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La febbre di Mercoledì

Ispirata a uno dei personaggi più avvincenti della famiglia Addams, Mercoledì, qui adolescente, l’omonima serie Netflix (Wednesday, 2022, di Alfred Gough e Miles Millarè), sta facendo scalpore stabilendo il record del maggior numero di ore viste in una settimana, superando quello precedente ottenuto dalla quarta stagione di Stranger Things. Tim Burton, uno dei produttori esecutivi, dirige i primi quattro episodi di questa commedia horror-fantasy sulle avventure di Mercoledì (Jenna Ortega), una studentessa solitaria, strana e dal carattere estremamente particolare. Espulsa dal liceo pubblico per aver messo dei piranha nella piscina dove nuotavano i coetanei che bullizzavano il fratellino minore Pugsley (per vendicarlo), Mercoledì viene iscritta dai genitori alla Nevermore Academy, una scuola privata che accoglie adolescenti strambi e reietti ma con poteri soprannaturali. Qui Mercoledì finirà per mettere in discussione la propria antisocialità e il rapporto difficile con i genitori, stringendo per la prima volta legami di amicizia autentici.
Da dove nasce il successo fino alla mitizzazione di storie basate su individui particolari e assurdi, come questo, o anche il protagonista di Edward mani di forbice, ecc.? Sicuramente è vero che molti adolescenti amano il genere fantasy-horror, ma in Wednesday Addams troviamo anche altri elementi, più universali e caratteristici dell’adolescenza, come il conflitto con le figure genitoriali. Mercoledì, infatti, affronta il rapporto complesso con la madre Morticia tentando di trovare una propria identità senza identificazioni. Accanto a questo, il tema che forse ha determinato lo strepitoso successo di pubblico è quello della trasformazione. L’adolescenza è infatti per definizione un periodo di grandi trasformazioni, del corpo e della mente, per cui il bambino scompare per lasciare il posto ad un individuo che cresce e si trasforma fino a diventare adulto. Ma, se non si hanno le idee chiare, ci si può confondere e scambiare questo processo fisiologico con un’altra trasformazione che occorre quando l’adolescente che si sta ammalando o si è già ammalato di schizofrenia comincia a mostrare sintomi che lo rendono a volte “trasformato”, irriconoscibile agli occhi degli altri. Su questi temi e molto altro cerca di fare luce il nuovo libro della collana “Adolescenza” dell’Asino d’oro edizioni, intitolato Schizofrenia. Crisi, esordio e situazioni limite che abbiamo scritto con Luca Giorgini, Gabriele Marciano e Andrea Raballo. Attraversando aspetti storico culturali, e avvalendosi anche di richiami letterari e cinematografici, il libro affronta il tema della schizofrenia iniziale e delle situazioni a rischio, rivelando come essi non rappresentino stati consolidati e omogeni, quanto piuttosto condizioni dinamiche e eterogenee. Pensato particolarmente per adolescenti, educatori e insegnati, ma adatto a tutti, il libro si propone di avvicinare alla comprensione di stati mentali ad alto rischio psicopatologico attraverso un linguaggio semplice ma preciso, cercando di dare, senza minimizzazioni, paure o pregiudizi, risposte chiare a domande complesse, come ad esempio: quando una situazione di malessere può essere la spia del rischio di sviluppare una schizofrenia?
Con l’aiuto di molti esempi clinici e letterari ci concentriamo sulla descrizione di quelle «situazioni limite, molto iniziali, che sono a rischio di slittare verso un quadro clinico pienamente schizofrenico e che, al contempo, sono anche il vero cardine di qualunque possibile intervento preventivo».
In questo senso è interessante ricordare che già autorevoli psichiatri di oltre un secolo fa avevano enfatizzato l’importanza di queste fasi attenuate, non ancora eclatanti, che precedono lo sviluppo di una schizofrenia clinicamente manifesta.
Oggi – come scriviamo nel libro insieme agli altri autori – il termine schizofrenia è spesso utilizzato con reticenza anche nei servizi psichiatrici, per l’idea diffusa che di per sé comporti uno stigma o comunque un pregiudizio implicito di inguaribilità. Questo è solo uno dei motivi per cui i segnali iniziali della malattia, ancorché evidenti sono spesso ignorati, preferendo un approccio attendista e difensivo. Si ricorre allora a diagnosi incentrate su aspetti secondari (l’ansia, ad esempio), e si affrontano sintomi importanti (come udire le voci) in modo iper-semplificato, con una tendenza alla normalizzazione. Solo quando la sintomatologia diviene innegabile si passa dalla sottovalutazione della sofferenza a un invito all’accettazione e alla rassegnazione della gravità della malattia. Tutto ciò, però, è largamente fondato sul falso pregiudizio che non esista nessuna vera cura e che, al di là di interventi di supporto e/o riabilitazione, non si possa fare niente per raggiungere realmente la guarigione.
D’altra parte, molti ragazzi, mostrano spontaneamente curiosità ed interesse nei confronti del tema della schizofrenia, tanto da autodefinirsi, in modo semi-serio, “un po’ schizofrenici”. Sembra quasi che comprendano, con coraggio e disinvoltura, l’insensatezza dei tabù nel nominare la parola schizofrenia, molto spesso legati alla credenza dell’impossibilità di cura. La schizofrenia, non è una condizione in cui si cade da un giorno all’altro, come ritrovandosi in un brutto sogno. A monte esistono situazioni di difficoltà, di crisi, protratte spesso per molti anni, stati di sofferenza ignorati e fraintesi, che possono aggravarsi ed esitare in altre patologie (come la depressione, l’abuso di sostanze o altro), oppure rimanere sotto soglia cioè non manifestarsi con sintomi evidenti. Occorre immaginare una situazione fluida che, in base a punti di forza e di debolezza, eventi della vita favorevoli o sfavorevoli, può cambiare ed evolvere tornando in equilibrio, migliorando o peggiorando. Anche questi quadri più indefiniti, comunque, devono essere considerati come serie patologie che rischiano di protrarsi e cronicizzarsi e che, se non curate, possono condizionare e limitare la vita della persona. Per questo, nel libro, viene dedicata particolare attenzione ai quadri iniziali, più indefiniti, ad elevato rischio di peggioramento o di cronicizzazione, spiegando che è decisivo l’approccio terapeutico corretto, nel quale la psicoterapia spicca come intervento d’elezione. L’idea di fondo è che lo sviluppo di una schizofrenia non risponda a un destino predeterminato, scritto nel codice genetico (e dunque inevitabile), ma che possa manifestarsi in seguito a esperienze e rapporti patologici. L’individuo conserva sempre la possibilità di elaborare le proprie esperienze e trasformare i rapporti con gli altri, anche quelli che non fanno stare bene.
Con la scoperta dell’origine fisiologica della mente alla nascita di Massimo Fagioli a partire dagli anni Settanta e la sua successiva teorizzazione e prassi, la schizofrenia non è un destino insito nella natura umana, ma una malattia che se affrontata in tempo e con la corretta terapia può essere curata e guarita.
Come per l’adolescente Mercoledì, è possibile diventare adulti senza perdere i “poteri speciali” forniti dalla fantasia interna, dalla vitalità e dagli affetti, o si possono ritrovare se sono andati perduti.

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Il libro: Schizofrenia (L’Asino d’oro ed.) di Eva Gebhard, Manuela Petrucci, Luca Giorgini, Andrea Raballo (psichiatri e psicoterapeuti) e Gabriele Marciano (psicologo e psicoterapeuta) sarà presentato l’1 aprile alla libreria Spazio 7 di Roma, ore 17:30

Jim Al-Khalili: «La scienza e la forza della curiosità»

Il rapporto tra scienza e società è oggi più che mai al centro del dibattito pubblico. La crisi climatica e quella pandemica hanno reso evidente la loro vitale interdipendenza, pur mettendone in luce i punti critici. Se è vero infatti che la ricerca scientifica è essenziale per la difesa e l’accrescimento del benessere collettivo, è altrettanto vero che il progredire della scienza si fonda sul riconoscimento da parte della società del suo valore e della sua portata. Alla luce delle sfide globali che siamo chiamati ad affrontare, è quindi centrale coltivare questo rapporto raccontando in che modo la scienza avanza e quali sono le nuove meravigliose scoperte che ci regala.
È questo il cuore del nuovo libro di Jim Al-Khalili uscito in Italia con il titolo Le gioie della scienza (Bollati Boringhieri) che già nell’introduzione scrive: «Noi scienziati iniziamo a capire che non è sufficiente tenere i risultati delle ricerche per noi. Dobbiamo fare lo sforzo di spiegare, più onestamente possibile, con trasparenza, come lavoriamo, quali domande ci poniamo, cosa abbiamo imparato, e mostrare al mondo come pensiamo di mettere a frutto le nostre scoperte». Da grande esperto di divulgazione scientifica, l’autore risponde al suo stesso appello offrendo una rassegna sintetica ed essenziale del metodo scientifico.
Dopo averlo incontrato in occasione della presentazione del suo libro all’Auditorium Parco della musica di Roma durante il Festival delle scienze, lo abbiamo contattato per approfondire in che modo esercitare il metodo scientifico può regalarci una più precisa visione del mondo, senza privarla della sua meraviglia.
La curiosità scientifica, infatti, si accompagna sempre, necessariamente, allo stupore e alla meraviglia nel rapporto con la natura. L’esempio più comune – e con cui si apre l’introduzione al libro – è quello dell’arcobaleno. L’arcobaleno infatti, non esiste. «Quando un raggio di sole entra in una goccia d’acqua, tutti i diversi colori che costituiscono la luce solare rallentano leggermente e viaggiano ognuno a velocità diversa, deviando e separandosi l’uno dall’altro in un processo chiamato “rifrazione”». È la nostra percezione ottica che “raccoglie” i fotoni, le particelle di luce, e ci mostra quell’effimero arco colorato che noi chiamiamo arcobaleno. «Ancor più – faceva notare il Al-Khalili alla presentazione del suo libro – i fotoni che raggiungono il mio occhio saranno necessariamente altri rispetto a quelli percepiti da chiunque altro. E così, guardando un arcobaleno, possiamo pensare che quello sia sempre unico, un arcobaleno personale per ciascuno».
Professor Al-Khalili, oggi assistiamo a una crescente diffusione di fake news e teorie cospirative, che segnalano una scarsa alfabetizzazione scientifica. Nonostante viviamo in tempi in cui la conoscenza è facilmente accessibile, la maggior parte delle persone considera ancora la scienza qualcosa di lontano dalla propria vita e troppo difficile da capire. Pensa che gli scienziati stessi abbiano in qualche modo una responsabilità in questo? Come possiamo avvicinare le persone alla scienza?
La questione è complessa. In primo luogo, non sono sicuro che lo scetticismo nei confronti della scienza e della conoscenza scientifica sia necessariamente peggiore oggi che in passato. C’è sempre stato chi diffida della scienza, anche se ora Internet, e in particolare i social media, hanno amplificato il problema. Questo si è visto soprattutto durante la pandemia, quando i consigli degli scienziati hanno avuto un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone.
Il problema varia anche da Paese a Paese. Per esempio, nel Regno Unito, dove la comunicazione scientifica è considerata vitale e ben consolidata, stiamo assistendo ad una maggiore integrazione della scienza nella cultura popolare. Nei media tradizionali compaiono sempre più racconti e notizie di scoperte scientifiche. Da 11 anni presento un programma radiofonico della Bbc (The Life Scientific) rivolto al grande pubblico, che ha oltre due milioni di ascoltatori settimanali regolari.
Nel suo nuovo libro, lei propone un approccio razionale basato sul metodo scientifico come antidoto alle cospirazioni sempre più diffuse. Tuttavia, lei scrive anche che «svelare i segreti della natura richiede ispirazione e creatività non meno di qualsiasi impresa artistica, musicale o letteraria». Ritiene che porre maggiormente l’accento su questo aspetto possa essere la chiave per rendere la scienza più umana e quindi meno ostile?
Assolutamente. Mi sento molto frustrato quando sento commentatori che dividono il nostro sistema educativo in materie “tecniche” (scienze, matematica, ingegneria) e materie “creative” (letteratura, arte, musica). La scienza non è meno creativa delle arti e questo messaggio deve essere trasmesso con forza. Naturalmente, dobbiamo essere in grado di coinvolgere le persone, in particolare le giovani generazioni, in modi diversi. Alcuni preferiscono l’aspetto tecnico e logico di alcune aree della scienza, come l’informatica, altri amano gli aspetti legati alla risoluzione dei problemi, come l’ingegneria, altri ancora si lasciano coinvolgere dalle meraviglie del cosmo o dalla creatività delle prove matematiche, mentre molti altri preferiscono la scienza che ci tocca più direttamente, come la salute e la medicina. La scienza è così vasta che è difficile metterla tutta in una scatola e trovare un unico modo per renderla significativa per le persone.
Un altro tema molto interessante che affronta nel libro è quello dell’incertezza. Durante la pandemia, abbiamo sperimentato come questa abbia talvolta portato a equiparare lo scienziato ad un opinionista. Qual è la differenza tra lo scienziato, che è disposto a modificare o perfezionare la propria visione del mondo, e coloro che dubitano di tutto, persino che la Terra sia rotonda?
Molte teorie della cospirazione credono di ragionare in modo scientifico. Diranno che la scienza ci insegna ad essere curiosi e a mettere in discussione tutto; ci insegna anche a cercare prove a sostegno delle nostre teorie. Ma in questo caso commettono un grosso errore. Mentre mettono in discussione tutto, compresi i “fatti” scientifici, come il fatto che la Terra è tonda o l’importanza della medicina moderna, non mettono mai in discussione le loro opinioni e teorie. Chiedete ad un teorico della cospirazione quali prove sarebbero necessarie per convincerlo a cambiare idea. Dovrebbe ammettere che non c’è niente da fare. Questo non è pensare in modo scientifico. Essere pronti a superare i nostri pregiudizi e a modificare le nostre opinioni alla luce di nuovi e migliori prove e dati è l’essenza del modo in cui progrediamo nella comprensione del mondo.
A proposito di pregiudizi, cultura e scienza si sono sempre contaminate in modi più o meno espliciti. Quanto i pregiudizi degli scienziati hanno influenzato le loro scoperte nel corso della storia?
Gli scienziati sono esseri umani e sono quindi suscettibili alle influenze culturali o ai riferimenti ideologici come chiunque altro. Per questo motivo dobbiamo ammettere che gran parte della scienza non è esente da pregiudizi. Ma se come individui abbiamo inevitabilmente motivazioni, pregiudizi e visioni ideologiche diverse, la forza del metodo scientifico sta nel fatto che è in grado di correggerle. Quando più scienziati provenienti da culture e ambienti diversi, con motivazioni o convinzioni personali diverse, giungono tutti alla stessa conclusione su una previsione scientifica o su un risultato sperimentale allora sentiamo di poterci fidare di più di quel risultato. Naturalmente, dipende dal settore scientifico di cui stiamo parlando. Le descrizioni della gravità di Galileo e Newton non dipendevano dal loro background culturale. Era il momento giusto per fare le loro scoperte, ma se non fossero mai nati, altri sarebbero arrivati alle stesse conclusioni, all’epoca o in seguito. Altre aree, come le scienze sociali, sono più soggettive e dipendono dalle norme culturali dell’epoca. Credo che questo sia inevitabile.
Viceversa, anche la scienza condiziona fortemente la cultura. Molto spesso le scoperte scientifiche hanno cambiato il nostro modo di vedere e capire il mondo, provocando nuove rivoluzioni culturali.
Questo è certamente accaduto nel corso della storia, da Galileo, a Darwin, a Einstein. Il modo in cui vediamo il mondo e il modo in cui ci comportiamo come società dipende dalla nostra comprensione del mondo e dalle tecnologie che sviluppiamo sulla base di tale comprensione, dalla stampa ad Internet. Le rivoluzioni culturali sono spesso avvenute sulla scia dei progressi della scienza e della tecnologia.
Come scrive nel suo libro, conoscere la realtà non ne toglie la magia, ma anzi ci arricchisce. Qual è la scoperta scientifica, studiata o scoperta, che l’ha più entusiasmata?
Il campo della fisica in cui lavoro sarà sempre l’argomento che ha avuto, e continua ad avere, un enorme impatto su di me. Ci sono state singole occasioni in cui ho imparato qualcosa di nuovo sul mondo che mi ha colpito profondamente, in particolare quando si tratta di un argomento che affronta le grandi questioni o tocca idee filosofiche, come la natura della realtà che abbiamo imparato attraverso le teorie di Einstein sullo spazio e sul tempo, o le idee della meccanica quantistica. Anche dopo tanti anni di studio, ricerca e insegnamento, questi argomenti mi riempiono di meraviglia e mi emozionano ancora.

Il Risiko Iran e la lezione di Fariba Adelkhah

Mi metto a scrivere con una stretta al cuore, perché al mio posto dovrebbe esserci una persona per la quale è impossibile farlo. Parlo dell’antropologa Fariba Adelkhah, autrice di numerosi lavori autorevoli sulla società iraniana. Anche se nella notte tra venerdì 10 e sabato 11 febbraio è stata rilasciata dalla prigione di Evin, Fariba Adelkhah continua ad essere “prigioniera scientifica” in Iran, dove era stata arrestata il 5 giugno 2019, perché non sa in che misura la sua scarcerazione potrà permetterle di recuperare la libertà di viaggiare all’estero, e soprattutto di tornare a fare ricerca sulla società iraniana. Non si può pensare a ciò che sta avvenendo in Iran senza fare riferimento ai lavori di Fariba Adelkhah, la cui integrità scientifica e morale ci costringe a riflettere sui fatti, anche quando sono politicamente o emotivamente scomodi.

Può essere scomodo, innanzitutto, attribuire all’islam un significato appropriato al ruolo che riveste nella società iraniana. La Repubblica islamica dell’Iran non è poi così “islamica”: non è la Repubblica dei “mullah”, ma di una fazione politico-clericale che ha avuto la meglio nella rivoluzione del 1979, un po’ come i bolscevichi nella rivoluzione russa del febbraio 1917, e che ha suscitato la disapprovazione di una parte del clero. Peraltro, il clero non esercita alcun monopolio sull’islam. Vi sono laici che si richiamano all’islam come intellettuali o come militanti islamici. I Guardiani della rivoluzione e il movimento Basij sono allo stesso tempo religiosamente orientati e laici, così come molti intellettuali che hanno partecipato al dibattito pubblico prima o dopo la rivoluzione. L’opposizione armata al regime dei Mojahedin del popolo associa il riferimento all’islam con un certo anticlericalismo e un’interpretazione semplicistica del marxismo. Il paradosso della Repubblica islamica è che ha promosso allo stesso tempo sia la secolarizzazione del potere, sancendo il primato della ragione di Stato sulla ragione religiosa per volere dell’ayatollah Khomeini, nel gennaio 1988, sia la secolarizzazione della società, attraverso la crescente burocratizzazione della religione e il declino della sua influenza. Fariba Adelkhah ha parlato di una “Repubblica islamica senza moschee”.

Purtroppo, nel dibattito pubblico si tende a non dare importanza a queste sfumature, e a dare per scontato che l’islam sia “oscurantista” per la propria essenza religiosa, e che sia estraneo alla “modernità”. Si tende a pensare che la “modernità” sia di monopolio dei laici e che si possa realizzare solo in uno spazio secolarizzato.
In realtà, le logiche religiose e secolari sono sempre state intrecciate fin dal XIX secolo, se non altro perché le madrase esercitavano un monopolio quasi completo sull’istruzione, e perché i rappresentanti dell’élite avevano una formazione religiosa. La maggior parte dei leader del primo periodo rivoluzionario (1906-1924) avevano ricevuto un’istruzione islamica e provenivano da ruoli clericali, proprio come i teorici riformisti del XIX secolo. I movimenti di dissenso religioso della prima metà del XIX secolo ebbero la capacità di affrontare le sfide dell’epoca fornendo risposte allo stesso tempo religiose e moderne. Le principali protagoniste di questa storia sono state delle donne, nella loro diversità.

La ricerca nelle scienze sociali aiuta a prendere le distanze dalla Grande narrazione politologica e militante di una “rivoluzione” che si fa strada con risolutezza e di una Repubblica islamica svuotata che sta per crollare o essere capovolta. La prima cosa che colpisce di questo millenarismo “transitologico” e “democratico” è l’assenza di documenti su cui poggia. La repressione in Iran è così violenta che le fonti giornalistiche indipendenti sono venute a mancare da tempo. Le informazioni diffuse dai social network sono da prendere con cautela perché sono diventate indistinguibili dalle invettive che colpiscono chiunque metta minimamente in discussione la Grande narrazione, immediatamente accusato di scendere a patti con la “dittatura”. Il dibattito pubblico viene ormai presentato come una psicomachia che rende sospetto l’esercizio stesso della professione di ricercatore.
Tuttavia, non abbiamo un’idea precisa della forza e della rappresentatività dell’attuale mobilitazione, per quanto coraggiosa possa essere. Cosa sta succedendo nelle città di medie dimensioni? Nelle campagne? Nell’industria petrolifera? Il carattere irresistibile della rivoluzione del 1978-1979 dipendeva dal suo radicamento nella società.

Oggi, neppure la classe media sembra aderire del tutto alla protesta. Il discorso prevalente si basa sull’essenzializzazione di attori che da molti anni sono pensati al di fuori della società e della storia: “le” donne e “i” giovani sono presentati come i promotori della “riforma” (impossibile) della Repubblica islamica, come i portatori della richiesta di democratizzazione (destinata al fallimento), come i protagonisti in attesa del suo rovesciamento (ineluttabile), nonostante sia evidente che una parte delle donne e dei giovani sostenga le istituzioni vigenti, la loro ideologia e gli interessi che queste garantiscono. Declinati al singolare, ridotti a pochi simboli fotogenici, il giovane e la donna diventano le icone di un messianismo democratico di mercato che si contrappone al suo antipodo, l’islam.

Inoltre, qual è il legame tra la contestazione in Kurdistan e Baluchistan, da un lato, e la mobilitazione dei grandi centri urbani nel cuore del Paese, dall’altro? Stiamo assistendo a una recrudescenza dei movimenti autonomisti degli inizi della Repubblica o a una protesta unitaria tra le province periferiche e il centro del Paese?
La mancanza di ricambio politico e la persistenza di un solido conservatorismo sociale, per quanto rivoluzionario, in grado di convivere con l’occidentalismo ostentato, che ha al suo epicentro l’attaccamento all’ordine familiare, rendono aleatorio l’avvento del Nuovo tempo democratico. Nel 1979, vi erano comitati e reti rivoluzionarie ben strutturate e generosamente finanziate, grazie a un impegno militante che risale almeno agli anni Sessanta, di cui la figura severa ma rassicurante di un vecchio ayatollah era diventato il volto e il punto di riferimento. Il potere è caduto come un frutto maturo, tanto più che lo scià era restio a ricorrere a una massiccia repressione militare.

Oggi la situazione è molto diversa. L’unica forza di opposizione organizzata che cerca di inserirsi nella mobilitazione per prendere il sopravvento è quella dei Mojahedin del popolo, odiata fin da quando si era alleata con Saddam Hussein durante la guerra del 1980-1988. Inoltre, nonostante il regime stia gestendo sul piano politico la crisi in maniera più abile di quanto non si dica all’estero, fa ricorso senza scrupoli alla violenza, benché la eserciti in maniera selettiva. Il movimento di protesta ha un vigore e una portata innegabili, ma il suo esito politico è ancora incerto. L’opposizione in esilio è divisa, non sa più molto di un Paese da cui si è allontanata quarant’anni fa ed è screditata dal sostegno della componente più conservatrice della destra americana.

Immagino che Fariba Adelkhah consideri la situazione attuale come una “rivoluzione senza cambio di regime”. Se la sua diagnosi è pertinente, la successione di Ali Khamenei, la Guida della rivoluzione, potrebbe essere l’occasione per ridefinire in parte l’assetto istituzionale di una struttura di potere policentrica, in cui non mancano pesi e contrappesi (checks & balances), nonostante l’asimmetria che si è instaurata a vantaggio di una parte dei Guardiani della rivoluzione e dei conservatori.
Forse a torto, ritengo improbabile l’ipotesi di una successione dinastica, di cui si sente parlare sempre più spesso. Anche se la Repubblica islamica è uno “Stato familiare”, il carattere profondamente repubblicano delle istituzioni, concepite per combattere la ricostituzione di un potere personale all’indomani della rivoluzione, dovrebbe impedire che si realizzi questo scenario. Tuttavia, non è da escludere un’evoluzione militarista della Repubblica, di cui il corpo dei Guardiani della rivoluzione potrebbe essere il vettore e il beneficiario. Il potere economico che hanno acquisito con la guerra con l’Iraq e con la liberalizzazione dell’economia a partire dagli anni 90, che è stato rafforzato dalle sanzioni internazionali, darebbe loro fin d’ora un vantaggio decisivo nel gioco delle fazioni. Inoltre, i Guardiani della rivoluzione hanno l’abilità di rimanere ai margini delle forme più immediate di repressione della protesta in corso, che lasciano alle altre forze di sicurezza, anche se la avallano e fanno il possibile per far valere gli imperativi della “sicurezza nazionale” nell’esercizio pratico della ragion di Stato, come stanno amaramente sperimentando gli ostaggi stranieri. L’Iran potrebbe quindi adottare un’architettura del tutto analoga a quella che si è imposta in vari Paesi dal Pakistan, alla Thailandia, alla Turchia (fino all’ascesa al potere dell’Akp) o Israele. Un corpo armato, associato ideologicamente al regime al potere, diventerebbe il garante del sistema, senza necessariamente esercitare il potere in modo diretto ed esplicito.

La questione è di secondaria importanza. Le formule istituzionali possono cambiare, l’autoritarismo può obbedire a una ritmica di diastole e sistole, per usare una metafora cardiaca cara ai politologi brasiliani, ma o sistema (il sistema) è in grado di riprodursi in tempi più o meno lunghi. Il lavoro di Fariba Adelkhah lo ha evidenziato a proposito della Repubblica islamica, in particolare a proposito degli interessi agrari. Le vere questioni legate all’attuale mobilitazione si riferiscono alla storicità e al futuro possibile per la società iraniana su almeno tre aspetti: l’economia politica, l’immaginario politico e le forme del vivere collettivo, compresa quella sul velo.

Non si tratta di sottovalutare il carattere inedito della partita che si sta giocando sotto i nostri occhi, di cui curiosamente alcuni elementi sono passati sotto silenzio: ad esempio, la trasformazione della società causata dall’urbanizzazione, la crescita demografica, le nuove tecniche di comunicazione; o ancora l’impatto ambientale che l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse idriche stanno provocando su un Paese semiarido, con il rischio di causarne il collasso. Il presentismo della maggior parte delle analisi disponibili non aiuta a capire la sostanza degli eventi.
C’è una certa ingenuità nel fare del velo la “linea rossa” che se superata segnerebbe la morte della Repubblica islamica, nel ripetere che la Repubblica non potrebbe sopravvivere alla rinuncia della sua imposizione. Il Partito comunista cinese ha rinunciato alla tuta da lavoro maoista e se l’è cavata molto bene, buon per lui. A forza di lasciarsi suggestionare da una chimera, “l’islam”, vagheggiato da un pensiero antropologicamente, sociologicamente e storicamente debole, si corre il rischio dell’irenismo.

Nella foto di Renato Ferrantini: presidio di protesta davanti all’ambasciata dell’Iran a Roma, 11 febbraio 2023

L’autore: Jean François Bayart insegna Religione e politica nel mondo contemporaneo all’Institut de hautes études internationales et du développement (Iheid) di Ginevra. È tra gli oltre 220 ospiti di Biennale democrazia che si tiene a Torino dal 22 al 26 marzo

 

«Bolsonaro è finito, il machismo no»

Christiane Jatahy, nello spettacolo che andrà in scena al Piccolo di Milano, Depois do silêncio, si è ispirata al libro Aratro ritorto, di Itamar Vieira Júnior, e al documentario Cabra marcado para morrer, di Eduardo Coutinho. In entrambe le opere, il tema ricorrente è il prezzo pagato dal singolo quando diventa simbolo di una lotta collettiva.

Cosa l’ha spinta, in questi anni, a fare teatro politico?
A mio parere, il teatro è sempre stato e sempre sarà politico, sebbene ciò non venga dichiarato apertamente. L’atto di riflettere insieme all’interno di uno stesso ambiente, rispetto a un tema comune, lo rende automaticamente politico. Tuttavia, è evidente che, quando metto in scena temi propriamente politici, entriamo in nuova dimensione dalla quale derivano situazioni diverse, anche se molto positive, perché concepisco il teatro come una macchina che getta semi di trasformazione rispetto all’argomento trattato. Nel farlo, uso sempre la metafora della pietra gettata nel lago e le circonferenze che genera. È possibile osservare la nascita di affinità e spunti di riflessioni a partire da cosa si mette in scena. Non si tratta di un fatto meramente politico, ma anche rivoluzionario; sarà anche utopico interpretare una forma in questo modo, ma questo è il mio pensiero. Per quanto riguarda il tema, possono esserci opinioni contrastanti. Vediamo un po’ ovunque situazioni estreme, e le discussioni possono esserlo altrettanto. Nel mio piccolo, però, io avverto l’urgenza di assumermi questa responsabilità di mettere in scena temi fondamentali per la comprensione dei nostri tempi. Depois do silêncio è l’ultima parte della trilogia che ho ideato dopo i quattro anni del governo Bolsonaro. Tutti sappiamo l’orrore che abbiamo vissuto in questi ultimi anni e sappiamo altrettanto bene come ci siamo arrivati. Strutturalmente, abbiamo una serie di nodi storici da sciogliere, questioni mai risolte. Il documentario Cabra marcado para morrer risale al 1962 e siamo costretti ancora a vedere attivisti uccisi nel corso della loro lotta per una terra che apparteneva, di diritto, già ai loro avi.

Nella prima parte della sua Trilogia dell’orrore, intitolata Entre chien et loup, affronta il ritorno del fascismo in Brasile e come l’estrema destra di Bolsonaro ha plasmato le menti. Lei se lo aspettava?
No, per me è stato sorprendente. Probabilmente, non mi sono resa subito conto della portata del fenomeno; solo in un secondo momento ho capito che era un evento semplicemente rimasto sopito nella società brasiliana. Era un come un mostro che dormiva accanto a noi, che poi si è risvegliato enorme. Famiglie intere furono divise e amicizie rotte; ma la cosa ancora più grave è essermi ritrovata a confrontarmi con persone comuni che erano passate a riprodurre idee fasciste, senza rendersi minimamente conto della violenza delle loro parole. Nell’ultima scena di Entre chien et loup, ad esempio, metto in evidenza questa nostra incapacità di comprendere e prevedere la dimensione del fenomeno. Pullula tanta rabbia tra persone convinte di difendere i propri diritti quando, in realtà, stanno difendendo soltanto i loro privilegi e, pur di mantenerli, hanno deciso di abbracciare il fascismo. L’avanzare dell’estrema destra è un fenomeno mondiale, come ben sapete anche voi in Italia. In questo senso, il Brasile è stato una specie di laboratorio. Sebbene il governo Bolsonaro sia finito, il bolsonarismo, invece, è ancora forte. Occorre lavorare parecchio su questioni fondamentali per una rinascita e trovare un modo per ricostruire e ripartire da zero. In tutta onestà, penso che questo nuovo governo Lula abbia la grande opportunità di sanare molte ferite.

Lei ha trascorso la sua adolescenza a Rio de Janeiro. In quel periodo, vi erano attentati forgiati dai militari per destabilizzare i futuri governi democratici. Essendo giovanissima, non si sentiva un po’ impotente? Se sì, quanto ha inciso questa sensazione nella costruzione del suo percorso artistico?
Durante i vent’anni della dittatura brasiliana, oltre al diritto alla vita negato ai tanti che l’hanno persa nella lotta per la democrazia, è stato tolto a noi, che all’epoca eravamo bambini o adolescenti, il diritto di sapere la verità. Ci è stata negata la conoscenza, come accade in tutte le dittature, il diritto all’informazione. Sono riuscita a comprendere la dimensione del mio vissuto così come tanti giovani, molto tempo dopo. A quel punto, consapevole di tutto ciò che ci hanno omesso, come parte attiva della società, ho avvertito l’urgenza di far emergere l’invisibile. E vi dico di più: se la storia si sta ripetendo (ed è agghiacciante), è perché non l’abbiamo studiata abbastanza, non l’abbiamo rivisitata, non l’abbiamo utilizzata come uno strumento per portare alla superficie la gravità della situazione del Brasile in ogni suo periodo storico, tanto nel regime militare del 1964, quanto nel periodo coloniale. Evitare una seria riflessione sul Brasile post-coloniale, significa inevitabilmente sottrarsi a qualsiasi riparazione della struttura sanguinosa sulla quale è stato fondato e si poggia il nostro Paese.

«La realtà di oggi è così impressionante, così forte, che ho difficoltà ad entrare nella finzione», ha affermato in una intervista. Ha per caso avvertito una deviazione del suo percorso creativo con l’arrivo dell’estrema destra al potere?
In realtà, non sappiamo mai da dove proviene il seme che crescerà sul nostro terreno creativo. Sono convinta che lei, come scrittrice, conosce bene il processo. A volte, ci sorprendiamo di noi stesse, delle scelte che facciamo, delle strade che decidiamo di percorrere. Prima di Bolsonaro, il mio percorso artistico stava già prendendo una precisa direzione, incentrata su fenomeni importanti che si stavano verificando nel mondo, o in Brasile. L’opera O agora que demora e il mio dittico sull’Odissea precedono la vittoria di Bolsonaro alle presidenziali del 2018. L’avanzare del progetto politicamente violento che strappò dal potere la nostra prima presidente donna era abbastanza chiaro, quindi c’era già stata una prima interferenza della politica sul mio processo creativo. La vittoria di Bolsonaro fu soltanto il colpo di grazia che ci fece precipitare nell’abisso. Come artisti, non avevamo idea né di come ne saremmo usciti né quando. E come donna brasiliana, in primis, sentivo il dovere di occuparmi di ciò che vedevo e subivo. Trascorrendo molto tempo in Brasile, ma anche all’estero, avevo una doppia prospettiva, interna ed esterna. Lei sa come siamo fatti, noi brasiliani: andiamo via dal Brasile, ma il Brasile non se ne va da noi, un pezzettino di lui rimane sempre nel nostro cuore e rispettiamo le nostre origini. La condizione del migrante, del profugo o del rifugiato è quella di chi trasporta costantemente un immenso bagaglio, che non viene mai disfatto. Perciò, in questi ultimi quattro anni mi sono addentrata in questioni estremamente delicate, inerenti a tematiche politiche e sociali brasiliane, domandandomi quale fosse la direzione più giusta da prendere come società.

Lei è stata una delle poche artiste brasiliane, acclamata oltretutto a livello internazionale, ad utilizzare un linguaggio molto chiaro a riguardo. Ha denunciato il fascismo, il razzismo e il genocidio della popolazione indigena. Il pubblico si sorprende quando scopre che ciò che sapeva sul Brasile erano stereotipi?
La propaganda del regime brasiliano è stata fatta a regola d’arte negli anni Sessanta. Sono riusciti a vendere all’estero l’immagine di un Paese che viveva in armonia, nonostante le differenze. Il razzismo da noi praticamente non esisteva e “tutti vivevamo perfettamente integrati”, così dicevano. Oggi sappiamo che si trattava di una rappresentazione falsa. Riprodurre questo discorso è controproducente, se vogliamo costruire un Paese migliore, e Depois do silêncio parla anche di questo. In Europa, il pubblico spesso non ha la minima idea di ciò che realmente è accaduto e accade tutt’ora nel nostro Paese; ne rimane sorpreso perché scopre la frammentazione della nostra società, oltre al razzismo imperante. È importante che i brasiliani bianchi, quelli che godono di certi privilegi, categoria alla quale peraltro appartengo anch’io in quanto donna bianca, si uniscano nella lotta di tutte quelle persone che, a causa del colore della loro pelle, subiscono pregiudizi, violenze e ingiustizie, di generazione in generazione. Solo partendo da nuove basi, che penetrano con forza e in profondità nella verità storica, possiamo pensare a rivalutare totalmente la società e renderla più equa.

È questo che prova a fare quando cerca di eliminare la distanza tra palcoscenico (lassù) e pubblico (più in basso)? C’è l’ideale dell’uguaglianza di mezzo?
Il mio modo di concepire il teatro è un rapporto senza gerarchie. L’intelligenza e la diversità del pubblico vanno accolte e trasformate come parte integrante dell’opera. La famosa “quarta parete” è crollata da tempo. Il mio lavoro di ricerca artistica si basa perlopiù sui meccanismi di interazione del pubblico con la scena e su come realizzarli al meglio. La dimensione politica del teatro implica una serie di incontri che ci fortificano e ci riuniscono al centro di una agorà dove c’è chi vede cosa accade sulla scena e chi è in scena, che subisce lo sguardo del pubblico. Quando il pubblico è portato ad interagire, a prendere parte nella recita, creo in un certo senso un approccio diretto. Uno dei miei lavori, O agora que demora (L’ora che tarda), è incentrato sulla figura di Ulisse, e gli attori recitano in platea. Ma prima di eliminare determinate frontiere, studio le caratteristiche di ogni territorio e come farle confluire in un terzo spazio più comunicativo e creativo di interazione. Le frontiere sceniche si presentano in svariate forme; in particolare, una di esse è posizionata proprio tra la scena e gli spettatori. Lo studio di questa dinamica è una costante nella mia intera costruzione drammaturgica.

Lei ha vinto l’anno scorso il Leone d’oro alla carriera. Uno degli aspetti fondamentali del suo teatro, ricordato nel corso della premiazione, è la poesia insita nella sua opera. Può parlarcene in maniera più approfondita?
Per me, la poesia vibra nell’aria, in ogni singolo elemento che troviamo nel nostro percorso di vita. Ai poeti spetta il compito di decantarli. Trovo che l’opera del poeta Manoel de Barros abbia molto in comune con Aratro ritorto o il documentario Cabra marcado para morrer. Mi piace la poesia estratta dalle pietre, dalla terra, dagli uccelli. A tal proposito, vorrei menzionare alcuni artisti degni di nota: Clarice Lispector, pur non essendo una poetessa, descriveva immagini poetiche e molto potenti nei suoi romanzi; Fernando Pessoa che, oltre alla maestria e genialità nell’uso della lingua portoghese, ci ha regalato scritti politici fondamentali, con i suoi eteronimi. Aggiungo anche la poesia concreta che per me è fonte di ispirazione: Manuel Bandeira, Carlos Drummond de Andrade, Ferreira Gullar, e molti altri. Sono davvero tante le mie fonti di ispirazione poetica!

Per la messa in scena di Depois do silêncio, ha scelto attrici che interpretano ruoli affini alle loro vite. È come se mettessero in scena loro stesse. Immagino si tratti di un processo molto complesso, non è così?
In effetti, è complicato spiegarlo a parole. A falta que nos move (L’assenza che ci muove), è uno dei primi lavori di questo mio percorso artistico, che poi è diventato un film. Racconto la mia generazione, quella cresciuta sotto il regime militare, che conosciamo come “generazione Coca-Cola”. Nel corso della costruzione dell’opera, è nata una discussione molto accesa sull’utilizzo dei veri nomi degli attori e delle loro storie di vita; è maturata quindi l’idea di mescolare tutto, realtà e finzione, attori e personaggi. È stato un lavoro fondamentale. Alla fine, la storia raccontata da un attore al pubblico, presentata come sua personale, non era vera, perché era quella dell’altro attore; l’attore che la raccontava, però, usava il suo vero nome e, a tratti, raccontava parte della sua storia di vita. Il pubblico avvertì l’intensità di quel lavoro per via di questo attrito tra realtà e finzione. Quando un attore si mette a nudo, emergono inevitabilmente tutti i substrati dell’immagine che ha di sé, le sue idee. Per questo, prima di andare in scena, abbiamo discusso tanto e affrontato le paure di ognuno. È un duro lavoro: rivelatore, trasformatore. Pedro Brício, uno degli attori, diceva che, dopo aver ripetuto tante volte la sua storia di vita in scena, essa già non gli apparteneva più, perché era entrata a far parte della recita stessa.

Ci racconti ancora il suo lavoro…
In O agora que demora mi sono messa in gioco anch’io. Ad un certo punto, è come se mi vedessi dall’esterno e, in effetti, stavo sfruttando la mia storia per costruire una recita. Si tratta di un’operazione che va oltre il recitare sé stessi. Il lavoro di regia, in questi casi, diventa un lavoro di gruppo; in pratica, non decido più come fare, ma cosa è bene mettere in scena e cosa no. È un continuo apprendimento, un processo davvero affascinante. Tanto in Depois do silêncio quanto in A falta que nos move, il pubblico si può confondere: ciò che crede trattarsi della storia personale dell’attore è, in realtà, la parte inventata; mentre ciò che è realmente accaduto nella sua vita viene percepito come appartenente alla finzione. Questo mescolamento tra finzione e realtà è presente nelle due opere che ispirarono Depois do silêncio. L’artista e documentarista Coutinho, di Cabra marcado para morrer, aveva molto lavorato sul confine tra la verità raccontata da una persona e l’immagine che aveva di sé. La sua ricerca documentale, a volte, si scontrava con la rappresentazione che i singoli individui avevano di loro stessi e dell’oppressione vissuta. Anche nel romanzo Aratro ritorto, si cela una ricerca documentale notevole. L’autore Itamar Vieira Júnior ha fatto una ricerca monumentale prima di scriverlo, con tantissime interviste nella zona dove è ambientata la storia, la Chapada Diamantina. Ovviamente, il materiale raccolto è stato successivamente romanzato.

Il documentario Cabra marcado para morrer racconta l’omicidio di João Pedro Teixeira, fondatore del primo sindacato contadino, avvenuto nel 1962. I proiettili hanno perforato i libri che portava ai figli. Fu un omicidio politico. Chi controlla l’economia di un Paese cerca sempre di impedire ai poveri di accedere alla cultura e alla conoscenza. In che modo, invece, il teatro può portare le persone ad interessarsi di questi temi?
Il teatro ha tante correnti e sfumature. Tuttavia, qui in Europa ho notato, negli anni, un aumento delle compagnie e degli attori che lavorano su temi sociali e politici. Lo spazio occupato dal teatro di intrattenimento, quello in cui le persone vanno per rilassarsi ci sarà sempre, ma ci tengo a sottolineare un dettaglio, assolutamente non trascurabile. Dal mio punto di vista, l’idea del teatro concepito come spazio di discussione e di riflessione, quello portato in scena dopo un duro lavoro di ricerca e di approfondimento, gode di buona salute. Il punto è: come realizzare un teatro politico senza trasformarlo in un pamphlet, o renderlo didascalico o dogmatico? Possiamo evitare di parlare di politica, quando trattiamo temi sociali? Bisogna trovare il giusto equilibrio tra lo spazio lasciato all’emozione, all’identificazione e alla risata, e quello dedito alla riflessione profonda. In qualità di artisti, non possiamo pensare di essere “unici detentori del sapere”. Nel mio piccolo, ciò che faccio è mettere sulla scena elementi ben precisi, che ritengo degni di discussione. Mi rendo conto che non di rado tutto ciò possa essere visto come denuncia. Ma vorrei far comprendere, invece, che si tratta di un lavoro di sperimentazione artistica, che aggiusto di volta in volta, in questo mio percorso pieno di curve e di deviazioni.

Ucraine e russe insieme per la pace

Voha Marozava e Svitlana Pakalyuk sono due donne ucraine che vivono da tempo in Italia e che dopo l’invasione russa hanno in gran parte lasciato la propria occupazione per dare vita ad una associazione, “Donne for peace” (Dfp). Un nome in due lingue, per simboleggiare la volontà di superare ogni barriera. «Dfp nasce a ridosso del conflitto – racconta Volha Marozava, la presidente -. Eravamo in sette, alcune neanche si conoscevano fra loro. Proveniamo da Ucraina, Bielorussia e Russia. Vogliamo agire lanciando un messaggio: il nostro simbolo ha i colori dei diversi passaporti perché questi documenti non possono essere usati a pretesto per dividere le persone, specialmente le donne». «Siamo esseri umani che non si piegano all’odio e ai separatismi – aggiunge Svitlana Pakalyuk, socia fondatrice – perché oggi è fondamentale continuare ad usare intelligenza e logica, senza restare influenzati e condizionati dai fatti terrificanti che hanno travolto i nostri Paesi. L’associazione è un invito a cercare i punti di contatto, a risolvere in maniera positiva le divergenze fra le persone. Dobbiamo trovare una via pacifica, una soluzione attraverso cui potremmo uscire tutti con un solo insegnamento, quello dell’amore».

Entrambe partono dal presupposto che lingue e culture non possono divenire bersaglio dell’odio e cercano concretamente di ergersi ad ambasciatrici di pace, affermando che solo la diplomazia potrà invertire la rotta nella situazione che si è determinata fra popoli fratelli, come il russo e l’ucraino. La presidente precisa: «Non siamo accomunate da valori politici o religiosi. Crediamo nell’altruismo, siamo madri e conosciamo bene i bisogni delle donne migranti perché tanti anni fa lo siamo state noi. Vogliamo trasferire quello che abbiamo appreso qui, a chi cerca una propria pace a livello personale e nel mondo. Essere socialmente utili, da volontarie, e riuscire a conquistare la fiducia di chi arriva senza più nulla è un grande risultato».

L’impatto concreto è avvenuto a Roma, con l’arrivo dei primi profughi ucraini. Svitlana Pakalyuk, per tutte Sveta, ha scoperto che vicino a casa sua, nel quartiere romano di Spinaceto, presso l’hotel Mercure, erano alloggiati 400 profughi, in gran parte donne e bambini. «Siamo andate a parlare con loro e abbiamo verificato che avevano bisogno di tutto – raccontano quasi all’unisono -. Persone che si occupassero della consegna dei generi di prima necessità, che le aiutassero nelle telefonate per prenotare visite mediche (nessuno di loro parlava italiano), ma l’attività più importante che abbiamo cercato di svolgere era quella di garantire loro un sostegno psicologico, coinvolgendo un team di cinque volontarie. Siamo riuscite a costruire un esempio di buona accoglienza grazie ad una fitta rete costituita da terzo settore, cittadinanza, amministrazione e professioniste. Il tutto in maniera rapida, spontanea e propositiva, incontrando una disponibilità umana incredibile». La prima richiesta da soddisfare era quella dell’apprendimento dell’italiano.

«In una settimana – riprende la presidente – abbiamo fatto partire i primi due corsi, ognuno per trenta persone. Abbiamo ottenuto alcuni spazi ad uso gratuito e due nostre volontarie, Camilla Passaro e Uliana Nezgodinska, hanno portato le donne a raggiungere il livello A1 di italiano. Camilla oggi fa ancora parte del progetto di accoglienza e integrazione. È amatissima da tutta questa comunità che è divenuta una grande famiglia. Ha un vantaggio linguistico, parla perfettamente russo riuscendo a spiegare bene la grammatica, ma poi ha un talento innato nell’instaurare relazioni di amicizia con le donne a cui insegna». Nel frattempo l’associazione, che oltre alle sette fondatrici raccoglie ora una sessantina di iscritte, ha presentato e vinto il progetto “Upe4 Inclusion”, patrocinato dal Municipio IX e in collaborazione con “Solco” (Servizi per l’organizzazione del lavoro e la creazione dell’occupazione), una Srl che si occupa di favorire la nascita di laboratori creativi. Si è unita anche l’Associazione nazionale azione sociale (Anas) Aps che ha permesso di presentare il progetto. Sono state selezionate novanta donne che si riuniscono in un’aula virtuale, a cui è stata garantita gratuitamente l’opportunità di apprendere i rudimenti tecnici di numerose attività artigianali.

L’obiettivo è quello di potersi inserire con una buona professionalità nel mercato del lavoro italiano. Le donne hanno iniziato con l’arte del make up, un settore in cui ci sono possibilità occupazionali, dalle estetiste alle truccatrici in ambito cinematografico. Il progetto prevede anche incontri con influencer e personalità del made in Italy (sartoria, estetica ecc…) per garantire una copertura mediatica attraverso l’utilizzo dei social, al laboratorio stesso. Il percorso di formazione ha l’obiettivo di trasmettere conoscenze e abilità utili per favorire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro, facilitando i processi di integrazione. Una parte delle donne del Mercure è riuscita rendersi economicamente indipendente e a raggiungere una propria autonomia.

Ad inizio dell’anno era stato predisposto lo sgombero di tutti i profughi dall’hotel. Sono iniziati i primi trasferimenti, anche se i bambini si erano già ambientati nelle scuole vicine, stabilendo legami affettivi con i coetanei italiani. Si è giunti così ad un accordo per cui 165 persone sono rimaste nella struttura che dovrebbe restare luogo di accoglienza, la cui natura però è ancora da definire. «Gli spostamenti dei profughi creano problemi per la realizzazione del progetto – dice Volha -. Non riusciamo a capire la logica che li determina ma sappiamo che si traducono in uno spreco di risorse economiche e di tempo. Provocano traumi, soprattutto ai minori, che non capiscono il motivo per cui vengono trasferiti da un posto ad un altro, come pacchi. Vorremmo veder compiere sempre scelte dettate dall’affetto e dal buon senso. Undici persone sono state trasferite vicino a Latina, fra loro c’è un bambino asmatico che ha bisogno di un ambiente sano. La madre è una delle donne del progetto. Perché allontanarli? A volte sembra che chi si occupa della burocrazia non comprenda di aver di fronte persone reali, con bisogni precisi».

La segue a ruota Sveta: «In un anno ho imparato che ci sono tre reazioni diverse da parte dei profughi: c’è chi lotta per affermarsi, chi resta in stand by aspettando di tornare a casa e chi si lascia andare a uno stato di inerzia. Le persone più determinate, anche se non si trovano più nell’hotel, ogni giorno viaggiano ore e ore per frequentare i corsi che proponiamo, dalla cucina al teatro. Ci siamo inventate anche tavoli misti, momenti di condivisione del cibo, fra italiani e ucraini e visite guidate per conoscere il territorio. Rifiutiamo un approccio assistenziale. Chi vuole darsi da fare è sempre la benvenuta». Il tentativo è di lavorare oggi pensando anche al domani. «Vogliamo fare in modo che le nostre attività avvengano nel rispetto delle regole dello Stato, comprese quelle che richiedono molto impegno, come le rendicontazioni amministrative. Ma pensiamo al dopo. Gran parte delle donne che sono con noi sono nate negli anni Settanta e Ottanta. Potranno in futuro rappresentare un ponte proficuo anche per l’Italia e le sue imprese, quando ci sarà la pace e si potrà ricostruire il Paese. E so di toccare un tema delicato: fra noi ci sono punti di vista diversi sul conflitto, ma non ci fermano. Molte nostre famiglie sono “miste”, russe e ucraine, sono state vittime dell’odio e devono contribuire a ricostruire relazioni. I popoli non hanno colpe. E ce la faremo, anche per una ragione. I valori che ci contraddistinguono, come associazione, non sono in vendita».

Quando le donne osano creare

Tanti anni di ricerca per riportare alla luce la vita di Marietta, la figlia di Tintoretto che non fu solo la sua piccola modella quando dipinse la Presentazione di Maria nella chiesa della Madonna dell’Orto a Venezia ma anche sua assistente e poi pittrice apprezzata, della quale purtroppo non ci rimangono opere autografe. Melania G. Mazzucco ne ha raccontato e fatto rivivere la storia in due affascinanti libri La lunga attesa dell’angelo e Jacomo Tintoretto e i suoi figli pubblicati da Rizzoli. Poi la scrittrice romana ha speso tanti anni sulle tracce di Plautilla Bricci, la donna che nel Seicento osò, non solo dipingere, ma progettare edifici. La sua storia è raccontata poeticamente ne L’architettrice (Einaudi).
Ora Melania G. Mazzucco torna a rendere omaggio al talento femminile con il libro Self portrait, anch’esso pubblicato da Einaudi (come il suo precedente Museo del mondo), in cui scrive un romanzo delle donne per immagini. Non una contro-storia dell’arte con un rigido telos, ma trentasei ritratti di artiste – da Elisabetta Sirani a Helene Schjerfbeck, passando per Artemisia Gentileschi, Suzanne Valadon, Frida Khalo, Antonietta Raphaël e molte altre – che compongono una galleria per raccontare come le donne, le artiste, si sono rappresentate: «L’idea – dice la scrittrice a Left – era quella di allestire questo museo come fosse la nostra storia».

Tutto parte da una interessante considerazione: «Per quanto fino al Novecento inoltrato le donne abbiano dovuto utilizzare schemi iconografici, dispositivi, iconografie che erano stati già prefabbricati da artisti uomini, per quanto abbiano dovuto lavorare su un déjà vu costruito da altri, sono riuscite a raccontare un’altra storia».
Un esempio emblematico è quello del tema biblico “Susanna e i vecchioni” riletto da Artemisia Gentileschi in maniera originale nella sua prima versione del 1610, rappresentando la scena dal punto di vista di una donna, che sente e soffre la violenza sulla propria pelle. «Artemisia ha declinato poi varie volte questo tema ma mai con quella stessa libertà sorgiva che le permise di rovesciare la visione tradizionale», approfondisce Mazzucco. «Nelle versioni successive lei stessa si adeguò un po’ alle richieste dei suoi committenti. Rivedere ora quelle versioni tardive nella mostra Artemisia Gentileschi a Napoli (alle Gallerie d’Italia in via Toledo, fino al 19 marzo, ndr) mi ha confermato questa impressione».

Quella tela di Artemisia Gentileschi indubbiamente accende uno sguardo nuovo sulla storia dell’arte. Ma colpisce anche il meno noto quadro di Elisabetta Sirani che dà il la a questa originale galleria mostrandoci una giovane Porzia ribelle che non accetta di essere solo moglie passiva. Bisognò aspettare il tardo Rinascimento, seppur ancora insanguinato di roghi di streghe, perché il talento delle pittrici cominciasse a farsi strada. Ma cosa era accaduto prima?

Se come è stato ipotizzato e documentato le donne furono protagoniste dell’arte nel paleolitico, perché per così tanto tempo poi si è perso traccia della loro arte? Che cosa era successo nel frattempo? È stato loro impedito di esprimersi attraverso la pittura? Sono state annullate dopo che avevano realizzato delle opere importanti? Forse entrambe le ipotesi? «Io penso che sia stata la struttura della società ad aver portato alla loro cancellazione, eccetto rari casi», risponde la scrittrice. «Alla fine le singole eccezioni sono state sempre tollerate nel corso della storia. Nel Quattrocento, nel Cinquecento, c’erano delle artiste, si tollerava la loro presenza, la loro esistenza, in quanto monstrum e prodigio». Questo vale per le artiste ma anche per le intellettuali fa notare Mazzucco: «Pensiamo per esempio a Cassandra Fedele che è stata la prima donna a recitare una dissertazione all’università. Fu considerata un eccezionale prodigio di virilità in un corpo di donna. Neanche lei forse sapeva che nel Trecento bolognese c’erano state donne all’università. Così come a Salerno nel medioevo e in Puglia nel Quattrocento. Ciascuna di loro è stata tollerata ma non ha potuto fare storia, perché la società lo impediva. Perché c’era chi aveva tutto l’interesse a cancellare le loro tracce che avrebbero sovvertito il mondo».

L’esempio di Plautilla Bricci da questo punto di vista è emblematico: «Nella Roma del Seicento la sua storia fu dirompente. Dimostrò che una donna può progettare, dirigere un cantiere senza essere appoggiata da chissà chi, senza avere grandi privilegi. Sarebbe stata un esempio deflagrante per le generazioni a venire – fa notare Mazzucco -, avrebbe potuto essere emulata da tante ragazze: “se lo può fare lei lo posso fare anche io”. Per questo fu cancellata. Nessuno ne ha più parlato. Nessuno le ha mai riconosciuto i suoi meriti. Per cambiare le cose – sottolinea la scrittrice – bisogna sapere. Le novità devono essere raccontate ed entrare nella memoria collettiva, poi la società intorno cambia. E questo è stato indubbiamente impedito nel caso di Plautilla Bricci».

Curiosamente l’architettrice (come lei stessa si definiva) è stata salvata dall’oblio grazie ad un’altra donna, una pittrice, anche lei di nome Plautilla. «È stato leggendo un testo del Settecento in cui è biografata Plautilla Nelli, suora pittrice nella Firenze del Cinquecento, che sono venuta a sapere dell’esistenza di Plautilla Pricci», rivela Mazzucco. «Sono gratissima a Plautilla Nelli, che a sua volta era stata salvata da Vasari». Proprio da lui, il fondatore del canone “virile” della storia dell’arte, che ha creato il mito eroico di Michelangelo e del genio di Leonardo? «Nella seconda edizione delle Vite Vasari scrisse di aver visto delle opere di Plautilla Nelli perché le possedevano delle gentildonne fiorentine». Ma c’è di più, aggiunge Melania Mazzucco: «Vasari mise bene a fuoco la questione scrivendo che se Plautilla Nelli avesse potuto studiare ed avere accesso alla conoscenza avrebbe fatto cose eccezionali. Dunque, già nel 1568 un uomo, che per altro non aveva particolare simpatia per le donne artiste, ammetteva che la questione principale fosse quella della formazione. Ed è una questione per la quale ancora ci battiamo nel mondo. È la prima pietra del cambiamento. Se tu non hai accesso allo studio ovviamente non ti puoi formare come artista».

E sappiamo bene come le donne per secoli siano state private dell’istruzione. Ancora nell’Ottocento le artiste non potevano esercitarsi rappresentando nudi, non avevano accesso alle classi di Accademia ad esso dedicate. Peraltro i paletti sul cammino verso una buona formazione erano ancora molti in epoca di avanguardie del Novecento. Basti dire che, come ha detto Riccardo Falcinelli presentando Self portrait, Gropius propose rette più care per le studentesse per scoraggiarne l’iscrizione al Bauhaus. «Sono vicende impressionanti anche perché alcune davvero molto vicine a noi», commenta Mazzucco: «Nel libro per esempio scrivo di Pauline Boty che visse nella Londra della fine anni Cinquanta. In quella capitale che di lì a poco sarebbe diventata la dinamica e moderna Swinging London quando lei tentò di iscriversi alla scuola d’arte le risposero no, le dissero che i corsi di pittura non erano cosa per le donne. Ancora allora si negava o si cercava di rendere difficile l’accesso al sapere che poi è la chiave del cambiamento».

Anche per tutto questo la copertina di Self portrait rende omaggio al suo The only blonde in the world (1963), ricordando che Boty seppe portare il suo punto di vista e il suo talento in un mondo dell’arte ancora misogino e sessista nonostante il vento nuovo portato dagli Angry young men in teatro e dal Free cinema. A buon diritto, è stata una voce de l’altra metà dell’avanguardia per dirla con Lea Vergine evocata ad esergo del libro. «È stata Lea ad aprire una strada», esclama Mazzucco. «Non vidi la sua celebre mostra perché ero troppo giovane, ma è rimasta nella memoria collettiva come il fondamento a partire dal quale è nato un altro modo di vedere le opere realizzate dalle donne».

Opere che spesso scelgono soggetti diversi e punti di vista differenti da quelli degli artisti uomini. Il libro di Melania G. Mazzucco lo rende evidente fin dai titoli dei capitoli. Le artiste raccontano per immagini i momenti clou della vita, la nascita, gli affetti, i cambiamenti dell’adolescenza, la sessualità, la vecchiaia. Lo fanno in maniera profonda, toccante, inedita. Nel quadro La culla, fa notare l’autrice di Self portrait, Berthe Morisot non rappresenta il parto come nella tradizione sacra ma la relazione neonato-madre nel primi mesi di vita. «Guardando quel quadro mi sono resa conto che forse solo una artista donna poteva cogliere l’esclusività di quella relazione. Ma anche il sentimento di rinuncia che questo implicava per quella giovane madre, sorella di Berthe, anch’ella pittrice, che dopo il matrimonio smise di dipingere. Ma c’è anche un altro paradosso». Ovvero? «Alla fine tutti hanno letto in questo quadro qualcosa di intimo e femminile, ma la sua qualità pittorica nessuno l’ha rilevata, è rimasta in secondo piano».

Berthe Morisot, una volta madre, diversamente dalla sorella, non rinunciò alla propria arte. Ma non ebbe vita facile. Anna Banti racconta che Manet, che era stato suo mentore e l’aveva spesso ritratta, intervenne pesantemente su un suo quadro fino a distruggerne l’immagine. Un episodio (anche se non sappiamo quanto romanzato) che ci fa riflettere sul rapporto fra artiste e loro “maestri”. «Uno degli aspetti da approfondire di questa storia collettiva sono proprio le relazioni che ebbero con maestri e i mentori: da una parte sono coloro che danno all’artista la possibilità di realizzarsi, dall’altra vorrebbero mantenerne il controllo», approfondisce Mazzucco, ricordando che Manet, fra l’altro diceva: “Peccato che le due sorelle Morisot non siano uomini”. «Manet in fondo pensava che non avrebbero potuto raggiungere il livello di un vero artista. Tuttavia – ammette la scrittrice – la relazione con Manet permise loro di capire molto dell’arte».

È una storia annosa, ci ricorda l’autrice di Self portrait: il mentore, che più spesso è il padre, fa difficoltà ad accettare la strada poi intrapresa dalle figlie. Penso al padre di Elisabetta Sirani: è lui che la forma, la promuove, ma poi cerca in qualche modo di trattenerla sotto la sua ala. Tintoretto stesso fece la stessa cosa ben prima. C’è poi la leggenda, da cui guardarsi bene, che molte opere delle artiste siano in realtà opera di pittori. Questa è una storia che le donne si portano dietro come pregiudizio». A questo proposito in questo suo nuovo libro Melania G. Mazzucco racconta che di fronte al Portrait d’une negresse di Marie-Guillemine Benoist molti commentarono che era troppo bello per essere stato dipinto da una donna. «L’avrà fatto David, dicevano. E lei poi ha introiettato questa visione sminuente, perché alla fine rinunciò a dipingere, come le convenzioni sociali le imposero», ricostruisce Mazzucco. «Invece era stata proprio una donna a dipingere quel quadro, ma fu difficile accettarlo».

Similmente riguardo alle creazioni di Plautilla Bricci c’era chi diceva che tutto fosse opera di suo fratello. «Ma non è vero – afferma la scrittrice – per fortuna abbiamo documenti di archivio». Tornando al ritratto dipinto da Benoist ciò che colpisce è che, con la sua scultorea e fiera bellezza, la giovane donna nera di cui non conosciamo il nome con certezza esprime una presenza fortissima che emerge dal quadro. È un ritratto che ci parla fortemente di uguaglianza, scrive Mazzucco.

Nonostante la pittrice fosse un’aristocratica con questa opera esprimeva una rivendicazione di uguaglianza che forse anche lei esigeva come artista? «Forse fu un atto inconsapevole. Non conosciamo le sue posizioni politiche perché lei non ha lasciato scritti», risponde Mazzucco, precisando: «Sappiamo però quale era il suo ambiente familiare, quello del marito e dei suoi conoscenti, dunque non pensiamo volesse esprimere una rivendicazione esplicita. Però il quadro la lascia trasparire. Nel momento in cui Benoist dipinge una donna nera con la stessa dignità delle protagoniste della storia, ne fa un ritratto individuale. Pur togliendole il nome in qualche modo le rivendica la dignità dell’esistenza e della libertà ed è la stessa cosa che lei sta facendo per sé. Ma la cosa straordinaria – conclude la scrittrice – è che questo ce lo dice il quadro anche al di là delle intenzioni consapevoli dell’artista».
In questo senso Melania G. Mazzucco ci offre anche una lezione di metodo: è sempre l’opera che ci parla. «Certo, mi piace anche raccontare cosa c’è dietro: il contesto in cui l’artista si è mossa, il vissuto. Però non dobbiamo sovraimporre significati al testo dell’opera».

Prima di lasciarci, un’ultima domanda più personale: quanto questa galleria è un autoritratto della scrittrice? «Non ci ho pensato, a dire il vero. Sicuramente la libertà della selezione è anche arbitraria. Ci sono tantissime altre artiste che avrei potuto inserire in questo racconto. Potrei parlare di autorialità, parola antipatica… diciamo allora che è una collezione molto personale. C’è tutto ciò su cui mi sto interrogando da anni, ovvero come si lavora sulle strutture ereditate dalla nostra tradizione. Un quadro a cui tengo in questo libro molto è quello di Antonia Eiriz: per me la sua è l’ultima Annunciazione che abbia un senso. È un’opera in cui vuol fare una cosa nuova, ma sapendo cosa l’ha preceduta. Dunque consapevolmente rovescia il canone e addirittura la posizione delle figure. Così realizza un’opera di avanguardia negli anni Sessanta, consapevole di quello che c’è stato prima. E questo come scrittrice è qualcosa che mi interessa molto».

Le mani sulla città solidale

Uno degli elementi maggiormente controversi dei bandi pubblici è il rischio di attuare progetti di rigenerazione urbana “calati dall’alto”, estranei a quanto costruito sul territorio e dalle comunità locali.
È il caso del rinomato bando “Reinventing cities”, il concorso internazionale arrivato alla sua terza edizione, dedicato alla trasformazione di luoghi dismessi o degradati in spazi rigenerati e valorizzati in chiave ambientale e innovativa.
L’anno scorso Roma Capitale, insieme a Fs Sistemi urbani, ha candidato le aree limitrofe alla Stazione Tuscolana, secondo la logica dell’appalto-concorso, delegando, di fatto, la costruzione della città pubblica ai privati, tramite una variante al Prg. Vincitore del bando è un gruppo immobiliare ed imprenditoriale noto protagonista di processi di gentrificazione in varie città italiane e il cui progetto prevede la realizzazione di residenze di lusso, coworking da affittare, una nuova sede dell’istituto privato Ied di design, uno student’s hostel: un progetto per pochi.
La partecipazione pubblica è il grande assente di questa operazione da milioni di euro. Gli spazi dove sorgerà il nuovo “Campo urbano” e in cui attualmente opera Scup (acronimo di Sport e cultura popolare), sono oggi sotto sgombero a causa della futura demolizione del locale in cui Scup è ospitato in comodato d’uso gratuito.
Il collettivo Scup rappresenta un’esperienza solidale e mutualistica di cittadinanza attiva dal basso che offre attività sportive, culturali e sociali da anni in questo quadrante di Roma. Cancellare questa esperienza significherebbe attaccare chi da anni difende il diritto alla città come bene comune e patrimonio collettivo.
Come questa, sono diverse le realtà di Roma sotto continuo attacco o che hanno subito un trattamento analogo come Casa internazionale delle donne, Lucha y Siesta, Nuovo Cinema Palazzo, l’Ex Lavanderia a Santa Maria della Pietà, Spin Time.
L’approccio al territorio non può essere mono direzionale, la riqualificazione fisica dello spazio dev’essere intesa all’interno di politiche strutturali integrate in grado di concepire l’opera pubblica come una risposta ad un’esigenza complessa che tenga conto della crescita di un vero e proprio welfare di comunità, tramite servizi di prossimità necessari al pieno sviluppo della persona umana e del sostegno alle esperienze solidali e sociali di cui la città di Roma è ricca. Questi, per il principio di sussidiarietà orizzontale, costruiscono un fondamentale pezzo di welfare autogenerativo che parte dal basso, e che dovrebbe fare da guida alle pubbliche amministrazioni nell’individuare la risposta necessaria ai bisogni e alle esigenze della popolazione.

Abitare, diamo spazio alle esigenze umane

È urgente decidere che, per consentire di vivere in modo felice, ogni scelta cruciale sull’evoluzione delle nostre città e dei nostri quartieri venga fatta da architetti poeti, dotati d’empatia». Già nel numero di febbraio 2022 la rivista Domus interamente dedicata al legame tra architettura e arte ospitava un editoriale firmato dal celebre architetto Jean Nouvel, il quale focalizza l’attenzione sull’importanza degli architetti-artisti per costruire il benessere dell’ambiente in cui viviamo, quali uniche figure che hanno un interesse nel realizzare «piccoli piaceri permanenti» per chi vive la città: «L’architettura costituisce l’unica, limitata occasione per recuperare una certa condizione urbana e umana nei nostri quartieri e nelle nostre abitazioni. La sola che voglia pre-vedere sensazioni gradevoli e provocare emozioni familiari, la sola che abbia un approccio olistico dell’abitare e che viva nella coscienza permanente che l’architettura è orgogliosamente locale, sempre locale, mai generale, mai generalizzabile. Ogni luogo è differente. Ogni abitante – donna, uomo, bambino – è unico». Nouvel ritiene che l’architetto sia, invece, attualmente relegato ad una posizione del tutto marginale nella strategia di sviluppo delle città, visto come un guastafeste da tutti coloro che ne sono direttamente coinvolti: immobiliaristi, imprenditori e società di costruzioni.

Queste considerazioni invitano a riflettere sul concetto stesso di benessere e a ripensare in modo critico i meccanismi decisionali che regolano lo sviluppo delle città, troppo legati ad aspetti di tipo utilitaristico ed economico che evidentemente non sono in grado di rispondere alle esigenze degli esseri umani che le abitano.
Nouvel indica in modo chiaro un cambio di paradigma. Il tema, in effetti, emerge in modo ricorrente tutt’oggi: il modello attuale è carente nella misura in cui è incapace di rispondere alla totalità degli aspetti dell’abitare umano.

Nonostante i diversi studi specialistici già condotti, questo complesso fenomeno non è facile da affrontare. Possiamo, però, osservare che nella società attuale, il costruire, e, in generale, la gestione dello spazio ad esso connesso si riducono spesso a rispondere ai soli bisogni dell’uomo senza mai, o quasi mai, valutare le esigenze. Evidentemente la cultura attuale è ancora troppo miope, disinteressata, scissa, rispetto all’idea di investire tempo e denaro negli aspetti fondamentali dell’abitare umano. L’aspetto economico sembra essere l’unico obiettivo da raggiungere. Le politiche adottate per contrastare la crisi scaturita dalla pandemia, per quanto mosse da ottime intenzioni, hanno contribuito a spostare pericolosamente l’ago della bilancia a favore delle imprese e dei profitti, generando un automatico abbassamento qualitativo dei servizi.

Anche il nuovo Codice degli appalti, agganciandosi alla necessità di snellimento e velocizzazione delle procedure, sembra consolidare questa situazione. Spostando, invece, l’attenzione sulle esigenze della committenza e degli utenti, si concretizzerebbe l’occasione di porre l’accento anche su aspetti tecnici, sociali e non direttamente riconducibili alla monetizzazione. Occorre lavorare per rendere visibile e valorizzare il patrimonio immateriale costituito da un’idea di socialità, di condivisione ed utilizzo specifico degli spazi comuni, puntando a una qualità della vita che anche se spesso trascurata è evidentemente (dal momento che viene periodicamente rivendicata) parte integrante della condizione umana.

Quante insidie nel nuovo Codice degli appalti

La riforma del quadro legislativo in materia di appalti pubblici e concessioni è uno degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che già il precedente governo si era impegnato a rispettare per ottenere i fondi comunitari. L’entrata in vigore è prevista per l’inizio di aprile, con ulteriori scadenze a giugno 2023, e l’obiettivo della riforma sarebbe stato quello di ridurre razionalizzandole le norme in materia di contratti pubblici armonizzandole ulteriormente con il diritto comunitario.
Nelle legislazioni nazionali dei singoli Stati europei l’interesse pubblico storicamente era fondato sulla scelta del migliore contraente, compito specifico demandato alla pubblica amministrazione, ma con le direttive europee di settore questo ruolo è cambiato e alla parte pubblica è stato affidato il solo compito di garantire «procedure ad evidenza pubblica» in cui siano rispettate condizioni di libero mercato.
Questo perché si ritiene che la pubblica amministrazione debba mantenere un profilo neutro garantendo solo le condizioni di concorrenza tra gli operatori economici, affidando poi all’abilità dell’imprenditore individuato il conseguimento di obiettivi condivisi a valenza sociale.

È evidente come la maggiore efficienza della spesa pubblica sia connessa ad una condizione di confronto e concorrenza tra gli operatori economici da attuare anche con procedure più semplici possibili, valorizzando particolarmente capacità e affidabilità di chi realizza le opere. Viceversa le direttive europee affidano, con un’impostazione contraddittoria, ideologica e fideista alla figura dell’imprenditore il conseguimento dell’interesse collettivo, quando questi ha come finalità il conseguimento dell’interesse personale. Rivelando come l’idea di interesse pubblico e quindi il diritto di cittadinanza si stia modificando attraverso la riduzione della presenza delle funzioni della pubblica amministrazione, favorendo quindi una concezione in cui si è cittadini se si è consumatori.

La struttura del nuovo Codice poi è particolare perché nei primi articoli vengono indicati due principi fondamentali: il “principio del risultato”, delineato dalla capacità di esecuzione tempestiva, dal miglior rapporto tra qualità e prezzo nel rispetto dei principi di legalità, trasparenza e concorrenza; e il “principio della fiducia” nell’azione della pubblica amministrazione, dei suoi funzionari e degli operatori economici.
Il richiamo al principio del risultato attraverso il migliore rapporto tra qualità e prezzo, che sarebbe il buon auspicio da tutti condiviso, rimane però sospeso perché non viene posto un limite al peso della parte economica nella valutazione delle offerte e quindi sorge il legittimo dubbio che possano prevalere offerte al massimo ribasso quindi ciò che conta è solo il dato economico. Si potrebbe dire che talvolta le affermazioni più importanti si celano nel non detto?

Altro tema è quello della riduzione dell’eccessivo numero di stazioni appaltanti rappresentate ad esempio dai tanti piccoli comuni privi di strutture tecnico amministrative adeguate, che andrebbero accorpate in un limitato numero di centrali di committenza più organizzate.
Vi è poi il passaggio epocale rappresentato dall’introduzione obbligatoria nei contratti pubblici del Bim (Building information modeling) sigla con cui si indica il sistema informativo digitale e una metodologia di lavoro, in cui un edificio non più è descritto da singoli disegni e relazioni ma questi vengono sostituiti da un modello in 3d in cui a tutti i componenti, come ad esempio per una finestra, corrispondono le caratteristiche tecniche, il costo, le modalità di posa in opera e le informazioni che serviranno per le future manutenzioni. Passaggio accompagnato anche dalla costituzione di una Banca dati nazionale dei contratti pubblici che permetterà una più semplice programmazione delle infrastrutture prioritarie.

Questi mutamenti epocali trovano però una pubblica amministrazione con personale tecnico e amministrativo con una età media molto alta e scarsamente formato, ma anche sul versante di professionisti e aziende le cose non vanno meglio dato che per la maggior parte la dimensione degli studi professionali e delle imprese di costruzione è minima. Il ricorso esteso all’appalto integrato, con affidamento del progetto esecutivo all’impresa sulla base di un progetto di fattibilità tecnico-economica approvato e quindi la riduzione dei livelli di progettazione, costituisce poi un altro serio problema perché se da un lato cerca di abbreviare i tempi di progettazione potrebbe aprire delle controversie in fase di realizzazione tra le imprese e le amministrazioni riguardo le incertezze progettuali e i relativi aumenti di costo.

Va poi ricordata la reintroduzione del general contractor e l’auspicato sviluppo del partenariato pubblico-privato che prendendo spunto dall’attuale difficoltà in cui versano le pubbliche amministrazioni, incentiva il ricorso a competenze private per la gestione della realizzazione degli interventi sulla base di capacità tecniche organizzative, proponendo in prospettiva una privatizzazione del sistema di realizzazione delle opere pubbliche. Il partenariato pubblico-privato se regolato non sarebbe di per sé deprecabile, ma in una condizione di sofferenza organizzativa delle pubbliche amministrazioni ci si avvia verso una fase in cui queste non saranno in grado di svolgere adeguatamente la necessaria azione di vigilanza per il rispetto del pubblico interesse. Altro meccanismo volto a ridurre i tempi per le approvazioni dei progetti è quello per il superamento del dissenso qualificato nella conferenza di servizi così da risolvere eventuali opposizioni alle iniziative.

L’aumento degli importi per gli affidamenti diretti, i provvedimenti che riguardano i concessionari di opere pubbliche come ad esempio le autostrade, la reintroduzione della revisione prezzi, ma particolarmente le disposizioni introdotte per rispondere alla cosiddetta “paura della firma”, per cui non costituisce più “colpa grave” la violazione o l’omissione al riferimento a indirizzi giurisprudenziali prevalenti o a pareri delle autorità competenti.
Il tema della sicurezza sul lavoro si lega all’estensione del subappalto a cascata secondo i termini richiesti della normativa europea e in questo contesto fatica a trovare una collocazione semplice e chiara, tanto che le organizzazioni sindacali sono costrette a chiedere provvedimenti in merito al rafforzamento dell’inderogabilità delle misure a tutela del lavoro, della sicurezza anche attivando un contrasto attivo al lavoro nero e al dumping contrattuale. Dato che la liberalizzazione del subappalto a cascata di fatto introduce un ulteriore elemento di rischio dovuto alla frammentazione dell’organizzazione dell’attività produttiva.

Quindi come era prevedibile, l’esecutivo entrato in carica dopo le elezioni dello scorso settembre si è speso per accentuare, laddove ve ne fosse stato bisogno, le norme la cui stesura era stata avviata nella scorsa legislatura in senso ancora più deregolatorio.
E le critiche e le obiezioni dei soggetti coinvolti dal provvedimento non hanno tardato a manifestarsi. Addirittura Confindustria ha parlato di un possibile «choc regolatorio nei primi mesi di applicazione», mentre i Comuni hanno chiesto più tempo per la qualificazione delle stazioni appaltanti ossia dei loro uffici tecnici e amministrativi, i professionisti sono sconcertati dalla scarsa importanza data alle attività di progetto la cui gestione viene di fatto affidata alle imprese costruttrici ponendo i professionisti in una posizione subordinata.
Forse però è l’impostazione di fondo l’elemento più problematico perché manifesta la fiducia cieca con cui l’Unione europea guarda al libero mercato come fattore risolutivo per lo sviluppo economico, che però viene smentita come si può notare ad esempio nella denominazione della strutture di controllo del regime degli appalti.

Infatti quella che precedentemente era indicata come Autorità di vigilanza dei lavori pubblici è stata rinominata negli anni passati come Autorità nazionale anticorruzione, come a dire non c’è il dubbio se la corruzione ci sia o no, la si deve solo trovare.
Con questa idea di fondo è evidente che il problema è culturale, di visione antropologica perché se da un lato viene proposta la libertà di impresa, questa è da limitare perché ci sarà sicuramente una inevitabile corruzione.
Tutto ciò avviene poi all’interno del Piano di ripresa e resilienza che servirebbe ad affrontare la transizione ecologica, le pandemie e le enormi trasformazioni sociali che stanno avvenendo, affidando la risoluzione di questi enormi problemi, fatte salve alcune indicazioni marginali, al solo libero mercato che ha come fine il massimo profitto e per sua natura non contiene una coerente riflessione sulla sostenibilità delle attività umane.
Di fronte a questo scenario le forze progressiste e democratiche non riescono a proporre nuove idee per offrire una via di uscita a questa miope impostazione neoliberista, c’è molto da ripensare e molto da ricostruire.

Pnrr, l’occasione persa

Una grande massa di denaro gira per l’Europa e mette in moto grossi investimenti che riguardano, per una notevole fetta, il mondo delle costruzioni. Ciò è possibile grazie alle risorse fornite dal Recovery fund, da impiegare attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza.
Il Pnrr arriva in Italia dopo la prima consistente ondata di investimenti (circa 70 miliardi) effettuati nel mondo dell’edilizia dal 2020 in poi, a seguito dell’emanazione della cosiddetta Legge del Superbonus 110%.
Apparentemente, il capitalismo neoliberista d’assalto, caratterizzato da innovazione, digitalizzazione, automazione, economia finanziaria, dopo la grande crisi del 2008 ricorre a uno dei vecchi strumenti dello sviluppo economico per sopravvivere: sembra che l’economia europea – in particolare quella italiana – sia appesa al mondo delle costruzioni.
Quando un Paese deve uscire da una crisi o accelerare lo sviluppo della sua economia, l’edilizia, messa in disparte in seguito alle politiche green e per cercare di ridurre il consumo dei suoli, torna in auge. Perché ha rapido effetto sul Pil di una nazione, mette in moto i consumi anche se produce quasi sempre inflazione.

La politica, in questo meccanismo, risulta determinante.
L’Italia conosce bene questa strategia: già dal primo dopoguerra con la legge sui piani di ricostruzione, mettendo da parte la legge urbanistica del 1942, all’edilizia viene assegnato un ruolo trainante per lo sviluppo. Questo, non poteva essere interamente demandato all’industria del Nord Italia a causa dei gravi danni subiti dagli impianti, dell’arretratezza di quelli funzionanti e della dequalificazione della manodopera in seguito alla guerra.
Il settore edilizio ben si prestava a questo ruolo poiché non richiedeva impianti costosi, imprenditori particolarmente esperti, manodopera qualificata e inoltre rispondeva alla sentita esigenza sociale della ricostruzione del paese e della pressante domanda di abitazioni.

Nelle scelte compiute in quegli anni si ritrovano le radici dei nuclei di crisi delle nostre città, segnate da una cattiva qualità delle costruzioni edilizie e da uno sviluppo a macchia d’olio. Sviluppo che avvenne, come disse Antonio Cederna, nella mancanza di «qualunque principio urbanistico, che sia minimamente organico e unitario: suo unico scopo, al pari di qualunque piccolo affarista, è di sfruttare al massimo i propri terreni».
Un politico democristiano di sinistra, Fiorentino Sullo, ministro dei lavori pubblici, intellettuale di ampie vedute, nel 1962 propose un disegno di legge di riforma urbanistica. Questa era impostata su basi nuove e originali: il progetto tramite il coordinamento della pianificazione urbanistica all’interno nel quadro della programmazione economica nazionale prevedeva di porre un freno alla speculazione fondiaria, modificando profondamente il regime proprietario delle aree: solo una parte di queste resta di proprietà privata; le altre aree – edificate o edificabili – passano gradualmente in proprietà dei comuni, che cedono ai privati il diritto di superficie per le destinazioni previste dai piani.

Di fronte alla previsione di un ruolo preponderante dell’ente pubblico nella pianificazione urbanistica, si scatenò una campagna capitanata dal giornale Il Tempo che si fece portavoce degli interessi di quasi tutto il partito democristiano, dei partiti di destra e di gran parte del mondo economico-imprenditoriale. Nel 1963 tutte le ipotesi di riforma urbanistica caddero insieme al governo, e in tutta Italia vennero rilasciate una valanga di licenze edilizie: si costruì in fretta e male. Una politica che verrà perseguita da molti Paesi soprattutto dell’area mediterranea come la Spagna del dopo Franco o la Turchia negli ultimi trenta anni con esiti disastrosi per le popolazioni quando a causa della cattiva qualità delle costruzioni i terremoti fanno crollare gli edifici.

A Sullo si deve comunque l’approvazione della legge 167 del 1962 per favorire l’acquisizione di aree fabbricabili per l’edilizia economica e popolare, che proseguì e migliorò la politica del piano Fanfani che nel primo dopoguerra aveva dato una casa dignitosa a migliaia di italiani con il concorso virtuoso di fondi pubblici e progettazione del territorio e delle case da parte di importanti architetti.
Furono realizzati circa due milioni di vani abitativi. È stato calcolato che, in media, 560 famiglie a settimana trovarono un’abitazione grazie al piano Ina-Casa. Prima, il 40% di queste famiglie aveva abitato in cantine, grotte, baracche e sottoscala, mentre il 17% era stato in coabitazione con altre famiglie. Moltissimi erano gli immigrati dalle campagne e dal Sud. I cantieri coinvolsero città grandi e piccole. Molti quartieri di oggi, come il Tiburtino o il Tuscolano a Roma, o l’Isolotto a Firenze, nacquero con il piano Fanfani. I quartieri costruiti allora rappresentano oggi non soltanto una significativa testimonianza del Novecento italiano, ma costituiscono parti rilevanti delle nostre città, dove mantengono ancora una loro precisa identità.

Adriano Olivetti, innovativo industriale di Ivrea, presidente dell’Istituto nazionale di urbanistica a proposito del piano Fanfani si espresse così: «quartieri organici autosufficienti si sono iniziati in questi ultimi mesi a Torino, Milano, Roma per merito del piano incremento occupazione operaia. Si tratta di esperienze iniziali di grande interesse. E gli urbanisti italiani non possono non dichiarare il loro compiacimento per la prima attuazione dei loro programmi». Quartieri organici che furono attuati ad Ivrea da Olivetti in concerto con valenti architetti.
Una sinergia di forze si mossero con un fine nobile, avendo una visione di Italia migliore, un movimento che fu in buona parte bloccato dalle destre.

Oggi, una convergenza di interessi che vedono il mondo delle costruzioni svolgere un ruolo molto importante, ha portato al potere la destra che ora si appresta ad attuare il Pnrr – elaborato dai due governi precedenti – in particolare tramite la riforma degli appalti pubblici.
Caratteristica del Pnrr sono gli ingenti investimenti: dei 222 miliardi circa complessivi (fondi europei e fondi del governo italiano) 25 miliardi finanzieranno interventi su infrastrutture logistiche, ferroviarie e viarie, quasi tre miliardi per piani integrati urbani, 2 miliardi e 800 milioni di euro per la qualità dell’abitare, 3 miliardi e 300 milioni di euro per progetti di rigenerazione urbana volti a ridurre emarginazione e degrado sociale, 450 milioni per Housing temporaneo. Per l’edilizia scolastica, quattro miliardi e 600 milioni sono per asili nido e scuole d’infanzia, 300 milioni per il potenziamento delle infrastrutture sportive a scuola e 3 miliardi e 900 milioni per la messa in sicurezza e riqualificazione dell’edilizia scolastica. Inoltre sono previsti 1,3 milioni di metri quadrati di superficie residenziale pubblica che equivale a circa 1500 unità di abitazione (non comparabili con i circa 500mila appartamenti realizzati con il piano Fanfani).
Considerando che oggi sono oltre 5 milioni i poveri assoluti, di cui quasi la metà vivono in case in affitto, è chiaro quanto si sia lontani dalla risoluzione della più urgente emergenza abitativa.

Analizzando brevemente i singoli progetti che sono stati selezionati nell’ambito del miglioramento della qualità dell’abitare, ci si rende conto che lo sforzo complessivo è ingente e tocca alcuni dei nodi, da anni irrisolti, delle città e del territorio italiani. Ad esempio, il progetto che ha ottenuto il punteggio più alto si trova a Messina e consiste nel risanamento con demolizione e ricostruzione delle abitazioni realizzate in seguito al terremoto del 1908 e che costituisce un grave problema di degrado socio sanitario. Sulla carta il progetto appare coerente con l’obiettivo dichiarato di riqualificazione e riorganizzazione del patrimonio destinato all’edilizia residenziale, sociale; guardando il progetto con il secondo punteggio più alto, però, appare chiara la metodologia di intervento: si tratta della riqualificazione di due edifici a torre a Brescia, uno dei quali viene demolito e ricostruito e della risistemazione e rifunzionalizzazione dei terreni circostanti. Il Comune mette a bando il progetto di massima che viene vinto da una impresa-fondo immobiliare che poi ottiene 22 milioni dal bando Pinqua (il programma sulla qualità dell’abitare all’interno dei fondi Pnrr). Gli appartamenti saranno destinati per i successivi 10 anni ad Housing sociale a canone convenzionato.

In tutta l’operazione il progetto architettonico non ha molta importanza, i progettisti sostanzialmente non compaiono. Non c’è traccia dell’architetto poeta auspicato da Jean Nouvel come protagonista dell’evoluzione urbana e della possibilità che la bellezza architettonica possa essere una componente del benessere degli esseri umani.
Altro aspetto critico che si può riscontrare nei 131 programmi d’intervento del Pinqua è la scarsissima presenza di progetti riguardanti i centri storici per adattarli alle nuove esigenze di abitabilità e sostenibilità. Qui, purtroppo si ripete l’esperienza del Superbonus che ha trovato scarsa applicazione nei centri storici causa la non adattabilità dei criteri prescritti ai requisiti minimi da raggiungere.

In generale, nei programmi del Pnrr non si trova traccia della partecipazione attiva della cittadinanza. Appare come un grande piano di rammendo puntuale, con poche ricuciture e senza una visione complessiva di ciò che serve al territorio italiano. Una sorta di prova generale dell’autonomia differenziata in cui si vedrà se i poteri locali saranno in grado di garantire la qualità delle realizzazioni.
L’esperienza del Superbonus, ora stoppato con un decreto demenziale che interrompe migliaia di progetti di recupero a cui solo meno di due mesi fa era stata consentita la prosecuzione con il limite del credito al 90%, ha evidenziato l’incapacità di una classe dirigente a programmare interventi globali nel settore delle costruzioni che da tre anni vive in una specie di delirio schizofrenico in cui le norme crescono esponenzialmente per poi essere cancellate di punto in bianco. C’è da tremare per il programma Pnrr e per la prossima direttiva case green quando sarà approvata da Bruxelles. Su questo la destra al governo si sta opponendo per ottenere una maggiore flessibilità nel conseguimento di obiettivi impegnativi ma necessari e non impossibili da raggiungere, tenendo conto anche dell’urgenza del problema del risparmio energetico.

Detto questo, l’esperienza del Superbonus e del programma Pnrr saranno comunque utili per non commettere gli stessi errori in futuro, dopo che verrà approvata a Bruxelles la direttiva case green. La destra al governo si sta opponendo per ottenere una maggiore flessibilità nel raggiungimento di obiettivi impegnativi ma necessari e non impossibili da raggiungere tenendo conto anche dell’urgenza del problema del risparmio energetico. L’edilizia, secondo i dati della Commissione Europea, è responsabile del 40% del consumo energetico e del 36% delle emissioni dirette e indirette di gas a effetto serra legate all’energia. La normativa per la riqualificazione energetica degli edifici allo studio della Ue, prevede che entro il 2030 circa 2 milioni di edifici esistenti dovranno essere riqualificati energeticamente per raggiungere una classe energetica più elevata entro l’1 gennaio 2030.
Insomma c’è lavoro per le imprese, speriamo che ce ne sia anche per gli architetti-poeti.