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Il sangue iraniano e noi che arriviamo tardi

Un giovane poco più che trentenne è morto in Iran dopo venti giorni di coma a seguito di torture. Era stato arrestato, pestato a sangue e poi rilasciato. L’hanno fatto tornare a casa perché avevano paura che morisse in cella. E infatti è morto a casa.

Si chiamava Mehdi Zare Ashkzari, era un ex studente di farmacia all’Università di Bologna e due anni fa era tornato in patria. Ed è Amnesty International Italia a diffondere le prime informazioni sul caso. Poi il messaggio di Patrick Zaki che, con la scomparsa del trentenne iraniano, sottolinea come l’Università di Bologna abbia «ora una nuova vittima della libertà di espressione». Zaki, che di anni di carcere se n’è già fatti due in Egitto per un “reato d’opinione”, lo dice benissimo: «Purtroppo, questa volta, era troppo tardi per salvarlo».

Mehdi Zare Ashkzari «era uno di noi», dice all’Ansa Sanam Naderi, iraniana che vive a Bologna. «Era conosciutissimo, molti studenti sono stati da lui, hanno mangiato la pizza dove lavorava. Era sempre sorridente». Mehdi si era iscritto all’università nel 2015 e per un periodo aveva lavorato come fattorino, per mantenersi agli studi, poi come aiuto-cuoco in una pizzeria.

Secondo l’ultimo aggiornamento di Hrana, l’agenzia di stampa iraniana per i diritti umani, ammonterebbero a 508 le persone uccise durante le proteste divampate nel Paese, inclusi 69 bambini. Un dato impressionante, che si è aggiunto al numero di arrestati (oltre 18mila). Il report, peraltro, ha segnalato che al momento sono andate in scena più di 1.200 manifestazioni di contestazione in 161 città. I dati forniti dall’agenzia, per la cronaca, fanno riferimento al periodo dal 26 settembre al 7 dicembre.

Buon anno nuovo.

“Stati d’infanzia”, ritratto di giovanissimi sognatori

Per sviluppare un sentimento di empatia e vicinanza, per creare un rapporto onesto e sincero con i più giovani non serve essere genitori, basta essere umani come ci racconta l’opera di Riccardo Venturi. Fotoreporter di fama internazionale, due volte Word Press Photo che, dopo aver lavorato sul tema delle carceri minorili e aver collaborato con diverse associazioni che si occupano di infanzia, ha presentato al Museo di Roma in Trastevere il progetto multimediale: Stati d’infanzia – Viaggio nel Paese che cresce, costituito da oltre ottanta fotografie e un documentario a cura di Arianna Massimi, accolto da Roma Culture, soprintendenza capitolina ai Beni culturali, in mostra fino al 26 febbraio 2023.

Il progetto, a cura dell’associazione Akronos, promosso e prodotto dall’impresa sociale Con i Bambini, nell’ambito del Fondo per il contrasto alla povertà educativa minorile, ha visto il fotografo e la videomaker percorrere tutta la penisola, dall’estremo nord al profondo sud, per realizzare un’esaustiva indagine sulla situazione dei più giovani in Italia. Un viaggio a dir poco difficile, considerando il grave stato in cui versano moltissimi minori.
Secondo i più recenti dati Istat, 2021, circa 1 milione 382mila bambini vivono in povertà assoluta e altri 2,2 milioni vivono in uno stato di povertà relativa. Numeri che molto probabilmente, data la crisi che stiamo attraversando, sono destinati a crescere.

Dal toccante lavoro di Riccardo Venturi emerge anche un altro dato allarmante, ovvero come questa difficile situazione sia aggravata dal fatto che la povertà materiale non è l’unica che affligge i più giovani perché, spesso, si accompagna ed è preceduta dalla povertà educativa che, come uno stigma, dalle famiglie ricade sulla prole.
Così, abbiamo approfondito questi aspetti con Riccardo Venturi che ci ha risposto direttamente dal Canada.

Riccardo Venturi, com’è nato questo progetto?
Da diversi anni mi occupo di tematiche legate all’infanzia, sviluppando una grande sensibilità per l’argomento. Così, durante il difficile periodo del lock-down, in cui tutti abbiamo sofferto delle limitazioni imposte alla nostra libertà, del dover rimanere chiusi in casa, mi sono chiesto: “Ma se io, adulto e dotato di tutti gli strumenti per fronteggiare questo stato di fatto, sono in difficoltà, come possono sentirsi bambini o ragazzi che dispongono di meno strumenti e stanno vivendo una fase cruciale della loro crescita?”
Poi ho incontrato Marco Rossi-Doria, presidente di Con i Bambini, cui ho posto la stessa domanda e con il quale abbiamo deciso di raccontare le problematicità vissute dai più giovani durante la pandemia, lungo tutto l’arco della Penisola. Il discorso si è inevitabilmente ampliato, perché attraversando i numerosi “cantieri educativi”, tra gli oltre 400 presenti in tutta Italia, è emerso che, durante il periodo Covid sono aumentate in modo esponenziale tantissime problematiche: tossicodipendenze, problemi alimentari; violenze. Così abbiamo iniziato ad approfondire tutti questi aspetti, andando a scoprire anche la diffusione, in Italia, di fenomeni come gli hikikomori, ovvero i giovani che si ritirano dalla vita sociale anche per lunghi periodi e i neet, ragazzi che non studiano e non lavorano, che in Italia toccano numeri fra i più alti in Europa. Certo, purtroppo questi fenomeni sono sempre esistiti ma in maniera blanda, ed è indiscutibile che con la pandemia e il conseguente boom dei social abbiano subito una netta impennata verso l’alto. Anche perché, se i social da un lato possono essere dei validi strumenti di comunicazione dall’altro, possono esacerbare la tendenza all’isolamento e favorire lo sviluppo di diverse patologie mentali. Del resto, se ci pensiamo, il lockdown è stato qualcosa di storicamente unico, senza precedenti. Poi, non ha fatto in tempo a finire che siamo piombati in uno stato di guerra, per non dire dell’incombente problema del cambiamento climatico. Insomma, non c’è purtroppo da stupirsi se i più giovani hanno definito la loro generazione come the last generation.

Foto di Riccardo Venturi – Roma, Il laboratorio di hip hop realizzato negli spazi di MateMu nell’ambito del progetto Doors

Stati di infanzia è un progetto molto vasto, sia in termini geografici che anagrafici. Quali differenze ha trovato tra il nord e sud del Paese?
Chiaramente dal nord al sud la situazione cambia molto. Anche perché vivere in isolamento al nord Italia non è la stessa cosa che al sud, dove comunque, indipendentemente da tutto, la dimensione collettiva “della strada” è fortissima. In generale, al centro nord tra i giovani è emerso in maniera preponderante il tema dell’ansia. L’ansia di dover essere all’altezza delle aspettative, di dover dimostrare qualcosa, di essere sempre in competizione. In Umbria abbiamo condotto un progetto nelle scuole in cui gli studenti hanno rivelato di essere sopraffatti dall’ansia, di sentirsi continuamente sotto pressione, come se dovessero sempre essere più performanti. Questo ha moltiplicato gli attacchi di panico e attacchi d’ansia tra gli adolescenti. Al sud la questione è diversa, perché quel territorio pone altri problemi, legati talvolta alla criminalità. Come dicevo, poi, chiudersi in casa al sud è molto più difficile, perché si vive in comunità. La differenza tra centro, nord e sud emerge anche dal rapporto con i social. Per i ragazzi umbri il mondo del web è preponderante, come se fosse un vero e proprio alter ego, altrettanto reale. E se non si viene accettati sui social, automaticamente non lo si è neanche nella realtà. Mentre al sud questo fenomeno è decisamente meno virulento.

Per quanto riguarda le fasce d’età che differenze ha trovato?
Chiaramente moltissime, per questo ho agito in due modi diversi. Con i bambini più piccoli ho cercato di porre l’accento sulla raccolta delle testimonianze, documentando la situazione soprattutto attraverso immagini. Mentre con gli adolescenti, ho affiancato alla raccolta di testimonianze le interviste, andando a creare proprio un dialogo con i ragazzi che ho incontrato. Anche perché gli adolescenti sono il risultato di quanto accade nei primi anni di vita, quindi il dialogo con loro ci ha anche aiutato a interpretare le testimonianze dei più piccoli, perché se hai trascorso un’infanzia sana, la rivendichi in età adulta.

Quello che colpisce è proprio il rapporto empatico, intimo, che ha instaurato con i ragazzi. Come si è avvicinato al loro mondo?
Da una parte ho seguito dei ragazzi nel circuito di Con i bambini, dall’altra li ho cercati. Come dire, ho fatto “il giornalista”. In particolare, ho cercato Jimmy, che avevo conosciuto per caso, tramite conoscenze e amici. Ho percepito subito il suo essere un ragazzo speciale, fuori da ogni stereotipo, così sono riuscito ad entrare in rapporto con lui e ora siamo amici. Continuiamo a sentirci. La sua situazione è particolarmente delicata, come le altre raccontate nel progetto. La cosa bella è che ho visto davanti a me dei ragazzi problematici ma estremamente in gamba.

Qual è stata la difficoltà maggiore che ha riscontrato nella realizzazione del progetto?
Sicuramente la difficoltà maggiore è stata quella di dare una forma al lavoro; di trovare una linea narrativa. Perché l’impresa sociale Con i bambini finanzia circa 400/500 interventi in tutto il Paese, anche di natura molto diversa tra loro. Quindi c’è stato un grandissimo lavoro di studio a monte, per selezionare quelli più interessanti e strutturare un percorso, per capire cosa andare a raccontare. Non volevo focalizzarmi sulle aree più note, come le periferie delle grandi città: Tor bella Monaca, Scampia, lo Zen di Palermo che sono state oggetto di racconti di tutti i generi. Volevo far emergere luoghi di disagio meno visibili, scenografici, meno raccontati, nascosti. Diciamo meno eclatanti. Quindi ho dovuto creare questa struttura anche a livello logistico e organizzativo, perché l’Italia è piccola ma articolata.

Cosa l’ha colpita maggiormente di questi ragazzi?
Guardi, anche se fondamentalmente hanno alcuni punti di contatto, la cosa che mi ha colpito di più sono le differenze. In particolare, tra nord, centro e sud.
Perché se le dinamiche nelle grandi città sono abbastanza simili, nei piccoli centri cambia tutto. I ragazzi che vivono nel sud d’Italia hanno problematiche diverse da quelle riscontrate nei ragazzi umbri o del nord Italia. Quindi ho capito che non era possibile pensare ad un approccio uguale per tutti. Bisogna sempre rapportarsi in base alla personalità del ragazzo a cui ci si sta rivolgendo e al contesto in cui vive.

Foto di Riccardo Venturi – I bambini del progetto Horticultura alla Reggia di Caserta

Se dovesse individuare un denominatore comune?
Secondo me quello che accomuna un po’ tutti i giovani è un insieme di elementi: un diffuso senso di solitudine, il non sapere bene a chi rivolgersi, un senso di spaesamento, di sfiducia, anche nella politica, nelle istituzioni. Come se la mancanza di punti di riferimento saldi, solidi, abbia fatto dilagare una tendenza al nichilismo. Al tempo stesso, però, sono ragazzi e, soprattutto i più giovani, hanno voglia di vivere, di farcela, di mettere in discussione la realtà che gli adulti gli propongono e il mondo che gli viene imposto.
Inoltre, su alcuni aspetti ho avuto delle conferme: i ragazzi, come sempre, anticipano le tendenze. Siamo noi indietro rispetto a loro. Per esempio, una problematica di cui gli adulti si preoccupano è quella legata al razzismo, alla diversità culturale. Ecco, mi sembra che tra i ragazzi più giovani sia ormai data per scontata. Per loro, il background italiano, che sia non italiano, straniero o migratorio, non è affatto un problema. I ragazzi frequentano d’abitudine amici di ogni provenienza e nazionalità: africani, afro discendenti, rumeni, ucraini. Ecco, in questo mi pare che loro siano nettamente un passo avanti a noi. Cioè mi sembra che in loro non ci sia più quel retaggio culturale che invece persiste negli adulti che, in qualche modo, fanno ancora fatica ad accettare una realtà multi-culturale e multi-etnica. Per i ragazzi ormai è più che normale.

Qual è secondo lei la problematica più grave su cui agire in maniera prioritaria?
Secondo me la cosa più urgente in assoluto è portare i ragazzi a fare esperienze vere e smantellare questo concetto dominante della competizione. Per me questa è la grande frustrazione e tragedia di questi anni. Cioè, questi ragazzi vengono sempre spinti ad essere persone di successo in qualche modo; in ambito universitario, nei social, ecc., insomma, devono sempre diventare “star” e trovo che questo sia deleterio. Bisognerebbe, dunque, agire su questo aspetto culturale e non caricarli di aspettative insistendo sulla prospettiva di essere o un vincente o un perdente; per cui, se sbagli, la tua vita è condannata per sempre. Poi, l’altro aspetto su cui dovremmo intervenire, è la capacità di sviluppare una visione più ampia. Dovremmo aiutare i ragazzi ad allargare i loro orizzonti; portarli a pensare un po’ più in là di quello che loro normalmente sono abituati a pensare. Chi l’ha detto che un ragazzo di un paese sperduto, piccolino della Sicilia non possa diventare un regista o viaggiare in tutto il mondo? Magari trasferirsi a Los Angeles per fare qualcosa di diverso? Ecco, credo che la differenza che riscontro con i ragazzi della mia generazione degli anni Sessanta, sia la capacità di sognare. Noi sognavamo in grande. Adesso vedo che i sogni si sono un po’ rattrappiti, come se non fossero più veri sogni. Se chiedi ad un ragazzo cosa vuole dalla vita, nella maggior parte dei casi ti risponde: un lavoro dignitoso, una casa, una famiglia, il che va benissimo. Però magari questo dovrebbe essere il pensiero di un adulto, di un trentenne, non di un quindicenne. Per esempio, ho chiesto a tanti se hanno il desiderio di viaggiare e pochi mi hanno risposto: sì, voglio viaggiare e scoprire il mondo. Come se il mondo gli facesse tanta paura.

Quindi, come interverrebbe?
Direi sulla cultura, sulla scuola, ma anche su qualcosa al di fuori della scuola. Bisognerebbe dare a questi ragazzi dei centri aggregativi veri, dei luoghi fisici. Insomma, in quest’epoca siamo come affetti dalla malattia per cui tutto deve essere filtrato attraverso i social network, il digitale, lo smart working. Questo è un danno gigantesco che stiamo facendo ai più giovani: le persone, e i ragazzi specialmente, devono fisicamente stare insieme, devono fisicamente vivere le esperienze, devono spegnere telefonini e computer, dissociarsi da quel tipo di realtà. Dovremmo far capire loro che internet è uno strumento e non è una realtà parallela. Uno strumento da usare come usiamo la lavastoviglie o la lavatrice e non spingerli ulteriormente verso quel tipo di esperienze virtuali. Questo secondo me dovrebbe essere un po’ l’approccio: fargli vivere la realtà vera, per quella che è, tridimensionale. Portarli fuori, a vedere fisicamente delle realtà diverse, dandogli la possibilità in questo modo di allargare i loro orizzonti per trasmettergli che puoi essere nato fortunato o sfortunato, in un contesto facile o più difficile, ma non importa perché non vieni valutato né sotto un profilo economico né sotto un profilo di successo. L’importante è sognare. Ecco, bisogna riportare i ragazzi a sognare, perché, come dicevo, mi sembra che il sogno sia diventato un semplice accontentarsi di quello che si può empiricamente raggiungere che, se per un adulto di trentacinque, quarant’anni, va bene, non è affatto giusto per un ragazzo adolescente che deve sognare in grande. Perché se non riesce a sognare una grande avventura, credo che dovremmo preoccuparci un po’.

Pensa che ci siano margini di ripresa? Soluzioni?
Certo che ci sono! Chiaramente è una questione di approccio, buona politica e buoni investimenti. La scuola in primis andrebbe ripensata totalmente, ci dovrebbe essere una vera e propria rivoluzione. La scuola non dovrebbe più essere adibita alla formazione di obbedienti dipendenti e lavoratori, ma un luogo in cui liberare la creatività, in cui sbagliare, rialzarsi, fare esperienze. Dovremmo dare spazio all’arte, alla musica, insomma: scatenare la creatività dei ragazzi per formare persone consapevoli e non burattini. Poi, chiaramente c’è da dire che le soluzioni dovrebbero essere pensate per tutti, basate su parametri universali. Un esempio banale è la Dad, che non ha fallito solo perché non tutti possedevano i device per collegarsi, ma perché il problema stava ancora più a monte. Molti ragazzi, specialmente al sud, in casa non dispongono neanche di un luogo tranquillo in cui concentrarsi. Quindi, lavorare sulle politiche di welfare e sulla creazione di un’uguaglianza davvero universale per me sarebbe prioritario.

Nella foto di apertura di Riccardo Venturi: Palermo, due sorelle partecipano alle attività del progetto Pec – Poli Educanti in condivisione promosso dall’Associazione A Strummula nel Quartiere Noce

Guarda che musica, Fred!

Fred! è il nuovo affascinante testo teatrale di Matthias Martelli che lo interpreta condividendo appassionatamente il palco con Roy Paci. Insieme i due artisti evocano Fred Buscaglione con maestria. Arturo Brachetti è il regista e dirige uno spettacolo pieno di ritmo, coinvolgente e frizzante. Prodotto da Il Parioli e Enfi Teatro, Fred! è una biografia che si muove tra toni pop e atmosfere oniriche, evocate anche dal sapiente uso delle luci. Sonorità e canzoni vengono ricreate dalla voce e dalla tromba inarrestabile di uno splendido Roy Paci e dall’affiatamento dei bravissimi musicisti che suonano live, creando un movimento di festa o, in altri momenti, di profonda nostalgia: Roberto De Nittis, al pianoforte; Paolo Vicari, alla batteria; Gianmarco Straniero al contrabbasso; Didier Yon al trombone. La ricerca sulla musica non si ferma alle prove, allo spettacolo, riempie i discorsi, le serate di tutto il cast, affiatato e generoso. Sul palco invece la storia di Fred nasce dalla voce, anzi dalle voci, di Matthias Martelli, che si tramuta da narratore nei diversi personaggi, dando cenni biografici con la sua caratteristica ironia e con lo sguardo attento al mondo di ieri come di oggi. La scenografia, di Laura Benzi, è d’effetto, mobile e funzionale. La ricerca è tutta incentrata su Fred Buscaglione, sull’artista, sulla sua storia, sui brani che hanno affascinato generazioni e caratterizzato gli anni del boom economico, sulle difficoltà di sfondare, sugli amici, sull’amore. La corsa verso la fine dello spettacolo inizia subito. Momenti, vicende e situazioni scorrono al ritmo di un jazz trascinante, senza posa, come in una girandola. Gli interpreti giocano, vivono, collaborano, coinvolgono il pubblico e alla fine la sensazione che il protagonista di questo racconto visivo e sonoro sia un artista tutto da riscoprire accompagna lo spettatore fino fuori dal teatro.

Matthias: Dante, Raffaello, oggi Fred Buscaglione. Come mai questo personaggio?
Fred Buscaglione è stato un grande, così tanto da essere riconoscibile per tutti. Chiunque, anche chi è nato quarantanni dopo la sua morte, conosce brani come Eri piccola così, Che bambola, Guarda che luna. Mi interessava. Poi è sempre colpa di Torino, la città in cui sono nato artisticamente. Con la mia compagna vivo nella strada alle spalle di quella in cui viveva Leo Chiosso (autore e drammaturgo, che scriveva le parole delle canzoni di Buscaglione, suo fraterno amico). Attigua alla sua c’era la casa di Fred. I due amici si parlavano dal balcone, come raccontiamo nello spettacolo, e questa situazione era affascinante.

È questo che ti ha dato l’idea dello spettacolo?
In un certo senso, sì. Io e Arturo Brachetti cercavamo una storia, perché volevamo lavorare insieme e poi – bam – è arrivata l’idea. Arturo ne è stato entusiasta, abbiamo contattato subito Roy Paci per la parte del co-protagonista e lui ha accettato.

Roy, perché in coda allo spettacolo definisci Fred Buscaglione contemporaneo?
Perché ha un modo di cantare assolutamente moderno. Il modo che aveva di dire le frasi, è qualcosa che potremmo chiamare rap, sarebbe questa la definizione giusta. E poi per il suo modo di essere. Fred non era qualcuno che voleva essere famoso, voleva solo trovare il modo di campare, di cambiare la sua vita, uscire dalla povertà e da una situazione difficile. Faceva il suo mestiere. Mi ci riconosco molto. La fortuna mi ha permesso di diventare un nome, di ricevere soprannomi molto lusinghieri, di diventare anche chi permette ad altri di lavorare ma io, fin dall’inizio, ho sempre e semplicemente trovato nella musica qualcosa che sapevo fare bene. Qualcosa in cui ero e sono bravo. In cui trovo quindi la felicità, l’allegria. Poi certo ci vuole anche fortuna. Quella che Fred purtroppo non ha avuto.

Ma la sua musica resta, e con entusiasmo questo spettacolo ce lo ricorda. In scena al Parioli di Roma fino all’8 gennaio lo spettacolo è in tournée in tutta Italia.

Decreto Ong, uno sfregio alla Costituzione e al diritto internazionale

Finisce l’anno con una operazione che unisce, propaganda, tentativo di riaffermare autorevolezza sul controllo dei confini, dopo gli schiaffoni presi in sede Unione europea soprattutto dalla Francia e infine, raffinato modo per tramutare in legge ciò che di fatto non era ancora stato normato. Leggendo la bozza del testo del “decreto immigrazione” del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, ex capo di gabinetto di Matteo Salvini, si intuisce come le spinte provenienti dal Viminale siano state ammorbidite tanto per non irritare ulteriormente le autorità Ue quanto per non cadere sotto le pressioni del Quirinale. In definitiva quello che cerca di attuare il nuovo governo è estremamente semplice: riportando tutte le responsabilità degli arrivi di migranti e richiedenti asilo sulle spalle delle navi umanitarie delle Ong, che in realtà nel 2022 hanno portato in salvo poco più del 14% delle persone partite per giungere in Europa, si rende loro, questa volta per legge, la vita più complicata.

Si tratta, con le dovute differenze, di rendere legge il Codice di condotta redatto nel 2017 da Minniti e che quantomeno aveva un carattere “consensuale”, ovvero le Ong che lo ratificano hanno il diritto di operare nel Mediterraneo centrale. Il testo definitivo non è stato ancora presentato, probabilmente sarà anche fonte di discussione con la Presidenza della Repubblica visti i numerosi appigli di incostituzionalità, ma in sintesi stabilisce alcuni concetti chiave. Le navi delle Ong, potranno, di fatto, effettuare una sola operazione di soccorso per volta – fermo restando il divieto, tranne che per casi di comprovata emergenza, di entrare nelle acque libiche – e di questa dovranno informare l’Imrcc (Italian maritime rescue coordination centre), Centro nazionale di coordinamento del soccorso, che assegnerà all’imbarcazione un Pos (Place of safety), porto sicuro in Italia verso cui dovranno recarsi. Le ultime scelte operate ancora in assenza del decreto, il porto di Livorno e quello di Ravenna, danno già l’idea di quello che è l’obiettivo principale del provvedimento. Portare le navi Ong fuori dal Mediterraneo centrale, costringere naufraghi ed equipaggio ad una lunga navigazione per poi rallentare i tempi di ritorno in mare della stessa.

La bozza del decreto diviene molto più severa rispetto alle caratteristiche a bordo che dovranno rispettare le navi umanitarie: chiede, ma non impone che chi soccorre, sottragga anche i natanti su cui erano presenti i migranti partiti (misure anti inquinamento o per rallentare le operazioni e impedire il riutilizzo degli stessi?) Si chiede che le navi umanitarie abbiano i requisiti di idoneità tecnico – nautica alla sicurezza della navigazione nelle acque territoriali. In questa maniera si compie uno dei tanti atti d’imperio e di discriminazione verso dette imbarcazioni. Agli altri natanti in mare per turismo o per motivi commerciali, tali certificazioni non vengono richieste e questo costituisce un abuso verso lo Stato di cui l’imbarcazione batte bandiera.

Ai soccorritori è poi chiesto di avviare tempestivamente e a bordo, iniziative per acquisire le intenzioni di richiedere protezione internazionale. L’obiettivo di Piantedosi era quello di ottenere che chi viene soccorso da navi con bandiere di altri Stati dovesse poi trovare protezione presso gli stessi. Già in sede di Commissione europea su questo era stato espresso parere negativo. Prima era prassi che il comandante della nave poteva solo accettare manifestazioni di volontà di chiedere protezione. Ma né il comandante né i naufraghi possono essere obbligati ad ottemperare a tale richiesta. Ad escludere tali prassi sono le stesse linee guida dell’Unhcr.

La nave umanitaria che va ad effettuare “soccorsi non casuali” è poi tenuta a richiedere all’autorità della zona Sar (Search And Rescue), soccorso e ricerca, competente, l’assegnazione del porto di sbarco. Qui sorge il problema legato al fatto che gran parte dei soccorsi operati dalle Ong avvengono nelle zone Sar di Libia, Tunisia e Malta. Questo si può tradurre nell’invito alle autorità dei Paesi di competenza di riprendersi le imbarcazioni dei fuggitivi? Libia e Tunisia non sono considerati “porti sicuri”, Malta spesso non interviene. Già è depositata una denuncia alla Corte Internazionale per le violazioni connesse a quelli che sono considerati respingimenti indiretti verso la Libia. Si vuole reiterare l’ipotesi di reato? Intanto col “decreto Piantedosi” si attuano, vedremo poi in che termini, intimidazioni verso le ong, chiedendo ai comandanti delle navi umanitarie di compiere operazioni che violano numerose convenzioni internazionali relative alla necessità di portare in salvo le persone. Il modo attraverso cui si tenta di impedire una completa attività di soccorso è riassumibile in due concetti a) il porto di sbarco individuato dalle autorità competenti (italiane) va raggiunto senza ritardo per il completamento delle operazioni di soccorso. Della serie che se la nave Ong si trova nei pressi di Lampedusa e il porto assegnato fosse Venezia, non ci devono essere deviazioni nella rotta da seguire. b) se si dovessero effettuare operazioni di soccorso plurime, quelle successive alla prima devono essere effettuate in conformità agli obblighi di notifica (richiedere autorizzazione per emergenza) e non devono compromettere l’obbligo di raggiungimento, senza ritardo, del porto di sbarco assegnato. Viene da domandarsi come verrà considerato un “ritardo” dovuto al fatto che, ricevendo una richiesta di soccorso, la nave Ong, si ritrovi a dover scegliere se proseguire per il tragitto segnato o deviare – quindi impiegando del tempo – per effettuare ulteriore soccorso.

Le operazioni ricerca e di soccorso, vera ossessione governativa, non devono aggravare situazioni di pericolo a bordo né di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco assegnato. Quindi anche trasbordare profughi in difficoltà o in condizioni di vulnerabilità, per effettuare altri soccorsi richiesti, viene considerato come azione riprovevole. Da ultimo, la nave che operi un salvataggio deve fornire alle autorità Imrcc e, in caso di assegnazione di un porto di sbarco, deve fornire tutte le informazioni richieste ai fini dell’acquisizione di elementi relativi alla ricostruzione dettagliata delle fasi dell’operazione di soccorso effettuata. In realtà questo viene sempre effettuato, per interesse stesso dei soccorritori, ma la disposizione serve a ribadire il concetto per cui le Ong sono organizzazioni opache che non hanno (non c’è stato alcun elemento a comprovarlo finora) comunicato con esattezza il proprio operato.

Pur non prevedendo sanzioni penali per chi non ottempera a tale decreto c’è un vasto quanto generico quadro di sanzioni amministrative a discrezionalità dei prefetti, da mettere in campo: si va dal “fermo amministrativo” delle navi di soccorso al sequestro o confisca della nave, alle multe. Non è chiaro (forse verrà regolamentato nei prossimi giorni) il rapporto fra specifica violazione e sanzione in cui si incorre, intanto quello che avverrà andrà contro ogni diritto di difesa. Ad esempio dare ad un prefetto il potere di effettuare anche il sequestro cautelare di un’imbarcazione battente bandiera di un altro Paese, viola apertamente le norme sovrannazionali contenute nelle Convenzioni di diritto del mare e dei regolamenti europei. Il decreto prevede una sanzione al comandante della nave di soccorso che può andare dai 10mila ai 50mila euro, ovviamente la responsabilità anche dell’armatore e del proprietario dell’imbarcazione. Si aggiunge che il fermo amministrativo per 2 mesi della nave, custodia e manutenzione della stessa sono a carico di chi comanda la stessa. Può essere presentato entro 60 giorni ricorso al provvedimento e il Prefetto che ha 20 giorni di tempo per decidere se confermarlo o meno. Se si reitera la violazione scatta la confisca e il sequestro cautelare della nave. Quando non vengono fornite le informazioni richieste rispetto alle modalità dell’intervento di soccorso, la sanzione è contenuta fra i 2mila e i 10mila euro, la nave fermata per venti giorni salvo reiterazione della violazione (2 mesi).

In attesa di vedere se giungeranno segnali dal Quirinale per modificare il decreto, va detto che questo contiene numerosi appigli legali da impugnare anche in Italia. Secondo il prof Fulvio Vassallo Paleologo, oltre alle violazioni di gran parte dei trattati internazionali Piantedosi di fatto non rispetta gli articoli: 2, 3,10, 117 della Costituzione e innescherà uno scontro senza precedenti a livello Ue. Troppe sono le imposizioni che si determinano verso le Ong, in particolare verso quelle di Stati appartenenti all’Unione che dovrebbero attenersi a comandi che il governo italiano e i suoi organi periferici (le prefetture), non hanno autorità per determinare. Comunque il risultato che si intende produrre è una “istituzionalizzazione dell’omissione di soccorso in mare”, l’intimidazione per legge delle organizzazioni umanitarie e della solidarietà e, per forza di cose, l’incremento prossimo delle vittime in mare determinate da tali misure. Ad inizio dicembre, il gruppo parlamentare europeo The Left ha pubblicato una ricerca, commissionata, sulle violazioni dei diritti umani verso i migranti, in 4 volumi. Un testo raccapricciante che riguarda i crimini commessi da governi di 15 Paesi, fra cui l’Italia e che riporta notizie di circa 25mila casi di violazioni. C’è da temere che, qualora il decreto dovesse essere effettivamente applicato, ci sarà presto spazio per un nuovo volume, interamente dedicato all’Italia.

Le bugie di fine anno

Sia benedetta Pagella Politica che tutti i santi giorni si prende la briga di verificare la veridicità di quello che affermano i politici nostrani. In un Paese normale, a ben vedere, sarebbe un compito della stampa ma poiché il leaderismo dalle nostre parti è un virus che fiacca molti giornalisti tocca ai cosiddetti siti di fact-checking.

Si scopre così che Meloni mente quando dice «I condoni non ci sono nella nostra legge di Bilancio» poiché la legge di Bilancio contiene la cosiddetta “tregua fiscale”, che raccoglie alcuni provvedimenti come lo stralcio automatico delle cartelle esattoriali fino a mille euro, relative al periodo 2000-2015, e la possibilità di ripagare tutto il dovuto al fisco, con uno sconto però sulle sanzioni e gli interessi. Poiché secondo l’enciclopedia Treccani, un condono fiscale è un «provvedimento legislativo che prevede un’amnistia fiscale e ha lo scopo di agevolare i contribuenti che vogliano risolvere pendenze in materia tributaria» e nella letteratura scientifica internazionale, il “condono” (in inglese tax amnesty) è definito come «l’opportunità data ai contribuenti di saldare un debito con il fisco, inclusi gli interessi e le more, pagandone solo una parte» quello del governo Meloni è un condono.

È falsa anche la frase «la morale da chi, oggi all’opposizione, ma quando era al governo ha liberato i boss mafiosi al 41-bis con la scusa del contagio da Covid […], non me la faccio fare». Giuseppe Conte (a cui si riferisce Giorgia Meloni) ha approvato un decreto per favorire il ricorso alla detenzione domiciliare per una serie di detenuti. Tra questi, però, non rientravano le persone condannate per reati particolarmente gravi, tra cui quelli di stampo mafioso.

È una bugia anche quella di Giorgia Meloni che dice «l’estensione della tassa piatta per le partite Iva con fatturato fino a 85 mila euro non discrimina i lavoratori dipendenti». Almeno tre organismi indipendenti, durante le audizioni in Parlamento sul disegno di legge di Bilancio, hanno sollevato critiche verso il provvedimento difeso da Meloni. Stiamo parlando della Banca d’Italia, della Corte dei Conti e dell’Ufficio parlamentare di bilancio.

Ovviamente bugie anche su contanti e evasione. «Negli ultimi dieci anni quando c’è stata meno evasione fiscale è quando c’era il tetto al contante a 5 mila euro», dice Giorgia Meloni. Come fa notare Pagella politica «qui Meloni ha ripetuto lo stesso errore già commesso durante il primo video della rubrica “Gli appunti di Giorgia”. A sostegno di questa tesi, la presidente del Consiglio aveva mostrato un grafico realizzato da Unimpresa secondo cui nel 2010, quando il tetto al contante era a 5 mila euro, l’evasione fiscale stimata in Italia aveva avuto un valore pari a circa 83 miliardi di euro, il dato più basso registrato fino al 2019. Il grafico in questione, così come la dichiarazione di Meloni, è però impreciso e fuorviante. Da un lato, il dato sull’evasione del 2010 è parziale, perché non tiene conto dell’evasione di alcune imposte e di quella dei contributi previdenziali, calcolati invece nelle stime degli anni seguenti. Dall’altro lato, ha poco senso valutare l’efficacia del tetto al contante nel contrasto dell’evasione comparando i valori annuali dell’evasione con quelli dei limiti all’uso del contante. Per valutare il contributo del tetto al contante servono studi scientifici. Come hanno spiegato nelle audizioni sul disegno di legge di Bilancio per il 2023 la Banca d’Italia, la Corte dei Conti e l’Ufficio parlamentare di bilancio, alcuni studi hanno mostrato che in Italia il tetto al contante può contribuire a ridurre il fenomeno dell’economia sommersa e dell’evasione».

Buon venerdì.

Fracassi: La marcia su Roma non ci fu. Ma il fascismo diventò regime per vent’anni

Con una circolare datata 25 dicembre 1926 l’allora governo capeggiato da Mussolini fissò l’obbligo, a partire dal 29 ottobre dell’anno successivo di aggiungere, in numero romano, accanto a quello dell’era cristiana l’anno che indicava l’avvio dell’era fascista. L’inizio fu datato retroattivamente al 29 ottobre del 1922, giorno successivo a quello della Marcia su Roma, giorno in cui non ci si era proprio resi conto di tanto evento. Il nuovo modo di scrivere il calendario durò fino al 1943, fatto salvo per il territorio della Repubblica di Salò dove rimase in vigore fino al 1945.
L’ attuale anno 2022 che volge al termine è coinciso con il centenario di quella data e sono stati pubblicati molti libri; l’argomento è stato analizzato da importanti storici da vari punti di vista, componendo una sorta di mosaico per la comprensione di come sia avvenuto che il re Vittorio Emanuele III di Savoia abbia affidato l’incarico di fare il governo a Mussolini, che era a capo di un partito rappresentato nella Camera dei Deputati da soli 35 rappresentanti. Claudio Fracassi, giornalista, scrittore e storico, con il libro La marcia su Roma, 1922. Mussolini, il bluff, il mito (edizioni Mursia 1921), attraverso il metodo del giornalismo d’inchiesta ci racconta quei giorni.
Fracassi ha cominciato a scrivere sul quotidiano Paese sera, ricoprendo l’incarico di corrispondente estero da Mosca, per poi diventarne direttore fino al 1989. Successivamente ha fondato il settimanale Avvenimenti.
Autore di libri storici come La meravigliosa storia della repubblica dei Briganti, Roma 1849, Matteotti e Mussolini 1924. Il delitto sul lungotevere, Cola di Rienzo. Roma 1347 ha altresì analizzato i meccanismi dell’informazione con testi diffusi anche all’estero come Sotto la notizia niente. Saggio sull’informazione planetaria, Le notizie hanno le gambe corte, Bugie di guerra: l’informazione come arma strategica. Nel periodo in cui è stato a Mosca si è dedicato alla conoscenza dei Paesi dell’ex Urss e in particolare della condizione femminile attraverso reportage come Il ciclone Natascia e la biografia Alessandra Kollontaj e la rivoluzione sessuale in cui racconta l’importante figura della rivoluzionaria bolscevica di cui, come lui stesso ammette, a distanza di vari decenni dalla morte, si è letteralmente e letterariamente innamorato. Insieme a lui ripercorriamo il momento d’inizio di quel periodo nefasto per la storia del nostro Paese che solo sessantuno anni prima era stato finalmente unificato.

Fracassi, come mai ha sentito l’esigenza di scrivere un libro sulla Marcia su Roma? Può essere considerata come un colpo di Stato o una rivoluzione?
Scrivo libri di storia, più che per raccontarla, per impararla. Se un evento ti appassiona o ti coinvolge, o ti lascia interdetto perché le spiegazioni che hai appreso ti paiono poco convincenti, ti viene voglia di cercare le informazioni che ti mancano. Questo ho imparato facendo il giornalista. Della Marcia su Roma ho letto a suo tempo, a cominciare dal grande e pieno di ironia racconto di Emilio Lussu Marcia su Roma e dintorni. Ma devo confessare che, alla fine, rimanevo pieno di dubbi. Che cosa ha cambiato, la Marcia? E’ stata una rivoluzione? È stato un colpo di stato? O se no, che cosa? Ecco, cercare le fonti, poi mettere le informazioni una accanto all’altra, può aiutare molto. Può aiutare a imparare che cosa è successo, e dunque forse a capire perché. Forse.

Possiamo dire che dietro la Marcia su Roma non ci furono solo i fascisti ma anche la Confindustria e quelli che verranno successivamente definiti “I poteri forti”?
Altro che, se possiamo. Andando a cercare negli archivi chi erano i protagonisti, quelli che nei giorni della Marcia passavano pomeriggi e nottate accanto a Benito Mussolini – a Milano, nella sua abitazione o nella redazione del suo giornale, Il Popolo d’Itala – veniamo a sapere che non si trattava di impavidi giovani marciatori fascisti, ma di intraprendenti ed eleganti signori di mezz’età; cioè, al completo, il gruppo dirigente di Confindustria, con simpatici e ben noti cognomi di famiglia (Agnelli, Falck, Pirelli…). Due di loro, alla fine, accompagnarono in treno Benito Mussolini, sul “direttissimo” Milano-Roma, per affidarlo con fiducia ad un altro signore, autorevole ma meno elegante, che di nome era Vittorio Emanuele, e di mestiere re.

Quale fu la posizione del partito socialista che pure aveva raggiunto il massimo del suo peso politico, anche se solo l’anno prima aveva subìto la scissione del partito comunista d’Italia? E quella del sindacato?
Viene voglia di stendere un velo di vergognoso oblio. È una delle pagine che, nella storia gloriosa e sanguinosa delle lotte sindacali in nome dei lavoratori, andrebbe strappata. Il segretario della Cgil, attraverso un paio di comunicati-stampa, fece sapere che non era il caso di immischiarsi in faccende altrui, come il fascismo in espansione, le Marce, i governi in formazione, eccetera. Si badi, il segretario sindacale che esortava alla neutralità non era un prezzolato al servizio di Mussolini. Era, semplicemente, una persona – tra le tante – che non aveva capito niente, ma proprio niente, di ciò che stava succedendo in Italia. Altri antifascisti – da Salvemini, a Gramsci, a Matteotti – non la pensavano così, e lo dicevano, ma erano in minoranza. A leggere, oggi, uno dei grandi discorsi di Giacomo Matteotti alla Camera, ti vengono le lacrime.

Dalla carneficina della guerra alla distruzione della Repubblica democratica liberale che pure aveva portato l’Italia alla vittoria. Come è stato possibile? Quanto l’atmosfera culturale di quel periodo ha influito?
Fa bene a ricordare la guerra. Sui campi di battaglia l’Italia aveva appena visto morire poco meno di settecentomila persone, in maggioranza giovani. Mezzo milione di ex-soldati erano invalidi, non potevano lavorare. In Europa i morti erano stati nove milioni. E poi le fucilazioni, le ferite auto-inflitte per venire via dalla trincea, e le fucilazioni e il milione di italiani, militari e civili, che i medici giudicavano irrimediabilmente devastati nel fisico e nella mente. E poi c’erano i futuristi che cantavano: noi vogliamo esaltare «l’amor del pericolo, il movimento aggressivo, il salto mortale, lo schiaffo e il pugno». Non si capisce il fascismo con le sue tragedie senza ricordare la guerra che l’ha preceduto.

Le donne avevano sostituito gli uomini al fronte. Il regime fascista come si pose nei loro confronti?
C’è tutta un’enciclopedia sui rapporti fra il duce e le donne, sulle amanti eccetera. Lasciamo stare. Ma il riferimento più interessante che scartabellando ho trovato è di natura, diciamo così, filosofica, e fa parte di un’intervista ad un giornalista tedesco, Emil Ludwig. «La donna, sostiene Mussolini, deve solo obbedire. La donna è analitica, non è sintetica. La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione a ogni femminismo. Naturalmente la donna non deve essere una schiava, ma se le concedessi il diritto politico-elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare».

Mussolini e D’Annunzio: amici o antagonisti?
D’Annunzio era molto popolare, ma Mussolini, con furbizia, lo stava superando. E la marcia su Roma, per un personaggio con un gran senso teatrale come era il futuro duce, era una tappa decisiva, non tanto da vincere, ma da celebrare come fosse una vittoria. D’Annunzio chiamava alla ribellione contro la guerra tradita. Gli slogan fascisti esaltavano la guerra come «avventura, record, spettacolo». D’Annunzio, per non perdere, cercò addirittura di organizzare una sua marcia, il 4 novembre giorno della vittoria. Ma Mussolini lo anticipò con l’evento annunciato per il 28 ottobre. E D’Annunzio, che fra l’altro era caduto da una finestra della sua villa sul lago di Garda, fu costretto a ritirarsi dalla scena.

 I suoi testi, nati da ricerche di archivio puntigliose, sono ricchi di riferimenti e di note. Che tipo di immagini ci sono del periodo della Marcia su Roma?
Le immagini sono poche, e tutte dello stesso tipo, poco attraenti: si vedono un po’ di marciatori che sfilano faticosamente per la città. Molti romani erano venuti a vedere, e anche a divertirsi, perché i nuovi arrivati erano poco marziali, zuppi di pioggia. Badi bene, sono immagini scattate non sabato 28, ma martedì 31 ottobre, quando, sulla base di un accordo fra il futuro Duce e il re, era stato infine concesso a un corteo di attraversare rapidamente la capitale, passando sotto il balcone reale al Quirinale, poi imboccando via Nazionale, raggiungendo la stazione Termini e di lì prendendo il treno verso casa. Era bastata un po’ di furbizia del generale Pugliese, che comandava le forze armate dell’esercito di stanza a Roma, per far fallire la storica e solenne marcia prevista sabato 28 ottobre. Pugliese aveva fatto saltare alcuni binari intorno a Roma, dirottato qualche treno verso il mare, e disinnescato dunque il progettato assalto alla capitale. All’alba di sabato 28 il Consiglio dei ministri aveva deliberato lo stato d’assedio, ma il re non aveva firmato quell’ordine. Insomma, in realtà la Marcia su Roma non ha mai avuto luogo. Questo dice la Storia. Eppure, nonostante il fallimento dello spettacolo, la Storia dice anche che il fascismo diventò regime, per vent’anni. Credo che ci sia ancora molto da raccontare. E da capire.

 

Quando comincia il congresso del Pd?

Nella lingua italiana si definisce congresso un «raduno di diplomatici o di uomini politici o di affari, di cultura o di scienze per la messa a punto o la risoluzione di questioni importanti o di comune interesse». Nel caso del Partito democratico (ma vale per tutti i partiti) il congresso deve decidere quali siano le priorità dell’agenda politica italiana, come interpretarle e come farsene carico. Ce ne sono a bizzeffe.

In queste settimane di congresso del Partito democratico il governo a cui si oppongono ha deciso le misure finanziarie per il 2023 su fisco, sanità, scuola, cultura. Il ministro dell’inferno Piantedosi ha messo nero su bianco l’atteggiamento che l’Italia vuole avere nei prossimi anni nei confronti della violenza, della fame e della disperazione che innescano le migrazioni (perché sono le persone il tema principale, prima delle migrazioni). Il ministro Valditara sta disegnando un modello di scuola che divide i giovani in vincitori e sconfitti. La ministra Santanchè sta progettando un turismo come cerchia solo per gli altospendenti. Il ministro della Guerra, Guido Crosetto, sta intendendo la Difesa come rifocillamento di armamenti. Poi ci sono i poveri, i soliti poveri sempre più poveri a cui si aggiungono i nuovi poveri, che continuano a essere nemici. Ci sarebbe anche il ministro del Cemento Salvini che cerca l’immortalità in mausolei autostradali e ponti smisurati.

Il congresso così non va. Lo sanno dentro il Partito democratico, lo dicono i numeri di un partito in picchiata per cui non vale nemmeno l’antico adagio del “è facile aumentare il consenso mentre si sta all’opposizione”. C’è l’opposizione di base, ci mancherebbe, quella tiritera del non essere mai d’accordo ma manca la politica. Scorrendo le agenzie di stampa degli ultimi giorni si ritrovano lanci su Bonaccini che ci spiega come quello con Pina Picerno non sia “un ticket” ma “un tandem”. C’è la notizia di una “diaspora” in Areadem che “andrebbe verso Bonaccini”. C’è chi annuncia di appoggiare qualcuno per “un Pd più riformista, rigoroso e radicale”. C’è una diatriba sul numero degli iscritti. C’è Boccia che definisce Schlein “sinistra occidentale moderna e ambientalista”. C’è Ricci che avvisa che “il congresso non è un talent show”. Ci sono armamentari retorici che appaiono – a essere buoni – piuttosto vetusti.

Manca la politica comprensibile qui fuori. Tra la gente che non ha il tempo di seguire ogni giorno le sfumature politiche, le differenze tra i vari candidati si riducono nella maggioranza dei casi a una simpatia/antipatia o a una presunta appartenenza. Il congresso del Pd finora non ha prodotto un solo spunto di discussione tangibile su qualcosa che si dovrebbe fare urgentemente. La gente non sa cosa farebbero i candidati del congresso al posto di Piantedosi, di Salvini, di Valditara, di Nordio. In realtà non si è nemmeno capito quali siano gli errori – dico concretamente, elencandoli – che avrebbe compiuto Letta.

Questo non è un congresso finora: è una resa dei conti tra bande che hanno sempre meno peso nella politica nazionale, un’orchestra che suona mentre perfino il Movimento 5 Stelle gli sfila i temi storici. Quando comincia il congresso del Pd?

Buon giovedì.

Voci di donne dal mondo. Ginevra Di Marco: La forza del nostro canto collettivo

Un evento dedicato all’universo femminile multiculturale è il concerto che si tiene in anteprima nazionale al Teatro Puccini di Firenze, oggi, giovedì 29 dicembre, alle ore 21. Saliranno sul palco, insieme alla cantautrice Ginevra Di Marco, Almar’à, – l’orchestra delle donne arabe e del Mediterraneo-, la cantautrice Ginevra Di Marco e l’Orchestra di Piazza Vittorio, per uno spettacolo dal titolo She, elle, lei – voci di acqua e di terra, suoni di mare e di sabbia. Ideatore del progetto è il Centro di produzione musicale Toscana Produzione musica (ente che ospita produzioni in molti luoghi dello spettacolo della Toscana e riconosciuto dal Ministero della Cultura per il 2022-2024).

Sarà una grande festa della musica e delle esperienze condivise, che vedrà protagonisti i musiciste e musicisti provenienti da diversi Paesi: Ginevra Di Marco (Italia), Yasemin
Sannino (Turchia), Nadia Emam (Italia/Egitto), Hana Hachana (Tunisia), Houcine Ataa (Tunisia), Carlos Paz (Ecuador), Ziad Trabelsi (Italia/Tunisia), Derya Davulcu (Turchia), Peppe D’Argenzio (Italia), Sana Ben Hamza (Tunisia), Valentina Bellanova (Italia), Silvia La Rocca (Italia/Eritrea), Raul Scebba (Argentina), Emanuele Bultrini (Italia), Pino Pecorelli (Italia). Per i nostri lettori abbiamo incontrato Ginevra Di Marco poco prima dell’inizio, a Roma, delle due giornate di prove intensive in vista del concerto di anteprima di Firenze. Ginevra Di Marco è reduce da un anno dedicato ai lavori per il centenario della nascita di Margherita Hack e ricorda la lunga collaborazione con la astrofisica, condivisa
con i suoi colleghi musicisti Francesco Magnelli e Andrea Salvadori, per la creazione di uno
spettacolo teatrale dal titolo L’anima della Terra vista dalle stelle. «È stata una storia molto
importante di amicizia e di insegnamento per me» racconta. «Il rapporto con lei ha cambiato molto il nostro modo di stare sul palco, il senso che si dà a quello che si fa. Ce ne siamo resi conto ripercorrendo le tappe di questo rapporto in occasione del centenario».

Ginevra, qual è stata la tua reazione alla proposta di Toscana Produzioni musica?
Il lavoro è cominciato a dicembre, abbiamo un po’ messo insieme e mescolato i nostri repertori scegliendo canzoni che sono di tutti e tre i nuclei:, oltre me, l’Orchestra di Piazza Vittorio e Almar’à. Ho accolto la notizia con grande entusiasmo perché sembra arrivata, in chiusura d’anno, a coronamento di un lungo periodo in cui sono stata interprete di musica
popolare nel mondo, e anche perché mi trovo a lavorare con musiciste e musicisti straordinari. Finalmente condivido il palco anche con una buona sezione femminile formata da brave professioniste, che ingentiliscono e riempiono di grazia e di colori lo spazio intorno, e questo mi si riverbera dentro: l’emozione l’ho sentita sulla pelle.

Parli di un vissuto personale, quello della presenza femminile negli ambienti professionali e artistici, che in qualche maniera si collega coerentemente a quanto sta succedendo a livello internazionale, penso alla protesta delle donne iraniane… che, tra le altre cose, dal 1979 non possono più cantare come soliste in pubblico.
Infatti, credo sia un grande messaggio quello di esserci, noi musiciste. E questo lavoro giunge a dare un forte segnale in questo momento. Ho cantato per anni sempre con l’idea che l’incontro con le altre culture sia solo viatico di grande ricchezza per noi stessi, per la nostra vita, per la nostra cultura. E, infatti, è ed è infatti molto bello misurarsi con delle attitudini che sono diverse dalle nostre, diverse da -quelle occidentali-, anche solo più strettamente sul lavoro musicale: perché la musica araba, per esempio, ha tutt’altre regole, estensioni, scale e, suoni a cui il nostro orecchio non è abituato, e questa diversità è estremamente affascinante. E quando l’asticella si alza, Ginevra è contenta:, mi sento stimolata, mi piace imparare, ricercare, mi piace calarmi in un nuovo che
ho davanti.

Come avete scelto il repertorio?
Abbiamo scelto canzoni che riguardano tutti noi. In particolare avevo espresso il desiderio di privilegiare delle canzoni tra quelle meno conosciute, non i soliti cavalli di battaglia che si eseguono nelle tournée e che hanno molto seguito, ma dei lavori più particolari. È stata scelta, tra le altre, una canzone dal titolo “Fuoco a Mare”, che è inserita nel mio omaggio alla cantora argentina Mercedes Sosa.

Il tuo cd La Rubia canta la Negra del 2017:“Fuoco a Mare” è il primo di tredici brani, dal contenuto profondo ed attuale, purtroppo.
Sì, una canzone dedicata ai grandi barconi del mare, all’arrivo delle migliaia di persone che
approdano, quando ci riescono, sulle coste della terra che dovrebbe garantire loro una vita migliore. Questa canzone nasceva sull’onda degli accadimenti e dei miei pensieri di quel periodo ma sappiamo che è un argomento attualissimo, purtroppo. Ed è stato bello che gli altri musicisti siano rimasti colpiti da questo testo, dal senso di questo brano. Poi mi piace rimettere in circolo i miei lavori cambiando gli arrangiamenti e dando vita a nuovi colori, nuove sensazioni, in virtù di una condivisione tra musicisti che contribuiscono con le loro sensibilità a creare qualcosa di diverso.

È stato un lavoro collettivo, quindi, quello della scelta del programma musicale e della stesura dei nuovi arrangiamenti o il merito è di qualcuno in particolare?
Io lavoro a strettissimo contatto, da sempre, con Francesco Magnelli, tra le altre cose bravissimo arrangiatore, il quale pur non partecipando fisicamente al concerto è stato un deus ex machina dietro le quinte, insieme a due elementi dell’Orchestra di Piazza Vittorio, Pino Pecorelli e Ziad Trabelsi che hanno curato arrangiamenti e coordinamento musicale. In sintesi, un lavoro collettivo con questi tre capisaldi.

La sensibilità dimostrata lungo tutto l’arco della tua carriera artistica verso culture diverse sembra esprimersi soprattutto attraverso quelle ai margini, in un mondo veloce troppo spesso indifferente.
Laddove si trovano dei popoli che hanno attraversato grande sofferenza, fatica, miseria, spesso si trovano grandi canzoni e in particolare la canzone popolare, in qualche modo, riesce ad esprimere più direttamente gli stati d’animo. Ovviamente senza generalizzare, non vale sempre. Bisogna saper cercare, instancabilmente… aprirsi all’ascolto esterno e interiore perché la bellezza risuona dentro. Insomma, cerco di rapportarmi al senso, al significato, alla melodia e all’armonia. Ci sono, per esempio, tante canzoni antiche che meritano ancora di essere cantate proprio perché sono il giusto equilibrio di tutti questi elementi, che la gente è bene che conosca, è bene che non se, che non ne perda la memoria. Sono felice di poter dare il mio piccolo contributo affinché quelle canzoni
esistano e facciano ancora il loro viaggio nel tempo perché il mondo che viviamo, così fagocitante, rischia di far sparire velocemente un patrimonio culturale enorme.

Questo spettacolo è dunque un lavoro corale che vira lontano dalle dinamiche competitive frequenti sul palco?
Oh sì! Siamo sempre insieme sul palco, è uno spettacolo che non ha niente a che fare con la kermesse che vuole il susseguirsi degli artisti uno dopo l’altro. Siamo sempre tutti lì dall’inizio alla fine, appassionatamente.

Dopo Firenze, sono previste altre date?
Mi auguro che lo spettacolo così concepito si possa replicare in altre città italiane e anche in
Europa, ma non sarà facile portarlo in giro perché siamo tanti musicisti e dislocati in sedi diverse. Quando si lavora come in questo caso è difficile pensare di farlo per una data unica e quindi spero davvero che non finisca qui. Si è lavorato bene, tra musicisti molto preparati e in un clima bellissimo, che di sicuro avvertirà anche il pubblico che verrà ad ascoltarci.

Te lo auguriamo. Hai altri proponimenti per il nuovo anno?
Sì, mi piacerebbe molto scrivere brani nuovi e realizzare un nuovo disco di inediti.

In apertura: Ginevra Di Marco, foto di Guido Mencari

Insediamento di Lula, alta tensione in Brasile

Cronaca di un attentato mancato. I preparativi della cerimonia di insediamento del nuovo governo di Luiz Inácio Lula da Silva che si terrà a Brasília l’1 gennaio, alle 11 (fuso orario italiano) hanno subito una importante e improvvisa modifica in corso d’opera. Come è noto le forze dell’ordine locali il 24 dicembre hanno disinnescato una bomba piazzata nei pressi dell’aeroporto di Brasilia, scoprendone altre cinque accanto ad un vasto arsenale nell’appartamento preso in affitto dal terrorista arrestato. Quindi il piano è quello di rafforzare ulteriormente le misure di sicurezza del futuro presidente, così come dei futuri Ministri e dei 17 capi di Stato, già confermati per congratularsi con Lula.

Nel covo sono state trovate diverse mitragliatrici, fucili con mira laser, pistole, tute mimetiche e migliaia di proiettili per un valore di circa 22mila euro, una cifra esorbitante in moneta locale, trattandosi di un importo incompatibile con la vita dell’uomo arrestato, gestore di una stazione di rifornimento nello Stato del Pará. Soltanto una settimana prima di questa inquietante scoperta, il ministro della Difesa di Bolsonaro, generale Augusto Heleno, aveva garantito ai sostenitori di Bolsonaro che Lula, apostrofato «bandito» dai manifestanti, non avrebbe varcato la soglia del Palácio do Planalto. Subito dopo la ripercussione negativa del video divulgato dal portale di notizie Metropoles, il generale ha smentito la sua affermazione via Twitter, attaccando la stampa che ha divulgato. Il primo dispositivo atto a provocare una reazione esplosiva è stato trovato sabato 24 dicembre sotto un’autocisterna carica di benzina per velivoli. Caratterizzato da un’emulsione utilizzata dall’industria mineraria, era munito da un detonatore con timer. L’ordigno applicato sotto l’autobotte sarebbe stato azionato nell’aeroporto di Brasília nel corso di un’operazione di rifornimento di un aereo fermo in pista; questa è stata la confessione del terrorista arrestato, un imprenditore di nome George Washington de Oliveira Sousa.

Il nobile gesto del pilota è stato determinante, avendo immediatamente segnalato la sconcertante scoperta alla polizia. Dopo aver confessato l’iniziale intenzione di piazzare l’esplosivo nella centrale di distribuzione elettrica del distretto federale, per provocare un blackout nella capitale, il terrorista ha ammesso di aver confezionato la bomba ad orologeria con dell’esplosivo spedito da altri e di aver agito in gruppo. Secondo la confessione, un secondo terrorista avrebbe installato il manufatto nell’autobotte; insieme, avrebbero deciso di farla esplodere nell’aeroporto nella stessa giornata del 24 dicembre. Il dispositivo, tuttavia, non ha funzionato. La perizia della polizia civile ha confermato il tentativo di azionarlo.
«L’arrestato appartiene al movimento che appoggia il presidente in carica», ha affermato il capo della polizia civile del distretto federale (Pcdf), Robson Cândido, parlando di appartenenza dell’uomo ad un gruppo terroristico non del tutto identificato, ma disposto a disseminare ulteriori bombe per la capitale, con l’obiettivo di turbare o provare ad impedire il regolare svolgimento del processo democratico. «Egli afferma di agire in nome di una missione politico-ideologica. Ci appare evidente che la situazione è ormai del tutto fuori controllo».
A detta di Cândido, se i piani criminali del gruppo terroristico andassero a buon fine, come auspicato dall’arrestato, si verificherebbe una tragedia inimmaginabile, con centinaia di morti. Una delle pagine più buie della storia politica del Brasile democratico.
In effetti, nel corso della giornata del 25 dicembre, altri 40 chili di esplosivi sono stati trovati, assieme a giubbotti anti proiettili, nei pressi di una zona boschiva nella regione amministrativa chiamata Gama, sempre nel distretto federale.

Nella conferenza stampa avvenuta subito dopo l’arresto, il capo della polícia cívil del distretto federale ha chiarito che l’imprenditore arrestato aveva deciso di recarsi a Brasília subito dopo la vittoria di Lula, con l’obiettivo di prendere parte alle manifestazioni a favore del presidente uscente. Una mobilitazione di bolsonaristi, insoddisfatti del risultato elettorale, è in corso dal 30 ottobre, all’interno del comando generale dell’esercito.
In sostanza, da quando Lula ha vinto le presidenziali, un intero quartiere di Brasília, caratterizzato da un numero considerevole di caserme, strutture ospedaliere, servizi e villette destinate alle famiglie dei militari, ospita le tende, i bagni chimici e le strutture adibite a ristoranti, montate da estremisti di destra provenienti da tutto il Brasile. Come svelato dalla magistratura, gli accampamenti bolsonaristi, sparsi ovunque in più caserme, seguendo il modello di Brasília, grazie a un finanziamento collettivo, possono contare di un’ampia rete di imprenditori, politici e professionisti. Il 15 dicembre, il giudice della Corte Suprema, Alexandre de Moraes, ha emesso oltre un centinaio di mandati di arresto, perquisizione e sequestro di beni e blocco dei conti correnti appartenenti al nucleo finanziatore dei sostenitori delle suddette manifestazioni anti-democratiche. Le operazioni sono state svolte in ben otto regioni diverse.
Le indagini riguardavano le attività di tre gruppi sospettati del crimine di «abolizione violenta dello Stato democratico di diritto», previsto dall’articolo 359 del codice penale. Al momento molti di loro risultano latitanti o costretti ad indossare braccialetti elettronici.

Nelle loro ville e appartamenti sono state rinvenute impressionati quantità di armi e munizioni. La decisione di Moraes è stata presa qualche giorno dopo il tentativo di invasione della sede della polizia federale, a Brasília, da parte di un gruppo di estremisti di destra pro Bolsonaro, occasione in cui le vie nei pressi del tribunale superiore elettorale sono state messe a ferro e fuoco da bolsonaristi radicalizzati, oramai dediti al terrorismo interno. Così, il 12 dicembre, autobus e macchine sono stati dati alle fiamme, benzinai saccheggiati e bombole a gas sparse per strada e incendiate, affinché deflagrassero lasciando una scia di morti, feriti e distruzione.
Nonostante le decine di soggetti coinvolti nelle azioni terroristiche, alcune di esse registrate dalle telecamere sparse per le vie di Brasília, era stato compiuto un unico arresto: quello del pastore evangelico indigeno di etnia Xavante, José Acácio Serere, che vanta precedenti penali per narcotraffico e ostenta la sua l’ideologia di estrema destra in rete.

La minaccia all’incolumità fisica anche dei sostenitori di Lula, che si affacceranno sulla via principale dell’Esplanada dos Ministérios, luogo in cui avviene la tradizionale sfilata dei presidenti neoeletti, con una stima di oltre centomila partecipanti, è stata presa seriamente dal futuro ministro della Giustizia e della pubblica sicurezza, Flávio Dino.
«Siamo di fronte a un evento nuovo e gravissimo, che coinvolge un uomo armato con fucili e bombe, che rivela di non aver agito da solo», afferma Dino, puntualizzando che il Brasile è passato ad un «altro livello: quello del terrorismo».
Flávio Dino è un ex magistrato e professore, eletto due volte governatore dello Stato del Maranhão, per il Partito comunista del Brasile.

Passato al Partito socialista brasiliano nel 2021, ed eletto senatore nelle ultime elezioni, come primo compito da neo ministro di Lula, pesa il controllo della sicurezza alla cerimonia di insediamento, a detta sua «tutta da rivedere». Insieme al futuro direttore generale della polizia federale, Andrei Rodrigues, Flávio Dino ha già annunciato che proporrà alla procura generale della Repubblica e al Consiglio nazionale del pubblico ministero la creazione di un nucleo di contrasto al terrorismo.
Dal 26 dicembre l’accesso al Senato è diventato molto più ristretto e metal detector sono stati installati.
Rimane in dubbio anche il tradizionale saluto alla folla del presidente neoeletto, a bordo della storica Rolls-Royce Silver Wraith, una decappottabile utilizzata nelle cerimonie ufficiali che coinvolgono i presidenti della Repubblica brasiliani sin dal 1953. Per quanto riguarda Jair Bolsonaro, ad oggi, non ha proferito parola alcuna riguardo la condanna agli attentati o all’ipotesi di caos generalizzato in cui il Paese rischia di precipitare. Secondo diversi organi della stampa nazionale, il proposito del presidente uscente è arrivare negli Usa il 28 dicembre, pur di evitare la consegna della fascia presidenziale a Lula. Si tratterebbe di un clamoroso gesto simbolico studiato a tavolino, atto a seminare ulteriori violenze, e che conterebbe dell’appoggio dell’ex presidente degli Usa, Donald Trump, disposto ad ospitarlo nella sua residenza di Mar-a-Lago, per i prossimi mesi.

«L’unico codice da seguire nel Mediterraneo è quello dell’umanità»

Il governo Meloni si appresta a varare un nuovo codice di comportamento per le organizzazioni non governative (Ong) che effettuano soccorsi nel mar Mediterraneo. Ne abbiamo parlato con Alessandro Rocca, giornalista e autore del libro ResQ – Storia di una nave e delle donne e degli uomini che la fecero (People, 2022), centosessanta pagine di voci diverse che si giustappongono nel raccontare di come un’idea apparentemente folle, quella di allestire una nave per salvare vite nel Mediterraneo, può concretizzarsi, pur in un momento storico eccezionale come quello della pandemia, attraverso la mobilitazione della società civile e la capacità di fare rete di realtà grandi e piccole sparse in tutta Italia. Rocca fa parte del direttivo dell’associazione ResQ – People saving people, che ha preso vita nel dicembre 2019 e ha messo in mare la vecchia Alan Kurdi, 39 metri e all’attivo già 900 persone tratte in salvo: con il nuovo nome di ResQ People è salpata per la prima volta il 7 agosto 2021 e, in due missioni, ha già salvato 225 uomini, donne e bambini.

Nell’etere in cui viaggiava la conversazione tra me e Alessandro Rocca si sono ben presto materializzati dei presupposti che diventano imprescindibili quando si affronta la questione salvataggi in mare. Il primo è un assunto umano più che umanitario, e cioè che «salvare una vita è sempre una buona idea», come ripete a mo’ di mantra Rocca durante l’intervista, e che nella prefazione del suo libro trova espressione nelle parole dell’attrice Lella Costa: «Tra salvare una persona o lasciarla morire, ci sono alternative? Si può scegliere?». Quello che per Rocca e Costa è un obbligo morale costituisce chiaramente anche un preciso obbligo degli Stati, che prevale su qualunque accordo bilaterale gli stessi possano siglare al fine di “contrastare l’immigrazione irregolare”: già nella Convenzione di Bruxelles del 1910 si legge, all’articolo 11, che «ogni capitano è tenuto (…) a prestare assistenza a qualunque persona, anche nemica, trovata in mare, in pericolo di vita». Il secondo presupposto è che una volta effettuato il soccorso le persone dovrebbero essere fatte sbarcare al più presto nel porto sicuro più vicino. Anche in questo caso non si tratta solamente di un principio di buon senso, ma in primo luogo giuridico: la Convenzione di Amburgo del 1979, nota anche come Convenzione Sar (Search and rescue), stabilisce infatti che il soccorso è «un’operazione per recuperare persone in pericolo, provvedere alle loro prime necessità mediche o di altro tipo e portarle in un luogo sicuro» e obbliga gli Stati a cooperare in questo senso.

La terza premessa la spiega Rocca in questo modo: «Noi ci siamo, ma non dovremmo esserci. Queste sono operazioni di ricerca e soccorso che dovrebbero svolgere la nostra Marina militare, come ai tempi dell’operazione Mare nostrum (operazione militare e umanitaria messa in atto tra l’ottobre 2013 e l’ottobre 2014 nello Stretto di Sicilia a seguito del tragico naufragio di Lampedusa del 3 ottobre 2013 in cui ci furono 366 morti accertate, ndr), l’Unione europea, le istituzioni. ResQ, insomma, non dovrebbe esistere».
Invece, ResQ esiste, ed è nata proprio dall’urgenza di solcare il Mediterraneo causata da quella che anche Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) descrive come una «sostanziale latitanza e, comunque, inefficacia delle attività di ricerca e soccorso da parte delle autorità europee ed italiane sul Mediterraneo centrale», che si conferma essere una delle rotte più attive e pericolose a livello globale, e dove dall’ottobre 2013 hanno perso la vita quasi 20mila persone (dati Unhcr). Le imbarcazioni di organizzazioni umanitarie come la ResQ people che da giugno hanno effettuato operazioni di soccorso sul Mediterraneo sono una quindicina. In realtà, però, secondo gli ultimi dati del Ministero dell’interno rielaborati dal Cir (Consiglio italiano per i rifugiati) per il periodo 1 gennaio- 11 agosto 2022, solo una minima parte (16%) degli sbarchi in Italia è stata effettuata tramite l’ausilio delle Ong, mentre la parte restante degli arrivi è avvenuta in autonomia mediante imbarcazioni di fortuna o mediante altri eventi Sar della Guardia costiera italiana o di unità mercantili.

Gli ultimi anni di ricerche hanno definitivamente smontato l’annosa questione delle navi Ong come pull factor (fattore di attrazione) per le partenze dalle coste nordafricane: tra tutti citiamo lo studio di Matteo Villa ed Eugenio Cusumano, che tra il 2014 e il 2019 rilevavano che nei giorni in cui le navi delle Ong si trovavano al largo della Libia non si notava un aumento delle partenze. Sulla questione ha mostrato un cambiamento di rotta addirittura Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, in seguito alle dimissioni nell’aprile di quest’anno del controverso direttore Fabrice Leggeri, sospettato di aver coperto alcuni respingimenti di massa nel Mediterraneo. Eppure, nonostante queste evidenze, in un’intervista di poche settimane fa Giorgia Meloni ha dichiarato, citando la stessa Frontex, che «alcune Ong rappresentano un fattore di spinta dei flussi di migranti illegali, con conseguenze sia sugli arrivi che sui morti in mare», e si ipotizza che all’interno del Codice di condotta per le Ong che il governo è in procinto di varare sia inserita, proprio in questo senso, la raccomandazione di non comunicare la propria posizione a imbarcazioni che stanno per lasciare le coste tunisine o libiche.

«Una raccomandazione inutile, oltre che assurda», spiega Rocca, «perché qualsiasi nave in navigazione, da quella di soccorso, al mercantile, alla nave da guerra, ha l’obbligo di mantenere il transponder acceso e la propria rotta tracciabile. Esistono delle applicazioni come VesselFinder, ad esempio, dove inserisci il nome della nave e ti viene segnalato esattamente dove questa si trova: non c’è bisogno, insomma, che ci sia una corrispondenza tra presunti trafficanti ed eventuali altri personaggi. La questione del pull factor è un problema inesistente, utilizzato da chi vuol fare propaganda e non ha altri argomenti, per andare dietro alle promesse fatte durante la campagna elettorale, quando aveva assicurato al proprio bacino elettorale che sarebbero cambiate alcune cose».
Quella di essere un pull factor è solo una delle accuse mosse alle Ong, che forse devono al loro sguardo libero e indipendente su quello che succede al di là del Mediterraneo – in primis, in Libia – il fatto di essere criminalizzate sul piano politico e mediatico, e di essere soggette all’applicazione di misure discriminatorie come quella del Codice di condotta. Le ipotesi che circolano relativamente al nuovo Codice si presentano come regole di comportamento che, se violate, implicherebbero pesanti sanzioni amministrative e impedirebbero alle persone di sbarcare.

Alcune di queste raccomandazioni, come il fatto di poter intervenire solo in caso di pericolo e l’obbligo di comunicare il proprio intervento e di coordinarsi con le autorità competenti, sono «cose che già si fanno in mare», spiega Rocca, ribadendo il fatto che le navi delle Ong, così come ogni soggetto che naviga, sono obbligate a rispondere alla legislazione internazionale, a fronte della quale codici di questo tipo non hanno alcun valore giuridico. Ci sono poi, però, altre questioni. L’obbligo di «un solo rescue per missione», prima di tutto: le navi umanitarie dovrebbero chiedere il porto sicuro alle autorità e portare a terra le persone immediatamente dopo ogni intervento, senza rimanere in zona Sar «in attesa di altre imbarcazioni». In contrasto, poi, con la seconda premessa cui accennavamo inizialmente, il porto sicuro potrebbe anche non essere il più vicino, come è avvenuto pochi giorni fa alla nave Life Support di Emergency, a cui è stato assegnato il porto di Livorno dopo aver soccorso 70 naufraghi in zona Sar libica. Commenta così Rocca: «L’autorità può assegnarti un porto lontano perché ritiene che sia più adatto ad assistere le persone da far sbarcare, ma questo significa far navigare altre 20-25 ore persone già pesantemente provate da mesi o anni di viaggi nel deserto, in mare, da detenzione, stupri e torture». E, ancora, i soccorritori potrebbero dover chiedere alle persone a bordo di manifestare il proprio interesse sull’eventuale domanda di protezione internazionale, in modo tale che sia il Paese di bandiera della nave a farsi carico dell’accoglienza una volta avvenuto lo sbarco.

Una direttiva che, in un certo senso, andrebbe nella stessa direzione degli sbarchi selettivi cui ci ha abituati il ministro degli Interni Piantedosi negli ultimi mesi. E che, ancora una volta, dilaterebbe il tempo trascorso sulla nave, in netto contrasto con quanto dettato dalla Convenzione di Amburgo. «Il soccorso di fatto termina quando le persone sono sbarcate in un porto sicuro – spiega Rocca – e solo a quel punto si può verificare chi ha diritto di asilo o di un altro tipo di protezione. Come fai a dire che una persona non ha diritto di sbarcare semplicemente perché è un ragazzo di ventidue anni robusto e in buona salute? Magari viene da un Paese in guerra, magari ha subito persecuzioni, magari non può professare la sua religione o la sua tendenza sessuale. Intanto la fai sbarcare».
Una volta a terra, poi, ci sarebbe da ristrutturare un sistema di accoglienza fragile e impostato su un carattere di emergenza che non esiste. «Dovrebbe essere rivisto il regolamento di Dublino (che determina che il primo Paese dell’Ue di arrivo sia quello responsabile dell’esame della domanda di protezione internazionale, ndr) facilitando dei percorsi di redistribuzione in Europa e aprendo dei corridoi umanitari che permettano alle persone giunte in Italia di raggiungere i Paesi europei dove vogliono arrivare perché magari lì hanno un amico o un familiare. L’accoglienza dovrebbe, inoltre, puntare all’inclusione delle persone e non all’istituzione di nuovi Centri di permanenza per il rimpatrio o centri di simil-detenzione», suggerisce Rocca che, infine, conclude: «Quello a migrare è un diritto universale. Siamo tutti figli dell’immigrazione, nessuno escluso.”