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Umanità senza diritti?

Eleonor Roosvelt, Dichiarazione dei diritti umani

La Dichiarazione universale dei diritti umani ha 75 anni e non li porta bene. Varata a Parigi dalle Nazioni unite grazie al determinante impulso di Eleanor Roosevelt nel clima di speranza che seguiva gli orrori della seconda guerra mondiale, quel nobile documento ha incontrato in fase attuativa molte difficoltà alcune delle quali sembrano ancora oggi insormontabili: quanto avviene in Ucraina, in Iran e da ultimo a Gaza non è che la sanguinosa emergenza di una negazione dei diritti della persona che ha radici profonde quanto diffuse.
Lo certifica autorevolmente anche l’ultima rilevazione di Amnesty International: il Rapporto 2022-2023 sulla situazione dei diritti umani nel mondo ci dice che in 156 Stati, sui 200 che si spartiscono il mondo, il riconoscimento dei diritti fondamentali della persona è ancora un miraggio.
Cosa si può fare al di là della denuncia, della testimonianza, dell’esecrazione? Proponiamo l’inserimento della Dichiarazione universale dei diritti umani delle Nazioni unite nella costituzione italiana e negli statuti dei partiti politici. Una proposta semplice, forse utopistica ma in qualche misura “eversiva” in un clima generale che anche in Italia vede progressivamente sbiadire le ragioni ideali, le radici valoriali e l’impegno civile che erano stati bandiera e cemento, nel secondo dopoguerra, della Carta costituzionale, degli statuti e dei programmi dei partiti democratici e della “buona politica”.
Potrà un’iniezione di Human Rights restituire la Politica alla politica? Ne abbiamo discusso il 14 dicembre, dalle 11, nella Sala Matteotti di Palazzo Theodoli, con Vittorio Pavoncello, Felice Besostri, Furio Colombo, Valentina Fabbri, Giorgio Fabretti, Angela Scalzo Giada Fazzalari, Roberto Morassut e Francesco Verducci.

Propongo qui ai lettori di Left qualche riflessione per approfondire e agire insieme a partire da quanto ho scritto  sul numero della rivista tempo presente che presentiamo in questa occasione:

Ciò che parrebbe ovvio in nome della civiltà e di valori universalmente asseriti − ovvero proclamati, il che non vuol dire riconosciuti e tantomeno attuati − assume, oggi e in Italia, il sapore di una provocazione, e ciò per almeno due motivi. Il primo è costituito dalla naturale refrattarietà a una più stringente regolazione del sistema dei principi e dei valori che regolano la vita civile del Paese e che indirettamente incidono anche sul sistema della rappresentanza, che peraltro da tempo versa in una crisi ormai quasi preagonica; il secondo è che forse una simile proposta assumo un sapore idealistico se non addirittura velleitario: un “bella proposta” come tutte le iniziative che tentano di colmare il vallo che, sempre più profondo, si va scavando tra istituzioni e cittadini, tra sistema e paese reale, tra rappresentanti e rappresentati.
Sul tema dell’inserimento della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Umanità varata dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 1948 nella Costituzione della Repubblica italiana non ci si dilunga, in queste rapide riflessioni, se non per segnalare che in un passato non troppo remoto tentativi più o meno nobili di modificare la Carta costituzionale con l’introduzione di norme e principi in grado di modificare l’esistente sono state accolte con tepore, o addirittura clamorosamente bocciate alla prova referendaria prevista dall’articolo 138. Sul punto si possono tuttavia segnalare due interessanti e relativamente recenti esperienze che hanno fatto registrare un esito positivo: dapprima l’ingresso in Costituzione della tutela dell’ambiente e degli animali (con la modifica dell’art. 9); poi l’ancor più di recente riconoscimento del diritto di accesso allo sport, con la modifica dell’art. 33. È peraltro assodato che siamo un popolo di sedicenti sportivi e perciò stesso è risultato più facile contemplare l’attività sportiva tra i diritti facenti capo alla persona umana che non ragionare seriamente sul livello di attuazione dell’art. 3 della Costituzione, essendo più facile parlare del benessere psicofisico che non del riconoscimento assoluto della dignità della persona. Il concetto di fitness risulta più concreto e familiare che non quello di umanità.
E tuttavia, a 75 anni dalla sua entrata in vigore, la Costituzione repubblicana è tuttora un cantiere aperto e possiamo ancora confidare che, nel costante e irrefrenabile divenire dei principi e delle istituzioni, la lettera e i valori degli Human Rights possano un giorno trovare una degna collocazione della nostra Carta.

Ma se la Carta costituzionale resta ancora, nonostante tutto, «il maggior collante di cui il nostro Paese può disporre per il suo futuro» (Cheli) il terreno sul quale si muovono quei particolari istituti che sono i partiti politici è, notoriamente, più sfuggente, quando non impervio o limaccioso. E non è un caso che a periodi ricorrenti il dibattito intorno all’articolo 49 della Costituzione riprenda vigore: è accaduto nella seconda metà dello scorso secolo, quando ancora la Repubblica dei partiti viveva la sua stagione più florida e la forma-partito tradizionale incarnata dai grandi partiti di massa sembrava inattaccabile dall’acido della storia; accade ora, in una stagione nella quale gli istituti della rappresentanza sono da tempo in crisi e la liquidità sociale ha ampiamente corroso tutti i corpi intermedi.
Non è questa la sede per ragionare esaustivamente dei motivi che hanno indotto i Padri costituenti a una formulazione così sfuggente di un istituto, il partito politico, che pure già allora costituiva il presupposto e il cemento della giovane democrazia repubblicana. Basterà qui ricordare che sul punto si sono confrontati giuristi e politici di straordinario spessore: da Lelio Basso a Costantino Mortati, da Umberto Merlin a Pietro Mancini, da Aldo Moro a Palmiro Togliatti. Il risultato di quella complessa e faticosa mediazione è stato la formulazione, tra le più vaghe adottate dai Costituenti, che oggi ben conosciamo: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale». E merita qui ricordare che non poche voci, anche autorevoli, chiesero all’epoca di non costituzionalizzare la questione.
Ma se pure è innegabile che tutta la Costituzione italiana è frutto di un compromesso − compromesso evidentemente “alto”, nato dalla convergenza delle grandi tradizioni democratiche socialista-comunista, cattolica e liberale che riannodarono i propri rapporti politici ed istituzionali nella prima stagione post-fascista (Amato) − è anche vero che questo testo è assai lontano da quello che in sottocommissione fu in un primo tempo formulato da Merlin e Mancini, che così recitava: «I partiti hanno diritto di organizzarsi in partiti politici che si formino con metodo democratico e che rispettino la dignità umana, secondo i principi di libertà ed uguaglianza. Le norme per tale organizzazione saranno dettate con legge parlamentare». Se l’Assemblea avesse approvato tale formulazione, probabilmente l’innesto dei diritti umani nell’atto costitutivo delle formazioni politiche sarebbe già avvenuto. Ma la storia non è esercizio ipotetico.
Ci troviamo così, da 75 anni, a confrontarci con un partito politico che ha le connotazioni tipiche delle associazioni di persone con comunanze di idee e ideologie: un conglomerato di valori e di strutture organizzative che, legato dal cemento di un simbolo e di un apparato, opera per determinare l’indirizzo politico del Paese come strumento di collegamento tra i cittadini e lo Stato ovvero, al pari dei sindacati, come una di quelle strutture che l’articolo 2 della Costituzione identifica come «formazione sociali». Il presupposto che ha mosso i Costituenti − lasciare libertà di azione ai partiti politici al fine evidente di evitare che fossero assoggettati al controllo da parte dello Stato o di chi potesse in qualche misura minarne la libertà di azione – ha comportato che la loro disciplina, come nel caso dei sindacati, fosse quella degli “enti di fatto”, per cui il partito è disciplinato dal codice civile, laddove fa riferimento alle “associazioni ricreative e culturali”. E sul carattere “ricreativo” dei (o di alcuni) partiti si potrebbero fare considerazioni che qui omettiamo.
Né ci addentriamo nella considerazione di quanto tali “libere associazioni” trovino, a livello costituzionale, un limite nel riferimento al «metodo democratico»; non è questo, in verità, l’unico limite, giacché la disposizione dell’articolo 49 si combina con quelle degli articoli 18 e 98: il primo è quello che proibisce le associazioni segrete; il secondo, al comma 3, prevede limitazione al diritto di iscrizione ai partiti politici per alcune categorie di cittadini che svolgano attività istituzionali di particolare responsabilità. E anche su quest’ultimo punto, non c’è bisogno di sottolinearlo, la discussione rimane vivace, alimentata com’è ancora oggi da discussi eventi di cronaca e da discutibili fenomeni di sliding doors.
Al netto di tutto ciò, il partito politico moderno è − o almeno sino a poco tempo fa era − assolutamente coessenziale agli ordinamenti democratici di massa come con diversi accenti è stato teorizzato, da fine Ottocento ad oggi e solo per citare pochi nomi, da Mill, Schmitt, Ostrogorski, Michels, Duverger e Sartori. Nel secondo dopoguerra tutte le grandi democrazie europee si sono ricostruite sul sistema dei partiti, e tale processo di State building è stato particolarmente significativo laddove l’esperienza pregressa era stata di natura totalitaria: in particolare in Italia, dunque, dove in modo particolarmente evidente l’ordinamento si è trasformato dallo “Stato partito” allo “Stato dei partiti”.
Eppure, dei partiti − della loro struttura interna, delle loro modalità operative, delle loro strutture organizzative, dei meccanismi di rappresentanza e di cooptazione, della coerenza dei loro comportamenti con le ideologie di riferimento − si è parlato assai poco al di fuori dei dibattiti tra costituzionalisti e tra politologi. Il tema del partito ha conosciuto una certa popolarità e riscaldato gli animi solo in occasione dei due referendum del 1978 è del 1993 sul finanziamento pubblico. Gli anni tra il 1992 ed il ‘93, poi, hanno registrato una crisi di sistema tanto radicale e irreversibile da travolgere la forma-partito e le strutture consolidate dei grandi partiti di massa. Senza dimenticare che già nel 1989 la caduta del muro di Berlino aveva trascinato con sé, tra i calcinacci della Storia, ideologie e certezze, bandiere e apparati.
Da allora in poi movimentismi, leaderismi, populismi, sovranismi hanno contribuito alla nascita e all’affermazione di nuova realtà che gestiscono il consenso (e il potere) quasi rifuggendo dal termine partito. Archviato il «fattore K», dimenticati i partiti di massa, disciolti i “partitini”, tutto ormai scorre assai veloce: veloci i successi, rapidi ormai pure i declini e in generale fuggente anche il consumo di politica. Nascono così nuove formazioni politiche che germinano e aggregano sulla base di slogan di immediata presa, di un linguaggio diretto e semplificato: i nuovi protagonisti della politica hanno sostituito le ideologie con le parole d’ordine, il consenso con i like, le speranze con le paure.
Quando il partito sopravvive − e non è sostituito da influencer, da staff, da consultant, dai “cerchi magici” − stenta a darsi uno statuto ideale, oltre che formale. Quel tanto di «metodo democratico» che residua dal richiamato dall’articolo 49 ha abbandonato da tempo le bandiere, i valori le “visioni” e si avvita ormai inesorabilmente sulle procedure interne, sugli aspetti tecnico-decisionali attinenti alla elettività degli organi dirigenti, sui metodi deliberativi che definiscono l’interazione tra iscritti e quadri, sui meccanismi di delega che afferiscono alla gestione, sull’organizzazione degli organi di garanzia e di giustizia interni, sull’equilibrio generale degli organi collegiali, sulle anagrafi degli iscritti, sulle garanzie delle minoranze e anche, non da ultimo, sui processi di formazione delle candidature.
La democrazia dei partiti stenta a diventare democrazia dentro i partiti. I loro statuti sono sempre più autoreferenziali e prescrittivi, ordinati da una rigorosa burocrazia interna che trasforma organizzazioni che dovevano essere fucine di consenso e laboratori di strategia politica in grandi apparati burocratici che crescono in complessità e perdono in consenso. Svuotati di dibattito e di strategia, i partiti descritti dai lori statuti sono oggi prevalentemente strumenti di regolazione di un potere interno che ambisce a proiettarsi verso l’esterno, organi di bilanciamento tra correnti e gruppi di pressione, di distribuzione delle scarse risorse rivenienti dalla legge, di assegnazione di incarichi. Il malessere, peraltro, non è solamente italiano: il calo di consenso nei confronti delle formazioni tradizionali è diffuso in buona parte dell’Occidente e va di pari passo con il costante declino dell’affluenza alle urne. La stessa Unione europea non sfugge a questa logica: il Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel 2009, poneva (art. 17, co. 7) il tema della rdefinizione dei “partiti europei” e del loro ruolo nella rappresentanza sovranazionale, ma è difficile sostenere che il Parlamento europeo sia da allora divenuto quella agorà sovranazionale, quella palestra di partecipazione, quel luogo di esercizio della sovranità transfrontaliera dei cittadini europei che era nell’intenzione dei fondatori dell’Europa unita.
Un esempio può risultare significativo della deriva intrapresa. Dopo un ampio e controverso dibattito interno, l’assemblea nazionale del Partito Democratico ha di recente varato − il 21 gennaio 2023 − il nuovo Statuto, modellato sulle più attuali e più politically correct linee di tendenza in materiale associazione politica. Rappresenta, quel testo, certamente un punto di riferimento importante: un’efficace guida alla gestione di un partito moderno, uno schema rigoroso e preciso dell’organizzazione interna di un partito che ha radici ideali grandi e profonde (oltre che “diverse”) e una mai rinnegata vocazione di governo. Si compone, quello statuto, di 55 articoli ciascuno dei quali è suddiviso in commi e sotto commi; il testo è a sua volta ripartito in più «Capi» il primo dei quali, quello che come si diceva un tempo «dà la linea», porta il titolo Principi e soggetti della democrazia interna.
L’articolo 1, comma 2 due così recita: «Il Partito Democratico è un partito antifascista che ispira la sua azione al pieno sviluppo dell’Art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana». Segue, al comma 4, un fugace accenno alla natura federale dell’organizzazione e gli agli articoli 2, 49 e 51 [accesso alle cariche elettive] della Costituzione; al comma 6 si legge, infine, che il PD «promuove la partecipazione politica delle giovani donne e dei giovani uomini, delle cittadine e dei cittadini dell’Unione Europea residenti ovvero delle cittadine e dei cittadini di altri Paesi in possesso di permesso di soggiorno, garantendo pari opportunità a tutti e a tutti i livelli».
Punto. Quanto a politica, abbiamo finito. Tutto il resto riguarda; cariche e candidature; organi centrali e periferici; «composizione, modalità di elezione e funzione degli organismi dirigenti nazionali»; struttura organizzativa e articolazione sul territorio; «principi generali per le candidature e gli incarichi»; strumenti di partecipazione e formazione politica via web (!); conferenze e commissioni nazionali; principi della gestione finanziaria; procedure degli organi di garanzia e, infine, le ineludibili «norme transitorie e finali».
Non c’è, francamente, di che far vibrare i cuori; né, leggendo lo statuto, si avverte il calore, o anche soltanto il tepore del Sol dell’avvenire. Si opporrà − e anche a ragione − che uno statuto non è un manifesto politico e che fissare con puntualità e diligenza le regole di funzionamento di un organismo politico è comunque garanzia di un corretto esercizio della democrazia interna. Tutto vero, ma la lettura ricorda terribilmente quella di un regolamento di condominio. E, in fondo, tale è.
Resta il fatto che su 55 articoli e quasi 50 pagine di testo appena 5 righe − tre commi − riguardano la dimensione valoriale, programmatica e ideale del partito; quella, per intendersi, che un tempo si chiamava ideologia. Quella, vale ricordarlo, che un tempo generava consenso (o dissenso), che cementava la militanza, alimentava il sentimento di appartenenza e definiva il profilo identitario di una forza politica.
E tuttavia, nonostante ciò, i partiti − pur nella loro fragilità e nella persistente ambiguità del profilo istituzionale e sostanziale, sempre a metà strada tra associazione e istituzione − restano attori necessari, non aggirabili delle politiche e del balance costituzionale, anche se strutturalmente sempre soggetti a una questione di legittimazione (Bonini). Una legittimazione che non può venire soltanto dal carisma del capo, ma dev’essere (ri)costruita sul piano dei contenuti e dei valori.
Potrà un’iniezione di Human Rights restituire la Politica alla politica?

 

L’autore: Alberto Aghemo è presidente della Fondazione Matteotti 

Foto in apertura: Di FDR Presidential Library & Museum – https://www.flickr.com/photos/fdrlibrary/27758131387/, CC BY 2.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=82568079

Niccolò Nisivoccia: Non siamo monadi, recuperiamo la dimensione collettiva

A chi si è arreso a una politica come forma di mera amministrazione tecnica dell’esistente, spesso connotata da una dose copiosa di crudeltà quale esito indiscutibile di un individualismo volto soltanto all’autoconservazione, Niccolò Nisivoccia ha indirizzato Il silenzio del noi (Mimesis 2023, pp. 90, euro 18). Pamphlet a cui, peraltro, è stata anche intitolata l’ultima edizione del “Piccolo Festival della Fiducia” di Pisa. Il poeta e giurista ha declinato il silenzio nelle sue implicazioni politiche prima ancora che esistenziali: dalla frantumazione del vivere comune all’essere rinchiusi dentro le rispettive monadi, dal non essere più capaci di sporgersi fuori e verso gli altri alla conseguente progressiva scomparsa di una dimensione sociale e collettiva della res publica. Tuttavia la consapevolezza e l’umiltà di rivolgersi di continuo a chi per anni ha studiato e pubblicato a riguardo, basti pensare a Christopher Lasch e Tony Judt, non sono venute meno. Nisivoccia, ha lasciato un seme nelle mani dei lettori, partendo dal presupposto che per contribuire a un discorso corale, per tenerlo vivo e presente, ciascuno possa e debba fare la propria parte con la propria capacità critica. Ma perché tensione politica e indagine esistenziale dovrebbero sempre coincidere?

Perché la politica non dovrebbe occuparsi di altro che delle nostre esistenze. E sia il “noi” sia il “silenzio” sono due facce di una stessa medaglia: il “noi” come soggetto, in primo luogo, nel senso di un punto di vista silente, scomparso completamente dai nostri orizzonti, dai nostri pensieri, dal nostro lessico. È stato annientato e sostituito da un io che definire individualista sarebbe riduttivo: si tratta di un io onnipresente, oramai dispotico, quasi tirannico. Poi il “noi” come oggetto, in secondo luogo, quale elemento costitutivo del silenzio stesso.

Però rifugge l’accezione dell’isolamento e dell’incomunicabilità, auspicando quella del dialogo e della relazione interpersonale.

Non ho ritratto il silenzio desertico di chi rifiuta la società, ma l’esatto opposto: quello di chi vive dentro il mondo, in mezzo alle persone, accettando i limiti del caos; è un silenzio dialogante e relazionale. I versi del poeta gradese Biagio Marin lo definiscono con una negazione semantica, con “la parola non detta è difetto di vita”, “non fa nodo”. Che non significa pensare che il silenzio sia sbagliato, né considerarlo avvilente; bensì uno spazio intangibile in cui le parole degli altri, una volta ricevute, possano trasformarsi in parole nuove. E possano “fare nodo”, generando una reciprocità.

Le sue intenzioni cominciano a manifestarsi con una pagina di narrativa, più che di saggistica: con un bambino che tiene la mano del padre, non a caso silenzioso, negli anni della morte di Moro. È un’immagine che appartiene alla sua generazione, di chi è nato tra gli anni Sessanta e i primi Settanta. Che cosa rappresenta?

Ho aperto così il libro perché credo che siano gli anni in cui il “noi” ha iniziato a scomparire. Le ideologie esistevano ancora e, al netto delle degenerazioni che hanno provocato, si parlava ancora in nome di un ideale più grande dell’io che lo esprimeva. I padri parlavano molto meno coi loro figli rispetto a quelli di oggi; parlavano attraverso i loro comportamenti più che attraverso insegnamenti espliciti. Eppure la società si costituiva su un confronto continuo, con luoghi pubblici deputati a un dibattito consapevole.

Se l’invadenza dell’io ha riempito un vuoto di senso dilagante, lei sembra quasi rimpiangere le ideologie alla maniera di Nanni Moretti ne Il sol dell’avvenire Beh, ne Il sol dell’avvenire potrebbe essere intesa una certa nostalgia nei confronti delle ideologie, ma anche in quel caso la nostalgia riguarda un’epoca, o tutt’al più ciò che le ideologie avrebbero potuto dare di costruttivo se la storia fosse andata diversamente. Addirittura Moretti arriva a retrodatare la sua nostalgia, la fa risalire non ai Settanta, ma addirittura al ’56, all’invasione dell’Ungheria da parte dei carri armati sovietici: per lui è quello il momento del crollo delle illusioni, dunque della disillusione e della perdita dell’innocenza. Il momento in cui il Pci non aveva saputo o voluto prendere posizione contro l’invasione.

In che senso lo sfrenato individualismo odierno, il nostro solipsismo, costituirebbe in sé un’ideologia?

Nella misura in cui può essere interpretato, a sua volta, come una deriva estremistica del discorso capitalista. E mi riferisco a un tema ripreso di recente anche da Manconi e Lettieri in Poliziotto-Sessantotto. Violenza e democrazia (Il Saggiatore, 2023): sono pagine che rendono esaustivamente l’affermazione del discorso capitalista come liberazione di un soggetto senza limiti, dominato da un’avidità di godimento fine a sé stessa, per effetto della quale finanche i concetti di amore e di desiderio tendono a sfumare e a scomparire. Non desideriamo più la relazione con gli altri, ci interessano solo le cose, in quanto necessarie per soddisfare una smania che si brucia giusto nell’attimo in cui si riesce a possederle.

Forse non ha torto chi sostiene che non esistano più memorie collettive, tantomeno la memoria tout-court, e che il ricordo del passato si sia dissolto, seppellito da un continuo presente. Tuttavia secondo lei, che è avvocato nonché membro del Consiglio di presidenza di Libertà e Giustizia, perché ha ceduto la tenuta della legge?

La produzione legislativa degli ultimi anni è stata caratterizzata dalla sovrabbondanza e dall’incontenibilità. Vengono emanate leggi in continuazione: c’è una legge per tutto e per tutti. E ciascuno ne reclama una per sé, poiché ciascuno di noi pretende il riconoscimento di un proprio diritto. Si tratta di una pulsione narcisista. In Arcipelago N. (Einaudi, 2021) di Vittorio Lingiardi il narcisista è anche chi pretende che sia accolta ogni propria istanza come se fosse giusta a prescindere; chi pensa che il proprio io debba coincidere con quello globale; chi nega la complessità del reale semplificandolo a propria misura e somiglianza. Ed è l’atteggiamento che spesso tradiamo, nelle nostre misere aspettative nei confronti della legge. Nella foto: Niccolò Nisivoccia al Festival della fiducia a Pisa

Di una panchina rossa e di una notizia data male

panchina rossa frame video

Sfogliando le pagine romane del Corriere della Sera vi può capitare di imbattervi nel titolo “Alla Sapienza inaugurata e subito distrutta da collettivo femminista la panchina rossa contro la violenza sulle donne”. In un Paese in cui la gente non compra i giornali e legge solo i titoli di quelli che incrocia sul tavolino del bar sarà facile pensare che per l’ennesima volta qualche nemico delle donne o qualche negazionista fanfarone dei femminicidi abbia pensato di distruggere un simbolo per rimuovere un tema. 

Non è proprio così. Quella panchina è stata smontata (e non “distrutta”) dal collettivo Zaum Sapienza (Zone Autonome Università e Metropoli) con una motivazione chiarissima: “Non vogliamo panchine rosse ma azioni concrete, che vadano a colpire la causa e non a piangere la conseguenza” – spiegano in un post su Instagram Collettivo medicina Sapienza e Non una di meno Roma – Le panchine rosse sono erette come mausolei a ricordo di “vittime cadute a causa di eventi straordinari e inevitabili”. Sono il simbolo di staticità, rassegnazione, impotenza e dolore morboso. Non solo chi agisce violenza non viene minimamente scalfito da questo tipo di simboli, ma questi possono diventare una violenza reiterata per le persone che la hanno vissuta. La panchina rossa è un diversivo con cui Ateneo e istituzioni “assolvono” il loro impegno nell’anti-violenza, cavandosela con un lavoro a basso costo e senza impegno”. 

La notizia avrebbe dovuto essere che le istituzioni si sono sottratte al confronto e che quelle che la rettrice ha definito “un manipolo di pochi facinorosi” (chissà perché al maschile) che sono state spintonate dalla Digos erano lì a chiedere cosa ci fosse oltre alla panchina. 

Buon martedì. 

La panchina rossa de La Sapienza prima che fosse smontata, frame video

Due giganteschi no

Giulia Cecchettin ritratta in un murales

Il crudele, agghiacciante, femminicidio di Giulia Cecchettin ha scosso il Paese, interrogandoci tutti profondamente, come forse non era mai accaduto prima. Tanto che migliaia e migliaia di persone, di tutte le età, sono scese in piazza, non solo a Roma, ma anche in tante altre città, per dire basta alla violenza di genere. D’un tratto si è rotto il guscio di quella sottile indifferenza che accompagna la macabra contabilità dei femminicidi che si susseguono implacabili quasi ogni giorno. Anche mentre scriviamo la scia di sangue non ha tregua. Dopo l’assassinio di Giulia Cecchettin, Vincenza Angrisano è stata accoltellata dal marito davanti ai figli e Meena Kumari è stata uccisa dal marito con una mazza da cricket. Non vogliamo che tutto questo passi sotto silenzio.
L’uccisione di Giulia ha suscitato un’onda di emozione particolare anche per la giovane età dei due ragazzi. Forse perché Filippo Turetta, suo ex fidanzato e reo confesso, appariva come un “normale” e insospettabile bravo ragazzo. Forse e soprattutto perché Giulia è l’immagine bella di una giovane donna che aveva scelto di separarsi da una relazione ricattatoria e ossessiva, una ragazza che si stava realizzando come donna e nella vita sociale laureandosi.

Sui media mainstream, fin qui, non si è voluti andare a fondo interrogandosi sulla gravissima malattia mentale di chi, avendo perso ogni dimensione affettiva, in un deserto interiore, pianifica lucidamente di uccidere la compagna proprio perché ha scelto di realizzare se stessa. Parlare di malattia mentale viene letto quasi come fosse una giustificazione, auspicando forse una giustizia vendicativa che chiuda in cella il folle reo e getti le chiavi. Cui prodest? Se si aprissero gli occhi su questo dato di fatto non ci sarebbe forse maggiore possibilità di fare prevenzione ed evitare altri femminicidi? Su questo delicato tema lascio la parola agli psicoterapeuti e psichiatri che autorevolmente scrivono su questo numero di Left e continuano a sviluppare il dibattito sul nostro sito.
Da giornalista noto che, a sinistra, si accetta al più che il femminicida venga definito “figlio del patriarcato”. A destra neanche quello. Per la destra la cultura patriarcale non esiste pur incarnandola pienamente.

Nonostante questo alzare barricate sui media verso ogni tentativo di indagine più profonda del fenomeno dei femminicidi qualcosa emotivamente è passato nella società civile, nella parte più sensibile del Paese che si è riversata, e non in modo rituale, per le strade il 25 novembre scorso in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
Personalmente non ho ricordo di manifestazioni così imponenti in Italia da molti anni. Se non tornando con la memoria al 2002, a Roma, quando in piazza scese la Cgil allora guidata da Sergio Cofferati. Ma questa volta c’è in gioco qualcosa che – oserei dire – va oltre la fondamentale battaglia per i diritti sociali e civili. Mai era stata così ampiamente espressa in Italia questa urgenza di dire un gigantesco no collettivo alla violenza contro le donne.
Volendo cercare qualcosa analogo per impatto emotivo il pensiero va alle oceaniche manifestazioni di Black lives matters, negli Usa, dopo l’assassinio di George Floyd che ha fatto traboccare il vaso dell’inaccettabile razzismo della polizia e dello Stato nordamericano. Anche in quel caso non perché il deliberato assassinio di Floyd fosse l’unico, ma forse proprio perché l’ennesimo di marca razzista.

Dietro allo choc, dietro all’ondata di emozione, dietro alle manifestazioni dal basso c’è anche un dato politico. La marea di persone che ha invaso pacificamente le piazze del nostro Paese ci parla di una società civile che è molto più avanti della classe politica di governo, che – non a caso – ha disertato le manifestazioni, dichiarando così palesemente la propria distanza dalla lotta delle donne contro la violenza di genere.
Non partecipando alla manifestazione, la presidente del Consiglio ha reso ancor più chiaro – non che avessimo dubbi – che non ce ne facciamo nulla di una premier donna se non lavora per decostruire una cultura millenaria che opprime, nega e annulla le donne. Ma anzi rinfocola la retorica del sacrificio delle donne in nome di Dio, patria e famiglia. Non ci serve a niente la rottura del cosiddetto tetto di cristallo realizzata in chiave individualistica da Meloni che ama farsi chiamare il presidente del consiglio e che nelle politiche di governo considera le donne degne di diritti solo se madri.

Il governo a guida Meloni si illude di contrastare la violenza contro le donne di fatto per via penale (al di là delle generiche affermazioni su ore facoltative di educazione sentimentale, in collaborazione con consulenti ministeriali come Alessandro Amadori, autore de La guerra dei sessi che parla di “cattiveria” delle donne).
E ne approfitta per militarizzare i territori come con il decreto Caivano, per accelerare sul piano dell’autoritarismo, cifra evidentissima delle controriforme, a cominciare da quella per il premierato.
Al ferale attacco alla Costituzione antifascista a cui sta lavorando il governo Meloni dedichiamo la storia di copertina di Left di dicembre.
Abbiamo chiesto ad eminenti giuristi e costituzionalisti di spiegare con linguaggio semplice e divulgativo, quali siano i pericoli di una riforma che viene annunciata come soft, ma che non lo è affatto. Una riforma, quella del premierato, che, nel combinato disposto con il varo dell’autonomia differenziata (a cui dedichiamo il libro del mese), qualora andasse in porto, spaccherà in due il Paese e farà carta straccia dei valori costituzionali di eguaglianza e libertà.

In foto un murales dedicato a Giulia Cecchettin

La celebrazione del libro che non ha letto nessuno

C’è un libro bellissimo, in giro per il mondo, che non si prende la briga di leggere nessuno. È, secondo me, il libro con le parole più pesate che mi sia mai capitato in mano, uno di quelli in cui anche le virgole hanno la tornitura di chi ci ha messo tempo, mestiere e passione.

Ha un inizio fulminante, di quelli che entrano subito nel senso della storia, senza troppi giri: “Considerato che il riconoscimento della dignità inerente a tutti i membri della famiglia umana e dei loro diritti, uguali ed inalienabili, costituisce il fondamento della libertà, della giustizia e della pace nel mondo”. Famiglia umana. Inizia così. E famiglia umana è un manifesto culturale, politico, letterario. Tutto insieme. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”: ragione e coscienza. Ecco l’accordo. Ragione e coscienza.

E poi c’è la sicurezza, anche qui, la sicurezza che riempie tutti i giornali, i dibattiti, le distorsioni. Ascoltate bene: “Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della propria persona.” Ed è una rivoluzione, perché la sicurezza va solo con con la libertà e il diritto alla vita come compagne. Non è mica la sicurezza che se ne sta sola e guardinga con la bava alla bocca che va di moda di questi tempi; questa è una sicurezza sempre allegra, in mezzo alla gente, che gira il mondo, che sorride alla vita. È simpatica, questa sicurezza raccontata così, è una con cui farci un viaggio o andarci a teatro, per dire.

Poi: “Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese”. Soprattutto, si legge, “ha il diritto di cercare e di godere in altri paesi asilo dalle persecuzioni”. E insieme alle persone anche le loro storie devono muoversi. Davvero. C’è il diritto di “ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”. Le storie che devono correre in giro per il mondo senza riguardo per le frontiere sono una favola.

Parola della Dichiarazione universale per i diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre del 1948, oltre settant’anni fa. Settant’anni per studiarla e sembra che non abbia fatto i compiti nessuno. Così la casa per la famiglia umana, nonostante le dichiarazioni universali è una villetta bifamiliare, triste e grigia e mal illuminata che sta nel vicolo cieco nella periferia dei nostri tormenti. Sul citofono ci sono due nomi, in stampatello, scoloriti ai bordi: casa nostra e casa loro.

Buon lunedì.

Salvini scappa ancora

Matteo Salvini, il capitano, scappa. Era già scappato dal processo con Carola Rackete  (Vedi foto). L’ha definita una sbruffoncella fuorilegge, complice dei trafficanti, una potenziale assassina, una criminale che ha provato ad ammazzare cinque militari italiani. «Sono tutte menzogne, tutte bugie. Ma Salvini di tutte queste falsità non risponderà mai, perché i suoi amici al Senato hanno bloccato la possibilità di procedere nei suoi confronti», commentò lo scrittore Roberto Saviano il primo luglio di quest’anno. 

Ieri Matteo Salvini è scappato anche da Roberto Saviano. Ieri non si è presentato all’udienza programmata in tribunale. Racconta Saviano: «Probabilmente è spaventato di dover rispondere in tribunale di ciò che ha detto e di tutte le minacce che ha fatto. La giustificazione è risibile, ha detto che aveva un collegamento online, dimenticandosi che online poteva collegarsi anche dal tribunale, poi ha aggiunto un pranzo di beneficienza che si allunga fino alla prima della Scala a Milano. Salvini è così, scappa». 

Matteo Salvini è così, non solo lui. Salvini confonde volutamente il suo ruolo e addita come nemici giornalisti, intellettuali e artisti fingendo di non sapere del dislivello. è lo stesso Salvini che ha martoriato Michela Murgia fino al suo ultimo secondo, è lo stesso Salvini che dà in pasto comuni cittadini alla schiera di suoi seguaci attraverso i suoi social. Matteo Salvini, il capitano, scappa perché sa che fuori dal suo ring (che per nostra disgrazia ha piantato dentro le nostre istituzioni) esiste la responsabilità delle proprie affermazioni. 

Buon venerdì. 

Nessun adolescente è un’isola

Quest’anno la giornata mondiale della salute mentale è stata dedicata agli adolescenti e, insieme all’emergenza, dopo la pandemia, si è parlato di casi di autolesionismo, depressione e tentativi di suicidio e anche di hikikomori, adolescenti che non arrivano quasi mai al pronto soccorso, né ai reparti di psichiatria poiché vivono autoreclusi nella loro stanza. Di fondamentale importanza è stato dare loro visibilità e, soprattutto in questa occasione, la giusta collocazione nella psicopatologia.
Nel libro Hikikomori. La perdita della socialità (scritto con le psichiatre Alice Dell’Erba e Francesca Padrevecchi), edito da L’Asino d’oro, abbiamo proposto un cambio di prospettiva in tal senso, passando da quella sociologica, che considera il fenomeno hikikomori una ribellione alla pressione della società, ad una medica, che vede il ritiro sociale come un sintomo associato a patologie psichiatriche. Partendo dalla fisiologia dell’essere umano e dalla considerazione della socialità come naturale tendenza al rapporto interumano fin dalla nascita, ne deriva che la sua perdita non può essere considerata scelta ma conseguenza di una perdita di sanità. In questa ottica si pone la distinzione tra solitudine e isolamento, per evidenziare la dimensione della solitudine, che appartiene a tutti gli adolescenti e quindi alla fisiologia, dall’isolamento che si associa invece al ritiro sociale.

Lucia Ronchetti: Questo non è più un Paese per compositrici

Lucia Ronchetti è una figura di spicco della moderna composizione. Oggi è uno dei punti di riferimento della cultura del fare e pensare musica. La sua posizione aperta al moderno ha innervato l’edizione 2023 della Biennale musicale da lei diretta, dando valore al comunicare con la musica in tempi in cui l’assuefazione sonora è veramente ad alti livelli. Pur lavorando molto all’estero Ronchetti è impegnata in Italia nella formazione di nuove generazioni. Intanto le sue opere vengono rappresentate in Germania come Das Fliegende Klassen-Zimmer al Teatro dell’Opera di Rehin, Pinocchios Aben-Teuer allo Staatsoper di Hannover (fino a marzo 2024), Mentre fra aprile e maggio 2024 debutterà con due nuove opere al Festspiele Schwetzinger e al Muncher Biennale di Monaco di Baviera.

Ronchetti, da compositrice, pensa che questa identità di artista oggi sia negata in Italia?
In Italia purtroppo chi compone musica ha perso il riconoscimento che ha avuto in passato quando a questo lavoro corrispondeva anche un certo status sociale. Non ci sono più politici illuminati e preparati che possano capire quanto sia fondamentale per la cultura e la società la figura del compositore. E questo a mio avviso grave, perché il nome dell’Italia all’estero è legato in alla creazione musicale e tutti conoscono i lavori di Rossini, Verdi, Puccini, Monteverdi, Frescobaldi,Vivaldi, Palestrina.

Daniele Biacchessi: Riaprire oggi l’armadio della vergogna

Acuto osservatore della realtà ma anche studioso di storia, il direttore del Giornale Radio Daniele Biacchessi con il suo nuovo libro riapre l’armadio della vergogna rimasto per anni con le ante rivolte verso il muro con dentro documenti “archiviati provvisoriamente” sulle violenze da parte dei nazifascisti. Il frutto della nuova ricerca del giornalista e scrittore è Eccidi neonazisti, da poco uscito per Jaca Book. In questo momento di “revisionismo” storico, Biacchessi riparte dal giornalista Franco Giustolisi, che sull’Espresso nel 1996, fece esplodere, nella coscienza dei lettori, la scoperta di quell’armadio dove furono depositati fascicoli regolarmente protocollati e altra documentazione che riguardava le stragi nazifasciste in Italia, nel 1943-1945.

Daniele Biacchessi, un suo spettacolo si intitolava La storia e la memoria. Come si intrecciano questi due aspetti intorno ai fascicoli riscoperti?
Sì, quello fu il mio primo spettacolo di teatro civile che realizzai a Cuba, in tour, nel 2004. Il primo quadro raccontava una fotografia scattata a Sant’Anna di Stazzema, il 12 luglio 1944. Era una festa della fine dell’anno scolastico e i bambini facevano un bellissimo girotondo, solo un mese prima che i loro sogni venissero infranti. Era da molto tempo che mi occupavo della verità e della mancata giustizia sulle stragi nazifasciste, esattamente da quando Giustolisi fece conoscere per primo il contenuto di 695 fascicoli occultati dalla politica e dalla magistratura militare per troppi anni. Quella documentazione nascosta dal 14 gennaio 1960 rappresenta la grande ferita italiana.

Passione partigiana

Quando nel 1991 Claudio Pavone dà alle stampe quello che diverrà un testo di riferimento obbligato negli studi sulla Resistenza (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri) la guerra partigiana è stata sin lì raccontata dagli storici richiamandone per lo più gli aspetti politici o militari. Pavone concentra, invece, la sua riflessione sul significato e la natura della violenza, sulle motivazioni e le aspettative dei partigiani, portando al centro dell’indagine gli individui con le loro soggettività. Trent’anni dopo è Chiara Colombini, con il suo ultimo saggio, Storia passionale della guerra partigiana (Laterza), a interrogarsi sui sentimenti dei combattenti, a riflettere sulle loro passioni perché, come scrive, «la dimensione umana e soggettiva dei protagonisti è rimasta a lungo in ombra».

Bisogna ripercorrere quei venti mesi tralasciando le memorie scritte dopo, alla fine della guerra, inevitabilmente filtrate e condizionate dagli avvenimenti successivi. Ecco perché Colombini sceglie di concentrare la sua attenzione sulle voci di allora, quelle riportate in diari e carteggi coevi, scritti mentre la guerra è ancora in corso. Bisogna immergersi in quel clima per registrare con fedeltà i molteplici umori di chi combatte, esplorare una miniera inesauribile di vicende umane che, anche ottanta anni dopo, non smette di affascinarci. L’autrice restituisce la quotidianità di persone in carne e ossa, che si interrogano e soffrono, tra certezze granitiche e pervasivi dubbi, che si lasciano andare allo sconforto o all’entusiasmo.