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Canova, spirito pagano

Scrivere qualcosa su Canova, oggi, significa innanzi tutto confrontarsi con una letteratura specializzata vastissima, che ha finalmente reso possibile la rivalutazione totale e l’ampia documentazione dello spessore di un artista la cui fama ha vissuto vicende alterne, qualche volta sfavorevoli, soprattutto allo scoccare del «secolo breve», quando le avanguardie hanno fatto il loro ingresso sul palcoscenico delle arti. Sarebbe sembrato oltremodo strano, infatti, che il candido Canova, il formalista perfetto, il difensore del canone classico, riuscisse a stare al passo con l’irruzione del cromatismo dilagante e acceso dell’Impressionismo e del Post-impressionismo, con lo spezzarsi della linea cubista e astrattista, con la deformazione dei volumi e la loro compenetrazione con lo spazio, inarrestabile nella scultura da Medardo Rosso, attraverso Umberto Boccioni, per arrivare a Lucio Fontana e oltre; per non parlare del confronto con le tendenze della cultura visiva più vicina a noi, che da un lato hanno trasformato i nomi più famosi dell’arte ufficiale e storicizzata in icone pop a larghissimo consumo (di fatto diffondendone la conoscenza con riproduzioni illimitate, ma sorvolando sulle finezze dei processi che hanno portato alla creazione degli originali) dall’altro ci sommergono di immagini varie, innumerevoli, seducenti, talvolta dozzinali, ma non di rado di qualità altissima.

Africa, l’identità ritrovata

Il 5 maggio 1936 le truppe italiane comandate dal maresciallo Pietro Badoglio entravano trionfalmente ad Addis Abeba e l’annullamento dei grandi simboli dell’indipendenza etiope iniziò pochi mesi dopo l’occupazione. Nell’ottobre del 1936, fu smantellato il monumento a Menelik II; poco dopo cadde la statua in bronzo del Leone di Giuda, inviata a Roma e installata sul monumento ai caduti della battaglia di Dogali. Nel 1937, anche l’obelisco di Axum, sottratto ad uno dei siti più antichi e venerati della nazione, veniva eretto nella capitale italiana per celebrare il quindicesimo anniversario della marcia su Roma. Per la sua restituzione all’Etiopia, pur stabilita dal trattato di pace italo-etiope del 1947, ci sono voluti sessantuno anni di diplomazia e di pubblici appelli, fino al 4 settembre del 2008, lo stesso anno che vide il ritorno in Libia della Venere di Cirene, che era stata trasportata a Roma nel 1915.

L’obelisco di Axum e la Venere di Cirene: due casi celebri che ancora oggi alimentano, nella coscienza comune, l’immagine di un’Italia benevolmente orientata al rispetto dei popoli vittime dell’aggressione coloniale. In realtà, non è che l’infinitesima parte visibile di un patrimonio sommerso e dimenticato, accumulatosi nelle raccolte dei musei italiani con i primi viaggi di esplorazione commerciale alla metà dell’Ottocento, con i doni diplomatici, per lo più da leggersi nel contesto di rapporti condizionati dalle mire coloniali, e infine cresciuto in maniera esponenziale con i trafugamenti legati all’occupazione. Da tempo l’Etiopia rivendica la restituzione delle centinaia di oggetti preziosi e di manoscritti depredati dagli inglesi nel sacco del palazzo imperiale di Magdala, ora dispersi in varie istituzioni britanniche, tra cui il British Museum, il Victoria and Albert e la British Library, un caso che meriterebbe di essere portato all’attenzione internazionale al pari di quello dei bronzi del Benin, recentemente illuminato dalle ricerche di Dan Hicks. In Italia, nonostante l’attenzione crescente al fenomeno della decolonizzazione, la geografia, l’entità e la natura dei patrimoni provenienti dall’Africa rimangono ancora in larga parte oscure.

La relatrice Onu Francesca Albanese: «Disumanità contro Gaza»

Francesca Albanese

Incontriamo Francesca Albanese, relatrice speciale Onu per i Territori palestinesi occupati a pochi giorni di distanza da suoi impegni di lavoro negli Stati Uniti e in Australia. Alle Nazioni Unite, Albanese ha partecipato non solo agli incontri da tempo programmati ma anche a quelli straordinari, imposti dalla tragica attualità successiva ai fatti del 7 ottobre scorso (su questi temi Francesca Albanese con Christian Elia ha appena pubblicato J’accuse, Gli attacchi del 7 ottobre, Hamas, il Terrorismo, Israele, l’Apartheid in Palestina e la Guerra  libro intervista di Christian Elia edito da Fuoriscena ndr). Di recente, con i primi scambi di ostaggi, si è alimentata la speranza di un fermo alle operazioni militari di Israele nel territorio di Gaza. Prima di questa fase, però, gli incontri che hanno avuto luogo al Palazzo di vetro sono stati tanto febbrili quanto, in buona sostanza, improduttivi sul piano dell’approvazione di provvedimenti volti a fermare definitivamente la guerra in Palestina. La paralisi registrata in seno al Consiglio di sicurezza dove veti incrociati hanno impedito di generare una risoluzione di “cessate il fuoco” ne è stata la più drammatica testimonianza. Né beneficio concreto è derivato dalla risoluzione non vincolante adottata dall’Assemblea generale per una pausa umanitaria da far rispettare alle parti in conflitto nella Striscia. Una risoluzione resa debole all’origine dal voto contrario espresso da Stati Uniti e Israele, cui si è aggiunta l’astensione di un certo numero di Paesi tra cui l’Italia stessa. In tale complessa e drammatica cornice, sono esplose feroci critiche della diplomazia israeliana all’indirizzo del Segretario generale Antonio Guterres il quale, commentando gli sviluppi in corso a Gaza, ha sottolineato come ogni valutazione in merito non debba esulare dal prendere in considerazione decenni di illeciti dovuti all’occupazione israeliana dei Territori palestinesi. In definitiva, un contesto inopinatamente frammentato di fronte all’inaudita gravità dei fatti in quella già martoriata terra. Eventi che, sommandosi alle altre gravi crisi in corso nel pianeta, generano la diffusa percezione di iniziative depotenziate o persino assenti da parte dell’Onu. A pagarne enormi conseguenze è la legalità internazionale con convenzioni e quadri normativi non applicati e quindi umiliati. In questo scenario desolante, non si contano i danni a intere popolazioni e terre. Dopo le oltre 1.300 vittime israeliane di quel 7 ottobre, impressionanti sono sopraggiunti i numeri della catastrofe in corso nella Striscia. Circa 17mila civili uccisi dai bombardamenti, il 70 per cento dei quali bambini, in gran parte, e donne.
Dottoressa Albanese, è trascorso esattamente un anno quando, all’indomani della pubblicazione del suo primo rapporto ufficiale dedicato alla fondamentale questione dell’autodeterminazione dei palestinesi, si discuteva con lei dei conclamati illeciti connessi all’occupazione della Palestina da parte di Israele. Ricordo che, immaginando scenari e suggestioni possibili, ebbe a citare un passo di Eduardo Galeano per cui «se fai due passi avanti, l’utopia ne fa altrettanti. Se però ne fai dieci indietro, l’utopia comunque dieci in avanti ne farà». I fatti a partire dal 7 ottobre sono di tale portata che sembrano demolire anche le più utopiche prospettive, non crede?
È come se fosse stata sdoganata la disumanità: a un anno di distanza è ciò che sento, ciò che provo. Non ricordo una sola volta, da quando mi occupo e seguo le vicende di Palestina, in cui non abbia affermato che si fosse ormai giunti all’apice del peggio oltre cui sarebbe stato impossibile prevedere un ulteriore funesto traguardo. E invece va sempre peggio: ora sembra proprio che si sia raggiunta la discesa verso l’abisso. Purtroppo, questa descrizione non si serve di facili iperboli retoriche, ma risponde drammaticamente al vero.

La riforma della sanità: via il macigno dei privati

Questo articolo intende spronare complessivamente la sinistra a riflettere in particolare sul rapporto oggi più che mai problematico tra due orientamenti politici, quello “populista” e quello “riformista”. Il primo è senza dubbio un atteggiamento corrivo, poco meditato e propagandistico, quindi a rischio di rivelarsi contra sanitade.
Il secondo è esattamente il contrario, quindi pro sanitade, nella convinzione che per salvare la sanità sia necessario modificare anche le sue strutture legislative così come si sono consolidate nella realtà sociale e politica del nostro Paese, modifiche senza le quali salvare la sanità diventerebbe di fatto una impresa molto improbabile.
Oggi da quello che vedo, facendo la tara sulle chiacchiere, l’orientamento che prevale per tante ragioni a me sembra sia quello populista. Un atteggiamento che mobilita molto, che organizza financo grandi manifestazioni nazionali di piazza, che denuncia “urbi et orbi” il rischio di perdere un bene fondamentale come la sanità pubblica, ma che, come dimostra la legge di bilancio del governo, non solo non porta a casa risultati tangibili ma leggendo i sondaggi in nessun modo mette in crisi la tenuta del governo in carica. (Il manifesto 4 novembre 2023).

La riforma forte
A questa tendenza populista prevalente tenta di contrapporsi l’orientamento, visibilmente minoritario, di chi come chi scrive, propone di mettere in campo una “quarta riforma” attribuendole nei confronti del diritto alla salute e del Ssn, addirittura una funzione “salva vita”. In questo caso, se per salvare la sanità serve una “quarta riforma”, allora l’idea politica di riforma acquisisce le valenze di un cambiamento forte e urgente, cioè essenziale, non rinviabile, reso non procrastinabile dalla necessità soprattutto in questa crisi economica di “riformare le controriforme” fatte in passato, che si sono rivelate empiricamente sbagliate (aziendalizzazione e privatizzazione) e con costi a carico dello Stato nel loro complesso oggettivamente insostenibili.
Quindi di contro al populismo si potrebbe parlare di “riforma forte” pensata soprattutto per rilegittimare e ricontestualizzare gli scopi del progetto riformatore originale, cioè quelli propri all’articolo 32 della Costituzione e alla legge 833 che nei decenni passati abbiamo compromesso. “Se” la sanità oggi rischia di morire, è possibile che a farla morire siano tante cose, tutte quelle analizzate nel mio ultimo lavoro (Sanità pubblica addio, Castelvecchi), tra le quali i costi non solo finanziari ma anche sociali delle controriforme fatte in passato. Cioè è possibile che i costi del liberismo sanitario introdotto nel nostro Paese negli anni 90, oggi, nella crisi economica data, pesino come macigni creando problemi di sostenibilità. “Se” regge questa ipotesi, allora è ragionevole ritenere che oggi, nella crisi economica data, la difesa che il populismo fa del sistema che c’è, compreso le controriforme fatte negli anni 90, sia un vero pericolo per la sanità pubblica.

I deportati d’Albania

In assenza di una politica europea di lungo termine, i singoli Stati si avvicinano alle prossime elezioni europee focalizzando l’attenzione più che sui problemi reali, su questioni che catalizzano il consenso. Il tema “immigrazione” è il principale, soprattutto da parte di governi come quello italiano, anche se coinvolge buona parte dei 27 Paesi Ue. L’Italia sta attuando misure che, con l’obiettivo – irrealizzabile – di moltiplicare i rimpatri delle persone immigrate irregolari, persegue quello di limitare ogni forma di protezione, distruggendo il diritto d’asilo, proseguendo le pratiche di respingimento collettivo, di esternalizzazione delle frontiere, di detenzione anche di chi è in attesa di una risposta alla domanda d’asilo in Italia. Questo in un contesto per cui, da oltre 10 anni, l’Italia per uno straniero non è più un Paese in cui fermarsi ma al limite in cui transitare, cercando di non farsi identificare, rifiutandosi di farsi prendere le impronte per non correre il rischio, magari una volta raggiunta la meta, (Germania o Nord Europa) di essere rispedito nel nostro Paese in nome del regolamento Dublino. Il Memorandum con l’Albania è l’ultimo di questi tentativi di gestire i flussi migratori, atti a dimostrare che si mantengono le promesse elettorali del pugno di ferro.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il suo omologo Edi Rama (socialista) il 6 novembre hanno firmato un’intesa secondo cui in primavera – in piena campagna elettorale per le europee – saranno aperti due centri per migranti soccorsi da navi italiane ma i cui esami delle domande di protezione verranno svolti in Albania. Non è ancora chiaro se, come affermato da Rama, nei centri che sorgeranno, uno al porto di Shengjin, il secondo nell’ex base di Gjader, le persone resteranno trattenute per 28 giorni, in quanto provenendo da Paesi “sicuri” saranno sottoposte alla domanda di procedura accelerata che in 4 settimane permetterà di farle entrare in Italia o di essere rimandate a casa o se, come dichiarato poi da Meloni, potrebbero entrarvi anche i “normali” richiedenti asilo da trattenere fino a 18 mesi. Complessivamente questi due centri dovrebbero contenere 3mila persone, al loro interno sarà in vigore una giurisdizione extraterritoriale italiana mentre la vigilanza verrà appaltata alle forze di Tirana. Secondo quanto affermato da Edi Rama in un anno sarebbe delocalizzato il trattenimento di 36mila persone (3000×12 mesi).

Perché il sistema dei Cpr è violento e fallimentare

Nato da una collaborazione tra ActionAid Italia e il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Bari, il progetto Trattenuti raccoglie dati e informazioni sul funzionamento dei Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr). L’intento è quello di colmare un buco informativo e far luce sul più oscuro strumento delle politiche migratorie italiane, grazie all’analisi della più lunga serie storica di dati sul sistema di detenzione dal 2014 al 2021.
Dal report Trattenuti. Radiografia del sistema detentivo per stranieri: il fallimento del sistema Cpr emerge un sistema inumano e costoso, inefficace e ingovernabile, che negli anni ha ottenuto un solo risultato evidente: divenire lo strumento per rimpatri accelerati dei cittadini tunisini, che nel periodo 2018-2021 rappresentano quasi il 50% delle persone in ingresso in un Cpr e quasi il 70% dei rimpatri, soprattutto a partire da quelli situati nei pressi delle zone di frontiera. Oltre a sollevare diversi interrogativi circa l’effettività dell’accesso al diritto d’asilo, tale specializzazione funzionale dei Cpr appare di dubbia efficacia dato che i tunisini rappresentano il 18% degli arrivi via mare nel 2018-2023.

I centri di detenzione: un sistema fallimentare da ogni punto di vista
Dal 2017 in poi i diversi governi in carica hanno deciso di investire nella detenzione amministrativa fallendo l’obiettivo di istituire un Cpr in ogni regione; ma aumentando la capienza fino ai 1.395 posti del 2022. All’interno, atti di autolesionismo, rivolte e disordini provocati dalle condizioni di estremo disagio e privazione dei diritti basilari delle persone trattenute senza aver commesso reati, hanno portato a continui danni e distruzioni rendendo indisponibili gran parte dei posti. Il sistema funziona, fin dal 2018, al 50% della sua capacità ufficiale.

Gabriele Del Grande: La frontiera dell’umanità

Immaginatevi di potervi muovere da un Paese all’altro, da un continente all’altro per periodi più o meno lunghi di vita e di lavoro, per studiare o solo per visitare luoghi e mete turistiche, o per quelle esperienze che tanti giovani fanno o vogliono fare per mettersi alla prova e provare a scegliere la propria strada.
Obiettivi percorribili un secolo fa da una minoranza di persone soprattutto per motivi economici e di status sociale che continuano ad essere appannaggio di quella minoranza che ha i famosi passaporti rossi o blu. Per chi oggi ha un passaporto verde, la maggioranza della popolazione mondiale, quegli spostamenti sono negati dal regime dei visti e da quello che Gabriele Del Grande, nel suo nuovo libro Il secolo mobile. Storia dell’immigrazione illegale in Europa (Mondadori) definisce l’«apartheid in frontiera».Un’opera, non solo un libro, necessaria e definitiva. Grazie al rigore della ricostruzione storica, Del Grande riesce a farci comprendere in tutte le sue dimensioni – politiche, economiche, culturali e sociali – le conseguenze e l’origine di alcune norme sull’immigrazione e l’asilo. Scelte politiche che hanno causato e purtroppo continuano a causare migliaia di morti nel Mediterraneo, nel Sahara e sulla rotta delle Canarie e che segnano quella che anche Igiaba Scego in un suo libro di grande successo aveva definito La linea del colore.

Sì, perché Il secolo mobile ha il merito di mettere a nudo il regime razziale e classista dei visti, che, come scrive Del Grande, «non è che l’ultima forma di segregazione legalizzata ancora in essere nel mondo moderno». Per troppo tempo chi studia e fa attivismo in Italia e in Europa sul tema delle migrazioni ha cercato di contenere l’erosione dei diritti fondamentali, identificare misure per la tutela delle persone vittime di questo disegno, parando i colpi, reagendo talvolta con vigore alle continue sopraffazioni verso le persone razzializzate che sbarcano o che sono nate qui, ma restando sulla difensiva. La forza della propaganda che isola e denigra le Ong, e a suon di slogan e con la fabbrica della paura vince le elezioni, ci spinge alla difensiva e ad un eterno presente, fatto di repliche di dichiarazioni politiche e reazioni ad annunci di patti, dalla Tunisia all’Albania. Il libro di Gabriele Del Grande ha il merito di costringerci a uscire da questa prospettiva difensiva in cui ci hanno o ci siamo relegati, e rifocalizzarci sulle ragioni e le battaglie culturali, oltre che politiche, su cui lavorare insieme a tante realtà e intellettuali del Sud globale che, come Gabriele, da anni ci chiedono di decolonizzare lo sguardo e l’agire.

Gabriele Del Grande, è da più di 10 anni che raccogli storie, dati e notizie sulle migrazioni, cosa ti ha spinto a voler andare ancora più indietro nel tempo, fino a 100 anni fa, per parlare di immigrazione illegale in Europa?
In realtà inizialmente volevo parlare di futuro. L’idea era quella di un pamphlet sulla libera circolazione. Poi mi sono reso conto che per demigrantizzare il discorso sulla mobilità dal Sud globale dovevo prima ripercorrere la storia delle migrazioni tra le ex colonie e l’Europa. Andare alle origini dei divieti di viaggio che ancora spingono tante persone a bussare alle porte del contrabbando come unica chance per viaggiare in Europa. Perché è soltanto nella prospettiva storica che possiamo uscire dall’impasse del dibattito sul tempo presente e mettere a fuoco la madre di tutti i problemi: il mancato riconoscimento del diritto alla mobilità dai Paesi afroasiatici.

L’ideologia del capo tra gli eredi del Msi

Che obiettivo delle destre fosse affossare la democrazia parlamentare era a tutti noto sin dai giorni della formazione del governo Meloni. Restava solo da capire di che morte dovesse morire. Le alternative poste originariamente sul tappeto erano tre: presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato. La prognosi terminale è stata recentemente sciolta. E dai banchi del governo abbiamo appreso che la soluzione prescelta (anche in ragione del consenso accordato da alcune componenti dell’opposizione) è il premierato: un progetto confuso, contraddittorio, denso di ambiguità. Ma allo stesso tempo particolarmente insidioso, perché destinato a rivelarsi veicolo e collettore di una crisi democratica già grave che l’eventuale irruzione dell’«uomo di fiducia di tutto il popolo» (schmittianamente inteso) non può che acuire ulteriormente.

Da Antonio Gramsci abbiamo appreso che nelle fasi di transizione dei sistemi politici («l’interregno» del non più e del non ancora) «si verificano i fenomeni morbosi più svariati». E che dalla crisi dell’«ordine democratico» è possibile uscire solo in due direzioni: immettendo nell’ordinamento più democrazia, e quindi assecondando la costruzione di un sistema politico plurale e «vertebrato». Oppure, nel caso opposto, esasperando ulteriormente il carattere morboso che ha assunto la vita democratica, al fine di favorirne la dissoluzione. E questo, nell’attuale contesto storico, avrebbe, nel primo caso, voluto dire: rafforzare i luoghi della rappresentanza (mettendo mano a un bicameralismo, oggi più di ieri mortificato nelle sue funzioni, soprattutto all’indomani della sopravvenuta riduzione del numero dei parlamentari); dare vita a un sistema elettorale in grado di esprimere e rappresentare la plurale articolazione politica del Paese (proporzionale); sperimentare nuove forme di legittimazione parlamentare dei governi (sfiducia costruttiva). Insomma, provare a ripristinare la centralità del Parlamento. Ma questo sarebbe potuto accadere solo se i rapporti di forza fossero stati altri e se la maggioranza dei seggi non fosse saldamente a disposizione di formazioni storicamente poco sensibili alle sorti della democrazia costituzionale. A prendere oggi corpo è pertanto l’altra soluzione.

Da cittadini a sudditi il passo è breve

È bene tenere a mente che si discute, e sto scrivendo, di un disegno di legge (ddl) di revisione costituzionale ancora in bozze, anche se le finalità sono state ben fissate ed esplicitate dalla presidente del Consiglio nella conferenza stampa di presentazione del 3 novembre: «Da una parte garantire il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo sostanzialmente fine alla stagione dei ribaltoni, alla stagione dei giochi di palazzo, alla stagione del trasformismo, delle maggioranze arcobaleno e dei governi tecnici …. Il secondo di questi obiettivi è garantire che chi viene scelto dal popolo possa governare con un orizzonte di legislatura, quindi garantire sostanzialmente una stabilità del governo …». Questi due obiettivi sono da raggiungere con la revisione di quattro articoli della Costituzione. Vengono modificati l’articolo 59 per abolire l’istituto dei senatori a vita e l’articolo 88 per impedire lo scioglimento di una sola delle due Camere. L’articolo 92 viene riscritto completamente per disporre che: il presidente del Consiglio sia «eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni», la sua elezione avvenga contemporaneamente a quella delle Camere «tramite un’unica scheda elettorale», la legge elettorale preveda «un premio assegnato su base nazionale» per garantire «ai candidati e alle liste collegati al presidente del Consiglio dei ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere», il presidente della Repubblica conferisca, sotto il vincolo dei risultati elettorali, «al presidente del Consiglio dei ministri eletto l’incarico di formare il governo» e nomini «su proposta del presidente del Consiglio, i ministri». Infine l’articolo 94 viene riformulato disponendo che il presidente del Consiglio eletto si presenta in Parlamento per averne la fiducia, e in caso non l’ottenga il presidente della Repubblica gli rinnova l’incarico, e se anche la seconda volta gli viene negata il Parlamento è sciolto.

La nuova legge elettorale, peggio del Porcellum

Il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il disegno di riforma costituzionale che introduce il premierato. Nella conferenza stampa il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha magnificato l’iniziativa qualificandola come “la madre di tutte le riforme”. Si tratta, ha precisato, «di una riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del presidente del Consiglio e garantisce due obiettivi che dall’inizio ci siamo impegnati a realizzare: il diritto dei cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine a ribaltoni, giochi di palazzo e governi tecnici … il secondo obiettivo è garantire che chi viene scelto dal popolo possa governare con un orizzonte di legislatura». È sbagliato ritenere esagerata l’importanza che il governo Meloni attribuisce alla riforma.

Con soli cinque articoli il ddl Casellati apparentemente realizza un intervento di portata limitata, ma in realtà devasta i principi della democrazia costituzionale sui quali si basa l’ordinamento della Repubblica italiana. Questa riforma si pone sulla scia di un orientamento consolidato, perseguito non solo dalla destra, che punta alla verticalizzazione del potere e alla conseguente mortificazione della rappresentanza. La porta d’ingresso delle riforme miranti ad alterare il quadro della democrazia costituzionale, fondata sulla centralità del Parlamento, è rappresentata dalle riforme elettorali di stampo maggioritario che si sono susseguite in Italia a partire dal 1993. Chi si ricorda oggi le esternazioni di Veltroni, primo segretario del neonato Partito democratico che magnificava il maggioritario perché consentiva agli elettori di scegliere direttamente il governo, non solo i parlamentari? La riforma costituzionale Meloni è tributaria di una concezione della democrazia che precede gli approdi raggiunti dalla Costituzione italiana.