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Solo l’Europa può scongiurare un futuro di guerre

La notizia, fornita in una intervista concessa al quotidiano La Repubblica il 19 novembre dal generale polacco Mieczyslaw Bienieck, ex primovice comandante strategico dell’Alleanza atlantica, secondo cui gli statunitensi armavano gli ucraini già dal 2014, è una notizia solo per i giornalisti italiani della grande stampa e per i loro lettori, sistematicamente disinformati e schiacciati ad arte sulla cronaca quotidiana. Naturalmente l’autorevolezza dell’informatore aggiunge qualcosa. Un segno che l’atlantismo furioso e persecutorio dei poteri mediatici italiani sta cedendo? Forse. Chi tuttavia non ha seguito lo logica binaria, quella del computer, “o sei con l’Occidente e sei con Putin”, ma ha attivato la mente dell’homo sapiens sapiens, sa che da millenni è consentito alla mente umana un più largo spettro di opzioni interpretative della realtà. Può fermamente condannare chi invade un altro Paese e conservare la capacità di collocare quella scelta in un complesso di fatti e di processi.

L’homo sapiens sapiens ha inventato la storia, la quale, come ha ricordato il geniale storico inglese Edward P.Thomposon, è «la scienza del contesto». La ricostruzione del tessuto delle vicende passate capace di illuminare le ragioni profonde del presente. Ed è la storia che oggi ci consente di collocare in uno scenario più vasto quel che è accaduto in Ucraina, e soprattutto in quale progetto di caos bellico rischiano di scivolare le sorti del mondo a partire da quella guerra.

In un rapporto del 2019 dell’Istituto di studi strategici Rand corporation, finanziato dal ministero della Difesa americana, si possono leggere limpidamente le ragioni geostrategiche del trascinamento della Russia nella guerra con l’Ucraina. Il titolo del rapporto è programmatico Overtexenting and unbalancing Russia (Sovraccaricare e destabilizzare la Russia) e fornisce anche informazioni di carattere storico, ad esempio sugli aiuti statunitensi a Kiev già nel 2014. Ma sono le indicazioni e le proiezioni strategiche a mostrare che gli Stati Uniti hanno continuato la Guerra fredda dopo il 1989, non solo circondando la Russia di basi militari Nato, collocate nei Paesi dell’ex Patto di Varsavia, ma anche con l’intenzione di puntare direttamente al collasso dell’ex nemico. Un collasso della Russia dopo quello dell’Urss.

«Fornire armi letali all’Ucraina, riprendere il sostegno ai ribelli siriani, promuovere un cambio di regime in Bielorussia, sfruttare le tensioni armene e azere», sono solo alcune delle raccomandazioni più urgenti del Rapporto. Ovviamente oggi non costituiscono grandi novità per il cittadino informato, ma sono rivelatrici di una strategia di ampio respiro e soprattutto di un metodo. Quello «sfruttare le tensioni armene e azere» illumina, ad esempio, l’interesse primario degli Usa e della Nato per i conflitti interetnici e le questioni di confine, che possono dar luogo a scontri armati e a guerre, occasioni preziose per lo smercio di armi e per la penetrazione in terre e Paesi ben lontani dal Nord Atlantico. Ha fatto scuola l’ex Jugoslavia, trascinata e distrutta dai conflitti intestini che hanno riportato la guerra in Europa e aperto nuove strade alla presenza degli Usa nei Balcani.

Trascinare la Russia in nuovi conflitti ha uno scopo evidente. «La Crimea, l’Ucraina orientale e la Siria sono un salasso per l’erario russo e per il bilancio della difesa», si legge ancora nel rapporto. Un passo verso un possibile collasso economico dell’ex impero apre scenari imprevedibili e di grandi opportunità per le classi dirigenti statunitensi, e gli alleati Nato. Di sicuro il supporto economico smisurato fornito da Washington a Kiev, per una devastante guerra per procura, è un investimento da cui si attendono sostanziosi ritorni. E tuttavia il nostro racconto storico, la ricostruzione minimale del “contesto” – ci sarebbe da mettere nel conto anche il nazionalismo russo – è gravemente monco se non si tiene conto dell’intero disegno geostrategico che gli Usa stanno perseguendo.

La guerra contro la Russia è solo una tappa verso il conflitto con l’avversario più temuto, la Cina. Un paese che detiene mille miliardi del debito pubblico americano. Gli Usa hanno già incominciato a creare le tensioni per mettere in difficoltà Pechino con una serie di iniziative. Come ha di recente ricordato John Ross, giornalista e scrittore americano: «Per la prima volta dall’inizio delle relazioni diplomatiche tra Stati Uniti e Cina, il presidente Biden ha invitato un rappresentante di Taipei all’insediamento di un presidente americano. Il presidente della Camera dei rappresentanti, Nancy Pelosi, il terzo più alto funzionario degli Stati Uniti in ordine di successione presidenziale, ha visitato Taipei il 2 agosto 2022. Gli Stati Uniti hanno chiesto la partecipazione di Taipei alle Nazioni Unite. Gli Stati Uniti hanno intensificato le vendite di armamenti ed equipaggiamenti militari all’isola. Le delegazioni statunitensi in visita a Taipei sono aumentate. Gli Stati Uniti hanno aumentato il loro dispiegamento militare nel Mar Cinese Meridionale e hanno inviato regolarmente navi da guerra statunitensi attraverso lo Stretto di Taiwan. Le forze per le operazioni speciali statunitensi hanno addestrato le truppe di terra taiwanesi e i marinai della Marina taiwanese».

Dunque nei prossimi anni e decenni la Nato a guida statunitense ci prepara uno scenario di tensioni internazionali e di possibili conflitti armati di portata inimmaginabile. Chiudere gli occhi di fronte a questa evidentissima e minacciosa prospettiva e non cogliere la drammatica importanza di una pace ragionevole tra Russia e Ucraina appare oggi una responsabilità inaggirabile delle classi dirigenti europee. Gli Usa, rafforzando ed estendendo la Nato, stanno imprimendo una esasperata torsione bellicista alle relazioni fra Stati. Ricordiamo che essi hanno 800 basi militari sparse per il pianeta. Perché, a che scopo? Quale progetto di dominio globale li ispira?

I governi, il ceto politico, la stampa italiana non possono più esaltare la fedeltà atlantica come un pegno di pace e di sicurezza, perché essa si appalesa ormai come un progetto di aggressività imperiale degli Usa. Quando, a chi sostiene la necessità di superare la Nato, si obietta – nei casi più benevoli – che “non si può essere antiamericani”, occorre ribattere che la fine di quella alleanza è innanzitutto nell’interesse del popolo statunitense. Gli Usa spendono annualmente intorno agli 800 miliardi di dollari in armamenti, un cifra spaventosa, investita nella distruzione di città e territori lontani, nell’uccisione di essere umani distanti migliaia di chilometri da Washington, risorse finanziarie che sono sottratte alla sanità americana, alla scuola, all’assistenza ai milioni di poveri che affollano quella società.

Ma la Nato e l’indirizzo bellicista delle sue prospettive mostrano il loro essere un efficiente relitto sopravvissuto al secolo passato, di fronte al quadro drammatico che oggi ci presenta il pianeta. Di quel che sta succedendo alla Terra si occupano una volta l’anno esperti e uomini di Stato nelle varie e sempre inconcludenti Conferenze sul clima dell’Onu. Ma noi siamo entrati in una fase inedita nella vicenda del genere umano con la testa girata verso il ‘900. Nei prossimi anni lo scioglimento dei ghiacciai potrà lasciare senza acqua fluviale sterminate popolazioni dell’Asia, la nostra Pianura padana col suo sistema idrografico disseccato, intere regioni dell’Africa desertificate dalla siccità.

Che ne faremo dei milioni di essere umani in fuga? Non è più chiaro della luce del sole che le migliaia di miliardi di dollari ed euro, dilapidati da tutti gli Stati in armamenti, andrebbero spesi per aiutare i Paesi poveri a convertire le loro agricolture, a ripristinare le foreste (sostenendo ad es. il Brasile di Lula a proteggere ed estendere l’Amazzonia), ad abbandonare l’uso dei carburanti fossili? Gli Usa, il Paese più ricco e potente del pianeta, con risorse straordinarie di cultura, tecnologie, intelligenze, dovrebbero essere la guida di un nuovo ordine multilaterale del mondo, capace di affrontare le grandi sfide ambientali e invece intendono trascinarlo in un’avventura potenzialmente mortale per responsibilità, peraltro, di una sola parte delle sue élites dirigenti.

Dunque è ormai evidente, anche a chi non vuol vedere, che oggi solo l’Europa, può spezzare questo disegno dissennato condotto da uomini presi da delirio di onnipotenza. Così come bisognerebbe che i media italiani cominciassero ad accorgersi di essere, volenti o nolenti, in quanto filoatlantici, sostenitori di uno progetto di guerra perpetua. Se oggi l’Europa, divisa su tutto tranne che nelle scelte contro i propri interessi e nella fedeltà agli Stati Uniti, non riesce a ritrovare il proprio progetto originario di forza di pace, non si comprende più quale sia la sua funzione oltre la moneta unica.

Per niente sani

Dopo una pandemia che ha messo in ginocchio l’Italia non solo dal punto di vista sanitario ma soprattutto dal punto di vista economico e sociale, la cosa più stupida che si potrebbe fare sarebbe fingere che il nostro sistema sanitario si sia dimostrato all’altezza. L’hanno fatto.

Nella bozza della legge di Bilancio per il 2023 per la sanità vengono previsti due miliardi di euro in più per il fabbisogno standard ma di questi 1,4 miliardi di euro sono da destinarsi solo al caro bollette. Avanzano quindi solo 600 milioni dopo avere pagato i costi delle luci e dei macchinari, una cifra che non basterà nemmeno a fronteggiare l’inflazione galoppante. Si può dire che la legge di Bilancio di questo governo consiste in un taglio alla sanità (l’ennesimo) dopo una pandemia. Non serve essere degli esperti per capire quanto tutto questo sia irresponsabile e dannoso.

Come un filo rosso che attraversa tutte le decisioni del governo anche in questo caso a pagare saranno i lavoratori. “Alla sanità del 2023 vengono destinate certo più risorse, ma per bollette e vaccini e farmaci anti Covid, non per servizi e personale. Niente per il Contratto di lavoro 2019-2021, che prevede incrementi pari a un terzo del tasso inflattivo attuale, e nessun finanziamento per quello 2022-2024», denunciano le organizzazioni sindacali dei medici, veterinari e dirigenti sanitari.

Anaao assomed, Cimo-Fesmed, Aaroi-Emac, Fassid, Fp Cgil medici e dirigenti Ssn, Fvm federazione veterinari e medici, Uil Fpl e Cisl medici esprimono preoccupazione e aggiungono: «Le condizioni di lavoro dei dirigenti medici, veterinari e sanitari, divenute insopportabili, anche a causa di una pandemia non ancora superata, alimentano uno stato di crisi della sanità pubblica che ha ridotto il Ssn a malato terminale».

«Le fughe di massa dei professionisti, insieme con l’insoddisfazione e lo scontento di chi non fugge – dicono i sindacati – suonano un allarme che, però, non arriva alle orecchie del ministro della Salute e del governo che non vedono organici drammaticamente ridotti al lumicino al punto da mettere a rischio l’accesso dei cittadini alla prevenzione e alle cure, insieme con la loro qualità e sicurezza».

«Servono – rincarano i sindacati – investimenti per le retribuzioni e per le assunzioni, perché la carenza di specialisti non può essere colmata dalle cooperative dei medici a gettone, pagati per lo stesso lavoro il triplo dei dipendenti e gratificati di una flat tax che porta a livelli intollerabili anche il differenziale contributivo».

«Per un adeguato rilancio del Ssn servono risorse per allineare spesa sanitaria a media europea, coraggiose riforme e visione lungo periodo. Altrimenti, Ssn è condannato ad una stentata sopravvivenza e finirà per sgretolare un pilastro della nostra democrazia», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.

L’obiettivo non dichiarato è facilmente intuibile: distruggere la sanità pubblica è il metodo migliore per pompare la sanità privata. La salute tolta dal cassetto dei diritti e messa sulla bancarella del mercato è il sogno recondito di questa destra (che in alcune regioni come in Lombardia è riuscita a realizzare). Difendere la sanità pubblica oggi ancora di più è un manifesto politico.

Buon venerdì.

Senza immigrati l’Italia non ha futuro

Potenza, capoluogo sofferente di una regione del sud, la Basilicata, che nonostante l’abbondanza di risorse si trova ad essere agli ultimi posti per crescita del Pil, maglia nera sugli indicatori di precarietà e basso reddito da lavoro (anticipazioni del rapporto Svimez 2022).

Sono quasi le 7 del mattino, è una bella giornata di questo inizio novembre fin troppo caldo, e Kumba prepara in fretta le ultime cose prima di andare al lavoro. Lei, gambiana di 36 anni, è sbarcata a Lampedusa nel 2014, riuscendo a varcare i confini della Fortezza Europa e trovando subito accoglienza. Dopo 3 anni di incertezza, finalmente si è vista riconoscere una delle forma di protezione previste in Italia, trovando posto nel 2017 all’interno del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar). Qui, ha avuto la possibilità di imparare l’italiano ed un mestiere, grazie ai tirocini organizzati presso alcune aziende del territorio dallo Sprar della Cooperativa sociale La mimosa di Tito (Pz). È uno dei 24 Comuni lucani con più di 5 mila abitanti (solo 11 superano i 10 mila), mentre gli altri 117 ne hanno meno. Tutti più o meno afflitti dalle problematiche tipiche che investono gran parte del Meridione, cui si sommano quelle specifiche delle aree interne, la “parte marginale” dello Stivale dove il lavoro e le infrastrutture latitano, i centri si spopolano, e i servizi di base si contraggono, con i Comuni che cercano di sopperire in ogni modo ai tagli. Indicatori del tutto negativi, ma che rischiano di mettere in ombra tante piccole realtà, modelli alternativi di cooperazione, proposte di sviluppo diverse dai canoni abituali, tra cui alcune legate al mondo dell’accoglienza.

E così, nell’arco di quattro anni Kumba si è inserita lavorativamente, uscendo dal sistema di accoglienza e guadagnandosi infine un contratto di lavoro a tempo indeterminato. «Adesso posso dire che sto bene» dice questa giovane donna già grande, che parlando del suo lavoro racconta: «Prima ho studiato, ora so fare tutto: pizza, pane, torte, dolci, panettoni, biscotti, cioccolata. I colleghi e la mia titolare sono molto bravi, lei ha fatto tante cose per me, per insegnarmi l’attività di pasticcera. Un giorno magari aprirò la mia pasticceria, ma non è ancora arrivato il momento. Piano piano». Intanto, nel 2021 è riuscita a portare a termine le procedure per il ricongiungimento familiare, portando con sé quattro dei suoi cinque figli, e oggi, in attesa del piccolo Hasan, continua a lavorare presso il  forno La Delizia, qui nel capoluogo dove si è trasferita una volta arrivati i suoi figli.

Sarà un bel + 6 per l’anagrafe, ma per qualcuno che arriva da fuori, sono molti gli abitanti che vanno via. Per farsi un’idea del fenomeno, gli ultimi dati licenziati dall’Istat a marzo 2022 raccontano di come tra il 2019 e il 2020 solo 5 dei Comuni lucani non hanno subito cali di popolazione, risultati per altro più consistenti proprio a Potenza (- 973 abitanti) e nell’altro capoluogo di provincia Matera (- 736). È un fenomeno non solo lucano, ma esteso a tutte le aree interne d’Italia, dove in dieci anni la popolazione residente si è più che dimezzata nei comuni con meno di mille abitanti, mentre in quelli fino a 5mila abitanti la perdita è stata del 20% (v. su Left in edicola l’intervista di Federico Tulli al demografo Gustavo De Santis).

Le cause sono sempre le stesse, un inverno demografico che porterebbe la Basilicata ad avere nel 2035 la stessa popolazione dei primi dell’Ottocento, con un terzo di essa costituito da  ultra sessantaquattrenni, e l’emigrazione incessante di giovani che vanno via per proseguire altrove gli studi o in cerca di lavori più o meno specializzati. Eppure, nonostante tutto, domanda di lavoro ce n’è, anche se circoscritta soprattutto a settori come la ristorazione e l’agricoltura.

A portarmi all’appuntamento con Kumba ci ha pensato Gabriel Boubakar, che in Italia è arrivato 12 anni fa dal Niger, passando tutta la trafila e una miriade di lavori prima di “attraversare lo specchio” e iniziare a lavorare proprio nell’accoglienza. A Tito ci vive dal 2017, insieme alla moglie Blessing, che lo ha raggiunto nel 2016; insieme hanno preso una casetta delle tante sfitte nel centro storico del paese e nel 2020 hanno avuto una bella bambina che oggi frequenta insieme a 16 piccoli compagni un nido. Vorrei chiedergli quanto la scelta sia legata al lavoro, ma previene la mia domanda confidandomi che «in un piccolo centro si vive meglio, si ha l’occasione di conoscere molte persone, superare le diffidenze», e che in ogni caso ha intenzione di investire in un suo futuro qui, anche se sta provando ad aprire insieme alla moglie un negozio di generi alimentari etnici a Potenza, 20 chilometri più in là. Gli domando allora se ha avuto problemi a trovare casa. «Non è stato troppo difficile – risponde -, ma a me mi conoscono tutti. Per altri è più complicato».

Sembrerebbe un paradosso, eppure malgrado la quantità di case sfitte (quasi centomila) e la presenza di proprietari pronti a cedere i propri immobili a poco pur di liberarsi di quella che per molti è solo un problema, trovare casa per molti è un ostacolo quasi insormontabile. «Anche quando hanno un contratto di lavoro in regola, e ci vuole qualcuno che faccia da garante: il datore di lavoro, un conoscente, la struttura che ha seguito il percorso di accoglienza» mi conferma Gabriel.

Lo saluto, e provo a raggiungere Birûsk e la sua famiglia a Pietragalla, paese lucano con poco più di 3.500 abitanti. Lui, curdo di nazionalità turca scappato dal suo Paese per paura di ritorsioni politiche, in Italia è arrivato nel 2021, a bordo di una barca che dal Montenegro è approdata a Rimini, potendo contare da subito sulla rete di solidarietà predisposta dall’Arci. Oggi Birûsk è ospite insieme ad altre sei famiglie del progetto Sai gestito dalla Cooperativa sociale Filef Basilicata, che permette a ognuna di loro di vivere in un appartamento nel centro storico del paese. A dispetto delle statistiche che vorrebbero questi centri destinati a spegnersi lentamente, qui si trova bene, come la moglie Hazal e soprattutto i loro figli, Ahmet, 12 anni, che frequenta la seconda media in una classe con 15 studenti e gioca a calcio nella squadra locale, e Hakan, che va alle scuole primarie. «Mio marito ora lavora a Potenza, nell’edilizia, il lavoro va bene e non abbiamo più bisogno dell’assistenza» racconta Hazal, ma a tradurre in un italiano quasi impeccabile è Ahmet. «Pensavamo di spostarci a Potenza – continua -, ma i nostri figli ci hanno chiesto di restare qui, hanno tanti amici. Anche con noi tutti sono gentili e ci danno una mano. Ora cerchiamo casa, vorremmo comprarla». Mi tornano in mente le parole di alcuni operatori ascoltati in questi giorni: in un piccolo centro come questo, si instaurano rapporti di vicinato che rendono la vita più semplice a chi viene accolto, e d’altra parte, per una piccola comunità, anche poche persone in più sono una preziosa risorsa.

Perché insieme ai giovani e qualche famiglia, nelle aree interne ad andare via sono anche i servizi di base, mentre l’arrivo di nuovi nuclei familiari e minori permette di tenere in piedi scuole primarie e scuole medie, oltre a portare all’apertura di nuovi servizi, ad esempio i Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, di cui beneficiano tutti. È un sistema che sembra funzionare, non c’è da stupirsi quindi se in Italia la rete dei Comuni coinvolti nel Sistema accoglienza e integrazione sia composta nel 43% dei casi da Comuni che hanno meno di 5mila abitanti.

Kumba, Gabriel e le loro famiglie sono tra quei 12.579 “soggiornanti non comunitari” presenti in regione, persone titolari di un permesso di soggiorno valido, per protezione, per motivi di lavoro o familiari, che si sommano agli altri 22.863 stranieri residenti stabilmente in Basilicata. In attesa di farcela, come Birusk, altri 1.526 migranti (il 2,8 per mille della popolazione residente) presenti a fine 2021 nel sistema di accoglienza regionale, dei quali 943 collocati nel limbo dei Cas o in altri centri e 583 nei 30 centri della rete Sai. In uno Stato, l’Italia, che accoglie 79.938 persone, solo lo 1,3 per mille del totale della popolazione (dati del Dossier statistico sull’immigrazione 2022 elaborati dal Centro studi e ricerche Idos). Non c’è nessuna invasione, né qui né altrove, nessuna necessità di chiudere ancora di più i confini per proteggersi da una “sostituzione etnica” o “difendere i lavoratori italiani”, nessuna emergenza: l’unica emergenza semmai è quella ciclica e routinaria dei braccianti stranieri transitanti in regione per lavorare stagionalmente nelle campagne. E non c’è nemmeno, a quanto pare, uno spreco di risorse, perché “i migranti non vogliono restare in Italia, figuriamoci poi nelle aree interne”. Non tutti restano lì dove sono stati accolti, ma come tutte le persone di questo mondo anche i migranti, in presenza delle giuste condizioni si fermano, anche nei piccoli centri.

La discussione e le problematiche da affrontare sono ampie, ma bisognerebbe interrogarsi una buona volta non solo su quali siano l’impatto sociale dell’immigrazione straniera sulle aree interne del Paese e gli effetti sullo sviluppo locale, ma anche su quali possano essere gli interventi mirati a migliorare l’integrazione e le misure da mettere in campo per consentire tanto ai migranti (quanto ai residenti) di restare. Non è un discorso marginale, così come non sono affatto secondarie le aree interne, che in Italia occupano una porzione del territorio che supera il 60% della superficie nazionale, ospitando il 53% circa dei Comuni italiani (4.261) e oltre 13,54 milioni di abitanti (il 23% della popolazione italiana).

Il tanto criminalizzato modello Riace ha mostrato come si potesse coniugare l’accoglienza dei rifugiati nelle tante case sfitte, rilanciare le botteghe artigiane e creare solidi legami tra immigrati stranieri e popolazione locale, e l’attuale sistema Sai, con tutti i suoi limiti, può rappresentare un nuovo modello di sviluppo per tante aree interne del nostro paese. Di misure e formule da poter adottare ce ne sarebbero tante, e vengono fuori come sempre soprattutto dal dialogo con il cosiddetto Terzo Settore.

«Housing sociale, forme di assistenza al reddito, corsi di formazione anche dopo la fine dell’accoglienza e concrete opportunità di stabilizzarsi a quanti, lavorando stagionalmente, sono costretti a migrazioni circolari tra l’Italia e il proprio Paese di provenienza» suggeriscono dall’Arci Basilicata, una delle realtà più propositive del circuito di accoglienza lucano, tra gli artefici negli anni scorsi di progetti volti all’acquisizione di competenze specialistiche dei migranti e al loro inserimento nel territorio. «Formazione, accompagnamento allo studio, accordi con l’Anci per risolvere il problema abitativo» fanno eco dalla Filef Basilicata, che rappresenta un’altra importante realtà in regione, in prima fila in progetti volti a trovare una sistemazione stabile a chi voglia fermarsi a vivere qui. Altre proposte sono quella delle “comunità accoglienti”, portata avanti ad esempio dalla Cooperativa sociale Iskra, che sottolinea la volontà di molte famiglie di mettersi in gioco, anche con affidi familiari “in supplenza” e in generale la buona predisposizione soprattutto dei piccoli centri ad accogliere. O impegnarsi in maniera più diretta a sostenere l’auto-imprenditorialità, come cerca di fare in regione la cooperativa il Sicomoro, sottolineando il forte dinamismo dei giovani immigrati, abituati dalla sorte a doversi reinventare continuamente. Tutti interventi che si potrebbero estendere, se non altro, anche a chi, in attesa di protezione, vive a volte per anni nel limbo dei Centri di accoglienza straordinaria (Cas), dove grazie ai decreti Salvini è stata tagliata nei fatti ogni misura volta ad un’effettiva possibilità di integrazione, dall’istruzione alla formazione alla reale integrazione.

Ma ridurre la questione solo in termini economici, come si fa sui tavoli istituzionali quando non si grida alla caccia all’uomo, vedere il migrante semplicemente come risorsa produttiva, valore aggiunto, contributo al Pil locale e nazionale (comunque importante), o possibilità di ripopolamento, è un discorso quanto mai riduttivo. Un tema che spesso sfugge ai dati è il fattore umano, la possibilità offerta dal cambiamento, l’arricchimento in termini sociali offerto da sempre dall’immigrazione quando è accompagnata dall’integrazione. Specchio di Paese che invecchia e si richiude sempre più su se stesso, nelle aree interne circolano con fatica anche idee, culture, lingue, mentre l’impatto di queste piccole comunità, seppure spesso di passaggio, provoca un effetto domino positivo anche nei residenti. Un meccanismo da maneggiare con cautela, ma che apre spesso nuovi scenari. E magari in un paese dove non c’è un teatro, ecco che una piccola compagnia viene ospitata per fare laboratori aperti a tutti, rivoluzionando per qualche mese la vita di tutti i giorni, un laboratorio musicale permette a giovani del posto di guadagnare con la propria passione e confrontarsi con musiche da tutto il mondo, e ragazzini che non hanno mai lasciato la propria regione possono parlare un’altra lingua con il proprio compagno di banco. L’accoglienza pianta semi per il futuro di tutti.

 

Trent’anni di Oylem Goylem. La straordinaria avventura del teatro yiddish di Moni Ovadia

Per festeggiare il trentennale di Oylem Goylem Moni Ovadia riporta in scena questo suo applaudito spettacolo che parla di esilio, di realtà umana, di vulnerabilità mescolando cabaret, musica, canzoni, storielle. Al centro la cultura yiddish e la diaspora ebraica. Per l’anteprima l’attore e regista ha scelto il Bolli circus della Fondazione Devlata di Sarzana, che si occupa di attività umanitarie e aiuta i ragazzi down attraverso la cultura e il teatro come forma di socialità. «Vengo spesso qui – racconta Moni Ovadia a Left – perché si è creata una grandissima amicizia con Marina, presidente della Fondazione Devlata, e con suo figlio Bolli a cui è dedicato un bellissimo chapiteau. A lui dedico il mio spettacolo.

Moni Ovadia come è stato ripartire proprio da qui?
È stato magnifico fare le prove e il debutto in questo spazio, poiché c’è il pubblico ideale, con persone di ogni fascia di età. Sembrava di essere ritornati all’origine di questa teatralità proveniente dal mondo yiddish grazie a questo tendone da circo. Uno chapiteau fu proprio il luogo dove, in Romania, Abraham Goldfaden, padre del teatro Yiddish, concepì il suo teatro dell’esilio, mentre c’era la guerra russo-turca (1877-1878) e molti ebrei erano affluiti nel Paese sia come soldati, sia come commerciati piccoli e grandi. Proprio in quella temperie Abraham Goldfaden si mise seduto in un tendone di circo. Chiedeva alle persone che incontrava se conoscessero storie o canzoni. Così cominciò a raccogliere molti materiali contribuendo alla nascita del teatro Yiddish che poi ebbe alcuni decenni di grande fortuna e sviluppo prima della catastrofe della Shoah.

Ma c’è chi poi chi ha voluto riprendere quella straordinaria tradizione.
Sì, tanto che oggi ci sono ancora teatranti, in ogni parte del mondo, che vogliono continuare questa tradizione a cui, tra l’altro, è stata anche dedicata una fiction completamente in lingua Yiddish. Si tratta di un mondo che manda bagliori di vita nonostante la lingua sia ormai crepuscolare.

Oylem Goylem è uno spettacolo nato da tante esperienze che le sono state di ispirazione. Vogliamo ripercorrerne alcune?
Avevo un gruppo musicale chiamato Gruppo folk internazionale, che ha riproposto musica tradizionale ed internazionale. In seguito cambiò forma perché il nostro genere musicale si fece contaminare dagli altri finendo così col fare anche concerti teatrali. Viaggiando in giro per l’Europa con i nostri spettacoli mi è capitato di incontrare esperienze singolari che mi hanno influenzato molto. Una di queste è stata quella di un gruppo/band di professori universitari di Francoforte, si trattava di musicisti, specializzati nell’ottone, ma anche di amatori coordinati magistralmente dal grande musicista Heiner Goebbels, che in seguito è diventato uno dei più grandi compositori europei. Il gruppo formò un’orchestra che si chiamava “Sogenanntes linksradikales blasorchester”, in italiano si potrebbe chiamare l’orchestra di fiati dei cosiddetti radicali di sinistra. Quest’orchestra faceva parodie musicali e clownery, che facevano molto ridere ma non mancavano mai alcune provocazioni. Successivamente ho avuto modo di incontrare il Willem Breuker Kollektief, un gruppo musicale olandese di jazzisti. Anche loro facevano clownery, gag surreali e numeri teatrali buffi. Anche grazie all’influenza di queste esperienze nacque l’idea di poter dar vita a una figura teatrale nuova.

Con la figura del musicista che diventa anche attore?
Esatto, la mia idea era creare una figura della drammaturgia teatrale. A differenza degli esempi che avevo incontrato, ho coltivato quest’idea del musicista attore non solo per usarla nella dimensione umoristica e comica ma anche in quella lirica e drammatica. La figura del musicista attore non deve essere scambiata per quella dell’attore che suona uno strumento. Io ho pensato a un musicista che diventa attore tramite la relazione intima col proprio strumento, e grazie anche alle posture del suo corpo, i suoi gesti e le sue espressioni facciali.

Con questa nuova creazione nacquero spettacoli di cui va giustamente molto fiero. Vogliamo ricordarne qualcuno insieme?
Sicuramente lo spettacolo che feci sulle mamme col sottotitolo Il crepuscolo delle madri, che mi era stato suggerito dall’arrivo della pecora Dolly nata dalla clonazione, così dentro di me mi chiesi se avrebbero davvero sostituito il parto con la clonazione, ma naturalmente si trattava di un’iperbole. Ci costruii uno spettacolo, che considero stilisticamente il mio più importante. Poi ho fatto Dibujo, uno spettacolo sulla Shoah dove i musicisti attori rappresentano l’orchestrina del lager, e due attori incarnavano uomini e donne deportati nel lager. Io interpretavo l’unico sopravvissuto, che raccoglieva gli impulsi di questa memoria. Questa figura appartiene alla dimensione mistico/leggendaria del mondo ebraico del centro-est-europeo. Questo personaggio è un morto di morte violenta e prematura, che torna per possedere un vivo perché non aveva potuto avere una morte degna di un essere umano, quindi con il conforto dei suoi cari. Il destino dei morti della Shoah non è stato però questo, perché come sappiamo hanno avuto morti orribili.

E arriviamo così allo spettacolo Oylem Goylem, che ha avuto molti riconoscimenti e libri dedicati. Cosa prova nel riportarlo in scena?
Mi rende molto felice riprenderlo a trent’anni di distanza grazie a una coproduzione del Centro Teatrale Bresciano e della Corvino Produzioni (nonostante non abbia mai smesso di portarlo in scena con più di mille spettacoli in tutto il mondo). Chiaramente alcune cose sono cambiate, gli anni sono passati, abbiamo aggiunto nuove sonorità, i miei racconti si muovono in maniera diversa, e per la prima volta in un gruppo sempre composto da soli uomini finalmente c’è una donna, la violoncellista Giovanna Famulari che è una musicista stellare. Nonostante gli anni la bussola rimane sempre quella del manifesto di Oylem Goylem, quindi di glorificare l’esilio come condizione di splendore dell’essere umano fragile che rivela la sua grandezza.

In questo spettacolo celebra la cultura yiddish. Il fondatore del teatro yiddish israeliano, Shmuel Atzmon, l’ha definita il più importante rappresentante al mondo nel campo della cultura yiddish. Qual è stato il suo approccio?
Shmuel Atzmon mi ha fatto riconoscimenti perché ho liberato l’Yiddish del dopo guerra e del dopo catastrofe dagli elementi troppo nostalgici e celebrativi. Io cerco di fare un teatro per l’oggi e per il domani e lo dimostra il fatto che nei miei spettacoli il pubblico è molto vario. Purtroppo spesso il teatro yiddish è stato la rappresentazione di una oleografia nostalgica. Io ho cercato di valutare la cultura yiddish come energia, materia, spiritualità e profondità, al fine di usare questo straordinario materiale espressivo umano ed etico per un teatro dell’oggi e del domani.

Rimanendo sempre in tema yiddish come definirebbe la sua forma di umorismo?
L’umorismo yiddish inaugura una forma di pensiero folgorante, il pensiero umoristico paradossale, ma non è fatto per ridere, la risata è un effetto collaterale sano e bellissimo.

Quanto è importante il teatro per la didattica della Shoah, per abbattere i pregiudizi e gli stereotipi non solo contro gli ebrei ma anche contro ogni forma di minoranza o verso chiunque possa essere considerato diverso dagli standard di un determinato Paese?
Il contributo del teatro è fondamentale perché non c’è nulla che può sostituirlo. Si istaura una relazione viva tra gli spettatori e l’evento scenico, e inoltre gli spettacoli possono cambiare a seconda della condizione sia degli interpreti che del pubblico. Il teatro ha poi uno statuto che lo rende fondamentale, e lo spiega bene Gigi Proietti in due versi di un suo sonetto in romanesco intitolato Viva er teatro, dove nei primi due versi recita “Viva er teatro, dove è tutto finto, ma gnente c’è de farzo”. Questo perché il teatro ha a disposizione “la pietas” della finzione, che gli permette di dire le cose più spietate e più paradossali perché viene protetto da essa. Per esempio il teatro può raccontare l’orrore senza che chi vede l’orrore rimanga pietrificato dal volto della Medusa, perché c’è la pietas della finzione. Da questo punto di vista il teatro è l’unico vero luogo di verità disponibile agli esseri umani.


Il 24 novembre
alle ore 20.45 Moni Ovadia presenta lo spettacolo al Nuovo teatro Lavaroni di Artegna per l’apertura della stagione 2022/2023 degli Amici del teatro. Dal 25 al 27 al Teatro comunale di Ferrara  Dal 6 all’11 dicembre sarà al Teatro fonderie Limone di Moncalieri (Torino)  Il 29, il 30 e il 31 dicembre sarà in scena al Teatro sociale di Brescia, il 31 con un brindisi con gli spettatori

Foto di Enrico Zappettini della Fondazione Devlata. Il ragazzo che Moni Ovadia abbraccia è Bolli a cui hanno dedicato il circo.

Andrea Vitello è specializzato in didattica della Shoah e graduato a Yad Vashem. Ha scritto il libro, con la prefazione di Moni Ovadia, intitolato Il nazista che salvò gli ebrei. Storie di coraggio e solidarietà in Danimarca, (Le Lettere 2022). Scrive su Pressenza e su Left

È una guerra ai poveri

Chi si preoccupa di povertà da sempre ora è davvero preoccupato. Alleanza contro la povertà (gruppo in cui siedono associazioni che vanno da ActionAid e Save the children ai sindacati all’Anci, passando per Comunità di Sant’Egidio e Forum Nazionale del Terzo Settore) parla di un mancato contatto con la realtà da parte del governo. Forse è anche peggio di così: Meloni e compagnia sanno benissimo cosa stanno facendo e per chi devono farlo.

«Preoccupante annunciare la soppressione di una misura di contrasto alla povertà a partire dal 2024 senza delineare alcuna ipotesi di sostituzione. Intervento che tra l’altro andrebbe a definirsi in un periodo che si preannuncerebbe di recessione», rileva l’Alleanza contro la povertà: «La logica non può essere quella di tagliare uno strumento, ma di renderlo più efficiente ed efficace. Da tempo l’Alleanza sostiene che sono certamente necessarie modifiche per migliorare il Rdc per rispondere alla crescente popolazione in condizione di bisogno. Si tratta di modifiche che vanno dall’ampliamento della platea degli aventi diritto all’adeguamento degli importi in relazione all’aumento del costo della vita fino al rafforzamento effettivo dei percorsi di politiche attive del lavoro».

L’abolizione del Reddito di cittadinanza, sottolinea il gruppo, colpisce «quelle famiglie in povertà in cui il componente abile al lavoro risulterebbe colpevolizzato rispetto al fatto di non riuscire ad essere occupato entro 8 mesi». Ma l’occupabilità dei percettori è un concetto molto relativo e se le risposte sono quelle che dice il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon la situazione sarà nerissima. «Cosa succederà se questi 660mila non troveranno lavoro?», gli ha chiesto ieri a Radio24 il giornalista Simone Spetia. «Se lo cercheranno», è stata la risposta.

Come si dice da tempo molti di coloro che non avranno più accesso al Reddito di cittadinanza (i cosiddetti “occupabili”) hanno più di 50 anni, una basso titolo di studio e una povertà che non è solo economica. I poveri assoluti tra l’altro si trovano anche all’interno di famiglie in cui qualcuno è occupato ma riceve uno stipendio talmente basso da non riuscire a garantirsi una vita dignitosa. Per questo secondo l’Alleanza contro la Povertà «ridurre la durata per il 2023 e rendere più stringenti le condizioni per i lavoratori considerati occupabili è un intervento che non tiene conto di tutti i dati ufficiali e dei principali studi che mostrano quanto la platea presa in considerazione abbia bisogno di essere inserita in adeguati e supportati percorsi di formazione e riqualificazione, di inserimento lavorativo o di promozione dell’auto-imprenditorialità cooperativa». «Abolire un sussidio che aiuta 3 milioni e 380 mila individui è ingiusto e rischioso per la tenuta sociale del Paese», scrivono. Tenetelo a mente perché quando accadrà Meloni e compagnia ricominceranno con il solito metodo del vittimismo o del complotto.

Buon giovedì.

Nella foto: persone in fila per presentare la domanda per ottenere il Reddito di cittadinanza, Torino, 6 marzo 2019

Cyber stalking. Quando la violenza contro le donne corre online

La violenza di genere e l’abuso online sono strettamente collegati. Molestie sessuali, bullismo di genere, cyber stalking, app installate di nascosto nei telefonini sono tutte forme di abuso virtuale agite dagli uomini contro donne e ragazze. Combattere queste forme di violenza di genere online è l’obiettivo del progetto DeStalk, “detect and stop stalkerware and cyberviolence against women”, che nasce con l’intento di avviare in Italia la prima campagna di sensibilizzazione coinvolgendo la rete dei centri antiviolenza D.i.Re. e la rete dei centri per uomini autori di violenza di genere Relive, oltre che Polizia postale e delle comunicazioni.

In Europa una donna su dieci ha già subito violenze informatiche fin dall’età di 15 anni, sette donne su dieci sono state attaccate attraverso cyberstalking e hanno subìto almeno una forma di violenza fisica o sessuale da parte di un partner: sono alcuni dei dati raccolti dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (European institute for Gender equality). Allo stesso modo, il 71% degli autori di violenza domestica controlla il computer della partner e il 54% ne traccia i cellulari con software specifici.

A curare il progetto DeStalk – spiega a Left la project manager Dimitra Mintsidis – è il Wwp european network, una rete di organizzazioni che si occupano di violenza domestica «proprio lì dove accade, nel comportamento di chi la agisce, principalmente uomini», con 70 membri in 30 Paesi europei.

Qual è il vostro impegno nel progetto e con quale approccio affrontate la questione?
La nostra principale missione è combattere la violenza maschile lì dove accade, attraverso il trattamento degli autori di violenza, nella maniera più efficace possibile, mantenendo sempre il focus sulla sicurezza delle vittime. Quindi per noi è molto importante la collaborazione con la rete dei centri antiviolenza e che si vada a istituzionalizzare un approccio sistemico per una risposta coordinata dei servizi. Oltre che dedicarci al miglioramento di pratiche e strumenti dei servizi specializzati, ultimamente stiamo lavorando allo sviluppo di campagne informative. Per arrivare ai decisori politici, per raggiungere quante più persone possibile e creare cultura, per permettere alle donne di tutelarsi al meglio e di sapere a chi rivolgersi e, soprattutto, per spostare l’attenzione, quando si parla di violenza, da chi la subisce a chi la agisce, responsabilizzando l’autore della violenza.

Cos’è il cyberstalking? E lo stalkerware? Internet e le tecnologie sono strumenti pericolosi per la libertà delle donne?
Il cyberstalking è lo stalking agito in modi nuovi e più efficienti, consiste in comportamenti ripetuti e perpetrati dalla stessa persona come l’invio di messaggi via e-mail, sms o app di messaggistica come Whatsapp o Telegram, con contenuti offensivi o minacciosi. È anche la pubblicazione di commenti oltraggiosi sui social. Oppure il monitoraggio e tracciamento della vittima: lo stalkerware permette l’osservazione continua da remoto delle azioni online di una persona tramite i suoi stessi dispositivi. La tecnologia è qualcosa che ci aiuta nella vita di tutti i giorni, ci permette di trovare luoghi e persone, fare la spesa online, ci fa restare in contatto con chiunque sia per lavoro che per le relazioni amicali e familiari. Questo va bene, mentre quello che non va bene è quando la tecnologia viene utilizzata per limitare le nostre libertà. La comunità europea considera l’accesso a internet come una forma di libertà e noi non vogliamo dire che internet è pericoloso, così come non diremmo che uscire per strada di sera è pericoloso: noi diciamo che i luoghi che abitiamo, siano essi fisici o virtuali, devono essere sicuri. Le nostre relazioni devono essere autentiche e sicure, non ci deve essere una persona che tenta di esercitare controllo e abusare di potere su di noi. Quando si utilizza internet e i dispositivi connessi alla rete anche la violenza diventa smart e assume una portata immediata di ampia diffusione. Il problema non è nel luogo, nel mezzo in sé, ma nei comportamenti di chi ne abusa, che hanno un impatto deleterio su sicurezza e benessere di donne e ragazze.

Stiamo parlando di software legali?
L’aspetto preoccupante è che tali strumenti disponibili in commercio vengono spesso utilizzati per spiare segretamente un’altra persona da remoto senza il suo consenso. L’uso di spyware è molto diffuso e negli ultimi anni ha avuto una crescita esponenziale spaventosa. Occupandoci di violenza contro le donne sappiamo che questi software di controllo remoto possono essere deleteri, la forma è virtuale ma le conseguenze sono concrete. Sono mezzi subdoli che possono seguirci ovunque, anche in quelli che pensiamo essere luoghi protetti. In ogni modo, al di là degli spyware specifici, piccoli accorgimenti sui nostri dispositivi possono limitare la nostra esposizione a diverse forme di controllo e abuso: sulla pagina di DeStalk è disponibile un piccolo vademecum per le donne. Infine, spesso l’equivoco intorno all’amore romantico porta a normalizzare forme di controllo che si estendono all’ambiente virtuale, si pensi all’indagare su contatti e attività social su Instagram o Facebook e cercare di limitare le interazioni della partner. È importante dire alle donne che rivolgersi ai centri di supporto è fondamentale, per poter capire se si sta subendo abusi e che come intervenire, prima di fare qualsiasi cosa da sole a riguardo

Come si svolge il Italia la campagna pilota del progetto DeStalk?
L’Italia è uno dei paesi maggiormente colpiti in Europa dallo stalkware e sede della campagna pilota DeStalk. Il progetto ha visto una prima fase di e-learning e formazione specifica per servizi di supporto alle vittime e programmi per autori di violenza domestica, servizi sanitari e sociali e autorità locali e governative. Adesso, grazie ai partner italiani, che coprono l’area di competenza dei servizi dedicati e quella dei governi locali, e alla collaborazione con la rete Di.Re., si è potuto sviluppare in sicurezza una campagna pilota indirizzata a un pubblico generico, oltre che a chi ha facoltà di decisione politica, dopo aver lavorato con e per le/gli addette/i ai lavori, che potranno continuare a usufruire dell’e-learning anche dopo la chiusura del progetto. Poi il 25 novembre, in occasione della giornata internazionale della violenza maschile contro le donne, ci sarà il lancio, a Venezia, della campagna, con l’obiettivo di aumentare il livello di consapevolezza dell’opinione pubblica e contrastare la dimensione digitale della violenza di genere.


Il progetto DeStalk, detect and stop stalkerware and cyberviolence against women, riunisce cinque partner europei, Fundación Blanquerna, Kaspersky, Una casa per l’uomo di Treviso e Regione Veneto, Wwp european network, in collaborazione con la Coalition against stalkerware

New Delhi, le disuguaglianze rese ancora più feroci dal climate change

Gli effetti del cambiamento climatico sono evidenti in tutto il mondo, ma nella sterminata area urbana di Nuova Delhi, che dal 2018 si attesta tra le più inquinate del pianeta, le conseguenze della crisi ambientale si possono già constatare nel presente: è così per 30 milioni di abitanti, che le respirano e le vivono quotidianamente, sulla propria pelle.
Invisible Demons, film di Rahul Jain, presentato in occasione del Festival di Cannes 2021 e attualmente disponibile in streaming per gli abbonati alla piattaforma Mubi, ci racconta questa realtà così distante, almeno geograficamente, eppure incredibilmente vicina e attuale.
Jain è nato nella Nuova Delhi del 1991, l’anno in cui l’India si è aperta al libero mercato: da quel momento la crescita economica e l’inquinamento ambientale della megalopoli non si sono mai arrestati, così come i processi di sfruttamento, sia politico che economico, supportati dalla strutturale divisione in classi.
Il regista, nel corso del film, racconta di essere cresciuto in un contesto sociale privilegiato, ma di aver anche avuto modo, fin da bambino, di trascorrere molto tempo nella piccola fabbrica tessile di suo nonno: un’esperienza che ha influito profondamente sulla sensibilità dell’autore, e ha trovato espressione nel suo documentario Machines (2016).
Jain ha deciso di lavorare a Invisible Demons e di raccontare il collasso climatico di Nuova Delhi dopo aver sperimentato anche in prima persona problemi di respirazione al suo rientro in città, nel 2017, dopo un breve trasferimento in Bhutan.
In voice over, all’inizio del film, il regista racconta di essere “cresciuto in un mondo con l’aria condizionata”. Ma consapevole di essere un privilegiato, rigettando voyeurismi, ha deciso di dare voce a chi sta risentendo maggiormente del disastro ambientale che investe il Paese: le persone che non hanno a disposizione acqua corrente e devono ogni giorno impegnarsi per procurarsela; i senzatetto che subiscono gravi danni respiratori a causa dell’inalazione del particolato aereo, gli agricoltori e i camionisti.


In India le gerarchie sono onnipresenti e la crisi climatica non fa che estendere il divario tra le classi. Le fasce più povere della popolazione non hanno infatti i mezzi per poter convivere con le difficoltà connesse al collasso ambientale.
Le cause dell’inquinamento di Nuova Delhi sono numerose: tra le principali, gli incendi dei raccolti, il numero di veicoli a motore, e ovviamente la produzione industriale. Anche le risorse idriche della città sono in pericolo: il fiume Yamuna versa in condizioni di inquinamento critico, e insieme al Gange è tra i corsi d’acqua più contaminati della terra. Le temperature della megalopoli spesso superano i 50 gradi, mentre il paesaggio è avvolto da nubi di smog.
La regia di Invisible Demons si affida di frequente all’uso della panoramica, ed esplora paesaggi sconfinati e martoriati, catturandone da un lato la bellezza, dall’altro le problematiche apparentemente nascoste all’occhio dello spettatore.
Jain rifiuta dogmi e sensazionalismi e ci trasporta in un flusso di immagini belle e drammatiche che lasciano emergere una rabbia silenziosa.
Nel film il regista rifugge da un uso pervasivo della parola. Piuttosto che dare un sovraccarico di informazioni, il regista affida alla telecamera racconti di vita quotidiana a Nuova Delhi: sono le persone comuni a esprimersi.

I microfoni catturano molti suoni e poche significative voci, che danno all’opera un’impronta profondamente esperienziale. I primi piani indugiano sui singoli individui e sul loro rapporto con l’ambiente: da una parte un barcaiolo racconta la difficoltà estreme nel lavoro causate dal prosciugamento delle acque annerite del fiume Yamuna, dall’altra gli studenti parlano di aria pesante, bruciore agli occhi, difficoltà respiratorie e nausee.
Livelli di inquinamento estremi  avvolgono Delhi in una nebbia tossica: con 588 parti per metro cubo di polveri sottili nell’aria, l’area urbana presenta emissioni nocive 40 volte al di sopra del limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Ma Jain lascia che sui dati prevalgano le immagini: osserviamo il traffico le mucche intente a masticare sacchetti di plastica, poi ancora, alcune donne in sari durante una cerimonia rituale sulle acque del fiume. Sono circondate da così tanta schiuma che sembra di essere in un’enorme e spaventosa vasca da bagno.
Un drone riesce a catturare nell’inquadratura un uomo che lavora in solitudine, in cima a una montagna di rifiuti: una sequenza che sembra tratta da un film di fantascienza post-apocalittico e invece è tremendamente reale.
Invisible Demons dipinge attraverso un susseguirsi cadenzato di visioni demoralizzanti, impossibili da dimenticare, un paesaggio martoriato. È un film che informa e rende consapevoli attraverso l’uso sensibile dell’immagine. L’opera di Jain attraverso la splendida fotografia che evoca il cinema di Liang Zhao, incanta e allo stesso tempo ci espone al dramma di una realtà climatica incontestabile e presente.

Aporofobia e viltà

Che un governo guidato da Giorgia Meloni con Salvini e berluscones come scherani potesse odiare i poveri con tutte le sue forze era prevedibile. Non l’avevano previsto e si sono scordati di esercitare la memoria quei media (tra giornali e televisioni) che per servilismo verso il potente in fieri hanno passato settimane a dirci che Giorgia Meloni era “cambiata”, unta dalla mano santa di Mario Draghi che per un astruso motivo avrebbe dovuto sanificarla.

Che Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi odino i poveri lo sappiamo da quando il trio in tempi diversi ha cominciato a fare politica. Matteo Salvini odia i poveri perché gli rovinano l’immagine del Paese puro, della razza splendida e vincente e perché rimane ancorato al “Roma padrona” da cui ha preso i natali politici. Silvio Berlusconi i poveri non li odia per davvero, è solo il risultato del suo spasmodico amore per i ricchi, la ricchezza e per i padroni che vuole conquistare per essere il presidente tra i presidenti. Giorgia Meloni odia i poveri perché non sa amministrare nemmeno gli sgarbi di un condominio e poiché è solo narrazione, quei cenciosi le rovinano la favola da presidente del Consiglio.

Ma la direzione presa dal nuovo governo non è solo figlia dei suoi leader politici. Lì dentro ci sono le responsabilità enormi di chi ha concimato l’aporofobia parlando a vanvera di “merito”, di “fatica” educativa, di precarietà come un valore. La bancarotta morale del sedicente Terzo polo ha apparecchiato la tavola per la grande abbuffata di Meloni e compagnia cantante. Il balbettio del Pd su una misura argine della povertà riuscita a far apparire il sostegno alla povertà come un obiettivo solo della sinistra extraparlamentare riuscendo – come spesso gli accade – a figurare come il partito che avrebbe difeso gli interessi di chi non lo voterebbe mai. Lì dentro ci sono anche le responsabilità del Movimento 5 Stelle che avrebbero dovuto migliorare una misura per salvarla.

Ci sono poi i mezzi di informazione (giornali e televisioni) che in questi ultimi anni si sono impegnati per raccontare i poveri come fannulloni, mafiosi, furbi. Hanno intervistato imprenditori che per anni hanno truffato la democrazia parandosi dietro al Reddito di cittadinanza per non dover ammettere di essere alla ricerca di schiavi e per non dover riconoscere di offrire salari d fame. Stamattina su quegli stessi giornali e in quelle stesse trasmissioni fioccano le storie di chi ovviamente è sul bordo della disperazione perché non sa come potrebbe fare a salvarsi. Una scena abominevole.

Il mix di aporofobia e di viltà di tutti gli attori ha prodotto questo risultato. I responsabili sono molti di più dei partiti di governo. Conviene tenerlo a a mente.

Buon mercoledì.

Nella foto: la presentazione della Legge di bilancio, 22 novembre 2022

Anche a Kobane c’è chiaramente un aggredito e un aggressore. Che si fa?

Ha ragione Valerio Renzi. C’è stato un tempo in cui le donne yazide, curde, circasse e arabe campeggiavano sulle prime pagine di tutte le riviste patinate in Italia. Erano quelle che ci avevano aiutato a sconfiggere l’Isis, liberando Kobane. A Kobane ora cadono le bombe. Per Erdogan è stato fin troppo facile: l’attentato avvenuto a Istanbul lo scorso 13 novembre ha spinto l’autocrate turco ad additare il Pkk, formazione di guerriglia curda socialista, come colpevole. Da lì il passo è stato breve. Secondo Erdogan le bombe sono il modo migliore per creare una “zona cuscinetto” per garantire i propri confini.

Le bombe turche sono cadute su Kobane e altri territori curdi nel Nord della Siria e dell’Iraq, provocando vittime, tra cui anche un giornalista. Al momento, secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, le vittime sarebbero quindici, di cui nove membri delle Forze democratiche siriane e sei militari siriani. Altre fonti, invece, preannunciano un bilancio più pesante: almeno quarantacinque morti, tra forze siriane e miliziani curdi. Farhad Shami, portavoce delle Forze democratiche siriane, su Twitter, ha scritto che tra i morti ci sarebbe anche un giornalista. E ha aggiunto: «L’occupazione turca sta prendendo di mira i giornalisti, cercando di coprire i suoi crimini».

In nome della propria sicurezza e sulla base di prove non verificate dalla comunità internazionale la Turchia ha aggredito. Anche a Kobane c’è chiaramente un aggredito e un aggressore. Solo che in questo caso l’aggressore è un Paese Nato ed è uno dei migliori clienti dell’industria delle armi italiana.

Ora che si fa? L’evento è significativo. Si potrebbe organizzare un aperiguerra a Milano e urlare la necessità di armare il più possibile gli aggrediti. Ci ritroveremmo nella situazione di spedire armi a un Paese che si difende dalle armi che noi abbiamo venduto all’aggressore. Lo vedete il tilt?

Qualcuno è riuscito anche in una situazione del genere a dare addosso ai “pacifisti”. I pacifisti (di cui tutti parlano ma che in pochi hanno ascoltato) risponderebbero sempre allo stesso modo poiché da sempre tengono la stessa linea senza modificarla in base all’amicizia con una delle parti. Chiederebbero una pressione internazionale per un cessate il fuoco immediato (e con la Turchia è molto più facile che con la foga assassina di Putin perché la Turchia senza i soldi dell’Europa rimarrebbe molto prima in mutande) e chiederebbero che non si usino le armi per risolvere una tensione tra Stati. Attenti, quelli che chiedono una “resa unilaterale” dell’Ucraina – che verranno citati strumentalmente in questi giorni per giustificare le bombe sulla Siria e sull’Iraq – sono un’invenzione di sedicenti politici e commentatori. Non esistono, sono al massimo una decina di squinternati.

Ora basta osservare gli eventi per notare limpidamente l’ipocrisia.

Buon martedì.

Con l’autonomia differenziata, privilegi ai più ricchi e mezza Italia in povertà

La bozza del ministro Calderoli sull’autonomia differenziata, che fa seguito a due atti abnormi sul piano giuridico prima ancora che politico quali il decreto interministeriale sui migranti e il decreto legge cd. rave party, è un obbrobrio giuridico ed un provvedimento che mina alle fondamenta l’assetto costituzionale della nostra democrazia. Che vuol dire autonomia differenziata? Significa dare poteri assoluti e risorse ingenti alle Regioni in materie che minano l’unità nazionale. Pensiamo in primo luogo alla scuola pubblica. Non sarà più un’istruzione pubblica uniforme nel Paese ma verrà regionalizzata, con disparità di risorse umane ed economiche, programmi diversi, pari opportunità non attuate. Altro che merito. È il merito di essere privilegiati di Stato.

Dopo il disastro di una sanità sempre più regionalizzata, abbiamo visto in pandemia i fallimenti ad esempio dei modelli Fontana in Lombardia e De Luca in Campania, aggiungeremo il disastro di un’istruzione regionalizzata. Sanità e scuola devono essere pubbliche e nazionali. Dare ancora più autonomia alle Regioni non significa essere autonomisti, ma vuol dire dare potere e forza ai centri di potere burocratici e politici, nelle Regioni infatti c’è centralismo, verticismo, lentezza, sperpero di denaro pubblico ed anche le più pesanti inchieste giudiziarie hanno riguardato in genere proprio il ceto politico e burocratico delle Regioni non di rado attraversate da gravi fatti corruttivi ed infiltrazioni delle mafie.

Se la Lega avesse davvero a cuore l’autonomia dei territori presenterebbe un disegno di legge per dare più poteri ai sindaci e alle comunità, dove c’è più democrazia, c’è il rapporto diretto tra rappresentanti e rappresentati, dove si può incidere immediatamente sui servizi e la qualità della vita. Invece tutti i governi hanno sempre tagliato ai comuni perché temono le autonomie locali, i processi di autodeterminazione dal basso, la democrazia partecipativa, la vera forza dell’autonomia contro la politica dei nominati. Il via libera all’autonomia differenziata l’ha data però il centro-sinistra con la modifica del titolo V della Costituzione e non è un caso che il PD sinora è stato favorevole a questa riforma, basti pensare alla posizione del presidente della regione Emilia-Romagna Bonaccini, anche neo candidato alla segreteria del PD. Lo stesso De Luca, presidente della regione Campania, era favorevole fino a poco tempo fa all’autonomia differenziata ed ora che governa la destra si dice contrario. Già oggi per colpa dei governi che sono andati da Monti a Letta, da Renzi a Conte, da Draghi a Meloni, vige il principio della cd. spesa storica e non vi sono i livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni. Per comprenderci vuol dire che chi più ha più riceve, dagli asili nido agli ospedali, e non vengono garantiti i livelli essenziali delle prestazioni di servizi pubblici fondamentali per la vita delle persone. Un Paese ancora di più tagliato in due. Il sud ovviamente è il territorio più colpito da questa strisciante ed indegna secessione dei ricchi. La destra attenta all’unità nazionale, all’Italia una e indivisibile che deve valorizzare le differenze ma non consolidare le discriminazioni territoriali. La destra colpisce anche i principi di solidarietà ed uguaglianza che rappresentano i pilastri fondamentali della nostra Repubblica. La bozza Calderoli elimina qualsiasi metodo democratico e partecipativo, esautora lo stesso Parlamento della sua centralità. È il sistema dei partiti in combutta con i poteri forti che costruisce un modello per i più ricchi, per il centralismo burocratico-politico regionale e per avere ancora di più mani libere sullo smantellamento dello stato sociale: sanità ed istruzione pubblica, welfare, sicurezza, infrastrutture, servizi, fisco, redditi. Smembrano l’Italia per poi far finta di unirla con l’operazione verticistico autoritaria della repubblica presidenziale.

La destra ormai non ha nulla nemmeno più di destra sociale e statuale, è una destra liberista, bellicista, atlantista, per nulla sovranista, sostenitrice dei poteri forti, contro il popolo e i più fragili. A braccetto con poteri forti e colletti bianchi. A loro serve rafforzare i centri di potere che perseguono interessi di parte e neutralizzare le spinte davvero autonome e partecipative che vengono dal basso e poi debbono criminalizzare il dissenso. Serve quindi un’onda democratica che argini questa deriva eversiva dell’ordine costituzionale. C’è un evidente abuso del potere istituzionale e un tentativo sempre più pervasivo di piegare il diritto ad un disegno politico autoritario, incostituzionale ed antidemocratico. Opporsi all’autonomia differenziata regionale significa difendere la Costituzione antifascista e lottare per un Paese che riduca disuguaglianze e discriminazioni territoriali, ed attui la giustizia sociale.

* L’autore: giurista e saggista dopo molti anni di lavoro da magistrato e da sindaco di Napoli, Luigi de Magistris oggi guida l’Unione popolare