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Le lacrime di Giorgia e del coccodrillo

Niente, non ce la fanno. Fingono di essere rispettosi della Costituzione e dei ruoli che ora ricoprono avendo vinto le elezioni ma poi basta un debole soffio per svelare la natura di Giorgia Meloni e della classe dirigente del suo partito. Le celebrazioni della nascita del Movimento sociale italiano sono una cartina tornasole.

Prima è stato il turno di Isabella Rauti che cita Tolkien («le radici profonde non gelano») che fomenta la fiamma, la stessa che Giorgia Meloni definì simbolo del «riconoscimento del percorso fatto da una destra democratica nella nostra storia repubblicana» rispondendo a Liliana Segre. Ieri è spuntato anche Ignazio La Russa che, tra le altre cose, da presidente del Senato dovrebbe avere un equilibrio ancora maggiore. Furbescamente La Russa (come nel caso di Isabella Rauti) pone la questione con un po’ di condimento familiare e ricorda la fiamma riferendosi al padre «che fu fra i fondatori del Movimento sociale italiano in Sicilia e che scelse il Msi per tutta la vita, la via della partecipazione libera e democratica in difesa delle sue idee rispettose della Costituzione italiana». Il tutto con la fiamma tricolore, ovviamente.

«Signori, – ha scritto ieri il dem Emanuele Fiano – in questi giorni l’esaltazione dell’Msi, partito fondato dai fascisti reduci di Salò, come Almirante e Romualdi, è ormai ai massimi livelli, qui la seconda carica dello Stato. E voi? Ex colleghi in Parlamento? Tutti zitti?». Qualcuno giustamente protesta. La Russa si difende. Per fortuna rimette le cose a posto la presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane Noemi Di Segni: «Si celebrano oggi – dice Di Segni –  i 75 anni dalla promulgazione della Costituzione repubblicana, l’affermazione della nostra democrazia antifascista. Eppure c’è chi ritiene di esaltare un altro anniversario – quello della fondazione del Msi – partito che, dopo la caduta del regime fascista, si è posto in continuità ideologica e politica con la Rsi, governo dei fascisti irriducibili che ha attivamente collaborato per la deportazione degli ebrei italiani. Grave che siano i portatori di alte cariche istituzionali a ribadirlo, legittimando quei sentimenti nostalgici». Netto anche l’Anpi. «Con tutto il rispetto per i suoi affetti familiari, l’Onorevole La Russa non ha ancora capito che è il Presidente del Senato della Repubblica antifascista e non il responsabile dell’organizzazione giovanile del Msi. Il suo post è uno sfregio alle istituzioni democratiche», fa sapere il presidente dell’associazione nazionale partigiani, Gianfranco Pagliarulo.

Chissà che ne dicono coloro che avevano scambiato le lacrime di Giorgia Meloni qualche giorno fa in occasione dell’Hannukkah, ricordando la deportazione degli ebrei. Chissà a cosa si riferiva la presidente del Consiglio quando nel suo discorso disse “non tradiremo”. Chissà cosa altro ci vuole per capire che Giorgia Meloni e i suoi compari sono quella roba lì, nient’altro. A proposito, il nome Msi fu scelto – lo dicono i fondatori stessi – perché  «M è l’iniziale per noi più chiara e significativa, non esprime solo Movimento, ma lo consacra con l’iniziale mussoliniana. Vi sono poi le due lettere qualificative della Rsi».

Buon mercoledì.

Nella foto: Giorgia Meloni alla cerimonia dell’Hannukkah (frame video YouTube Vista)

Il presepe della ministra Roccella

Con la complicità dei luculliani pranzi che hanno offuscato la lucidità di questi giorni è passata quasi inosservata l’uscita della ministra alla Famiglia Eugenia Roccella che ha pensato bene di rimpinzare la propria pagina Facebook nelle ore natalizie con una storia recuperata dalla cronaca locale riuscendo a strumentalizzare contemporaneamente il Natale, la legge 194 e la povertà raccontata – per l’ennesima volta – dal lato sbagliato.

Il quotidiano Il Giorno racconta che a Milano una coppia di senzatetto è stata costretta dalle condizioni di povertà a rinunciare al riconoscimento di un figlio appena nato.  «Come farebbe a sopravvivere con me al gelo?», avrebbe detto la madre. La coppia vive in una tenda vicino a una stazione nei pressi di Milano. La ragazza non ha riconosciuto il bambino entro i dieci giorni previsti per legge, ma non l’ha fatto perché ha realizzato che non sarebbe stata in grado di accudirlo: «Mi hanno dato dieci giorni di tempo per riconoscere mio figlio – ha raccontato al quotidiano Il Giorno -. Ma come farebbe a sopravvivere con me al gelo?». Quindi, ha lasciato trascorrere, per necessità, il termine per riconoscere il neonato e dunque il parto è diventato anonimo e si è automaticamente avviata la procedura per l’adottabilità.

La ministra, come accade nei giorni in cui la politica è in vacanza, ha pescato dalla cronaca e ha rilanciato: «Fra le storie che il Natale ci racconta – scrive Roccella – c’è stata in queste ore quella di Sabrina e Michael, giovani genitori in condizioni di difficoltà economica estrema. La ragazza, nel dare alla luce il suo bimbo nato prematuro, ha scelto di lasciarlo in ospedale senza riconoscerlo»

«Una situazione – ha scritto la ministra Roccella – che determinerebbe uno stato di adottabilità. Di questa vicenda non conosciamo abbastanza, solo le notizie riferite dagli organi di informazione, fra cui le parole della ragazza. Non possiamo avere la certezza che in condizioni diverse Sabrina avrebbe tenuto il bambino, sappiamo però che queste sono le motivazioni addotte. E sappiamo che sono tante le Sabrina che rinunciano alla maternità per ragioni economiche». La ministra ha chiuso ricordando con forza che: «Non serve una legge, perché la legge c’è. È la 194, e andrebbe soltanto attuata. Perché anche tanti che a parole la difendono poi non la mettono in pratica nella sua interezza. Anche questo è un problema di libertà femminile».

L’intento è chiaro: mettere in discussione per l’ennesima volta la 194 lasciando intendere che qualcuno vorrebbe raccontarne solo una parte. La ministra sa e finge di non sapere che quella coppia non avrebbe tenuto il figlio in cambio di qualche bonus utile solo a fare bassa propaganda di basso spirito di “famiglia”. Si tratta, si badi bene, di una ministra di un governo che tra le poche misure prese finora può annoverare l’avere innescato l’ennesima guerra ai poveri oltre alla solita guerra agli invisibili. La coppia sventolata dalla ministra Roccella rappresenta il nemico perfetto per la propaganda del governo di cui fa parte: sono senza documenti e quindi non hanno accesso a nessun tipo di cure mediche, sono senza lavoro e quindi rientrano nei canoni dei “nulla facenti” contro cui si scagliano ogni giorno e sono senza documenti rientrando di fatto nel paradigma dei “clandestini”. Quei due genitori mancati fanno parte dell’esercito dei 100mila che non hanno una casa, non hanno soldi per un affittare un tetto sopra la testa e non sono iscritti nelle liste di nessun medico di base. Un buco legislativo che Emilia Romagna, Puglia e Piemonte hanno sanato con una legge regionale e che la ministra Roccella potrebbe risolvere molto velocemente con una legge semplice semplice che si occupi del diritto di iscrizione alle liste dei medici di base anche senza dimora e ripristinando fondi per il disagio abitativo, senza bisogno di masticare la legge 194 per sporcarla.

Buon martedì.

Azar Nafisi: «Così le donne iraniane lottano contro chi vuole sequestrare la loro identità»

La scrittrice iraniana Azar Nafisi non ci dorme la notte per l’apprensione, la speranza e insieme il dolore per quanto sta avvenendo in Iran, incendiato da una straordinaria rivoluzione non violenta, laica, che vede le donne in prima fila, ma repressa violentemente dal regime degli ayatollah. Non passa giorno senza notizie di stupri, violenze impiccagioni in un crescendo agghiacciante che lascia senza fiato.

Ma nonostante la strage di giovani che il regime teocratico sta compiendo in modo criminale e inaccettabile «la rivolta non si fermerà, è inarrestabile il cambiamento che sta avvenendo in Iran», dice l’autrice del bestseller Leggere Lolita a Teheran, che è stata a Roma a dicembre per incontrare i lettori in occasione dell’uscita dell’edizione Adelphi del suo Quell’altro mondo. Nabokov e l’enigma dell’esilio e mentre è da poco uscito negli Stati Uniti il suo nuovo Read Dangerously: The Subversive Power of Literature in Troubled Times che parla della forza sovversiva della letteratura, dell’esigenza di conoscere, di ricerca della verità umana (sarà tradotto e pubblicato da Adelphi nel 2024).

Dopo essere stata cacciata dall’Università di Teheran dove insegnava, Azar Nafisi dal 1997 vive negli Usa. Intervistata da Le Monde ha raccontato di aver capito immediatamente che qualcosa di eccezionale stava accadendo in Iran quando mesi fa suo marito, che più di lei segue quotidianamente quel che accade nel Paese, le ha detto che i manifestanti gridavano “donna, vita, libertà”: lo slogan delle donne curde, ispirato agli scritti del leader del Pkk Abdullah Öcalan che l’autocrate turco Erdoğan ha seppellito vivo in un carcere su un isola, in totale isolamento.

«Quello slogan mi ha fatto subito capire che la posta in gioco della rivolta è assolutamente vitale», ha detto Azar Nafisi alla testata francese. «Questo movimento ha un obiettivo: recuperare la vita, perché la Repubblica islamica ci ha privato della vita che abbiamo sempre desiderato. Riprendendoci la libertà, riavremo anche la nostra vita perduta. La lotta degli iraniani non è solo resistenza politica ma lotta esistenziale». Vuole la fine del regime questa rivolta giovanile che è esplosa dopo la morte della ventenne curda iraniana Masha Amini causata dalla polizia della morale che l’ha massacrata di botte per una ciocca fuori posto.

«I manifestanti sanno che questo regime non può essere riformato. Vogliono la caduta del sistema, cioè una rivoluzione», dice Nafisi. «A questo punto non è più il popolo ad avere paura. Parliamo di decine di migliaia di giovani che si riversano nelle strade e nelle piazze, gli sparano addosso, ma loro il giorno dopo ritornano in piazza, allora cosa fanno? Non li possono ammazzare tutti, non li possono mettere tutti in prigione».

In questa situazione cosa può fare l’opinione pubblica internazionale? Cosa può fare la scrittura e la letteratura per dare sostegno alla lotta nonviolenta chi manifesta e troppo spesso finisce ingiustamente in carcere e alla forca? A queste domande cruciali che ci riguardano da vicino e che interrogano il suo ruolo di ex docente e oggi scrittrice di fama mondiale Azar Nafisi ha risposto con generosità durante il suo recente tour in Italia durante l’incontro a Più libri più libri e poi alla Libreria Nuova Europa, intervistata rispettivamente fa Michela Murgia e dal traduttore, docente e scrittore Edoardo Rialti. Ed è proprio in questa seconda occasione, più intima e diretta, che la scrittrice è andata più in profondità, parlando della sua formazione cosmopolita, dell’àncora che la letteratura ha rappresentato per lei per resistere al regime e poi negli anni di esilio, della curiosità e dell’interesse verso l’altro, lo sconosciuto, che spinge a leggere e scrivere. Ecco qualche passaggio delle sue riflessioni sull’immaginazione e su quella straordinaria democrazia che è la letteratura che non conosce confini e barriere. Tema appassionante su cui avemmo l’occasione di parlare nel 2015 quando uscì il suo libro La repubblica dell’immaginazione .«Avere immaginazione, avere fantasia significa essere curiosi. La curiosità è sovversiva diceva Nabokov. Letteratura e scienza da questo punto di vista procedono sullo stesso binario, entrambe si basano sul desiderio di sapere, sul piacere quasi sensuale di conoscere il mondo, l’ignoto, lo straniero. Per questo c’è bisogno di empatia, quel sentimento senza il quale non possiamo sopravvivere e che ci lega gli uni con gli altri», racconta Azar Nafisi. «L’arte non funziona con mezzi ideologici, funziona sul piano esistenziale. L’arte è ciò che ci induce a guardare in faccia noi stessi. Per questo –  ha esordito la scrittrice nell’incontro alla Libreria Nuova Europa di Roma –  vorrei chiedervi il permesso di raccontarvi una storia, lo faccio in ogni volta che ho la possibilità e l’occasione di parlare per ricordare una mia studentessa: Rosie».

La vicenda risale a quando Azar Nafisi insegnava ancora in Iran. Fra le allieve del corso di romanzo c’era una giovanissima dal viso minuto e dai grandi occhi che sbucavano dal velo. Era figlia di una donna delle pulizie che aveva perso il marito. Musulmana praticante, Rosie si era subito segnalata per la sensibilità e l’intelligenza brillante. Studiando letteratura si era innamorata delle indipendenti figure femminili immaginate dallo scrittore americano Henry James. «Quando entri nel mondo della letteratura, così come quando entri in una libreria, varchi i confini», fa notare la scrittrice, un’esperienza che ha vissuto fin da piccolissima quando suo padre, Ahmad Nafisi, entrava nella sua stanza per raccontarle ogni sera una storia diversa, portandola in Italia con Pinocchio, in Francia con piccolo principe, in Inghilterra con Alice. E all’università capitava anche a Rosie che non era stata altrettanto fortunata da piccola da poter godere come la scrittrice dell’affetto e degli stimoli di un padre che era stato il più giovane sindaco di Teheran all’epoca dello scià, e di una madre, Nezhat Nafisi, che fu fra le prime donne a sedere nel Parlamento iraniano.

Finito il corso Nafisi non vide più la giovane studentessa, se non una volta per strada durante un periodo di feroce repressione come ce ne sono stati in Iran. Rosie le fece un cenno per farle capire che era meglio non salutarsi in pubblico. «Quella fu l’ultima volta che la vidi. Anni dopo un’altra mia studentessa mi disse di essere stata in prigione con Rosie e che in quei giorni terribili riuscivano a sorridere parlando dei personaggi di James e di Fitzgerald». Ma poi successe un fatto terribile. Se delle due ragazze fu rilasciata l’altra fu uccisa del regime. «Henry James non aveva salvato Rosie – constata dolorosamente Nafisi -. Quando hai perso ogni speranza l’unica cosa che resta è ciò che ci parla della dignità dell’essere umano. Allora ti rivolgi all’arte, alla letteratura, alla musica e alla poesia. Quelle sono le molle che riattivano memorie profonde. L’arte è la miglior vendetta sulla distruzione e sulla morte».
È quello che sanno anche i giovani manifestanti di oggi in Iran, che sfidano il regime a mani nude, come il 23enne Majidreza Rahnavard, che prima di essere impiccato, quando atrocemente gli è stato detto di esprimere l’ultimo desiderio ha detto: non venite a pregare sulla mia tomba, non venite a leggere il Corano ma a fare musica allegra.

 

Come lui sono stati mandati alla forca altri giovanissimi mentre tante ragazze, per il solo fatto di essersi tolte il velo ed aver manifestato pacificamente, sono state stuprate a morte, uccise di botte.

«È drammatico e inaccettabile. Ma la speranza per l’Iran viene proprio da questi ragazzi che non accettano più che la loro identità venga cancellata», rimarca Azar Nafisi. «La prima cosa che un regime totalitario fa è confiscare la tua storia, crede di poterti privare della tua identità per imporre la sua legge, le sue prediche su di te. Non a caso il primo target dei regimi sono le donne, le minoranze, chi esprime una cultura differente». Non a caso, ricorda la scrittrice, i primi dipartimenti che furono chiusi dagli ayatollah furono quelli umanisti. Khomeini diceva che le facoltà umanistiche erano più pericolose delle bombe, perché instillavano nella mente dei giovani il veleno delle idee occidentali. Contemporaneamente il regime smantellò le leggi che proteggevano le donne, cancellando il divieto di matrimonio sotto i 18 anni, legalizzando la poligamia e i matrimoni temporanei che permettono di noleggiare una donna, condannando le donne alla morte per lapidazione se accusate di adulterio. Rispetto a tutto questo le donne iraniane non hanno mai smesso di combattere. Già all’indomani della rivoluzione scesero in piazza in massa non appena fu paventato l’obbligo del velo. Nonostante questo di lì a poco fu emessa la fatwa che lo imponeva.

«L’Iran è uno dei Paesi che fra i primi ha avuto donne ministro. Le donne hanno sempre svolto le più varie professioni prima dell’arrivo del regime teocratico – ricorda Nafisi – ma la cosa che mi ha sempre stupito molto vivendo negli Stati Uniti e che tutto questo ai più è sconosciuto. Ad ogni conferenza o incontro pubblico c’è sempre qualcuno che mi dice, lei non fa testo, lei è occidentalizzata. “Quella è la loro cultura”. Come possiamo accettare lapidazioni, i matrimoni a 9 anni, decapitazioni? Se tout court la cultura iraniana viene identificata con quelle pagine nere, allora – conclude la scrittrice – dovremmo dire che la cultura europea è il fascismo e il nazismo, che quella statunitense si identifica interamente  con il genocidio degli indiani e lo schiavismo. Ogni cultura ha qualcosa di cui vergognarsi. Ogni cultura ha il diritto di cambiare».

 

La mangiatoia dei poteri forti

Alla viglia di Natale la maggioranza parlamentare del governo Meloni ha approvato, alla Camera, la manovra di bilancio. Di regalo di Natale per il popolo non c’è nulla. Solo carbone, oltre a quello fossile di cui continuano ad aumentare la produzione, alla faccia del cambiamento climatico. Un po’ di doni ci sono per chi non dovrebbe avere doni dallo Stato: aumento dell’uso del contante per i piccoli evasori, la tassa piatta per chi non sta poi così male, men che mai hanno pur solo pensato di prendere ai super ricchi per dare ai più poveri.
Sono la maggioranza e il governo dell’odio di classe. Poi magari sono anche intrisi di bigottismo in salsa da cattolicesimo praticante, vanno a messa tutte le sante domeniche e si riempiono di segni della croce. Il messaggio della mangiatoia di Betlemme e di Gesù, la testimonianza del Vangelo, non sanno nemmeno cosa siano. È il governo dei poteri forti, quello che non ha tassato adeguatamente chi si è arricchito sulle speculazioni del gas e dell’energia: quindi un governo amico dei grandi padroni e nemico delle famiglie, dei poveri, dei lavoratori, dei pensionati, delle imprese. Un governo che dichiara anche guerra sociale ed economica ai più poveri cominciando la progressiva distruzione del reddito di cittadinanza. Ovviamente nessun salario minimo, nessun adeguamento degli stipendi all’inflazione, qualche misera mancetta sulle pensioni minime. Un Governo che reitera in peggio il pensiero del draghismo con una evidente matrice ideologica di destra. Dallo sprezzo per i migranti considerati merci, agli arresti per chi manifesta dissenso all’ordine costituito, dai privilegi del potere travestiti da merito, al linguaggio arrogante contro giovani e poveri. Per nulla, poi, una maggioranza sovranista con al centro la Nazione, uso termini abusati dalla propaganda di destra. Altrimenti avrebbero osato con l’Europa, forti del mandato elettorale e avrebbero potuto fare una manovra che metteva al centro i diritti sociali e pubblici, tanto urlati un tempo dalla destra. Giorgia Meloni segue, in realtà, il pensiero culturale e politico di Berlusconi e Draghi: neoliberismo predatorio, macelleria sociale, repressione del dissenso, occupazione delle istituzioni, propaganda subculturale.
E stanno per preparare un bel regalo a corrotti e mafiosi dopo aver loro già dato qualche gustoso antipasto con l’eliminazione di taluni benefici penitenziari, la modifica della legge “spazzacorrotti”, la nuova normativa sugli appalti. Il regalo per il 2023 sarà la riforma della giustizia: meno intercettazioni per poter scoprire corrotti, ladri di Stato e mafiosi, la fine dell’obbligatorietà dell’azione penale e la sottomissione del PM al governo.

Vogliono mani libere per aumentare le mani in pasta. La forza della destra, però, si fonda molto sull’assenza della sinistra, sul fallimento del centro-sinistra e dell’incapacità dimostrata dal movimento5stelle di rompere il sistema e costruire un’altra politica. Il 2023 può essere un anno importante per unire le storie, individuali e collettive, che vogliono rappresentare la rottura del sistema e la costruzione dell’alternativa di governo. Ci vogliono storie credibili, questione morale, valori forti, attuazione della Costituzione, idee chiare, organizzazione sociale e politica, militanza, concretezza e visione, libertà ed autonomia d’azione, capacità di costruire convergenze. Da soli non si va da nessuna parte in politica, mentre insieme, senza compromessi morali, evitando di far prevalere logiche settarie a vocazione minoritaria e provando a motivare le masse popolari, si può certamente intravedere la luce fuori dal tunnel.

Governo dietro la lavagna

Ieri il testo della manovra di quelli che hanno passato l’intera campagna elettorale a dirci che erano “pronti” è dovuta tornare per la seconda volta in commissione Bilancio alla Camera per essere corretta. La Ragioneria dello Stato ha evidenziato con il pennarello blu 44 errori e ha chiesto uno stralcio.

È saltato il finanziamento triennale a Radio radicale poiché per il 2024 e il 2025 non c’erano i soldi per poterlo coprire. Sono state riviste anche le norme sul bonus cultura ai 18enni poiché mancavano le coperture. Sullo smart working dalle parti del governo non avevano fatto i conti con la sostituzione di professori e insegnanti.

La Ragioneria di Stato ha contestato anche l’aumento di risorse al ministero per l’Agricoltura: una norma, scrivono, «foriera di generare o ampliare disparità di trattamento rispetto ad altri ministeri, con verosimili onerose richieste emulative da parte di quest’ultimi».

La Legge di Bilancio è rimasta per sei giorni in commissione, mentre i partiti della maggioranza litigavano tra di loro. Appena arrivata in Aula è stata rispedita indietro per correggere gli errori compiuti (tra cui un emendamento del Pd votato per errore dalla maggioranza che sarebbe costato mezzo milione di euro che non c’è).

Hanno dovuto bloccare lo scudo penale ordinato da Silvio Berlusconi. Hanno ritirato le proposte su Pos, su innalzamento del tetto dei contanti, sull’eliminazione dello Spid. Da settimane parlano del protocollo del ministro Piantedosi sulle Ong (che già sappiamo essere illegittimo, anche solo da ciò che ha anticipato il ministro) ma ancor non si vede. Non c’è nessuna idea a lungo raggio al di là delle consuetudini già in vigore con il governo Draghi. Improvvisazione e mancanza di coesione nella maggioranza: alla fine servirà mettere la fiducia per riuscire a stare nei tempi.

Il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida, in una intervista al Corriere della Sera, dice che nella manovra ci sono i loro “punti di forza”. A posto.

Buon venerdì.

Non erano pronti ma non sono nemmeno capaci

A un certo punto passa per sbaglio un emendamento firmato dal dem Andrea Gnassi: 450 milioni di euro per i Comuni e per Anci. Poi si corre per recuperare l’errore. C’è da capirlo, 450 milioni di euro sono una cifra maggiore rispetto a quella messa a disposizione per tutte le modifiche parlamentari.

La manovra è un quasi fallimento nei contenuti e nei modi. Giorni di preoccupazione al ministero, tra i funzionari, in Bankitalia per una quadra che non si riusciva a trovare. A Giorgia Meloni e compagnia viene facile raccontare che la colpa sia dell’opposizione. La “colpa dell’opposizione” è un condono sempre disponibile per tutti i governi. Due giorni fa rifletteva il deputato del Terzo polo Luigi Marattin: «Se la maggioranza ha i numeri per fare passare i provvedimenti che c’entra l’opposizione?»· Ed è proprio così.

Forse sarà che il centrodestra ha elargito promesse (molte irrealizzabili e molte molto stupide) per anni e ora alla prova dei fatti si ritrova con la coperta troppo corta. «Non è un problema di idee, è un problema di fondi», spiega il leghista Giorgetti. Certo, con una disponibilità infinita di soldi la legge di Bilancio sarebbero capaci di farla tutti, perfino i bambini.

La manovra di un governo, soprattutto la prima manovra di un governo, è la messa a terra del proprio manifesto politico e questa manovra finanziaria è esattamente la fotografia di una destra pasticciona e pasticciata, divisa in mille rivoli anche dentro i partiti che la compongono, senza nessuna idea. Per settimane abbiamo discusso di provvedimenti che non ci sono (dal Pos, al tetto dei contanti e così via) perché questa maggioranza continua ad adottare le tecniche dell’opposizione: distoglie, fa rumore, solletica un populismo rivoluzionario molto naïf. Ma qui non c’è nulla da cui distogliersi perché nelle carte c’è un’idea economica di Paese che è molto la copia sbiadita di Draghi e per il resto contiene le solite stolide teorie della destra.

Ieri sera nelle trasmissioni televisive, a poche ore dalla legge di Bilancio in aula, si discuteva di cinghiali che finalmente possono essere ammazzati davanti ai cassonetti sotto casa. L’agenda dei temi di discussione intorno alla manovra finanziaria è un termometro chiaro.

Che non siano pronti ormai è evidente a tutti. Ora c’è il ragionevole dubbio che non siano nemmeno capaci.

Buon giovedì.

Violenza sulle donne nella Chiesa cattolica: Il “caso Rupnik” è solo una punta dell’iceberg

«Siamo determinate a condurre una battaglia senza sconti per denunciare le “strutture di peccato” in cui si radica il “caso del religioso gesuita Marko Rupnik”», accusato di violenza psicologiche e sessuali da oltre dieci religiose. Di questo «impianto la Chiesa cattolica è artefice e protagonista». Così Re-in-surrezione, una rete di persone appartenenti alle associazioni Donne per la Chiesa e Osservatorio interreligioso sulle violenze contro le donne, commenta gli ultimi sconcertanti sviluppi della vicenda che vede protagonisti Rupnik, teologo e artista religioso di fama mondiale, la Compagnia di Gesù e la Santa Sede, impegnati a cercare di far trapelare il meno possibile circa le accuse che inseguono il religioso sin dai primi anni Novanta.

«Troppo spesso – proseguono le attiviste di Re-in-surrezione – abbiamo constatato che nei movimenti ecclesiali/congregazioni/culti ci si serve surrettiziamente di alcune categorie ecclesiologiche per usare e manipolare persone (quasi sempre donne) che si avvicinano a tali contesti religiosi in nome di una chiamata spirituale. Queste donne sono limpide, fiduciose, ignare degli “adescamenti” che troppo spesso – oramai lo abbiamo verificato nella nostra non più breve esperienza – si compiono».

La logica, secondo le firmatarie del documento, «è quella del dominio del chierico maschio “ontologicamente superiore” e in nome dell’“obbedienza”, “umiltà”, “segretezza delle procedure”, “perdono”, del “non infangare una santa istituzione”, della “adorazione verso chi incarna il sacro” e altre categorie “dello spirito”, si cattura la persona in una rete di soprusi, abusi, macchinazioni perverse, dove le logiche della sudditanza e dell’omertà sono la regola». La minaccia, come ha raccontato a Left una testimone, è solo allusa: Quella di subire le conseguenze di un potere androcentrico totalitario e quindi la condanna all’infamia, oltre che al baratro esistenziale in caso di dissenso conclamato e all’ isolamento senza nessuna via d’uscita percorribile.

  • «La cultura dello stupro (che non è solo fisico, ma anche spirituale) passa di qui – si legge ancora nel documento -. Non ci intratteniamo sui dettagli del caso Rupnik, degno perpetratore di tale cultura. Vogliamo puntualizzare però alcune osservazioni:
  • Rupnik è sì uno tsunami, ma è solo la punta dell’iceberg: non è la mela marcia dentro a un paniere di mele sane, non è il criminale mentre i suoi sodali sarebbero innocenti. Si tratta di una malattia endemica che pervade il sistema ecclesiastico tutto e che in Italia, in particolare, si tende a occultare. Sono complici i mezzi di informazione, per lo più muti – tranne alcune lodevolissime eccezioni, a cui riconosciamo di essersi da tempo impegnate seriamente su tali fenomeni, per aver lanciato campagne di stampa e approfondito con inchieste: la agenzia di stampa Adista, la rivista Left, il quotidiano Domani; complici sono anche i /le cattolici/che che preferiscono non vedere e non sapere. Colluso è anche lo Stato che si mostra indifferente verso la sorte dei suoi/delle sue cittadini/e quando sono violati/e nei loro diritti.
  • La Compagnia di Gesù non può credere di salvare la faccia dicendo che le vittime si rivolgano a lei e saranno ascoltate e accolte a braccia aperte. È la stessa logica che percorre la Conferenza episcopale italiana, logica che nasconde la strategia del “sopire e tacere”, di manzoniana memoria. Tali atteggiamenti non sono credibili: esigiamo che ci sia una azione giuridica legale pubblica.
  • Chiediamo altresì che si aprano gli archivi rendendoli accessibili a una commissione indipendente.
  • E soprattutto affermiamo che il caso Rupnik non deve essere trattato secondo gli stili discorsivi cari alla cronaca scandalistica. È fondamentale che, nella ricostruzione di tali eventi, sia invece messa in luce la struttura che permette tali abusi, che li copre con l’omertà dell’istituzione stessa, che per secoli è stata complice, se non prima responsabile, di un habitus androcentrico. È la struttura misogina gerarchica clericale che inferiorizza donne e laici, considerandoli a “propria disposizione”».

Tutte le puntate dell’inchiesta di Spotlight Italia – Il database di Left

Se sei a conoscenza di casi che non sono stati segnalati o vuoi aggiungere nuove informazioni a quelle già pubblicate, puoi scriverci all’indirizzo email [email protected]

Pd, un congresso da fare per un partito da rifare

Dopo la disfatta elettorale del 4 marzo 2018, Renzi presenta le sue dimissioni, il 12 marzo Maurizio Martina diviene segretario “reggente”. Ma Renzi, pur dimissionario, condiziona pesantemente gli sviluppi politici post-elettorali: dopo una lunga impasse, e il fallimento di una prima trattativa tra il centrodestra e il M5s, Mattarella affida un incarico esplorativo a Roberto Fico, presidente della Camera, che avvia il tentativo di costruire una maggioranza con il Pd. Martina si esprime favorevolmente, ma il 30 aprile, in un’intervista televisiva a Fabio Fazio, Renzi affossa il tentativo di Fico. Ed è singolare che questo episodio oggi venga poco ricordato, e che anzi – anche durante la campagna elettorale – sia stata biasimata l’ambiguità e il trasformismo di Conte e del M5s che hanno governato sia con la Lega sia con il Pd, laddove il primo atto della nuova legislatura fu proprio il tentativo di dialogo con il Pd. […] Martina, il giorno dopo il «siluro» di Renzi, dirà che «è impossibile guidare un partito in queste condizioni…». Fino a quel momento «reggente», Martina verrà poi eletto segretario il 7 luglio dall’Assemblea Nazionale, con l’impegno di rimettere in moto la macchina delle primarie, che si terranno il 3 marzo del 2019. […] Saranno tre i candidati alle nuove “primarie”: Nicola Zingaretti, lo stesso Maurizio Martina e Roberto Giachetti. Si registra la consueta presenza di massa ai gazebo, oltre un milione e mezzo di votanti; e come al solito anche i commenti riprendono argomenti e toni oramai un po’ triti: questa grande mobilitazione è un «patrimonio da non disperdere», «un tesoro da non sprecare», come recitava il titolo di un editoriale di Ezio Mauro, il giorno dopo. Zingaretti prevale con il 66% dei voti (il 20% a Martina, il 12% a Giachetti, sostenuto da Renzi): sembra aprirsi una fase nuova, torna ad essere segretario del partito un esponente che proviene dai Ds.

«O facciamo una rivoluzione o non ce la faremo», così Nicola Zingaretti, nel suo intervento all’Assemblea Nazionale che si tenne il 13 luglio 2019, dopo un buon risultato ottenuto alle elezioni europee del 26 maggio (il 22,7%). Non era la prima volta, in verità, che si ascoltavano, in quella sede, affermazioni molto critiche sullo «stato del partito» e sulla sua organizzazione; ma le parole di Zingaretti non erano rituali; anzi, suonavano molto schiette e appassionate: «lo voglio dire con molta nettezza… sul partito dobbiamo cambiare tutto perché tutti sappiamo che così non si va più avanti. E lo dico non perché si discute o ci si confronta: io penso che questo sia un gran bene; ma non si può andare avanti così, perché troppo spesso questo partito è un arcipelago di luoghi in cui si esercitano in modo disordinato la sovranità e i differenti modi di praticare la politica e il potere. C’è un gruppo dirigente nazionale attorno a un leader, ma appesantito da un regime correntizio che soffoca tutto. Ci sono realtà territoriali del tutto autonome, separate, feudalità, un’articolazione di gruppi di potere spesso indifferenti alle idee, che si collocano da una parte o dall’altra a prescindere dalle idee, ma con un leader o con un altro a seconda delle convenienze. C’è un patrimonio ancora grande di militanti generosi, di amministratori infaticabili, soprattutto giovani, che lamentano una mancanza di sedi di confronto, una solitudine, uno scarso sostegno da parte dell’insieme del partito. Potrei continuare ma già tutto questo non dà un’immagine di forza e di credibilità alle nostre idee, ma piuttosto di fragilità. Ecco, noi non ce lo possiamo permettere, ma non per noi ma perché il voto ci consegna la responsabilità di essere il pilastro, il baricentro di un’alternativa alla destra e noi dobbiamo rispondere a questa esigenza…, in questo senso il tema del partito va affrontato schiettamente e serve subito una vera e propria rivoluzione, o non ce la facciamo a svolgere il nostro ruolo» [corsivi aggiunti]

In queste parole di Zingaretti è descritto perfettamente ciò che di fatto era divenuto il Pd, ossia un partito in cui il potere dei leader nazionali si fonda su un «arcipelago» di filiere di notabili e potentati locali, che contrattano la propria autonomia e libertà d’azione con il consenso al leader «centrale». È evidente che, in tal modo, le correnti diventano mere cordate di potere, non certo quello che potrebbero e dovrebbero essere in un partito «plurale» e articolato al proprio interno, ossia l’espressione di diverse aree di cultura politica, ma anche di rappresentanza sociale.
[…] La relazione si concludeva con l’annuncio della creazione di una commissione per le modifiche allo Statuto, presieduta dall’ex-segretario Martina, che fu incaricata di predisporre una proposta di riforma, e di farlo in tempi brevi (il nuovo testo fu poi in effetti approvato a novembre); […] E fu annunciata, per il mese di novembre una grande convenzione programmatica, la «costituente delle idee», affidata alle cure di Gianni Cuperlo, a cui era stato dato il compito di costruire per la prima volta una Fondazione di cultura politica del partito. Dunque, qualcosa si mosse e si approdò ad un qualche risultato.
Le parole di Zingaretti erano sincere, e tuttavia, anche in questa occasione, c’era qualcosa che non convinceva, nelle accuse rivolte al modo di essere del Pd. In particolare, le critiche al «regime correntizio» rischiavano di rivelarsi come le classiche grida manzoniane. Perché il Pd continuava a vivere questa condizione di «feudalizzazione»?

Ben presto la segreteria di Zingaretti si scontrò con la realtà oramai cristallizzata del modo di essere «feudale» del Pd: mancando totalmente procedure e meccanismi democratici che costruiscano un serio rapporto tra i momenti della discussione, della partecipazione e della decisione, le scelte del segretario sono sempre sotto tiro, o contraddette da altri comportamenti. E la confusione, o l’indecisione, prevale; in un successivo paragrafo analizzeremo il caso della riforma elettorale e delle politiche istituzionali, ma si possono fare altri esempi. In quella fase, in particolare, oggetto del contendere era la «discontinuità» o meno rispetto alle scelte del governo Renzi, la loro «difesa» o la loro revisione. Come e chi decideva sulla «linea» da seguire? Come si faceva a stabilire, ad esempio, se nel partito prevalevano in quel momento coloro che puntavano a riformare o a cancellare il Jobs Act o se invece era più rappresentativa la posizione di quanti ne rivendicavano la paternità? Ad esempio: il neo-responsabile delle politiche del lavoro nella segreteria nominata da Zingaretti, Peppe Provenzano, aveva espresso i suoi obiettivi, tra cui la revisione del jobs Act. Ed aveva inoltre riconosciuto come fosse stato un errore aver abolito l’Articolo 18. A quel punto, il Sen. Andrea Marcucci, capogruppo al Senato, salta su e “stoppa” tutto: «Ho il dubbio che Peppe Provenzano abbia sbagliato partito. Le sue considerazioni sul lavoro, sul Pd, e sul centro, sono totalmente diverse da quanto ha detto ieri in direzione il suo segretario Zingaretti. Se qualcuno avverte il nuovo componente della segreteria, fa una cosa utile» (Adnkronos, 19 giugno 2019).

Troppo facile ma inevitabile, per noi, qui, la battuta: era Provenzano ad aver «sbagliato» partito, o era «sbagliato» il partito? Forse, se in quel momento, il Pd (tutto) avesse più apertamente lanciato, e poi sostenuto con continuità, la proposta di una revisione profonda e/o dell’abolizione del Jobs Act, la posizione in questo senso enunciata poi durante la campagna elettorale del settembre 2022 sarebbe risultata più credibile.

Questo testo è un estratto dal libro “PD. Un partito da rifare? Le ragioni di una crisi” (Castelvecchi editore © 2022 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione)

 

 

Mentivano: le hanno lasciate sole

Il buco nero dell’Afghanistan che promettevamo di “non lasciare mai solo” aggiunge una nuova prevedibile ferita: stop a tempo indeterminato all’accesso nelle università per tutte le donne. Il nuovo divieto è stato emesso dalle autorità talebane. Ad annunciarlo il ministero dell’Istruzione superiore in una lettera inviata a tutti gli atenei governativi e privati del Paese. La lettera è stata confermata e diffusa dall’emittente locale Tolo news.

«Vi informiamo di attuare il citato ordine di sospendere l’istruzione femminile fino a nuovo avviso», si legge nella lettera firmata dal ministro dell’Istruzione superiore, Neda Mohammad Nadeem. Soltanto meno di tre mesi fa migliaia di ragazze e di donne hanno sostenuto gli esami di ammissione per le università in tutto il Paese. Alle ragazze era già stato negato l’accesso alle scuole secondarie del Paese.

Le promesse con cui i Talebani rassicuravano il mondo dimostrandosi “cambiati” sono carta straccia. Dopo il fragoroso ritiro delle truppe Usa e la fuga in massa di migliaia di afghani il Paese è tornato quello tra il 1996 e il 2001. La costosissima e mortifera esportazione della democrazia da parte dell’Occidente è stata solo una parentesi. Il 23 marzo scorso, poche ore dopo la riapertura, i talebani avevano già vietato alle studentesse di frequentare la scuola oltre il sesto grado, l’equivalente della prima media. Le donne sono state escluse dalla maggior parte dei lavori, è stato negato loro accesso a parchi e palestre, è stato ordinato loro di indossare abiti che coprissero dalla testa ai piedi in pubblico.

Avevamo promesso di non lasciare sole le donne in Afghanistan e invece sono sole. Avevamo promesso di non lasciare solo l’Afghanistan e invece blocchiamo i profughi alle frontiere subappaltate dall’Unione europea. Resta una guerra che non solo è stata tragica (come tutte le guerre) ma anche completamente inutile, come tutte le guerre.

Buon mercoledì.

 

* In foto: Personale di sicurezza talebano davanti all’ingresso dell’università di Kabul, dopo che le autorità hanno imposto lo stop all’istruzione universitaria per le donne. Afghanistan, 21 dicembre 2022

Forti con i deboli: Il governo Meloni al servizio dei potenti. Un’occasione per la sinistra

Premessa. Giunto all’età di settantacinque anni, più di cinquanta dei quali trascorsi come militante di sinistra e come studioso di economia, chiedo ospitalità per alcune considerazioni generali sulla attuale situazione politica. Derivano dai due aspetti della mia biografia citati qui sopra: ritengo infatti di avere una lunga esperienza dall’interno degli errori della sinistra (inclusi, nel mio piccolo, i miei), e in particolare di quelli che sono stati e sono compiuti quando si trascura l’economia. Toccherò tre punti: la natura dell’attuale governo, perché la sua politica ha molte probabilità di avere successo (dal suo punto di vista)  e cosa manca alla sinistra per essere all’altezza della situazione.

1 Il Non Fascismo di Meloni.

 Credo che le caratteristiche fondamentali di un governo fascista siano il suo essere al servizio di un potere forte (o di più di uno), e di operare al di fuori di regole democratiche. Ci serve fare una rozza ripartizione. Storicamente, ci sono stati un fascismo di tipo “sudamericano” (feroce oppressione, danni pesanti inflitti alla popolazione, disprezzo per la vita delle persone), e uno di tipo “europeo” (meno disprezzo per  la vita della popolazione di riferimento, anche se non per altri gruppi, provvedimenti di assistenza sociale). Suggerisco che la sostanza della politica  di Meloni corrisponda a un terzo modello, che potremmo chiamare, con un neologismo, liberismo realizzato. Avrà le due caratteristiche fondamentali dei modelli fascisti appena citati, ma allo stesso tempo potrà operar all’interno di un sistema formalmente, ma non sostanzialmente, democratico (se avrà successo). Questo modello avrà le sue radici nel liberismo, e la sua relazione con la sostanza teorica di esso è paragonabile a quella che si ha fra il socialismo e il socialismo realizzato. Questa classificazione naturalmente è molto schematica, gli elementi di contaminazione fra i tre modelli sono molteplici, eccetera; l’ho introdotta per sottolineare cosa distingue il o liberismo realizzato dai fascismi tradizionali, e cioè l’assenza della repressione “alla sudamericana” da una parte e dei provvedimenti di welfare alla “europea” dall’altra. Questo a sua volta ci serve per porre la domanda cruciale, come farà allora un regime siffatto ad avere successo, in assenza sia del bastone che della carota (o meglio, con un bastone piccolo e una carota piccolissima)? Perché in effetti non è improbabile che tale successo venga conseguito, come vedremo.

2. Il Liberismo realizzato. Per quanto visto fin qui, la novità per così dire metodologica del modello Meloni consiste in questo: il saccheggio delle risorse dei poveri e il trasferimento delle medesime a un’oligarchia, così come il loro sfruttamento e lo redistribuzione verso l’alto dei redditi che vengono prodotti, non sono ottenuti mediante la repressione delle opposizioni (che avrà un ruolo minore) e nemmeno con un meccanismo di “divide et impera” che consenta di comprare il consenso di una parte delle classi inferiori con politiche assistenziali. Lo strumento utilizzato saranno da una parte lo svuotamento (non il rovesciamento) della democrazia e dall’altra la drastica riduzione della solidarietà. Non si otterrà il consenso della popolazione; si otterrà qualcosa di meno ma di più che sufficiente, e cioè l’assenza del dissenso. Cerco di spiegarmi con un esempio, facendo riferimento al “combinato disposto” di due provvedimenti di prossima attuazione, e cioè la modifica al Reddito di Cittadinanza e il tetto molto elevato per l’uso dei contanti. L’esclusione dal RDC di chi è “occupabile” allarga la platea di chi sarà disposto a lavorare in nero; mentre la libera circolazione dei contanti toglierà all’economia illegale un ostacolo che altrove è piuttosto serio, e quindi farà aumentare la domanda di lavoratori in nero. La generalizzazione di queste tendenza avrà come punto di arrivo un’economia in cui il mercato del lavoro è perlopiù precarizzato, i padroni possono fare quello che vogliono e la corruzione regna sovrana (è di questi giorni la notizia che il ministro della giustizia, Nordio, vuole subordinare i Pubblici Ministeri al Governo, e imporre ad essi di procedere secondo priorità stabilite dal medesimo, previa abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale). A differenza del fascismo sudamericano non si procederà quindi con la repressione violenta del dissenso, e a differenza di quello italiano non si procederà con la violazione de facto ma non de jure del diritto comune; si adotteranno provvedimenti che legalizzeranno il padrinaggio e l’impunità. Si tratta di una strategia più efficiente (e anche più umana) delle precedenti. Non si perderanno tempo e consenso violando le leggi e salvando i colpevoli: si renderanno leciti comportamenti che oggi non sono legali. In altri termini, e semplificando, non si abolirà la lotta alla corruzione, si abolirà il reato di corruzione. Se qualcuno vuole vedere un obbiettivo positivo in tutto ciò potrà citare il tentativo di fare concorrenza alle economie forti creando un’economia priva di diritti per i lavoratori e di controlli per i padroni, riportando insomma l’Italia alla condizione di un’economia sottosviluppata, sperando con ciò di attrarre capitali e investimenti proprio grazie alla libertà di cui godranno i capitalisti selvaggi: una strada che attraverso molte lacrime e molto sangue ha portato in effetti alcuni paesi ad uscire dalla trappola del sottosviluppo.

3. Liberismo realizzato, consenso e dissenso. Veniamo allora alla questione del possibile successo del liberismo realizzato. Cosa fa si che questo regime, nonostante le lacrime e il sangue di cui sopra, abbia buone probabilità di avere il consenso della popolazione, o meglio di non averne il dissenso?Immaginiamo di essere nel liberismo realizzato. Il soggetto rappresentativo (o l’elettore mediano, a seconda che usiamo il gergo dei sociologi o quello degli economisti) sarà un lavoratore precario, obbligato a un insieme di piccoli compromessi per sbarcare il lunario (evadere il fisco se è un autonomo o se ha una seconda attività, accettare di lavorare in tutto o in parte in nero se è un lavoratore dipendente, chiedere raccomandazioni per qualsiasi cosa, ecc.). La scelta (in realtà una non-scelta) cui si troverà di fronte sarà fra accettare la situazione oppure ribellarsi e venire licenziato, e/o non potere pagare la scuola per i figli, e/o accettare di essere emarginato sempre di più, e così via. Si noti che la strategia del liberismo realizzato si innesca saldamente sulle radici del berlusconismo realizzato: se già adesso l’uomo della strada sa che adire ai tribunali per avere giustizia, chiedere che vengano rispettati il suo diritto alla salute tramite il SSN e il suo diritto alla dignità tramite un reddito di base, essere protetto dagli abusi sul lavoro tramite un sindacato, ecc. sono cose nel peggiore dei casi impossibili e nel migliore molto faticose, sarà lui stesso a preferire di rivolgersi al padrino. Già adesso sono in molti, anche poveri, a preferire le prestazioni sanitarie private a quelle pubbliche: costano un po’ di più, ma si fa in fretta. Questo schema si estenderà sicuramente a molti altri settori dell’economia e della vita civile. (Su tutto ciò le responsabilità storiche dei vari Prodi, D’Alema e Letta sono colossali; ma questo è un altro discorso). Questo naturalmente non solo non è in contrasto con l’odiare la classe politica –todos ladrones, come dicevano (e forse dicono ancora) in Argentina: è assolutamente complementare con tale odio. Qualcuno va incolpato dei guai che affliggono il nostro soggetto, ma non può essere il capoufficio (occorre tenerselo buono), il padrone (non si sa mai…) e così via. La causa va riportata talmente in alto da corrispondere a qualcosa contro cui non c’è niente da fare. L’opposizione al regime, così come mi raccontano essere stato tipico del ventennio mussoliniano, tornerà a essere una cosa riservata a persone molto coraggiose, ai matti, e a chi abbia abbastanza risorse per poterselo permettere. Pochi termini sono più abusati nelle scienze sociali di quello di equilibrio; ma è fuor di dubbio che i sistemi non in equilibrio tendono a raggiungerne uno, e il liberismo realizzato potrà esserlo.

4. Cosa si può fare per contrastare questa deriva? Chi sia obbligato a evadere il fisco non potrà votare per chi propone la lotta all’evasione come ideale, a meno che non che gli venga offerto realisticamente qualcosa in cambio; e chi è obbligato ad accettare un lavoro in nero non potrà votare per chi vuole abolirlo se ciò non comporta anche la promessa credibile di un posto di lavoro regolare. Cerco di spiegarmi meglio con un altro esempio. Nemmeno il regime di cui stiamo parlando potrà abolire le norme sulla sicurezza del lavoro; potrà però svuotarle dall’interno, per esempio riducendo drasticamente il numero di ispettori del lavoro (o meglio, non aumentandoli, perché la loro riduzione fino a un livello grottesco è già stata operata dai governi precedenti, compresi quelli di centrosinistra: si veda per esempio un articolo sul Fatto Quotidiano del 29 aprile di quest’anno). In queste condizioni molte imprese saranno obbligate, per non uscire dal mercato, a trascurare le norme sulla sicurezza, dato che chi lo fa produce a costi minori. Quando si verificheranno tragedie sul lavoro bisognerà dare qualcosa in pasto all’opinione pubblica, e si dirà che quel singolo imprenditore è un mostro, mentre il sistema è sano. Come reagirà il piccolo imprenditore o l’artigiano obbligato a violare le norme? Probabilmente così: “ma come, io faccio sacrifici enormi per mandare avanti la baracca e dare lavoro a X dipendenti, e loro mi obbligano a scegliere fra chiudere o rischiare di andare in galera per avere fatto qualcosa che fanno tutti. Bisogna cambiare le norme e lasciarci più libertà, se no chiudo.” Naturalmente esiste un’altra soluzione, e cioè che tutte le imprese siano simultaneamente obbligate a rispettare le norme di sicurezza. Ma nel regime liberista realizzato questa alternativa non esisterà.
In queste ultime righe ho usato il tempo futuro, ma sarebbe andato altrettanto bene il presente, a dimostrazione di quanto il processo di instaurazione del liberismo realizzato sia già andato avanti, di come i meccanismi del suo consenso siano profondamente radicati nella nostra società, e di come esso sia il punto di arrivo di un processo iniziato da Berlusconi (e, ahimè, propiziato anche dal PD – ma questo è un altro discorso).
Veniamo allora a cosa dovrebbe fare la sinistra. Perché una politica di sinistra possa essere credibile, il che è una condizione necessaria (anche se non sufficiente) perché abbia un seguito di massa, occorre che essa possa offrire un’alternativa a chi è obbligato ad accettare i compromessi imposti dal regime di liberismo realizzato; e come abbiamo visto questa alternativa deve essere tale da consentire dei vantaggi reali e rapidi. Si tratta evidentemente di un compito immane; ma lo diventerà sempre di più man mano che il regime prende piede, e quindi prima si comincia meglio è. Ammetto che può sembrare presuntuoso, ma mi pare che fino ad ora non si sia ancora realmente incominciato.
Infatti l’ipotetica politica di cui sopra richiede soldi. Si devono creare posti di lavoro, e ciò richiede investimenti e il pagamento di stipendi. Si devono pagare sussidi a chi non si vuole che lavori in nero. Se si vuole evitare che l’illegalità fiscale diventi talmente diffusa da obbligare anche gli onesti a praticarla si deve far sì che l’osservanza delle norme fiscali non implichi seri rischi di fallimento, e così via. Ora, questi soldi non possono essere trovati a debito, perché più alto è il debito, più alti sono gli interessi da pagare; e anche perché chi sottoscrive il debito (se non viene monetizzato) è gente che di soldi ne ha, e quindi il pagamento di interessi è oggi, in regime di crescita bassa o negativa nel medio e probabilmente lungo periodo, sostanzialmente un trasferimento dai poveri ai ricchi. Quindi bisogna far pagare più tasse ai ricchi. Tassare i redditi è relativamente difficile, perché i ricchi possono portare i reddito all’estero; non possono portare però la ricchezza, a meno di cambiare cittadinanza. Quindi, primo passo ineludibile se si vogliono fare politiche di sinistra: tassare la ricchezza dei ricchi. Basterebbe poco: un’imposta con aliquota media (ma sarebbero preferibili aliquote progressive) dell’1% sulla sola ricchezza finanziaria ufficiale, quindi non eludibile, renderebbe intorno ai 50 miliardi.
Se si vuole che i cittadini preferiscano lo stato al padrino, occorre poi che lo stato funzioni bene; e se si vuole che i lavoratori siano poco ricattabili, occorre aumentare l’occupazione nel settore pubblico, visto che il settore privato non lo fa. Quindi, secondo passo ineludibile, occorre un massiccio piano di assunzioni nel settore pubblico, che come è noto in Italia è paurosamente sottodimensionato: l’assunzione di un milione di nuovi dipendenti, in aggiunta allo stock attuale di circa 3.200.000 addetti, non basterebbe a colmare il divario con i paesi europei “normali”. La Cgil ha recentemente proposto un progetto che prevede 480.000 assunzioni oltre a quelle per sostituzione: nella attuale temperie questa cifra è sembrata a molti utopistica, ma in realtà è ampiamente insufficiente se vogliamo dotarci di un’amministrazione “al passo con i paesi più sviluppati”, come si usava dire una volta (e ora non più, perché questi paragoni si preferisce non farli).
Infine, non possiamo più permetterci di sperperare ogni anno fra il 2 e il 3% del PIL in interessi sul debito pubblico, e men che meno di rimborsarne una parte in regime di ristagno o recessione. Quindi, terzo passo ineludibile, bisogna fare la voce grossa con l’Europa (e l’Italia ha il potere di farla) per ottenere che il servizio e il rimborso del debito siano legati alla crescita economica. Niente crescita, niente pagamenti; in presenza di crescita, una parte limitata delle nuove risorse va indirizzata ad essi. E’ bene ricordare che l’Italia da molti anni è obbligata – Covid a parte – a fare nuovo debito solo per pagare gli interessi di quello vecchio. I tre punti di cui sopra non bastano: su di essi (e forse di altri) si deve costruire un programma serio e articolato. Sono, come suggerivo più sopra, una condizione necessaria ma di per sé non sufficiente. L’elaborazione di questo programma, ripeto, è un compito difficile ma non impossibile, ed è appunto necessario. Personalmente, giunto alla mia veneranda età e sulla base di mezzo secolo di studio dell’economia, non sono disposto a dare credito a programmi, soggetti e militanti politici che non partano da quei tre pilastri fondamentali. Per alcuni militanti e per qualche soggetto ho la massima stima e mi sento profondamente solidale con gli ideali che li ispirano. Ma la stima e la solidarietà non bastano: non si deve convincere me, ma la casalinga di Voghera.

5. Conclusione. Può darsi – e me lo auguro – che io abbia torto. Forse si possono trovare le risorse per lo sviluppo senza tassare i ricchi. Forse non occorre aumentare di molto il numero degli ispettori del lavoro, basta dare a ciascuno di essi due computer invece di uno. E forse la Germania ci aiuterà a far calare il famoso spread, ostacolando altruisticamente l’emissione del suo debito in nome della Solidarietà Europea. E poi, come diceva Churchill, è molto difficile fare previsioni, soprattutto riguardo al futuro. Forse insomma la mia analisi è del tutto sbagliata. Se anche non lo è, è possibile (ma direi molto improbabile) che la vigorosa battaglia degli antifascisti militanti faccia nascere un governo progressista che avrà l’appoggio popolare. È anche possibile (e già meno improbabile) che l’attuale governo collassi per le sue contraddizioni interne, e chissà cosa capiterà dopo. Ed è anche possibile, e temo probabile, che alla fine della guerra in cui siamo coinvolti l’economia e la società italiane si troveranno in una condizione talmente disastrata da fare apparire quanto scritto in questo articolo del tutto irrilevante (come ritenuto possibile tra l’altro dall’Economist, si veda il numero del 26 novembre). Ma sperare che il nemico faccia errori e temere che una guerra cambi tutto mi sembrano comunque strategie sbagliate; e su questo sono sicuro di avere ragione.

L’autore: Guido Ortona è economista, già professore di Politica economica presso l’Università del Piemonte orientale; [email protected]