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Ferruccio Spinetti: Io, vagabondo in cerca di “Arie”

Nell’universo di Ferruccio Spinetti si naviga a vista, ma con un preciso sestante tra le mani. E non vi parlo dell’ormai celeberrima avventura musicale degli Avion Travel, ma piuttosto di quella scommessa che è Musica Nuda, il duo musicale che il contrabbassista ha fondato nel 2003 insieme alla vocalist e performer Petra Magoni. Musica Nuda ha realizzato, da un paio di mesi, Girotondo De André, uno strano disco concerto di cui ci parla Ferruccio Spinetti. «Nell’agosto del 2021 – racconta – andammo a L’Agnata, a casa di Fabrizio De Andrè e Dori Ghezzi su invito di Paolo Fresu. Lì suonammo dei brani di Faber mettendo in piedi un repertorio ad hoc, che poi registrammo al museo Piaggio di Pontedera». Nella scelta, dice, si fecero guidare dall’istinto: il risultato fu una raccolta di brani molto eterogenea, dai primi del 1968 fino a quelli degli anni Novanta, come “La nova gelosia” e “Disamistade”. Del primo, «una perla del ‘700», Spinetti dice che De André chiese direttamente al maestro Roberto Murolo di insegnarglielo, mentre del secondo, tratto dal «suo ultimo atto», Anime salve del 1996, racconta: «Avevo 25 anni quando ascoltai per la prima volta “Disamistade”: la cura per l’ensemble musicale che accompagnava il cantautore e la collaborazione con Ivano Fossati, non erano una cosa scontata».

Dall’omaggio a De André con Petra Magoni all’avventura da solista. È uscito a ottobre di quest’anno per l’etichetta Jando Music l’ultimo album di Spinetti, Arie (che presenta il 30 novembre a Roma, alla Casa del jazz,  l’1 dicembre a Milano, Blue Note, il 2 dicembre ad Ascoli Piceno, Cotton Club). Un disco «a completa tradizione italiana», come lui stesso lo definisce nelle note al suo sito. Porta sì, per la prima volta, la sua firma da solista, ma anche quella del singolare ensemble che attorno a lui si è formato, captando le suggestioni raccolte tra i tanti laboratori tenuti a Siena Jazz, da un lato, e suonando in giro per il mondo, dall’altro. Con lui, infatti, ci sono Jeff Ballard, da poco trasferitosi in Italia, nome supremo della batteria jazz che ha collaborato con, tra gli altri, Chick Corea e Brad Mehldau, Giovanni Ceccarelli al pianoforte, già con Spinetti in altri progetti come quello di InventaRio e del disco More Morricone, la special guest Rita Marcotulli, che dà il cambio a Ceccarelli in due brani; e, infine, la voce della appena venticinquenne Elena Romano, allieva di Spinetti nel gruppo di musica d’insieme di Siena Jazz. «Ho osservato Elena – dice – per otto mesi e alla fine ho deciso di coinvolgerla, preferendola ad altre vocalist più affermate e famose. Il rischio mi piace, una sfida nella sfida». Spinetti, che dirige il Premio Bianca d’Aponte per le cantautrici emergenti, dichiara infatti di voler dare una possibilità ai giovani, nell’ottica di schiudere il mondo della musica alle novità, oggi che «i piccoli club scoperti e attraversati ai tempi di Musica Nuda non esistono più», e di scovare talenti: «Bisogna andare a scavare sotto le cantine ancora oggi, gli under 30 hanno incredibili abilità tecniche. Quest’anno (al Premio Bianca d’Aponte, ndr) avevamo 11 finaliste: ragazze di 25, 30 anni che hanno assorbito la lezione dei grandi ma che cercano di costruire le loro canzoni».

La città natale del musicista, Caserta, dista poco dalla Napoli di Pino Daniele di Nero a metà e di Bella ‘mbriana, che gli fa il verso. Spinetti sembra volerci dire che il nocciolo della questione è proprio quello di lavorare in modo da far emergere le proprie radici. «Io prendo sempre dall’humus in cui vivo», afferma, e infatti le radici campane emergono, prepotenti, anche nel suo ultimo lavoro. Come? Nella ricerca ossessiva per la melodia, ad esempio. «Non posso fare musica se non esiste una linea melodica precisa e distinta e questo, probabilmente, va a cozzare con l’improvvisazione radicale del jazz contemporaneo e con il lavoro di tanti amici e colleghi che lo praticano», spiega. «Ma le mie radici mettono al centro la melodia in modo indefesso. Quando faccio un solo cerco sempre di essere melodico».

Fare jazz, per lui, significa mantenere un approccio preciso, tutto il contrario dell’improvvisazione. Con questo suo modo gentile e diretto di parlare spiega: «Ho voluto trasformare dei pezzi che nascono strumentali in canzoni e vestirli di arrangiamenti velatamente jazz». Il sogno di Ferruccio è insomma presto detto: riferendosi alla musica classica, provare a prendere le antiche arie da cui nasce la forma canzone e far diventare così i brani strumentali del jazz esattamente in queste piccole arie, praticamente delle vere e proprie canzoni. Uno strano connubio? Non proprio, a sentire il risultato brillante, soffice, sinuoso, magmatico. Fermo restando che per lui il vero ed originario legame con le arie d’opera resta comunque Puccini: pensiamo alla versione del “Nessun dorma” che ne fece con Musica Nuda.

Arie parte con il brano “The river song” a firma di Cesare Picco ed Elena Romano e prosegue con “The look in your eye”, dove Enrico Pieranunzi prende il posto di Picco. «Pieranunzi per la mia generazione – dice Spinetti – è stato una fonte di ispirazione. Quando, da allievo, suonavo con lui a Siena jazz, mi tremavano le gambe. Lo stesso succedeva con Enrico Rava e Bruno Tommaso: persone che mi hanno cambiato la vita. L’”Ossessivostinato” di Tommaso cantato da Elena con quattro sovraincisioni sovrapposte con la tecnica del contrappunto è un omaggio a questa figura della musica».
È un tempo musicale, ma anche un modo di essere, quello di Ferruccio Spinetti. Ostinato e gentile: «Quando da artista senti che quello che stai facendo è giusto, devi portarlo a termine con tutte le tue energie. Poi puoi sbagliare. Ci sta, perché magari non lo riesci a suonare. Può succedere di fare degli errori, di incontrare dei buchi neri».

Con l’aria birichina di chi ti sta rivelando un segreto privatissimo mi confessa di aver scelto uno standard jazz strumentale di Enrico Rava dal titolo “Bella” e di averlo convertito in “Aria”, settimo brano dell’album, coinvolgendo per la scrittura del testo l’amico Peppe Servillo, che lo aveva inciso in un disco di Roberto Gatto di venti anni fa. «Ho preso in prestito il brano per farne una nuova versione»: l’azione, insomma, è quella di rimestare nel jazz italiano degli ultimi decenni, prenderne arie e standard melodici e rivisitarli nell’abito, nella forma, nella luce. «Vale per “Lullaby for Ugo” (dodicesimo brano dell’album, ndr) che porta la firma di Paolino Dalla Porta, dove la traccia dura pochi minuti e provo a fare l’esposizione del tema per solo contrabbasso e batteria. Ecco, il jazz è, per me, in questo incontro tra improvvisazione ed esposizione del tema al contrabbasso». Brevità, quindi, e nessuna voluta e ridondante improvvisazione.
Alla fine del disco arriva, inaspettata, anche la “Versilia” di Luca Flores, immenso pianista jazz raccontato al grande pubblico dal regista Riccardo Milani nel film Piano, solo del 2007: «Qui ho fatto un’operazione alla De André, mi piaceva l’andamento ritmico e la costruzione armonica di questo brano. Un genio del pianoforte e un grande autore, Flores: ne ho parlato spesso con Stefano Bollani».

In Ferruccio Spinetti si contaminano magicamente presente e passato. Spesso gioca con le immagini di oggi, ma lo fa vestendosi di antiche corazze e gorgiere, come rimestando nel passato musicale e nelle radici: «Ho pochi punti di riferimento, ma credo che quei pochi siano molto a fuoco».
Inevitabile quindi ricordare Fausto Mesolella, chitarrista e suo compagno negli Avion Travel scomparso nel 2017. «Fausto è stato per me un maestro, come lo è stato Bruno Tommaso al Conservatorio di Napoli. Un maestro che mi ha insegnato il senso ritmico e a stare sul palco. Gli anni del Nada Trio, dal ’95 al ’97, sono stati la mia palestra per imparare ad andare a tempo. Il pezzo che gli ho dedicato glielo avevo mandato nel 2016 con il mio IPhone; a lui piacque molto e mi spinse a scavarlo ancora. Dopo la sua scomparsa, negli Avion non abbiamo più voluto un chitarrista, ma abbiamo inglobato Dulio Caiota, un tastierista capace di coprire anche l’area elettronica necessaria».

Poco prima di salutarci Ferruccio mi rivela che quando non fa il musicista gioca a basket con i suoi coetanei, e che durante la pandemia ha musicato un corto di pochi minuti con la voce narrante di Mario Martone che raccontava della vita della scrittrice Fabrizia Ramondino, frequentata dal regista ai tempi del suo Morte di un matematico napoletano. Ci addentriamo infine nel tredicesimo brano del disco, “Vagabondi delle stelle”, recuperato dal film Basilicata coast to coast di Rocco Papaleo. Chiedo a Ferruccio se anche lui si sente così, un po’ vagabondo delle stelle: «Sì, perché sto sempre per aria, il musicista è un vagabondo. Anche quando suono o improvviso procedo per immagini, come se facessi una colonna sonora in tempo reale».

L’amore per il supplizio non aiuta la solidarietà

Questa mattina fioccano gli articoli dei tre migranti che per 11 giorni hanno percorso 2.700 miglia nautiche aggrappati al timone di un’enorme petroliera. “Quando il Servizio di soccorso marittimo spagnolo li ha salvati, i tre uomini, probabilmente di origine senegalese, erano disidratati e indeboliti. Sono stati trasferiti negli ospedali di Las Palmas, sull’isola di Gran Canaria, per ricevere assistenza medica”, scrivono i comunicati ufficiali, riportati praticamente dappertutto.

Si tratta di una nave partita da Lagos, in Nigeria, il 17 novembre arrivata lunedì a Las Palmas. La foto dei tre rintanati in un pertugio che sarebbe stato una trappola mortale in caso di mare mosso riportano alla memoria le notizie simili di novembre del 2020 quando quattro persone erano state trovate aggrappate al timone della Ocean princess e nel mese precedente dello stesso anno altri quattro sulla petroliera Champion pula.

È normale che chiunque sia dotato di un minimo di empatia, al di là delle posizioni politiche personali, non possa non solidarizzare con quei tre poveri disperati che hanno sfidato una morte quasi certa pur di sperare in un porto. Avere a corredo della notizia una foto perfetta per aprire i giornali, i siti e i servizi giornalistici aumenta la golosità dell’episodio.

Eppure non sono meno disidratati, meno violentati, meno impauriti, meno sopravvissuti e meno disperati quelli che arrivano in Europa in altre rotte. Non sono barche ma spesso sono bare galleggianti i barchini che in scioltezza facciamo accalappiare in mezzo al Mediterraneo dalla cosiddetta Guardia costiera libica. Hanno addosso una simile traversata mortale quelli che con fastidio e con poca contezza delle proporzioni vengono bollati come fastidiosi invasori. Superano la morte per il gelo quelli che arrivano dalla rotta balcanica.

Non c’è un supplizio superiore che si deve attraversare per meritare salvezza e libertà. Se avessimo voglia di guardare (e di mostrare) le immagini degli strazi sulle rotte che l’Europa finge di non vedere avremmo lo stesso vertiginoso turbamento che proviamo di fronte ai tre sul timone della petroliera. Compiere l’errore di essere ospitali in modo direttamente proporzionale con la tortura subita significa trasformare i diritti in privilegi. E, come diceva Gino Strada, i diritti degli uomini devono essere di tutti gli uomini sennò chiamateli privilegi.

Buon mercoledì.

Alla ricerca dell’amore perduto in una Siria in fiamme. Il nuovo romanzo di Santo Gioffrè

«Violenza politico-mafiosa alla Casa dello Studente. Vengono date alle fiamme l’auto del magazziniere Antonio Perrone e la stanza dello studente di Lotta Continua Silvestro Greco. Viene fatto esplodere un ordigno davanti alla porta dello studente di sinistra Santo Gioffrè di Seminara».

Che non sia mai stato uno proprio dal cuore tranquillo lo testimoniano decine di narrazioni, pubbliche e private. Per esempio questo episodio, inserito in un dossier che il Comitato per la Pace e il disarmo unilaterale inviò a metà degli anni Settanta alla commissione parlamentare Antimafia, dal titolo “Le mani sull’università – Borghesi, mafiosi e massoni nell’ateneo messinese”. Eccolo lì, Santo Gioffrè da Seminara, quel paesino della Piana di Gioia Tauro affrescato tra il vento e gli uliveti, noto per il sangue sparso dalle lupare ma assai meno, sciaguratamente, per la ricchezza di storia e cultura, fertile di intelligenze straordinarie, determinanti, come di un “tale” Leonzio Pilato, traduttore di Omero, maestro di greco addirittura di Boccaccio.

Dunque, già da ragazzo, e poi da universitario aveva più volte rischiato la vita Gioffrè, oggi conosciuto in Italia come il medico-scrittore e storico che ha scoperchiato la botola sulla sanità calabrese facendo luce sul fradiciume del sistema politico-masso-mafioso che le ruota attorno. Al punto che troupe tv estere, tra Bbc e altre emittenti europee, giornali internazionali e finanche cineasti hanno sentito la necessità di incontrarlo da vicino e vedere che faccia ha e che cosa ha da dire questo marziano che ha avuto la sfrontatezza di denunciare la grande ingiustizia perpetrata ai danni di una comunità già diseredata dalla storia e dal mondo, rischiando la pelle più dei tempi in cui nello Stretto i militanti di destra gli davano la caccia. Roba seria, tra minacce e pallottole in canna per lui nel 2015, quando da commissario dell’Azienda sanitaria provinciale (Asp) di Reggio Calabria non tacque su quegli odiosi automatismi tra doppi e anche tripli pagamenti di fatture, scatenando indagini della magistratura e, su di lui, campagne diffamatorie, come puntualmente avviene in questi casi. Un comunista che ha sempre fatto la sua parte con i fatti.

«L’Asp di Reggio Calabria è stata, e forse è ancora, una delle fonti principali di approvvigionamento e di accumulo di fondi neri e arricchimenti illeciti in Italia. Dentro l’Asp, fin dal 2005, è stato creato un sistema perfetto, un’abile rifrazione della logica», scrive a dicembre del 2020 Gioffrè, che da quell’incarico fu disarcionato ad hoc e in fretta e furia, in Ho visto, edito da Castelvecchi. Oggi denunciando i crimini del sistema che lui ha anche definito, e mai descrizione fu più azzeccata, “contabilità orale”, ovvero la chiusura di affari milionari tra crimine e istituzioni senza alcuna documentazione, ieri colonna discreta della militanza a sud della Penisola.

Scherzandoci su, Gioffrè dice di essere da sempre “il compagno incompreso”, riferendosi cioè alle scorribande da primula rossa combattente di sostanza, ma dietro le quinte. Senza dubbio un protagonista della storia della sinistra nel Mezzogiorno, tra militanza e racconti leggendari secondo cui sarebbe stato meglio non trovarselo di fronte quando decideva di dare battaglia per risolvere un’ingiustizia. E un rivoluzionario che cos’è, se non chi non riesce a stare zitto e fermo di fronte alle prepotenze, alle sopraffazioni, alle illegalità che diventano prassi, mettendo in gioco la propria vita per un bene superiore ad essa. Allora rivoluzionario in trasferta, se necessario. Come leggiamo nelle pagine in presa diretta del suo ultimo libro, Fadia, sempre per Castelvecchi, un romanzo che possiamo definire autobiografico, d’amore e di lotta, di storie che intersecano altre storie e la Storia stessa con la maiuscola.

Dentro ci sono passi dolorosi che chiariscono, per esempio, punti chiave della tragedia della guerra in Siria, dove l’autore si è recato più e spesso clandestinamente, passando dal Libano o dalla Giordania. Una narrazione minuziosa quindi su scenari inediti che, altrimenti, non avremmo mai conosciuto. Con lui, appassionato e fine conoscitore di letterature antiche e d’arte, scopriamo vestigia mozzafiato poi distrutte dall’Isis e angoli remoti di quello splendido, millenario Paese. Gioffrè ce ne parla con sapienza letteraria ormai matura, anche se non è una sorpresa se pensiamo al suo Artemisia Sanchez, edito da Mondadori, raffinato racconto storico, e alla sua trasposizione per Rai Uno, con la colonna sonora scritta da Lucio Dalla.

«La visita finì a malincuore, mentre il giorno andava calando dietro il versante libanese delle montagne – leggiamo, quando il suo alter ergo, Andrea Bisi, medico, ormai in punto di morte sul lettino di un reparto di emodinamica, fa un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio, alla ricerca dell’amore perduto in quel pezzo distrutto di Medio Oriente, la bellissima Fadia, e di se stesso -. Palmyra, la dolce città di Zenobia, li attendeva… le rare macchine che incrociavano erano piene di gente che appariva rassegnata al proprio destino».

È il destino di una Siria martoriata dalla guerra e, forse ancor peggio, dimenticata da un Occidente affaccendato tra follie e indifferenze capitaliste. Aleppo, Damasco, il deserto, Bisi alias Gioffrè ha davvero conosciuto la grande bellezza, e poi le sue macerie umane e storiche. Da ateo e comunista, si confronta con l’arcivescovo ortodosso della stessa prodigiosa Aleppo, Boulos Yazigi, del quale diventerà amico, anche lui successivamente rapito e ucciso dai terroristi di Al-Nusra.

«Mi piaceva – ci dice – la sua semplicità giornaliera del vivere, e io da ateo osservavo e veramente ero convinto di essere in un altro mondo. Capivo la loro difficoltà a farsi accettare da un Occidente schiavo del consumismo e dal falso benessere. Gli avevo raccontato della mia militanza, non si era affatto scomposto». A Palmyra, “sposa del deserto”, aveva incontrato prima della Rivoluzione e dello scoppio del conflitto anche gente del calibro di Kaled-al-Asaad, l’archeologo che «da quarant’anni studiava e proteggeva uno dei siti più importanti e meglio mantenuti al mondo, dimostrando un amore smisurato per quella antichissima città della quale conosceva la storia di ogni pietra». Quell’Asaad che nel maggio del 2015, quando la città passò in mano allo Stato Islamico, fu catturato da un gruppo di jihadisti e decapitato due mesi più tardi. Il simbolo della decapitazione di un popolo. Un Olocausto, e vite spezzate, e sogni spezzati dei “fantasmi” dei sopravvissuti a una guerra che sembra non avere fine. Sotto agli occhi “ciechi” di tutti, o quasi.

L’immagine e le parole di Youssuf, il migrante siriano “marchiato” come non fragile che insieme ad altri due naufraghi si è tuffato dalla Geo barents e quindi portato in salvo sul molo del porto di Catania, sono emblematiche: «Dopo giorni e giorni su quella nave stavo impazzendo. Avevo la sensazione che il mio corpo e i miei sogni si stessero sgretolando». La Siria e le sorti di quel popolo hanno cambiato per sempre la vita di Gioffrè, insofferente per statuto interiore ai grandi torti. «Da quando era tornato dal viaggio, era cambiata la sua percezione del mondo – si legge in Fadia -. I contrasti del mondo occidentale balzavano ai suoi occhi in maniera vivida e lampante», con «le contraddizioni tra un mondo destinato a finire nell’oblio dell’autodistruzione…» ma, nonostante tutto, «ancora umano, dove uno sguardo poteva essere una promessa eterna». C’era, c’è ancora tanta bellezza in Siria, «c’era tanta bassezza nel suo Paese natio».

Andrea Bisi-Gioffrè avrà a che fare, ora, con la grande guerra italiana. E del suo amato e abbandonato, come la Siria, Mezzogiorno: da una parte mafie, corruzione politica, massonerie deviate, dall’altra un commissario comunista eletto nella Asp più inquinata d’Europa. Una lotta impari, comunque intrapresa a viso aperto. Come quando affrontava i fascisti tra Reggio Calabria e Messina, a giorni alterni guadagnandosi una convocazione dalla Digos. «Avevo soltanto 16 anni, e già mi sentivo un soldato, anzi, ancor più di un soldato”, ci racconta Gioffrè, che a breve vedremo – se saremo fortunati, perché con l’aria che tira sarà difficile nei festival italiani – in un docufilm dal titolo C’era una volta in Italia – Giacarta sta arrivando, di Federico Greco e Mirko Melchiorre, dove il ginecologo di Seminara è nientemeno in compagnia di Roger Waters, Ken Loach, Gino Strada o lo stesso Gavino Maciocco, il medico che da anni lotta, come Santo Gioffrè, per la sanità pubblica, ad esaminarne lo sfacelo degli ultimi anni. «Una distruzione – sostiene – responsabile di milioni di morti da decenni». E «non una parola da nessuno sulle responsabilità di tale distruzione, non una parola che indichi una visione complessiva e macroeconomica del problema, non una parola su chi ha iniziato a far rotolare la valanga. Forse perché dovrebbe fare i nomi dell’intera classe politica italiana, compreso Draghi?», denuncia l’autore di Fadia, non retrocedendo mai di un millimetro. Come ha sempre fatto.

«Guarda me, se c’è pericolo tu corri da me» disse a Pietro Ingrao quando, da giovanissimo studente di Medicina e già a capo del servizio d’ordine, era il 9 agosto del 1970, in un clima infuocato a Reggio Calabria, come nel resto del Paese, il leader del Partito comunista tenne un discorso davanti a una folla immensa. «Molti anni più tardi lo rividi a Roma, a una manifestazione della Cgil – ricorda -, lui mi guardò con quella stessa espressione che ebbe durante tutto il comizio a Reggio, mi salutò e insieme rammentammo di tutta quella tensione quella mattina in piazza. Ai margini della manifestazione qualche fascista tentò di attaccare, ma nessuno osò farlo dove stavamo io e i miei compagni. Se a qualcuno lo ricordi, ancora scappa». Un’immagine che la dice lunga sulla tenacia e la forza, sin da giovane con gli occhi neri e il cuore in rivolta, di questo medico e romanziere combattente.

«Non ho mai avuto paura, all’epoca, e nemmeno oggi. Ero studente al classico di Palmi, ricordo dei giorni in cui, improvvisamente, chiudevano le strade perché il generale Dalla Chiesa, scortato da lunga colonna di blindati, doveva visionare lo stato dei lavori per la costruzione del super carcere di Palmi, un lager dove furono poi rinchiusi i brigatisti delle Br che garantiva più dell’Asinara o di Badu ‘e Carros perché era, ed è, terra di ‘ndrangheta. Erano quegli anni lì, quando io spesso andavo in “missione” fuori. Nella mia vita, soltanto mio padre fu capace di spaventarmi: tornai una sera da Roma, a settembre, e lui mi incrociò sotto casa fissandomi negli occhi e osservando i miei capelli lunghi fino alle spalle. Ero sparito da almeno due mesi. Aspettò che mi andassi a coricare. Io vigilavo, e feci bene perché improvvisamente corse in camera mia per darmene di santa ragione, con mai madre dietro nel tentativo di fermarlo. Ma io fui più svelto, saltai dalla finestra».

 

* In alto, la copertina del romanzo “Fadia”, edito da Castelvecchi e un ritratto dell’autore Santo Gioffré in un frame di un’intervista per LaC

Elda Alvigini: Quel maschilista di Virgilio!

Non eroine senza macchia, né fanciulle giovanissime da record dei primati e neanche signore del teatro che hanno fatto la storia. Stremate e… beate?, di Giulia Riccardi, con Elda Alvigini, Beatrice Fazi e Giulia Ricciardi con regia di Patrizio Cigliano, in scena fino al 4 dicembre al Teatro Golden di Roma, mette al centro proprio le donne con la D maiuscola. Persone normali, over 50, che popolano la realtà di tutti i giorni e che hanno energia, esperienza e idee per essere protagoniste al cinema e teatri.
Con intelligenza ed ironia le tre attrici e il misterioso interlocutore fanno ridere e sorridere il pubblico, toccando, tra una battuta e un’altra, temi importanti. Ne abbiamo parlato con Elda Alvigini, interprete di Marisa, una delle tre protagoniste dello spettacolo.

Buonasera Elda, che immagine di donna emerge da Stremate e …beate?
Posso felicemente dire che le protagoniste di Stremate e… beate? sono tre donne rappresentate nel fior fiore degli anni che, nella commedia, quindi in purgatorio, dove è ambientata, non corrispondono ai venti o ai trenta ma ai cinquant’anni. Marisa, Elvira e Mirella sono tre donne vitali che hanno ancora energia, voglia di vivere e tante cose da fare. Anche se, secondo questa cultura post-berlusconiana, l’età in cui si sono ritrovate in purgatorio è quella in cui una donna è praticamente “finita”. In Italia, raramente vediamo donne over cinquanta a cinema o teatro. Mentre non è così nel resto del mondo. Negli Stati Uniti le donne over cinquanta sono protagoniste di film e serie. Noi, in questo spettacolo, rivendichiamo proprio la nostra voglia di fare, di tornare sulla terra, di essere piacenti e vitali anche dopo i cinquanta.

Dopo tanto tempo sei tornata a farti dirigere e a lavorare su un testo non tuo, com’è stata questa esperienza?
È stata meravigliosa. In scena lavoro con due grandi attrici a tutto tondo, non solo due comiche eccellenti. Per di più, Beatrice e Giulia sono anche due amiche, con cui ho già recitato. Con Beatrice Fazi ho condiviso l’esperienza del cinema e quella del teatro con La verità vi prego sull’amore. Inoltre, al di fuori della recitazione, con lei ho vissuto la splendida avventura de Il Locale, lo storico locale a vicolo del Fico. Mentre, con Giulia Riccardo ho recitato in Rosa Spina, dramma scritto e diretto da Michela Andreozzi sul caso Franzoni. Essere diretta da Patrizio Cigliano è stata una bellissima esperienza. La sua regia è molto meticolosa. Da una parte per me è stata una sfida decifrare il suo linguaggio molto personale e preciso che, per le altre due attrici era già famigliare, dal momento che loro hanno già lavorato con lui nei precedenti spettacoli di questo ciclo. Cigliano è molto esigente ed è un bravissimo attore, oltre che regista, conosciuto soprattutto per i ruoli shakespeariani al Globe Theater. Mi ha chiesto di fare “tanto” e io sono felice di aver dimostrato la massima malleabilità nell’essermi saputa adeguare alle sue esigenze.
Inoltre, devo dire che quando metto in scena i miei spettacoli tutte le responsabilità ricadono su di me ed è davvero molto faticoso, soprattutto dal punto di vista psicologico. Mentre questo spettacolo è sicuramente impegnativo dal punto di vista fisico e mentalmente richiede solo tanta memoria.

Come si è rapportata Elda Alvigini a questo testo che parla di aldilà?
Molto semplicemente, l’attore è un esecutore. Io sono atea, come credo tutto il cast, ed anche se in commedia il pretesto è la morte e, quindi, ciò che accade dopo, non c’è nulla di religioso. Questa è una “serie teatrale”, le protagoniste, ormai anziane, sono esistite per 5 spettacoli e in questo muoiono e finiscono in purgatorio, dove possono scegliere tra le opzioni di tutte le religioni. Insomma, alla fine si gioca molto sul tema, tanto che io dico: “Non capisco tutte ste distinzioni se lui è uno solo.” Comunque, Stremate e …beate? è una pura commedia e non c’è alcuna volontà di fare critica o religione. Certo, dà per scontato che esista un aldilà ma è un pretesto teatrale. Del resto, in questo caso il mio ruolo è quello di attrice, non di autrice e, come tale non sono responsabile del testo. Certo, anche se l’attore non sposa il testo che rappresenta, poi è ovvio che se dovessero propormi cose contro la mia natura forse non le farei.

Cosa c’è di Elda Alvigini in Marisa?
Niente.

Cosa sono per te i “vizi” e che rapporto hai con gli stessi?
La parola “vizio” non fa parte del mio vocabolario. Mi pare sia legata a un giudizio e a un senso di colpa, insomma, a un’accezione negativa. A mio parere i vizi non esistono, sono un costrutto religioso. Esiste lo stare male. Voglio dire, se si ha voglia di un bel gelato non c’è nulla di male, se il rapporto con il cibo diventa patologico, ecco allora si parla di malattia. Ma se non fanno male, non sono necessariamente negativi. A mio parere non c’è nulla di grave ad avere una sana consapevolezza e certezza di sé, che per la religione sarebbe la “superbia”; oppure a trascorrere un pomeriggio senza far nulla, accidia; certo, ovviamente se non si tratta di depressione.

Come personaggi come reagite alle accuse che vi vengono imputate nel testo?
Direi molto bene. Ognuna di noi è associata a due “vizi capitali” ma noi ci difendiamo, dimostrando che in fondo erano giusti. Così conquistiamo la simpatia del pubblico che è sempre molto caloroso, si appassiona e ci sostiene. Del resto, è più che normale che le persone in platea si riconoscano nelle debolezze delle protagoniste.

Potremmo dire che il bello di Stremate e… beate? è proprio il suo saper stare a contatto con la realtà, pur parlando di aldilà?
Certo, il gioco è proprio questo: l’aldilà è il pretesto per fare delle riflessioni sull’al di qua, cioè, su quello che siamo da vivi. Portiamo in scena delle dinamiche tipiche della vita. In più lo spettacolo si svolge in un futuro prossimo: 2050, quindi escono voci su persone che sono vive oggi, che ci danno l’opportunità per fare delle riflessioni anche sulla società e sulla politica. In particolare, le tre protagoniste si battono contro un certo maschilismo galoppante che ritrovano e contrastano anche in purgatorio, nella figura di Virgilio che è evidentemente maschilista.

Consumare suolo e poi frignare

Per avere un’idea del disastro basterebbe leggere i rapporti dell’Ispra che “proditoriamente” tutti gli anni ci avvisa con un corposo studio. Solo che quel rapporto finisce nelle newsletter degli appassionati ma non interferisce mai nell’attività legislativa e amministrativa, come se fosse un abituale urlo nel deserto che finanziamo per essere a posto con la coscienza.

Nell’ultimo rapporto sul 2022 a pagina 215 c’è l’elenco delle urbanizzazioni fatte nelle aree più pericolose d’Italia dove è matematico che accadrà qualcosa e dove ci saranno vittime. Si legge che l’Italia continua a consumare suolo a un «ritmo non sostenibile» e nel 2021 è tornata a farlo a «velocità elevate», invertendo il trend di riduzione degli ultimi anni, nonostante pandemia e crisi climatica. Lo scorso anno le nuove coperture artificiali hanno infatti interessato 69,1 chilometri quadrati, cioè in media 19 ettari al giorno: si tratta del valore più alto degli ultimi 10 anni.

Nell’ultimo anno abbiamo perso 2,2 metri quadrati di suolo al secondo, «causando la scomparsa irreversibile di aree naturali e agricole» per far posto a nuovi edifici, infrastrutture, poli commerciali, produttivi e di servizio. Per non parlare della «crescente pressione dovuta alla richiesta di spazi sempre più ampi per la logistica». Non c’è una ragione demografica dietro a questi processi di urbanizzazione: la popolazione residente è calata ma non il consumo di suolo, arrivato alla quota pro-capite (impressionante) di 363 metri quadrati per abitante nel 2021 (erano 349 nel 2012).

Questo incontrastato processo di degrado del territorio è reso possibile, come ricordano i curatori del Snpa, dall’«assenza di interventi normativi efficaci» e dalla mancanza di un «quadro di indirizzo omogeneo a livello nazionale». Le conseguenze ambientali sono note: armi spuntate contro desertificazione, siccità e dissesto idrogeologico, città meno sicure e meno resilienti, perdita di produttività agricola e di carbonio organico nello strato superficiale del suolo, cancellazione di habitat naturali, mancata ricarica delle falde acquifere, erosione e frammentazione del territorio. Per un devastante conto economico legato alla perdita dei servizi ecosistemici del suolo stimato in almeno otto miliardi di euro l’anno – se si considera il consumo di suolo degli ultimi 15 anni (2006-2021)-. Perdite «che potrebbero incidere in maniera significativa sulle possibilità di ripresa del nostro Paese».

E andrà sempre peggio. Una valutazione degli scenari di trasformazione del territorio italiano, nel caso in cui la velocità di trasformazione dovesse confermarsi pari a quella attuale anche nei prossimi anni, porta a stimare il nuovo consumo di suolo in 1.836 km2 tra il 2021 e il 2050. Se invece si dovesse tornare alla velocità media registrata nel periodo 2006-2012, si supererebbero i 3.000 km2. Nel caso in cui si attuasse una progressiva riduzione della velocità di trasformazione, ipotizzata nel 15% ogni triennio, si avrebbe un incremento delle aree artificiali di oltre 800 km2, prima dell’azzeramento al 2050. Sono tutti valori molto lontani dagli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda 2030 che, sulla base delle attuali previsioni demografiche, imporrebbero un saldo negativo del consumo di suolo. Ciò significa che, a partire dal 2030, la “sostenibilità” dello sviluppo richiederebbe un aumento netto delle aree naturali di 269 km2 o addirittura di 888 km2 che andrebbero recuperati nel caso in cui si volesse anticipare tale obiettivo a partire da subito.

Come scrive Paolo Pileri: «Il Piano nazionale di ripresa e resilienza destina appena otto miliardi di euro in sei anni per il dissesto idrogeologico (3,5%) a cui si aggiungono sette miliardi per varie azioni di monitoraggio (semplifico). Le decisioni urbanistiche continuano a essere fuori controllo: troppa frammentazione amministrativa, troppi interessi finanziari dei Comuni (che incassano oneri di urbanizzazione, contributi, multe, etc.), troppe leggi che mancano e non vengono chieste (non abbiamo una legge contro il consumo di suolo, non abbiamo una norma per togliere le previsioni urbanizzative, etc.), troppe rendite e troppi interessi che fanno gola a proprietari e investitori disposti a tutto, spesso, pur di costruire e incassare; troppa prepotenza di chi vuole farsi la villa sul suo terreno a tutti i costi; troppa accondiscendenza politica verso gli interessi dei più ricchi e dei più forti che ricattano le amministrazioni in vario modo; troppe teste che si girano dall’altra parte facendo finta di non vedere fin quando non capita il fattaccio: troppi compromessi».

Aspettando la prossima Casamicciola.

Buon martedì.

Ischia, più che un condono è una condanna alla paura

Ci sono tre ordini di problemi relativi all’isola d’Ischia e ai tre Comuni interessati al terremoto del 21 agosto 2017 che l’approvazione definitiva, lo scorso 15 novembre, da parte del Senato del cosiddetto “decreto Genova” emanato dal governo non affronta e se affronta, risolve male.
Il decreto convertito in legge nasce male. Perché riunisce in un unicum il crollo del ponte Morandi a Genova e la ricostruzione delle aree terremotate sull’isola d’Ischia e nel centro Italia. Sono due temi che mal si legano insieme. Per quanto riguarda, nello specifico, l’isola d’Ischia, la legge stabilisce dei criteri che consentono la ricostruzione con fondi pubblici anche delle case abusive distrutte o danneggiate. Per poter aderire al finanziamento pubblico i Comuni interessati – sono tre: Casamicciola, Lacco Ameno e Forio – hanno sei mesi di tempo per “sbrigare le pratiche” di condono edilizio ancora sospese. Qui nascono i tre ordini di problemi di cui sopra che la legge non affronta e se affronta, risolve male. Ma, prima di ricordarli quei tre nodi, è bene fare una premessa.

Nell’anno 2003 il Parlamento ha emanato una legge (il cosiddetto terzo condono) che, in buona sostanza, bloccava la messa in regola degli edifici abusivi costruiti dopo il 1985, anno di una legge nota come “del primo condono” e che portava la firma di Bettino Craxi e di Franco Nicolazzi. La legge approvata il 15 novembre 2018 in via definitiva riporta le lancette dell’orologio al 1985, per questo è stata definita una legge permissiva. Il primo problema è: chi riguarda la nuova norma? La risposta a questa domanda, sia da parte dei tecnici che dei media, è stata piuttosto confusa. Tutti concordano che sull’isola d’Ischia esiste un enorme e irrisolto problema di abusivismo edilizio. Sono all’incirca 27mila le domande di condono edilizio finora inevase. Nessuno sa se ci siano ed eventualmente quanti siano gli abusi non dichiarati e di cui non è stato chiesto il condono. Il che significa intanto che ci sono almeno 27mila case o comunque edifici costruiti in maniera abusiva sull’isola d’Ischia di cui non è accertata la sicurezza. Di cui nessuno ha saputo o voluto negli ultimi 33 anni accertare se sono state costruite con criteri ingegneristici, idrogeologici e sismici validati.

Va detto subito che la legge approvata lo scorso dicembre non affronta – e, quindi, non risolve – questo enorme problema. Quasi a giustificarsi, il governo ha precisato che il condono può essere concesso, rispettando i vincoli di legge, non a tutte le 27mila case abusive che hanno una domanda in giacenza ma solo a quelle abusive distrutte o danneggiate dal sisma del 21 agosto 2107. E dunque solo a una quantità limitata di edifici nei Comuni di Casamicciola, Lacco Ameno e Forio.

Ma limitata è un aggettivo ambiguo. A Casamicciola le domande di condono pendenti sono 3.500; quasi 2mila a Lacco Ameno e circa 8mila a Forio, per un totale di potenziali interessati di 13.500 abusi. Va detto, giustamente, che non tutte le case abusive di questi tre Comuni sono state distrutte o danneggiate dal terremoto del 2017. Il sindaco di Lacco Ameno calcola che gli edifici abusivi interessati siano all’incirca 2mila, concentrati in quello che viene definito il “cratere”: ovvero l’area più interessata dal terremoto.

Lasciamo al lettore considerare se questo sia un numero “limitato” o meno. Sta di fatto che si tratta di duemila edifici costruiti fuori dalla legge e, dunque, dalle norme di sicurezza in un’area ad altissimo rischio sismico. Certo, nel corso di più di tre decenni i proprietari di queste case che hanno dichiarato ufficialmente di aver costruito in maniera abusiva non hanno ricevuto una risposta da parte di uno Stato (in tutte le sue articolazioni) latitante e incapace di affrontare il problema. Ma dal punto di vista della sicurezza le difficoltà esistevano ed esistono ancora.

Ora veniamo al secondo problema. Queste duemila abitazioni abusive sono state danneggiate o distrutte insieme ad altre legalmente costruite in un’area piuttosto ristretta. Quanto, è difficile dirlo. Perché stando alla legge approvata a novembre, quest’area è “disegnata” dalle dichiarazioni dei proprietari di case che hanno subito danni. Ecco, dunque, il secondo problema: per qualsiasi tipo di intervento occorrerebbe definire un’area a rischio circoscritta non con criteri soggettivi o casuali, ma strettamente scientifici, a opera dei tecnici dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) e delle università, campane e non. Stiamo parlando di rischio sismico. Ma quelle stesse zone sono soggette anche a rischio idrogeologico. Un rischio che ha preteso anche sacrifici di vite umane, negli ultimi anni. Cosicché la mappa costruita su basi squisitamente scientifiche dovrebbe essere il combinato disposto dei due tipi di rischio, sismico e idrogeologico. Di tutto questo la legge del 15 novembre scorso non tiene debito conto.

Terzo problema. Quello di cui nessuno parla. Eppure è il più clamoroso. Limitiamoci al rischio sismico. Si sa che Ischia è un’isola vulcanica. E il vulcano Ischia è ancora attivo. Questa è una condizione geofisica particolare, anche da un punto di vista sismico. Perché i terremoti che si verificano sull’isola sono molto superficiali. Quello dell’agosto 2017 ha avuto un ipocentro inferiore a due chilometri. Per questo motivo anche se di magnitudo bassa (meno di quattro il 21 agosto 2017) producono grandi danni in superficie, anche se in aree estremamente ristrette. Ebbene, a Ischia c’è una particolarità. Gli ultimi otto terremoti distruttivi negli ultimi 250 anni, secondo la ricostruzione storica dell’Ingv, sono avvenuti tutti nella medesima area ristretta, quella interessata anche dall’ultimo sisma.

L’architetto Luigi Vanvitelli fu testimone del fenomeno sismico del 14 luglio 1762, cui sono seguiti quelli del 18 marzo 1796; del 2 febbraio 1828; del 6 marzo 1841; del 14 agosto 1867; del 4 marzo 1861 e del 28 luglio 1883. Quest’ultimo fu devastante come pochi: fece crollare totalmente 1.360 gli edifici e causò la morte di 2.333 persone, di cui, ricostruisce l’Ingv, 625 (il 27%) turisti, e 701 feriti (79, il 13%, non ischitani). Ne nacque un proverbio “è una Casamicciola” per indicare un disastro immane. In quel disastro persero la vita i genitori e la sorella di Benedetto Croce, in vacanza proprio a Casamicciola. E anche il futuro filosofo subì serie conseguenze fisiche che si trascinò per tutta la vita.

Questa serie storica ci dice che c’è una zona a Ischia ad altissimo rischio sismico. È una zona limitata e che coincide, alla grossa, con quella interessata dall’ultimo terremoto. Molte delle case crollate il 21 agosto 2017 furono costruite dopo il 1883. Questa condizione dovrebbe portare a riflettere su due sole opzioni possibili. La prima: ricostruire con criteri antisismici rigidi, ipercontrollati, estremamente sofisticati e costosi, che tuttavia potrebbero non essere esenti da rischi in futuro a causa delle anomalie dei terremoti in aree vulcaniche e, in particolare, in quella zona di Ischia. La seconda è quella caldeggiata da molti sismologi, come il professor Giuseppe Luongo: decongestionare la zona. Impedire la ricostruzione, tanto delle case costruite in maniera legale che di quelle abusive. E, magari, realizzare un grande parco geofisico di interesse europeo per lo studio dei terremoti in aree vulcaniche.

Toccherebbe poi alla politica trovare i modi per assicurare agli abitanti evacuati della zona una nuova dimora dignitosa. Ma la politica questo problema non vuole neppure trattarlo. Ignora la storia naturale dell’isola. Preferisce la soluzione facile della ricostruzione “quo ante”, in conformità di un passato tragico. Una soluzione che, per di più, contiene un messaggio implicito ma pericolosissimo: costruite abusivamente anche in aree ad altissimo rischio. Ci sarà sempre un condono.

Articolo pubblicato su Left del 4 gennaio 2019 e nel libro di Left n.28, La lezione di Pietro Greco. Quando la divulgazione scientifica è un’arte

Nella foto: la frana di Casamicciola, 27 novembre 2022

Nella manovra del governo 40 milioni per i Cpr

Comincia a prendere forma la prima Manovra economica del governo Meloni.

Da qualche ora, infatti, sta circolando una bozza preliminare della legge di Bilancio 2023, varata nella tarda serata di lunedì in Consiglio dei ministri.

Il testo – datato 23 novembre 2022 e in parte già anticipato in conferenza stampa dal presidente del Consiglio – conta 136 articoli, strutturati in 15 capitoli, principalmente focalizzati su fisco, pensioni ed energia.

Tra le varie misure previste spunta, però, anche un fondo di oltre 40 milioni di euro per l’ampliamento della rete dei centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr), con l’obiettivo di assicurare che le espulsioni dei migranti avvengano più rapidamente.

Lo prevede l’art. 106 (rubricato “Ampliamento della rete dei centri di permanenza per il rimpatrio – C.P.R.”), dove si legge che per «assicurare la più efficace esecuzione dei decreti di espulsione dello straniero» il Ministero dell’Interno è autorizzato ad ampliare la rete dei centri di permanenza per i rimpatri. A tal fine, infatti, «le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dell’interno relative alle spese per la costruzione, l’acquisizione, il completamento, l’adeguamento e la ristrutturazione di immobili e infrastrutture destinati a centri di trattenimento e di accoglienza sono incrementate di euro 5.397.360 per l’anno 2023, di euro 14.392.960 per l’anno 2024, di euro 16.192.080 per l’anno 2025».

Inoltre, per quanto riguarda le ulteriori spese di gestione, si legge che «le risorse iscritte nello stato di previsione del Ministero dell’interno relative alle spese per l’attivazione, la locazione, la gestione dei centri di trattenimento e di accoglienza i fondi sono incrementati di euro 260.544 per il 2023, di euro 1.730.352 per l’anno 2024 e di euro 4.072.643 per il 2025».

«Nel nostro rapporto Buchi Neri – sottolinea la Coalizione italiana per le libertà e i diritti civili (Cild) – abbiamo raccontato di come l’enorme spesa per questi centri sia inutile, tenendo conto del numero esiguo dei rimpatri che vengono realmente effettuati. Esistono alternative possibili, come il case management, con la presa in carico individuale delle singole persone che, oltre ad essere infinitamente più economiche, offrono risultati maggiormente apprezzabili nel garantire percorsi di integrazione nelle comunità. I Cpr – continuano da Cild – sono luoghi per i quali non esiste un ordinamento o un regolamento – così come ad esempio avviene per il carcere – e l’esercizio dei diritti delle persone trattenute è difficoltoso e incerto (ad esempio il diritto alla salute, alla comunicazione con l’esterno, all’assistenza legale). Inoltre, la gestione privata di questi centri, li rende un vero e proprio business che, in nome della massimizzazione del profitto, comprime ancora di più i servizi che dovrebbero essere offerti alle persone recluse, va ricordato, senza che abbiano commesso alcun reato.

Moussa Balde, Wissem Abdel Latif, Vakhtang Enukidze sono solo alcuni dei nomi delle persone morte nei Cpr in uno stato di totale negligenza.

La realizzazione di altri centri di detenzione, al netto di queste gravi criticità segnalate nel nostro rapporto, ma anche nei rapporti di altre organizzazioni non governative, o governative (ad esempio il Comitato per la prevenzione della tortura) e da alcuni Parlamentari, non farà altro che perpetrare lo sperpero di soldi, la sistematica violazione dei diritti umani, senza garantire in alcun modo una gestione del fenomeno migratorio efficace e pragmatica», conclude Cild.

Buon lunedì.

Nella foto: corteo contro la riapertura dei centri di permanenza per il rimpatrio, Milano, 12 ottobre 2019

Per approfondire la storia e le condizioni dei centri di detenzione per immigrati, leggi il libro di Left

Libri

La manovra del governo Meloni? Decisamente forte con i deboli

La premier Giorgia Meloni nel presentare in conferenza stampa la sua prima manovra economica e di bilancio ha parlato di “manovra coraggiosa”. Ho letto con attenzione le decisioni prese dal governo e tutto – per la verità – si può dire tranne che abbiano agito con coraggio.

In primo luogo non c’è nel primo atto fondamentale del governo una visione di Paese su cui indirizzare l’azione economica immediata e quella programmatica. Certo, l’esecutivo si è trovato con una manovra in corsa e in una situazione difficile di congiuntura nazionale ed internazionale, ma tutto questo era ben noto così come è da ricordare che nei momenti di crisi si vede se sussiste la competenza, la capacità politica, il coraggio.

Il governo non sceglie, se non di punire i poveri per dare un flebile segnale al suo elettorato. Ma si tratta di un piccolo sibilo che si disperde nell’assordante silenzio del nulla messo in campo.

Andiamo con ordine: si cancella il reddito di cittadinanza, con tifo da stadio dei peones governativi. Misura sicuramente perfezionabile avendone sperimentato anche i suoi limiti in questi anni, ma sicuramente la sua cancellazione è atto odioso nei confronti dei più fragili e provoca l’innalzamento della tensione sociale. Un errore anche politico gettare micce incendiarie economiche e sociali su una polveriera di drammi e disagi, soprattutto al Sud. Non si tassano, poi, in maniera seria ed adeguata gli extra profitti delle grandi multinazionali che hanno lucrato sulla speculazione economico-finanziaria dei mercati drogati del gas e dell’energia. Un governo che non ha più nulla della destra sociale di un tempo che avrebbe forse non solo dato un segnale contro i più ricchi in favore dei ceti popolari ma avrebbe almeno ipotizzato la nazionalizzazione di questi beni comuni. Invece, qualora ancora qualcuno nutrisse dubbi, questo è un governo neoliberista in perfetta continuità sul piano economico-finanziario con il governo Draghi. L’apoteosi dei poteri forti al comando.

Non vengono emesse misure per adeguare seriamente pensioni e salari all’inflazione e quindi intervenendo sul potere di acquisto del popolo italiano. C’è qualche mancetta elettorale, come il piccolo, quasi impercettibile, taglio al cuneo fiscale e la tassa piatta, e poi qualche segnale anche eticamente discutibile come l’innalzamento al tetto del contante. Nulla di efficace per incentivare la classe imprenditoriale ad investire ed assumere forza lavoro, nulla di percettibile sul piano degli investimenti pubblici.

Questo governo non è nemmeno sovranista, oltre ad essere scarsamente competente sul piano giuridico ed economico. Altrimenti avrebbe dato immediati segnali all’Europa con una manovra costituzionalmente orientata che avrebbe messo al centro l’Italia e i diritti essenziali negati della gente. Ed invece siamo in perfetta continuità con i diktat europei fatti di vincoli finanziari e gabbie giuridiche. Salvo poi trovare un fiume di denaro pubblico quando si tratta di armi ed industria bellica, quest’ultima tanto cara a questo governo come anche al principale partito dell’apparente opposizione.

La presidente Meloni, quindi, da un lato è con il capo chino nei confronti del patto atlantico e della Nato, confermando, qualora qualcuno avesse dubbi, la loro subalternità che mi pare essere il contrario dell’autonomia e della sovranità. Una cosa è essere amici ed alleati, un’altra è essere subalterni. Poi ha rassicurato l’Europa e le sue lobbies che lei non è una donna di destra ribelle, ma una brava scolara politica che ha recepito e condiviso i dogmi neoliberisti del capitalismo predatorio. Una manovra economica, quindi, fatta di toppe, pannicelli caldi, pezze color nero sbiadito, trucchi e parrucchi da post campagna elettorale.

Il collante che per ora tiene insieme la baracca dell’esecutivo, con Calenda e Renzi che sbavano per dare subito più di una mano, è l’ideologismo, nemmeno più l’ideologia, della destra autoritaria e machista con i deboli: decreto-legge contro il diritto di manifestare (presentato come decreto “anti rave”, ndr), il decreto interministeriale contro i migranti soccorsi in mare, la scuola “di classe”, l’autonomia differenziata. Il tutto condito da un po’ di simbolismo neofascista con qualche busto, qua e là braccia tese verso l’alto, Predappio e Mussolini, e anche qualche svastichetta magari provvisoriamente nascosta nel cassetto.

Insomma finora confusione giuridica, autoritarismo incostituzionale, rivendicazione di una matrice certamente non antifascista, genuflessione ai poteri forti, continuità con il draghismo. Tutto cambia per non cambiare nulla. Tocca invece cambiare il modo di fare opposizione e costruire rapidamente l’alternativa ad una politica rimasta senza ossigeno.

 

* L’autore: giurista e saggista, dopo molti anni di lavoro da magistrato e da sindaco di Napoli Luigi de Magistris oggi guida l’Unione popolare

In foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini

Livia Profeti: Per uscire dalla crisi la sinistra ripensi l’idea di uguaglianza e di soggettività

In un momento in cui molto si discute della crisi del centrosinistra, della frammentazione della sinistra e della necessità di ripensare la forma partito pubblichiamo come contributo al dibattito questa intervista di Alexandre Gilbert alla filosofa Livia Profeti uscita sul Times of Israel. Al centro della discussione parole chiave come uguaglianza, soggettività collettività e la necessità di liberarsi di un velenoso retaggio heideggeriano

Lei ha proposto di rinominare l’esistenziale heideggeriano dell’«esser-gettato»: non più «nel-mondo», come abitualmente è inteso, ma «in-un-mondo». Ci può spiegare perché?
Quella modifica esprime sinteticamente la mia tesi sulla negazione dell’uguaglianza universale in Essere e Tempo. In quel testo del 1927, Heidegger – che cinque anni dopo, con l’avvento al potere di Hitler, sarebbe diventato il primo rettore Führer nazionalsocialista – ha proposto un’ontologia che si è opposta tanto all’Illuminismo quanto al marxismo con il sedicente scopo di superare i limiti della tradizionale definizione di uomo come «animale razionale». In realtà, non solo Heidegger non ha affatto superato quei limiti, ma in Essere e tempo nega l’uguaglianza universale proponendo una differenza ontologica tra popoli.
La chiave di questa negazione sta appunto nella parola «mondo» che, negli esistenziali heideggeriani, non indica una struttura universale ma ha il significato dell’ambiente fisico e culturale di nascita. Heidegger, modificando in maniera piuttosto mascherata ma tuttavia identificabile il senso del termine, solo apparentemente si basa sulla critica che ha portato Husserl a postulare la necessità di un «mondo-della-vita» (Lebenswelt), poiché nega l’universalità di quella concezione husserliana. Al contrario, il mondo heideggeriano dove saremmo «gettati», contribuirebbe a determinare la nostra essenza, che sarebbe quindi diversa a seconda se fossimo nati in Germania, Italia, Francia, piuttosto che in Russia, Africa, Cina, ecc. Le differenze ontiche sono così elevate ad un rango ontologico in Essere e Tempo, affermando una diversità originaria che nega il fondamento comune dell’umanità a favore delle differenze etniche tra le culture. Per questo è più corretto dire che, secondo Heidegger, si è «gettati» in un mondo, e non nel mondo. Con ciò, non è mia intenzione difendere un universalismo astratto che ignori le differenze culturali oggettive, ma riaffermare la centralità di un’idea che è stata la stella polare di tutte le lotte di emancipazione degli ultimi due secoli. L’ontologia heideggeriana, alla base della filosofia postmoderna, ha cancellato questa stella polare: l’idea di uguaglianza tra tutti gli esseri umani. È necessario recuperarla con una nuova ricerca umanistica che si fondi sull’inevitabile compresenza di eguaglianza e diversità nella condizione umana, anche se questa può apparire una contraddizione insanabile.

  • Eppure, Heidegger critica il razzismo e il biologismo nei Quaderni neri.
    I suoi apologeti lo sostengono, basandosi sul fatto che egli deplora le concezioni razziali dell’epoca e, più precisamente appunto nei Quaderni neri (pubblicati in Italia da Bompiani ndr) la «volgarità» del nazionalsocialismo. Tuttavia, contemporaneamente, negli stessi Quaderni e nei corsi universitari degli anni Trenta, Heidegger afferma esplicitamente che la razza è una condizione necessaria per l’«autenticità» di un popolo. Dunque non si può certo dire che rifiuti il razzismo e il biologismo. Egli si limita a negare che «sangue e suolo» siano le uniche condizioni di tale autenticità, ciò che invece costituirebbe la «volgarità» dei nazisti… In realtà, per capire il razzismo heideggeriano non ci si può fermare alla prima sezione di Essere e Tempo ma si deve tenere conto anche della seconda, che tratta della storicità. Johannes Fritsche, con il suo Historical Destiny and National Socialism in Heidegger’s Being and Time del 1999, aveva già dimostrato i legami tra la nozione nazista di comunità, la Volksgemeinschaft, e i paragrafi dal 72 al 77 di Essere e Tempo. Nel paragrafo 74, in particolare, si scopre che l’esserci «autentico» heideggeriano, che mira a sostituire la nozione moderna di soggetto, non è in verità l’individuo ma una comunità storico-destinale di popolo. Analizzando in profondità questo capoverso e mettendolo in relazione con gli altri testi heideggeriani degli anni 1928-1929 e con i Quaderni neri, ho compreso che, secondo Heidegger, il «sangue e suolo» sono appunto necessari per la trasmissione delle possibilità storico-destinali tra generazioni, ma non sufficienti, in quanto mancherebbe loro l’atto della «decisione», con cui l’esserci assume la «cura» del «proprio» mondo. In breve, la decisione heideggeriana, considerata per decenni come l’atto libero determinante per la realizzazione più profonda dell’essere umano, in realtà è la terza condizione che Essere e Tempo aggiunge alla concezione nazista di popolo. La storicità heideggeriana non rifiuta la dottrina razziale fondata sulla biologia, la ingloba. Ecco perché preferisco chiamarla «bio-storicità».

Heidegger, con tale «bio-storicità», stava cercando di prendere le distanze da un biologismo esclusivamente tedesco?
Visto il disprezzo che provava per le scienze, direi piuttosto che la sua intenzione era quella di proporre un’ontologia che fosse «superiore» alla sola biologia. In ogni caso, così facendo, il suo pensiero ha diffuso una negazione peggiore di quella di una determinata dottrina razziale, perché ha fornito la base per così dire “filosofica” su cui qualsiasi forma di razzismo può fondarsi. Per questo troviamo l’heideggerismo negli ambienti più disparati: dai neonazisti europei e americani all’estrema destra russa e al fondamentalismo islamico.
Heidegger, infatti, conformemente alla propria ontologia, riteneva che ciò che ha chiamato «Storia dell’Essere» si svolga a partire da inizi, il cui compito destinale spetta all’esserci in quanto comunità di popolo. Secondo lui, nel secolo scorso tale comunità era la Volksgemeinschaft nazista, cui l’Essere avrebbe riservato il compito di realizzare il nuovo inizio dell’Occidente anche a costo delle «camere a gas», come si può leggere nei Quaderni neri. Conseguentemente, sempre sulla base della stessa ontologia, qualsiasi Califfo che semina il terrore può affermare un concetto simile nei confronti della propria comunità islamica. Anche una “russificazione” di tale Storia dell’Essere è possibile, quale propone ad esempio Alexandre Dugin, secondo il quale «il nuovo inizio di Heidegger» non può essere rivolto ai popoli dell’Occidente bensì alla comunità del popolo russo, come Gaëtan Pegny mostra nel suo articolo Alexandre Douguine, un heideggerisme à la fois assumé et dissimulé. Il teorico ultranazionalista che si dice abbia ispirato la politica aggressiva di Vladimir Putin ha dichiarato, durante il recente funerale della figlia vittima di un attentato probabilmente indirizzato a lui, che la ragazza era morta «per la Russia, per la sua verità». Chissà cosa avrebbe pensato Tolstoj di questa alètheia heideggeriana in salsa russa …
Ciò che accomuna queste disparate posizioni è tanto la negazione dell’uguaglianza universale quanto una forte rivendicazione identitaria su base comunitaria, provenienti entrambe da Essere e tempo. E se è comprensibile che esse siano rivendicate da forze ultraconservatrici di destra, la cosa sorprendente è che esse siano affermate anche dagli intellettuali postmoderni cosiddetti progressisti, esattamente perché si sono ispirati alla stessa fonte. Così, per citare un solo esempio sorprendente anche se poco noto, si possono leggere parole simili sugli ebrei che, al contrario, hanno subito la Shoah. È il caso del saggio Israele. Terra, ritorno, anarchia di Donatella Di Cesare, in cui la «comunità» ebraica rappresentata dallo Stato di Israele è chiamata ad iniziare una «nuova epoca». Tali «tempi nuovi» inaugurati da Israele dovrebbero assolvere il «compito» di sovvertire l’ordine mondiale incentrato sulla nazione, anche se la sua permanenza in Palestina è un’«effrazione». Di Cesare inoltre, in questo saggio «teologico-politico», sottolinea costantemente l’identità «ebraica», mentre l’uguaglianza universale viene definita una «chimera». Si potrebbe parafrasare: «da ciascuno secondo la sua comunità, a ciascuno secondo la sua Storia dell’Essere». Per tornare alla sua domanda, va sottolineato che il modo in cui Heidegger ha «preso le distanze» dal biologismo nazista, per esprimermi con le sue parole, è stato il fondamento di un percorso culturale che ha prodotto il fenomeno per cui, ai giorni nostri, la radice dell’intolleranza (o dell’indifferenza) verso l’altro non è più la sola presunta nozione biologica di razza, ma un comunitarismo radicale anche su base religiosa e culturale. E sebbene le intenzioni della maggior parte degli intellettuali postmoderni come Di Cesare non siano violente, questi esponenti non si sono mai sentiti a disagio nell’affidarsi alle stesse idee che ispirano oggi la nuova destra, «favorendo così indirettamente la sua volontà di riconquistare l’egemonia intellettuale», come Emmanuel Faye ha di recente giustamente affermato.

I primi Quaderni neri pubblicati a partire dal 2015 hanno suscitato molto scalpore. Quale elemento nuovo e particolarmente intollerabile del pensiero di Heidegger hanno rivelato, a suo parere?
In realtà io ritengo che, nonostante l’insostenibile pesantezza dei Quaderni neri, essi non ci presentino concrete novità nel suo pensiero, che mantiene una sostanziale continuità dall’inizio alla fine. In questo senso condivido il parere del suo ultimo assistente recentemente scomparso, Friedrich-Wilhelm Von Herrmann, il quale ha dichiarato in un’intervista del 2015 che i Quaderni neri hanno la funzione di completare quanto descritto nei grandi trattati a partire da Essere e Tempo, e sono inseparabili da essi. Von Hermann intende così smentire l’antisemitismo di Heidegger, mentre questo a mio avviso dimostra la continuità tra l’opera del 1927 e le affermazioni apertamente filonaziste e antisemite degli anni Trenta, contenute sia nei corsi che nei seminari dello stesso periodo di quei primi Quaderni pubblicati. Essi sono senza dubbio importanti, perché consentono di analizzare in modo più profondo questa continuità e queste implicazioni, ma, almeno fino ad ora, non hanno presentato elementi di novità. Semmai offrono conferme fondamentali di ciò che Emmanuel Faye aveva portato alla luce sin dal 2005 con il suo Heidegger, l’introduzione del nazismo nella filosofia.

Lei ha curato l’edizione italiana di questo libro, con molte citazioni di brani heideggeriani inediti, mentre la traduzione dei volumi dei Quaderni neri in Italia è stata oggetto di controversie. Crede che il modo di tradurre i testi di Heidegger sia importante per comprendere il suo pensiero?
Vorrei innanzi tutto sottolineare che con i Quaderni neri si pone lo stesso problema che c’è con le altre traduzioni degli scritti di Heidegger. Inediti a parte, nel mio lavoro sul libro di Faye ho consultato le varie traduzioni italiane dei molti altri brani citati già pubblicati, e ho constatato con stupore che quasi tutte usavano strani neologismi, anche nel caso in cui Heidegger impiegava termini comuni. E ciò accade anche in altre lingue, soprattutto in francese. Per restare in Italia, il quadro complessivo di queste traduzioni era desolante, fatta eccezione per quelle di Franco Volpi che, nella maggior parte dei casi, le ha accompagnate da glossari dove viene fornita una chiara spiegazione delle scelte controverse. Di contro, ci sono altre traduzioni di fatto inutili, perché i molti neologismi coniati rendono gli scritti incomprensibili rispetto alle altre opere heideggeriane. Variamente situata tra questi due opposti si pone la maggior parte delle altre traduzioni, la quale, secondo l’impressione personale che ne ho tratto, esprime l’imbarazzo intellettuale di trovarsi di fronte a sorprendenti affermazioni razziste e filonaziste in lingua tedesca, scritte da un personaggio che, detto per inciso, è stato ampiamente considerato come uno dei più grandi pensatori del secolo scorso. Si può quindi comprendere che i traduttori abbiano, anche inconsciamente, cercato di indebolirne il significato. Tuttavia, questi tipi di traduzione hanno di fatto impedito la possibilità di una più vera comprensione del pensiero di Heidegger. Anche per questo motivo, quando siamo venuti a conoscenza dell’esistenza dei Quaderni neri mi sono rammaricata una volta di più della prematura scomparsa di Volpi nel 2009, una vera perdita per la cultura italiana.

Si deve riconoscere oggi una specificità dell’heideggerismo italiano, ad esempio in Donatella De Cesare o Diego Fusaro?
Credo che l’unico che possa definirsi tale sia stato quello di Gianni Vattimo, il principale teorico del «pensiero debole» della fine degli anni Ottanta. Più recentemente ne ha proposto una versione ancor più discutibile e contraddittoria, che unisce Heidegger, Marx e il cristianesimo, ma, quanto meno, il suo pensiero ha avuto una sua originalità e peso internazionale, rispetto ai quali gli heideggeriani «mediatici» dei nostri giorni, come appunto Diego Fusaro e Donatella De Cesare, appaiono solo gli ultimi epigoni dell’influenza di Heidegger sul pensiero di sinistra cui abbiamo già accennato, risultato di una deliberata captazione che risale a molto tempo fa. Nel 1947, con la famosa Lettera sull’umanismo in risposta polemica a Sartre, Heidegger ha offerto alla cultura di sinistra un abbraccio mortale: con una sorta di gioco di prestigio, interpretando arbitrariamente l’alienazione marxista come Heimatlosigkeit – tradotta nell’innocente «spaesamento» – egli trasforma l’alienazione marxista legata al lavoro nella perdita di appartenenza al “sangue e suolo” dove si nasce. Ed il capolavoro termina con la sentenza secondo cui «l’essenza del materialismo si cela nell’essenza della tecnica», dietro alla quale – come messo in evidenza negli studi del semiologo François Rastier – ciò che in realtà si «cela» è la sua condanna del pensiero «calcolante» e della «macchinazione» ebraica, ovvero l’antisemitismo heideggeriano messo invece in mostra nei Quaderni neri.  L’influenza della Lettera sull’umanismo sulla cultura del dopoguerra è stata cruciale. Peraltro, nel suo più recente Arendt e Heidegger. La destruction dans la pensée, Emmanuel Faye ha rivelato che quel testo fu il motivo del riavvicinamento tra i due a Friburgo, nel 1950, dopo diciassette anni di assoluta distanza. Sempre descritto nei termini di un fumetto rosa, Faye rivela che quell’incontro, inizio della nuova alleanza postbellica tra Arendt e Heidegger, fu dovuto alla profonda adesione intellettuale di Arendt a quell’«attentato ai fondamenti della cultura occidentale» che lei aveva colto nella Lettera sull’umanismo letta un anno prima.

Donatella Di Cesare e Diego Fusaro possono rappresentare, a suo parere, la nuova cultura italiana di sinistra?
Di Cesare e Fusaro sono due intellettuali molto diversi, anche se entrambi derivano dall’influenza heideggeriana sulla cultura italiana cosiddetta “di sinistra”. Di Cesare è vicina al filone postmoderno mentre Fusaro attinge per lo più al pensiero successivo di Costanzo Preve, filosofo politico italiano che, proveniente dall’hegelo-marxismo, ha finito per teorizzare la cancellazione dell’opposizione destra/sinistra dando origine alla corrente italiana dei cosiddetti “rosso-bruni”. Tuttavia, nonostante la diversità, Di Cesare e Fusaro sono accomunati tanto dall’adesione alla negazione heideggeriana dell’uguaglianza universale a favore dell’idea di comunità, quanto dall’ingerenza della religione nella filosofia: cristiana per Fusaro, ebraica per Di Cesare. A mio avviso si tratta di due posizioni teoriche molto lontane dal pensiero di sinistra, perché ne negano i fondamenti. Non direi proprio, quindi, che questi due intellettuali possano rappresentarlo in Italia.
Di recente Fusaro ha mostrato maggiormente i suoi tratti di destra: difende la famiglia tradizionale come baluardo della comunità, si mobilita contro i diritti civili, mette in discussione la laicità dello Stato e si propone di “superare” l’antifascismo. Le sue proposizioni fondamentali non hanno nulla di “marxista”, perché la sua opposizione al liberalismo e alla globalizzazione si lega ben di più al logoro pensiero della destra sociale. Mentre Di Cesare si è chiaramente schierata con posizioni tipiche della sinistra, come quelle a favore dei migranti o, più recentemente, dei negoziati di pace per la guerra russo-ucraina. Ma, vista l’ambiguità delle sue posizioni teoriche rispetto ai fondamenti della cultura progressista, le contraddizioni tra teoria e prassi ostacolano, di fatto, l’efficacia stessa dei suoi proclami. Onestamente non saprei citare un filosofo che potrei dire “rappresenti” una nuova cultura di sinistra italiana, ma direi che la cultura progressista sia ovunque in crisi. Però Maurizio Ferraris è tra i pochi che, a mio parere, tentano di proporre nuove idee. Nel 2011 ha richiamato l’attenzione della società su una corrente filosofica che ha chiamato «Nuovo Realismo», un movimento internazionale che, benché differenziato, mira unitariamente a restituire profondità alle nozioni di realtà e verità, mettendo così in discussione le basi della cultura postmoderna. Il realismo proposto da Ferraris non è l’accettazione passiva e conservatrice dell’esistente, ma la prima tappa di ogni emancipazione, perché bisogna prima di tutto accettare che qualcosa sia oggettivamente «reale», per poterlo criticare e modificare. Recentemente, con il suo ultimo lavoro Documanità, la realtà che Ferraris “guarda in faccia” è quella della rivoluzione tecnologica. Senza nascondere la drammatica crisi che l’automazione di tutti i processi produttivi annuncia all’umanità, ma senza nemmeno indulgere in un vittimismo senza speranza, Ferraris rifiuta la demonizzazione heideggeriana e postmoderna della tecnologia. Ricordando che la tecnica è una parte costitutiva dell’essere umano, indica il compito di una «rivoluzione concettuale» che ci accompagni durante il lungo periodo che ci servirà per trasformare la scomparsa di ogni lavoro ripetitivo in un’opportunità di progresso. Sulla stessa linea della tensione di Marx verso l’emancipazione dell’intera umanità per mezzo della riduzione delle disuguaglianze, propone un cambiamento nelle lotte politiche di sinistra, da basarsi sull’analogo cambiamento del plusvalore, che emerge oggi anche dalle registrazioni digitali che inconsapevolmente produciamo ogni volta che utilizziamo i nostri telefoni cellulari. È in questa messa in evidenza del valore aggiunto generato dal Web “immateriale” che vedo un’espressione filosofica che può contribuire alla formazione di una nuova cultura italiana di sinistra.

Diego Fusaro, interrogato sull’antisemitismo di Heidegger un’intervista che mi ha rilasciato nel 2018, ha dichiarato che, all’epoca, «la visione antisemita era radicata in Europa soprattutto nel mondo cattolico cui Heidegger apparteneva, ma non era una sua creazione. Molte persone nel mondo cattolico lo erano e quindi non c’è niente di sorprendente in ciò. Bisogna condannare il mondo antisemita ma il mondo antisemita non era Heidegger». Cosa ne pensa di queste affermazioni?
Penso che nella risposta sia ben visibile la funzione mistificatrice dei suoi giochi di parole. In questo caso il gioco ruota ancora intorno alla parola «mondo». Analizziamo la successione delle proposizioni: in primo luogo Fusaro suggerisce che nell’antisemitismo nazista non ci fosse nulla di nuovo in quanto l’antisemitismo era già diffuso in Europa, soprattutto nel «mondo cattolico»; poi, data l’affermazione che Heidegger era cattolico, Fusaro deduce che il suo antisemitismo fosse per così dire “normale”, come per tanti altri casi del «mondo cattolico»; infine sostiene che bisogna condannare «il mondo antisemita» che però, dice «non è Heidegger». Ora, la prima affermazione è negazionista, perché riduce il genocidio nazista a una persecuzione simile alle precedenti; la seconda è falsa, perché Heidegger si era allontanato dal cattolicesimo tanto quanto gli altri nazisti; la terza è dissociata, perché non si comprende più di quale mondo «antisemita» parli Fusaro: se cattolico o nazista, che peraltro sovrappone illegittimamente. La ripetizione delle parole è ipnotica, il tono è tranchant. Chi legge velocemente non si accorge della dissociazione, e i “messaggi” che passano sono la minimizzazione dell’antisemitismo heideggeriano e la negazione della Shoah. Quest’ultima è particolarmente grave e denota anche un certo grado di superficialità filosofica da parte di Fusaro, perché la Shoah non è stata affatto un episodio di antisemitismo simile ai precedenti. I nazisti non volevano opprimere, ghettizzare, violentare o scacciare gli ebrei. Non si accontentavano di “distruggerli”. Volevano farli sparire, eliminarli dal mondo e dalla storia come se non fossero mai esistiti.

Può chiarire la differenza tra «distruggere» e «far sparire» a proposito della specificità dell’antisemitismo nazista?
Questa differenza è stata analizzata dallo psichiatra italiano Massimo Fagioli sulla base della sua scoperta della «pulsione di annullamento» quale radice psichica della negazione. Secondo Fagioli, la pulsione di annullamento è la forma estrema di violenza, che supera la distruzione materiale in quanto scomparsa mentale non cosciente dell’umanità altrui. Una dimensione interiore che ha permesso ai nazisti di concepire l’eliminazione di esseri umani come una “soluzione” per i loro deliranti obiettivi: Auschwitz per ottenere un Reich judenfrei (libero dagli ebrei), o il programma Aktion T4, che ha preceduto la Shoah e con il quale decine di tedeschi malati furono eliminati per ottenere «la purificazione della razza ariana». La fagioliana pulsione di annullamento spiega ciò che Freud, nel 1920, chiamò pulsione di morte senza comprenderla profondamente. Di per sé non mira alla violenza fisica, ma annulla il senso psichico del rapporto umano con l’altro: come se non fosse mai esistito, come se fosse possibile “produrre il nulla” al posto del vissuto, per così dire. Nella maggior parte dei casi avviene a livello delle relazioni personali, ma può diventare anche un fenomeno a livello storico-politico, come nel caso del nazismo e di tutti gli altri genocidi.
È però importante sottolineare che non si tratta del “fisiologico”, per così dire, funzionamento del pensiero umano.  Al contrario, sostenendo che «il niente e l’essere sono la stessa cosa» (nota aggiunta nel 1949 a Che cos’è metafisica? del 1929), Heidegger postula il nulla come la più profonda verità umana. Egli partecipava al dibattito filosofico dell’epoca sulla funzione logica della negazione – come ben ricostruito da Stefano Poggi nel suo La logica, la mistica, il nulla. Una interpretazione del giovane Heidegger – e ha creduto di trovare l’«autenticità» in una concezione totalmente negativa dell’essere. Se l’ontologia heideggeriana fosse vera, Adolf Hitler e Rudolf Höss sarebbero stati gli uomini più “autentici” sulla terra! Fortunatamente Heidegger si è sbagliato. Ma è ancora purtroppo necessario ribadire che non è vero che abbiamo bisogno del suo pensiero per comprendere la Shoah, come affermano Donatella Di Cesare e altri. Basterebbe notare che la definizione heideggeriana dei campi di sterminio come «fabbricazione» di cadaveri (peraltro copiata da Arendt) – la quale dimostrerebbe la colpevolezza della «Tecnica» nella Shoah (ovviamente scagionando il nazismo) -, è assurda. Massimo Fagioli sottolineava infatti che Auschwitz non fu affatto una “produzione” di cadaveri ma un’eliminazione di corpi: un far scomparire persino la materia. Come se i nazisti pretendessero di poter creare il nulla. Al pari di un dio che, solo, diceva Heidegger, potrebbe «salvarci»… Ne abbiamo abbastanza di questi discorsi deliranti, che hanno fatto sin troppi danni. Le nostre società sono angosciate per molte buone ragioni, dalla crisi economica a quella climatica, dalle nuove epidemie alla guerra che bussa alle nostre porte come un fantasma risorto. Non abbiamo bisogno di questo nichilismo mistico per affrontare i nostri tempi difficili. Al contrario, è necessario cercare una nuova fiducia nell’essere umano a partire da una nuova concezione della sua intera soggettività, compresi gli aspetti senza coscienza come il primo periodo della vita o il sonno. Una concezione umana “positiva” che confuti quella heideggeriana di un Essere con la “e” maiuscola come nulla, che, se esistesse, non potrebbe che tendere al nulla.

La filosofia può aiutarci a trovarla?
Penso di sì. Sebbene la concezione moderna di soggetto, basata fondamentalmente sulla razionalità, abbia mostrato i suoi limiti nel corso della storia, all’inizio della moderna metafisica laica troviamo nozioni che potrebbero essere riprese per contribuire a concepire una condizione più completa dell’essere umano, fondata su una positività anche al di là della semplice razionalità. Attualmente sto lavorando su questo argomento intorno alla nozione di «infinito positivo» in Descartes, che, peraltro, è l’autore più osteggiato da Heidegger, il quale ne ha diffuso la visione caricaturale di fondatore del «pensiero calcolante». In realtà, il cogito cartesiano era molto articolato, vi appartenevano anche i sogni, l’amore, l’odio, il sentire, l’immaginazione, così come tutte le forme di espressione umana. Siamo quindi molto lontani dalla caricatura heideggeriana. Descartes era ancora legato all’umanesimo rinascimentale, come ha dimostrato ancora Faye nel suo Philosophie et perfection de l’homme. De la Renaissance à Descartes. Nonostante i secoli che ci separano, il pensiero cartesiano non è poi così lontano dalla migliore sensibilità contemporanea, perché parla ancora alla nostra umanità profonda. Io lo sto ascoltando, perché sono convinta che ci siano sempre cose da scoprire nel pensiero dei geni. Descartes, lo era, Heidegger no.

(ha collaborato Francesca Dal Conte).

Livia Profeti è ricercatrice in filosofia presso il laboratorio ERIAC dell’Universita di Rouen-Normandie. Autrice di L’identità umana (L’Asino d’oro) e di diversi saggi critici su Heidegger pubblicati in Italia, in Francia e in Germania, nel 2018 ha partecipato al XXIV FISP World Conference a Pechino con un intervento dal titolo Born Equal to Become Different. Tra le sue ultime pubblicazioni: L’identité humaine entre nature et histoire: repenser l’égalité à partir de la critique par Massimo Fagioli de la raison des Lumières (Lumières no. 33, 2020) e Anche le donne filosofano: una replica a Thomas Sheehan (Materialismo storico, n. 2/2021).

Alexandre Gilbert è il direttore della galleria d’arte Chappe a Parigi; scrive per il Times of Israël e LIRE Magazine Littéraire.

L’intervista in francese uscita sul Times of Israel: https://frblogs.timesofisrael.com/nul-besoin-detre-nihiliste-il-faut-repenser-egalite-et-subjectivite-pour-surmonter-la-crise/

Inna Afinogenova: Colpendo Assange gli Usa vogliono intimidire tutti noi giornalisti

Sono giorni di pioggia nella capitale spagnola, che si prepara a vivere le feste natalizie con la tipica e annuale forma de la Luz de Navidad, dove la città sarà tutta illuminata e colorata, vestita a festa. Nel barrio di Lavapies, quartiere etnico, multicultuale, aperto ad ogni cultura straniera e ad ogni genere, si trova il Teatro de El Barrio, è qui che ho incontrato la giornalista russa Inna Afinogenova (nella foto), che collabora con La Base, il programma di sinistra ideato dal fondatore di Podemos Pablo Iglesias, marito tra l’altro di Irene Montero, la ministra de Igualdad spagnola che sta apportando importanti modifiche politiche e sociali attraverso leggi avanzatissime come la Ley Si es Si contro la violenza sulle donne e la Ley Trans con più diritti per tutta la comunità Lgbtqi+.
In quest’occasione il pomeriggio è dedicato a Julian Assange, con la proiezione del documentario Guerra contra el periodismo di Juan Passarelli.

Inna interviene in maniera molto chiara e precisa sul caso Assange, sottolineando come la vicenda del fondatore di WikiLeaks esponga tutti i giornalisti al rischio di essere accusati e messi a tacere qualora potessero portare alla luce fatti scomodi per il potere e per i potenti della terra, in maniera particolare per gli Stati Uniti. La prima domanda che pongo ad Inna, essendo anche una cittadina russa è cosa pensa del conflitto bellico in corso.

«L’invasione russa dell’Ucraina avvenuta il 24 febbraio scorso – risponde Inna – è un fatto gravissimo. È una tragedia per tutto il popolo ucraino, ma è una tragedia anche per la Russia, per tutte le sanzioni che sono state messe in atto. Mi sembra il maggiore errore geopolitico che sia stato commesso nell’epoca post-sovietica. Ora tutto il mondo deve cercare una soluzione per arrivare alla pace, ma quello che noi vediamo è solo il dualismo belligeranza e indifferenza».

Il caso di Julian Assange lo possiamo inserire in un quadro di conflitto tra le maggiori potenze sulla terra?
Chiaramente è un caso politico. Julian è detenuto e condannato da parte degli Stati Uniti a 175 anni di carcere, per aver fatto il suo dovere di giornalista, dovere che dovremmo fare anche noi come giornalisti. È un fatto molto grave, è un monito per tutti noi che facciamo inchieste. In sostanza ci stanno dicendo: se fate quello che ha fatto Julian, questo è quello che vi può succedere.

Qual è invece la situazione in Spagna? La ministra de Igualdad Irene Montero viene molto criticata per le sue proposte di legge, a mio parere molto avanzate.
Non conosco perfettamente la situazione in Spagna. Sono venuta a vivere qui dopo l’invasione dell’Ucraina e ho trascorso questo periodo con la guerra in corso. Posso dire che quello che sta succedendo a Irene Montero è la dimostrazione del fatto che lei è una donna di sinistra e una politica estremamente brillante e che gli avversari in qualche modo vogliono piegarla in tutto. Ecco cosa sta accadendo. La Ley Trans è molto criticata, ma non riesco a capire come possa dar fastidio un collettivo che ha un grande passato di lotte e un’evidente forza storica e che ha apportato grandi cambiamenti in Spagna. Davvero non comprendo come possa dar fastidio il fatto che a queste persone siano riconosciuti giusti e maggior diritti. Non riesco a capire perché tutto questo deve essere combattuto e oppresso, e soprattutto come possa rappresentare un problema per il vivere sociale e civile di una comunità».

Ricordiamo che sul caso Assange è stato pubblicato da Left in collaborazione con Amnesty International, Pressenza e Free Assange Italia il libro Free Assange a cura di Patrick Boylan con una serie di importanti contributi di autori come Noam Chomsky e il premio Nobel per la pace Adolfo Pérez Esquivel. Attualmente il presidente Colombiano Gustavo Petro si è esposto in prima persona chiedendo a Biden il rilascio di Julian Assange e agli Stati Uniti di far cadere tutte le accuse nei confronti del giornalista australiano editore di Wikileaks.

Il libro di Left Free Assange

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Qui il video dell’incontro Free Assange nella redazione di Left