nel film interpreta Hedwig Höss, apostrofata amorevolmente dal marito come “la regina di Auschwitz”. Sarà proprio la donna, alla notizia del trasferimento di Rudolf, a voler proteggere, con meticolosa ostinazione, quell’illusorio e perfetto equilibrio, decidendo di restare, insieme ai cinque figli, nella loro abitazione. D’altronde, i bambini possono godere di “aria sana” e vivere in una casa che rappresenta, per i coniugi Höss, tutto ciò che hanno sempre desiderato.

L’efficienza del comandante nazista e dei suoi collaboratori, nel progettare e nel rendere più agevole e veloce l’operazione di sterminio degli ebrei deportati nei campi di concentramento, attraverso un complesso sistema di forni crematori ad anello, denota una totale e inquietante perdita di affetti. Nulla di umano trapela dalle loro parole, incapaci come sono di cogliere nell’altro l’umanità perduta: la loro impossibilità a ‘vedere’ reifica gli esseri umani, che divengono oggetti, carico da trasportare, pezzi da eliminare.
In questa straniante e ipnotica realtà – nella quale punire gli ufficiali delle SS che, cogliendo fiori di lillà da un cespuglio minano il decoro del campo, diviene una questione di primaria importanza -, colpisce l’irrequietezza del cane nero che si aggira per casa e che, percependo istintivamente il pericolo, sembra richiamare costantemente l’attenzione delle persone intorno: forse qualcuno al di là del muro ha bisogno di aiuto, di essere salvato.
L’area di quaranta chilometri quadrati immediatamente circostante il campo di concentramento di Auschwitz, chiamata ‘zona d’interesse’ (Interessengebiet in tedesco), nasconde, dietro l’apparente e distopica consuetudine, orrori e insidie, ben rappresentati dagli interni labirintici della casa – dove le porte delle stanze vengono metodicamente chiuse, come le luci spente, prima di andare a dormire – e dai suoi lunghi sotterranei.
Protagonista indiscusso del film è il fuoricampo, di cui viene continuamente evocata, attraverso lo straordinario utilizzo delle composizioni sonore a
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, l’ultimo film di Jonathan Glazer è
Liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, l’ultimo film di Jonathan Glazer è a cura di Mica Levi con Tarn Willers e Johnnie Burn, la connotazione orrorifica.

Accentuata e sostenuta, a livello visivo, dalla fotografia di Łukasz Żal e dalla scenografia di Chris Oddy, dove a prevalere è una perturbante nitidezza delle immagini, così come il candore del bianco, e delle sue tonalità, che caratterizza i costumi. Una disarmante normalità, colta nei suoi aspetti più inquietanti e, a tratti, grotteschi: la cura minuziosa dei fiori e dei prodotti dell’orto, ma soprattutto l’uscita dalla casa per recarsi a scuola o in ufficio, anticipata dal gesto ordinario dell’apertura del cancelletto che ricorda, nella sua ripetitiva ritualità, la realtà alterata di The Truman Show di Peter Weir. Solo le scene in negativo in cui compare una ragazza che, in bicicletta, si reca nei luoghi antistanti il campo per nascondere mele nel terreno, sembrano voler restituire calore e profondità all’essere umano. È la storia di Alexandria, un’anziana donna polacca che Glazer incontra durante le riprese del film e che, all’età di dodici anni, aveva preso parte alla Resistenza.

Mediante un linguaggio assolutamente innovativo, una originale grammatica filmica, Jonathan Glazer esibisce una modalità di rappresentazione che sembra delegare allo spettatore le risposte agli incalzanti interrogativi disseminati nella messinscena. Già nel precedente film, il distopico Under the Skin (2013) – tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber – Glazer mostra un’attenzione alla sperimentazione visiva e, al contempo, ai contenuti, sapientemente seminati nel sotto testo del racconto e nella composizione stessa delle immagini. Un’inedita rappresentazione dell’anaffettività.
È attraverso un’ellissi temporale che Glazer mostra, nel finale de La zona d’interesse, i luoghi di Auschwitz, divenuti nel frattempo un museo, dove, addetti alle pulizie sono intenti a lucidare vetrine contenenti scarpe e oggetti appartenuti ai deportati. Di nuovo, una rituale normalità.
Un’opera necessaria, assolutamente da vedere. Un film che il premio Oscar Alfonso Cuarón ha definito ‘il film del secolo’.

Qui il trailer