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Tolgono i soldi ai poveri per addobbare le chiese

Priorità del governo: un bonus matrimonio fino a 20mila euro. Ma solo se ti sposi in chiesa. Chi opta per il Comune, zero. Fate attenzione, la famiglia per questo governo è solo tra uomo e donna, solo tra sposati (anche se i leader non sono sposati o lo sono più di volta) e solo se la cerimonia è officiata da un prete.

Come racconta Lorenzo De Cicco su Repubblica, «la proposta di legge è firmata da una sfilza di deputati: in testa il vice-capogruppo a Montecitorio, Domenico Furgiuele, poi il presidente della commissione Attività Produttive e Turismo, Alberto Gusmeroli, i parlamentari Simone Billi, Ingrid Bisa e Umberto Pretto. L’obiettivo dichiarato dell’operazione è riequilibrare il gap tra i matrimoni civili e religiosi. Secondo l’Istat, si legge nella parte introduttiva del provvedimento, le unioni con rito civile sono cresciute rispetto ai livelli pre-pandemia (+0,7 per cento nel 2021 sul 2019), mentre quelli con rito ecclesiastico continuano a calare. A sentire i deputati del Carroccio, le ragioni “che allontanano le giovani coppie dall’altare e che le portano a prendere in considerazione solo ed esclusivamente il matrimonio civile” sarebbero principalmente di natura economica: “Il matrimonio civile – sostengono – è di per sé una celebrazione meno onerosa rispetto al matrimonio religioso”. Ma avrebbero un peso anche le lungaggini procedurali delle parrocchie: “Molte coppie sono dubbiose sui corsi prematrimoniali, i quali hanno una finalità ben precisa e spesso sottovalutata: cercare di far capire alla coppia se si è realmente pronti nel prendere la decisione di sposarsi”. Ecco allora l’idea: un incentivo di Stato, solo per chi sceglie dei pronunciare il sì all’altare».

Quanto costerebbe tutto questo? 716 milioni di euro, cioè 143,2 milioni per le cinque quote annuali. Non si tratta solo della laicità calpestata delle Stato (a cui siamo abituati da tempo): qui siamo proprio all’odio per chi non bacia l’anello al suo parroco. Non c’è differenza con le più oscurantiste finte democrazie.

Poi accade una reazione che dice ancora di più la proposta. Ieri sera esce la notizia e dal governo si sbracciano per dire che no, che non è loro intenzione applicare una legge del genere, che si tratta solo di un’iniziativa personale di alcuni deputati. Esattamente come accaduto con le proposte di legge contro l’aborto, esattamente come avvenuto per le promesse stratosferiche di Salvini. Sempre così: si lancia il messaggio per vedere l’effetto che fa. Si sperimenta quanto si può osare utilizzando la stampa come termometro.

Buon lunedì.

Eccoli, gli scafisti

Nessuna parola, come previsto, da parte degli sceriffi del Mediterraneo che siedono negli scranni più alti del governo sugli scafisti quelli veri, gli scafisti che rispettano in toto la narrazione della maggioranza di governo: lucrano sulle perone, sono un elemento di “pull factor” spingendo i migranti a prendere un appuntamento sule coste libiche concordato con loro, uccidono le persone se diventano un impiccio nell’organizzazione della traversata e evitano i controlli una volta arrivati a terra.

Poiché non sono Ong – come tornerebbe utile a questi una condanna che sia una di qualsiasi Ong – ieri non si è discusso dell’ordinanza del Gip David Salvucci, emessa nell’ambito dell’inchiesta “Mare aperto” della Procura di Caltanissetta, che delinea l’esistenza di un’associazione «estremamente ampia e strutturata» che svolgeva «in maniera imprenditoriale» la propria attività e che poteva vantare «plurimi contatti» con gruppi analoghi attivi «non solo in varie parti della Sicilia, ma anche in altri Paesi dell’Europa (non si dimentichino i ripetuti arrivi di scafisti dalla Francia) e dell’Africa».

Ai gruppi criminali stranieri l’associazione di carattere transnazionale si appoggiava in caso di necessità di «soggetti da adibire allo svolgimento di specifiche mansioni (gli scafisti appunto) o di beni materiali necessari all’organizzazione dei viaggi e temporaneamente indisponibili al proprio interno».

«Il costante collegamento con sodalizi gemelli disposti a sopperire alle temporanee difficoltà e mancanze dell’associazione per cui si procede – si legge ancora nell’ordinanza – da sì che la sopravvivenza di quest’ultima non sia, in effetti, mai legata alla sorte dei singoli sodali, neppure quando questi si trovino in posizione apicale, poiché, con appoggi esterni, l’attività delittuosa può comunque essere fattivamente proseguita».

Nessun dibattito sull’aggravante di aver esposto a serio pericolo di vita i migranti da loro trasportati e di averli sottoposti a trattamento inumano e degradante. Nessun cenno al fatto che gli scafisti fossero disposti a buttare la gente in mare nel caso in cui avessero avuto problemi nella navigazione. Niente di niente.

Il silenzio conferma un punto semplicissimo: a questi non frega niente dell’immigrazione, non frega niente delle vite umane da salvare, non frega niente di frenare i canali criminali che ruotano intorno a questi disperati, non frega niente capire chi deliberatamente mette a rischio la vite delle persone. A questi interessa solo piegare la realtà alla loro narrazione additando le Ong come colpevoli unici (nonostante si occupano solo di una minima percentuale degli sbarchi) per incendiare i loro elettori.

Forti con i giusti e deboli con i prepotenti.

Buon venerdì.

Pedofilia, 753 casi mai segnalati dalla Chiesa italiana alla magistratura

Il dato più interessante emerso dalla conferenza stampa di presentazione del primo Report della Chiesa italiana sugli abusi su minori compiuti in ambito ecclesiastico non è presente nel Report. Come è stato infatti rivelato da mons. Baturi, segretario generale della Conferenza episcopale, dal 2001 al 2020 sono stati «613 i fascicoli trasmessi dalle diocesi italiane al dicastero per la Dottrina della fede». È la prima volta dal 2010 che la Conferenza episcopale “aggiorna” pubblicamente questo dato. Il 25 maggio del 2010 era stato infatti l’allora segretario mons. Crociata a raccontare durante l’assemblea generale dei vescovi che dal 2001 erano stati «circa 100 i casi di abusi sessuali rilevati in Italia con procedimenti canonici nell’ultimo decennio».

Venendo al Report, realizzato da ricercatori dell’Università Cattolica di Piacenza sulla base dei dati provenienti da 90 Centri di ascolto istituiti nel 2019 dalla Cei nelle diocesi italiane (leggi l’inchiesta di Left sui Centri d’ascolto)  per raccogliere informazioni e segnalazioni dalle vittime di preti pedofili e dare loro sostegno psicologico e giuridico. Stando allo studio tra il 2020 e il 2021 sono state 89 le segnalazioni di abusi e violenze di vario tipo raccolte da 30 dei 90 centri; 40 riguardano minori di 14 anni (45%), 33 di età compresa 15-18 anni e 16 adulti vulnerabili.

Circa la tipologia dei casi segnalati, si legge nel Report è emersa la prevalenza di comportamenti e linguaggi inappropriati” (24), seguiti da “toccamenti” (21); “molestie sessuali” (13); “rapporti sessuali” (9); “esibizione di pornografia” (4); “adescamento online” (3); “atti di esibizionismo” (2). Le segnalazioni fanno riferimento a casi recenti e/o attuali (52,8%) e a casi del passato (47,2%).
I 68 presunti autori di reato sono soggetti di età compresa tra i 40 e i 60 anni all’epoca dei fatti, in oltre la metà dei casi. Il ruolo ecclesiale ricoperto al momento dei fatti è quello di chierici (30), a seguire di laici (23), infine di religiosi (15). Tra i laici emergono i ruoli di insegnante di religione; sagrestano; animatore di oratorio o grest; catechista; responsabile di associazione. Il contesto nel quale i presunti reati sono avvenuti è quasi esclusivamente un luogo fisico (94,4%), in prevalenza in ambito parrocchiale (33,3%) o nella sede di un movimento o di una associazione (21,4%) o in una casa di formazione o seminario
(11,9%).

«È solo una prima fotografia, siamo ancora agli inizi», ha detto monsignor Lorenzo Ghizzoni, arcivescovo di Ravenna e presidente del servizio nazionale della Cei per la tutela dei minori. «A noi preme fare verità sul passato e fare giustizia, perché si tratta di un peccato e un reato gravissimo, ma ci preme anche che ciò non accada più, e per questo siamo impegnati nella prevenzione». Giustizia e prevenzione che però ancora una volta non si concretizzeranno in una collaborazione con la magistratura “laica” tramite la denuncia delle segnalazioni ricevute. Come hanno ricordato i due monsignori, infatti, sollecitati dalle domande dei giornalisti, la legge italiana non prevede l’obbligo di denuncia per reati di questo tipo se non per i pubblici ufficiali. E i vescovi non sono pubblici ufficiali.

Quindi, in buona sostanza, le 89 segnalazioni ricevute dai Centri di ascolto diocesiani sono state trasmesse solo all’Autorità ecclesiastica e tra le azioni poste in essere contro i 68 presunti responsabili sono risultati prevalenti i «provvedimenti disciplinari», seguiti da «indagine previa» della Diocesi e «trasmissione al Dicastero per la dottrina della fede». I 40 casi di violenza su minori si aggiungono pertanto ai 613 “rivelati” da mons. Baturi per un totale di 653 fascicoli aperti in poco più di 20 anni. Abbiamo quindi chiesto a mons. Ghizzoni quali impressioni avesse ricavato da tali cifre e se possano considerarsi il sintomo di un problema di carattere strutturale all’interno della Chiesa cattolica. «Abbiamo ricevuto questi dati da troppo poco tempo per poter fare delle valutazioni approfondite» è stata la replica.

Una prima risposta meno evasiva potrebbe venire da un secondo studio commissionato dalla Cei e annunciato da mons. Baturi che sarà realizzato in base all’analisi dei 613 fascicoli trasmessi in 20 anni dalle diocesi italiane al dicastero per la Dottrina della fede. «Il numero dei fascicoli aperti – ha sottolineato mons. Baturi – può non corrispondere al numero di reati commessi. Possono essere di più o di meno – ha precisato il segretario della Cei – perché un abusatore può aver compiuto più violenze, ma d’altra parte una denuncia può essersi conclusa con una archiviazione. Per questo è necessaria una elaborazione approfondita di queste informazioni, tenendo presente che è forse la prima volta al mondo che si realizza un accordo del genere tra il dicastero per la Dottrina della fede (Ddf) e un episcopato nazionale».

Va bene l’eccezionalità dell’accordo ma questo significherebbe che la Cei a oggi non è a conoscenza dell’esito di quelle 713 segnalazioni. E allora ci si chiede: se non c’è stata comunicazione alla Cei da parte della Santa sede, i preti condannati per pedofilia dal Ddf sono tutti rimasti tranquillamente a svolgere le proprie funzioni nelle rispettive Diocesi? Qualcosa non torna, ma se così fosse non ci sorprenderebbe. Una ipotesi è che i vescovi delle diocesi interessate siano stati informati ma che nessuno, dal vertice in giù, si sia mai preso la briga di mettere insieme tutte le informazioni per avere quanto meno un quadro complessivo del fenomeno.

Quel che è certo è che in nessun caso (dei 613+100+40) è mai stata coinvolta la magistratura italiana. E questo è inaccettabile per un Paese civile, cioè laico.

Leggi la versione integrale del primo Report della Conferenza episcopale italiana sulla rete territoriale per la tutela dei minori e delle persone vulnerabili

PrimoReport

Hai visto, Giorgia, com’è incredibile?

Dice Giorgia Meloni che trova incredibile il dibattito che si è aperto (in realtà è solo l’osservazione di una manciata di giornalisti, giusto per ridimensionare) sulla sua scelta di portare con sé sua figlia in occasione della sua ultima missione da presidente del Consiglio a Bali. «Mentre torno a casa (…) mi imbatto in un incredibile dibattito sul fatto che sia stato giusto o meno portare mia figlia con me. (…) Ho il diritto di fare la madre come ritengo e ho diritto di fare tutto quello che posso per questa Nazione senza per questo privare Ginevra di una madre», ha scritto Giorgia Meloni su Instagram.

Tenete a mente anche la dichiarazione del suo guardaspalle, il ministro Guido Crosetto che scrive: «Qualcosa lasciatelo fuori dalla becera polemica ideologica. Almeno le cose sacre. Come il rapporto tra genitori e figli».

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui ci sono un manipolo di persone che vorrebbero giudicare le famiglie degli altri secondo i loro assi cartesiani.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui politici pluridivorziati condannano le coppie non conformi al giudizio del loro Dio che loro stessi non rispettano.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui l’amore viene definito “giusto” o “sbagliato” secondo i dogmi di qualcuno che decide qualche coppia sia naturale e quale non lo sia.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui i rapporti tra genitori e figli vengono giudicati da qualche piccolo leader di partito che vorrebbe imporre al Paese l’esempio di sua nonna.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui politici e giornalisti si infilano nel letto dei cittadini (che non sono, badate bene, personaggi pubblici) solo per mietere un po’ di voti o di antipatia per gli avversari.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui il ministro della Difesa decide cosa sia sacro – il rapporto tra madre e figlia – mentre giudica sacrificabile la vita delle persone in mezzo al Mediterraneo.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui un politico come Pillon ha costruito la sua carriera politica (tra l’altro nei partiti della loro maggioranza, sarà un caso) decidendo cosa sia una devianza e cosa non lo sia.

Hanno ragione, Meloni e Crosetto, è davvero incredibile vivere in un Paese in cui i liberali perdonano le avventure di letto di Silvio Berlusconi e poi citofonano o espongono alla berlina il poveretto di turno in qualche periferia per solleticare la pancia dei loro elettori.

Hai visto Giorgia com’è schifosamente incredibile?

Buon giovedì.

Vent’anni dopo il Social forum di Firenze, i movimenti tornano a camminare insieme

La guerra multilivello che permea il pianeta è il lato oscuro del nostro tempo. Mentre il conflitto in Ucraina rischia di trasformarsi in una terza guerra mondiale, ci siamo assuefatti a varie decine di conflitti dimenticati, dalla Palestina al Kurdistan, allo Yemen. Fra questi, i più obliati di tutti si combattono da lungo tempo nel continente africano, con numeri di vittime impressionanti e carneficine che non riusciamo neppure a vedere perché esterne al nostro orizzonte occidentecentrico.

Al di là dei conflitti militari in senso stretto, c’è la guerra scatenata dal nostro modello di produzione e di consumo contro il clima e la natura. C’è la guerra patriarcale contro le donne, dall’Iran alle nostre latitudini. C’è la guerra sociale dei ricchi contro i poveri, in un pianeta che vede crescere le diseguaglianze e polarizzarsi la ricchezza: “la lotta di classe dopo la lotta di classe”, per riprendere la celebre definizione del sociologo Luciano Gallino, è pienamente in corso.

Il nostro continente si trova in mezzo ad una tempesta perfetta, gli effetti dell’invasione dell’Ucraina non sono solo i morti ucraini e russi, ma anche il carovita, il caroenergia, l’inflazione che sale a fronte di salari stagnanti e a farne le spese sono soprattutto i ceti popolari. Anche la transizione ecologica è una vittima di guerra, mentre si riaprono centrali a carbone e torna in auge l’energia atomica. L’Unione Europea, che nel frattempo si riarma fino ai denti, Germania in testa, è geopoliticamente sempre più marginale, priva di un ruolo autonomo e incapace di una vera iniziativa di pace mentre la globalizzazione che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni sembra lasciare il passo a una nuova forma di globalizzazione settoriale o macroregionale, con un pezzo di pianeta che si sta agglomerando attorno alla Cina, a partire dall’India.

Ma oltre al lato oscuro c’è il lato luminoso del tempo presente. Per restare alle metafore cinematografiche pop, non c’è solo il dark side evocato nella saga Guerre stellari: i Monty Python, al termine del film Brian di Nazareth, fanno cantare ai protagonisti «always look at the bright side of life», guarda sempre al lato luminoso e positivo della vita. E il lato luminoso si è riunito a Firenze nel ventennale del Forum sociale europeo: i movimenti per il clima e l’ambiente, a partire da quelli di nuova generazione come i Fridays for future, i movimenti delle donne, i movimenti del lavoro e dei precari, con vertenze diventate simboliche come quella di Gkn, i movimenti contadini e per i beni comuni, le organizzazioni sociali e culturali che si battono per un altro mondo possibile. Ma del lato luminoso fanno parte anche le pratiche che stanno già prefigurando l’alternativa, dall’agricoltura contadina alle comunità energetiche, dalle tante forme di economia sociale e solidale alle iniziative di mutuo soccorso moltiplicatesi in questi anni di crisi, fino alla tante esperienze di commoning, cura e creazione di beni comuni.

Le analisi corrette e le giuste proposte per risolvere i grandi nodi del nostro tempo le abbiamo oggi e le avevamo 20 anni fa quando nel primo Forum sociale europeo denunciavamo la finanziarizzazione dell’economia e proponevamo, prima dello scoppio della crisi dei mutui subprime e del fallimento di Lehman Brothers, concrete misure per ridurre le dimensioni mostruose dell’economia finanziaria e speculativa, a partire dalla tassa sulle transazioni finanziarie. Sollevavamo la centralità della questione climatica ed ambientale e indicavamo soluzioni per un’effettiva transizione ecologica. Discutevamo di accesso ai beni comuni, sociali e naturali, come l’acqua, il cibo, i farmaci: allora ci battevamo a fianco di Nelson Mandela contro le multinazionali farmaceutiche per garantire a milioni di persone povere l’accesso ai medicinali salvavita contro l’Aids, oggi si tratta di liberare i vaccini anti Covid-19 dai brevetti. Dibattevamo di reddito di base e reddito di cittadinanza. Dicevamo, per riprendere il motto di Ernesto Balducci, “se vuoi la pace, prepara la pace”: promuovere politiche di disarmo, mettere al bando la produzione e la vendita di armamenti, costruire relazioni globali di pace, non alleanze militari di morte. Se le nostre proposte fossero state tradotte in politiche, oggi non ci troveremmo nella crisi ecologica e sociale in cui siamo immersi.

Ma evidentemente avere ragione non basta. Non è sufficiente avere analisi perfette e soluzioni giuste, allora come oggi, per cambiare effettivamente il mondo, per incidere, per mutare i rapporti di forza. È un’illusione illuministica ritenere che basti avere la ragione dalla propria parte per vincere e per rendere questo mondo più giusto.

Non ci siamo dunque trovati a “2022Firenze”, assieme ai delegati di oltre 150 organizzazioni e movimenti italiani ed europei, per celebrare il passato, tantomeno per compiacerci delle nostre capacità di analisi e di proposta in anticipo sui tempi. Semmai per iniziare un percorso comune e individuare i nodi problematici e le domande aperte a cui provare a dare risposta nei prossimi mesi. Dove va l’Europa, in questo mondo che sta cambiando rapidamente? Come possiamo battere il consenso dell’estrema destra? Ma sopratutto, come possiamo dare forza al lato luminoso del presente? In altri termini, perché non riusciamo ad incidere sulle agende politiche nazionali e dell’Ue? Perché non riusciamo a parlare e coinvolgere quella massa di persone che è colpita, come noi, dalle crisi del nostro tempo, dalla guerra, dalla precarizzazione del lavoro, dal carovita, ma resta chiusa nel rancore, in una solitudine arrabbiata, terreno di coltura delle destre? Come riusciamo a parlare a chi non è già attivo e coinvolto nelle nostre tante organizzazioni o nei nostri movimenti, a quella grandissima parte di persone che non partecipa alle nostre assemblee e alle nostre manifestazioni? Nessuno ha facili risposte a queste domande, ma ci è chiara la necessità di sostituire alle paure un orizzonte di speranza collettiva e all’ideologia dominante un nuovo logos. È il non facile tema della costruzione collettiva di una controegemonia culturale e politica sia al neoliberismo sia alle false alternative antisistema incarnate dalle destre.

Una traccia di soluzione è già in questo primo tentativo di convergenza europea dei movimenti e delle organizzazioni sociali di tutto il continente dopo anni di frammentazione tematica, geografica e spesso generazionale, dove ciascun pezzo si è occupato dei suoi temi, perlopiù rinchiudendosi nei propri confini nazionali. Per costruire una massa capace di incidere, per lavorare assieme a progetti inclusivi e controegemonici, per porci all’altezza dei problemi del nostro tempo, del capitale finanziario transnazionale e dei poteri che decidono delle nostre vite dobbiamo essere capaci di spezzare i gusci nazionali e tentare una riconnessione su scala quantomeno continentale, che provi a tenere assieme tutti i lati luminosi del presente.

“2022Firenze” è stata solo una tappa e un piccolo contributo su questo cammino verso un’agenda comune e future mobilitazioni condivise. Per questo l’incontro si è chiuso senza chiudersi ma aprendo alla creazione di un tavolo stabile di relazione fra tutte le organizzazioni e i movimenti europei, con riunioni periodiche e due obiettivi: includere nei prossimi mesi tutti i soggetti, piccoli e grandi, disponibili a unirsi e a coordinarsi; progettare mobilitazioni globali della società civile, a partire da un’AlterCop in occasione della prossima conferenza delle Nazioni Unite sul clima, facendo convergere movimenti di tutte le generazioni. Consapevoli che uniti siamo più forti, più convincenti, più efficaci e più capaci di incidere, oltre che più speranzosi e più felici.

 


Venticinque Paesi presenti, oltre 700 delegati: i numeri di 2022Firenze

2022Firenze, la riunione continentale ospitata nel capoluogo toscano in occasione del ventennale del Forum sociale europeo, si è articolata in 45 appuntamenti e in una grande assemblea plenaria al Palaffari cittadino, con la partecipazione complessiva di oltre 700 delegati in rappresentanza di 155 organizzazioni italiane ed europee. Ben 25 i Paesi presenti, dalla Danimarca alla Grecia, dal Portogallo all’Ungheria, con voci dall’Iran, dall’Iraq, dalla Libia, dal Brasile e una connessione online con l’Assemblea della Terra in America Latina e gli attivisti presenti a Sharm el-Sheikh in Egitto in occasione della Cop27.

Nell’assemblea plenaria, introdotta da Tommaso Fattori (autore dell’articolo che abbiamo pubblicato, già consigliere regionale per Sì Toscana a Sinistra e organizzatore del primo Forum sociale europeo del 2002, ndr) a nome del comitato promotore e seguita anche online da oltre 2mila persone, hanno preso la parola oltre 100 rappresentati delle organizzazioni e dei movimenti, di tutte le generazioni e di tutte le aree geografiche, in rappresentanza dei Fridays for future e dei movimenti delle donne, del movimento per la pace e del movimento antirazzista, dei movimenti contadini e dei beni comuni, oltre che le organizzazioni sociali, culturali, di cooperazione internazionale, di finanza etica, di economia sociale e solidale, varie organizzazioni sindacali e politiche della sinistra europea. Fra questi, gli organizzatori della grande manifestazione della pace del 5 novembre a Roma e gli animatori di vertenze del lavoro ed ecologiste, intellettuali di fama mondiale come il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi e tante attiviste oggi in prima linea dal nord Europa, con la polacca Marta Lempart che si batte per il diritto all’aborto e della comunità Lgbtqi+, al sud, con la libica Souad Wheidi in difesa dei migranti torturati nei campi di concentramento libici.

“Toglietegli il telefono”

Qualche giorno fa Matteo Salvini, che dal basso della sua risicata percentuale incassata alle ultime elezioni twitta come se fosse il padrone del governo, lanciava la proposta di togliere i telefoni alle baby gang. Secondo la sua bizzarra teoria rieducativa la punizione dello scippo dei cellulari avrebbe contribuito a sanificare l’Italia. Come quasi tutte le proposte di Salvini anche questa si distingue per stupidità e per la sua irrealizzabilità.

Ieri sera due missili sono caduti sul suolo della Polonia a Przewodow, cittadina a pochi chilometri dal confine ucraino uccidendo due persone. Il fatto è ovviamente enorme perché la Polonia è un Paese Nato e perché ora la Nato si ritrova a valutare con urgenza se si tratta di un attacco deliberato. Mentre la Nato (non i pacifisti, la Nato) chiedeva cautela sottolineando che “l’importante è che siano accertati i fatti” alcuni politici nostrani, presi dal furore bellico, sono corsi a impugnare il cellulare per gridare alla Terza guerra mondiale e per chiedere interventi nel giro di un amen. Un profluvio di generali da divano ha tirato conclusioni e suggerito strategie mentre tutti i leader del mondo chiedevano di usare cautela.

Sia chiaro: Vladimir Putin proprio ieri ha colpito delle abitazioni nel centro di Kiev e non sarebbe fantasioso immaginare che nella sua feroce follia possa fare qualsiasi cosa. Il fatto è che mentre i furiosi piccoli politici di casa nostra twittano pensando di avere in mano un fucile i politici – quelli seri – evidenziano ancora una volta la distanza tra le macchiette con cui abbiamo a che fare in questo Paese e le persone che provano ad avere un approccio lucido all’invasione russa cercando di limitare i danni.

Stamattina accade che Biden dica che le informazioni preliminari suggeriscono che è improbabile che il missile che ha causato un’esplosione in Polonia martedì e ucciso due civili sia stato lanciato dall’interno della Russia. Parlando ai giornalisti dopo l’incontro con altri leader mondiali a Bali, in Indonesia, al presidente è stato chiesto se fosse troppo presto per dire se il proiettile fosse stato sparato dal territorio di Mosca. “Ci sono informazioni preliminari che lo contestano. Non voglio dirlo fino a quando le indagini non ce le confermeranno”, ha risposto Biden, aggiungendo che “è improbabile in base alla traiettoria che sia stato sparato dalla Russia. Ma vedremo”.

Vale la pena ripeterlo. Se quei missili dovessero essere quelli usati dall’Ucraina per difendersi dalla pioggia russa che ogni sera le cade addosso si tratterebbe comunque di effetto collaterale degli attacchi russi e dal punto di vista etico non sposterebbe di una virgola le responsabilità. Dal punto di vista politico però la differenza sarebbe enorme. E i politici con il telefonino in mano dovrebbero fare politica, non dovrebbero concedersi le cretinerie da tifoseria.

Toglieteli a loro, i telefonini.

Buon mercoledì.

Bergoglio, l’Iran e le donne

Correva l’anno 2009 e l’ambasciatore dell’Iran presso la Santa Sede, nel momento in cui si presentava per essere accreditato, richiamava gli obiettivi comuni e condivisi tra la Santa Sede e la Repubblica Islamica dell’Iran, ovvero la comune lotta all’ateismo e ai mali morali.
Il Vaticano incassava con giubilo questo richiamo agli obiettivi comuni e confermava l’accredito dell’ambasciatore.
Quando nel 2016 Hassan Rouhani si è recato in Vaticano, il testo ufficiale concordato al termine del colloquio con Bergoglio, ancora una volta richiamava i valori comuni, sempre gli stessi, ovvero la comune lotta all’ateismo e ai mali morali.
Nel corso dei colloqui, Bergoglio e Rouhani avevano ricordato la strage di Charlie Hebdo del 2015, quando le vignette satiriche avevano scatenato un gruppo di islamici animati dal senso di vendetta contro chi aveva offeso il loro Dio, uccidendo 12 persone e ferendone 11.
In quel colloquio Bergoglio riferì a Rouhani quale era stato il suo commento, con una nota di vanto, lucidamente ripetendo che se qualcuno gli avesse offeso la madre, lui avrebbe tranquillamente reagito sferrando un pugno, legittimando così eticamente l’azione violenta e stragista islamica quale reazione alla satira.
Dunque non una risposta a caldo sfuggita nel corso di una intervista, ma a distanza di un anno una ipotesi di reazione ponderata e autenticamente propugnata.
In Iran c’è un regime teocratico.
In Vaticano c’è un regime teocratico.
Il regime teocratico iraniano coincide con i confini dell’Iran.
Il regime teocratico Vaticano non coincide con i confini del Vaticano ma con i confini dell’Italia, perché nella visione politica di Bergoglio le caste sacerdotali non devono governare direttamente, l’importante è che condizionino le istituzioni civili, come fa lui con il parlamento e il governo italiano.
Bergoglio, in effetti, quando ha pianificato i colloqui con l’islam sciita non è andato ad incontrare un ayatollah al potere in Iran, ma è andato ad incontrare in Iraq lo sciita iraniano Al-Sistani, colui che rappresenta quella corrente dello sciismo che ritiene che andare al potere significhi tradire la visione teologica ed escatologica dello sciismo.
In effetti Bergoglio voleva mandare un messaggio trasversale alle caste sacerdotali iraniane riaffermando il primato planetario vincente della gestione vaticana del potere, una gestione mediata dalle istituzioni civili, e non diretta, come quella degli ayatollah.
Resta comunque un dato comune, ovvero che entrambi i regimi teocratici hanno la pretesa di governare in nome del loro Dio, in una spirale oppressiva che si arroga lo scopo di sovvertire ogni libertà, ogni aspetto delle vite private, corrompendo la politica e le istituzioni.
In Iran il regime teocratico, per preservare il potere, è diventato un regime omicida.
Il prezzo di vite umane spezzate dalla mano assassina del regime è una ferita che travalica i confini di quella Nazione, in una solidarietà naturale che ripudia la follia dell’apartheid femminile.
Donne uccise a bastonate perché non portavano il velo è quanto di più raccapricciante potesse fare quel regime religioso, un regime che si ispira ai valori condivisi dal Vaticano.
Contro queste nefandezze un autentico movimento rivoluzionario sta minando quel sistema osceno di oppressione, mentre Bergoglio, che è pronto a sferrare pugni se gli offendono la madre, in relazione alle donne uccise a bastonate perché non portavano il velo, si è espresso dicendo la solita banalità ad uso dei filoclericali, ovvero che la donna «non è un cagnolino».
Ora questa immensa insulsaggine, ossia che la donna non è un cagnolino, dovrebbe destare indignazione per pochezza e superficialità.
E invece no, c’è perfino chi ne dà una lettura consolatoria e si spinge a ritenere che di più non avrebbe potuto dire.
In effetti il teocratico papa Francesco insulta e offende senza ritegno le donne che si autodeterminano, esprime valutazioni politiche su tutte le questioni internazionali, ma si guarda bene dal prendere posizione contro un regime che uccide le donne a bastonate e che condanna a morte chi si ribella allo scempio, perché con quel regime, pur nella diversa visione della gestione del potere, si rinnovano affettuosamente e cordialmente gli stessi valori da decenni.

L’autrice: L’avvocata Carla Corsetti è segretaria nazionale di Democrazia atea

Le trivelle premiano chi ha alimentato il caro energia

Il Coordinamento nazionale No Triv (a cui aderiscono centinaia di associazioni di tutta Italia) prova a spiegare perché la decisione del governo non abbia senso.

«Con un emendamento al Dl Aiuti-Ter approvato il 4 novembre il governo Meloni rompe il muro delle 12 miglia consentendo nuove trivellazioni in Adriatico anche fino alla distanza di 9 miglia marina dalle linee di costa. Viene così meno il divieto di nuove attività di ricerca e coltivazione di gas che, fatte salve alcune eccezioni, era stato introdotto nella Legge di stabilità 2016 modificando il precedente articolo 6, comma 17, del Decreto legislativo 152/2006, sulla spinta della campagna referendaria No Triv.

L’area marina interessata, posta al largo del Delta del Po e vasta 126 chilometri quadrati, è compresa tra il 45° parallelo, poco più a sud del golfo di Venezia, e il parallelo passante per la foce del ramo di Goro nel fiume Po. Qui si potrà quindi trivellare anche a solo 9 miglia dalla costa a condizione che si sfruttino giacimenti con un potenziale minerario di almeno 500 milioni di metri cubi: un vero incubo per i residenti ed i Comuni del Polesine, più volte duramente colpiti dal fenomeno della subsidenza.
Nella relazione illustrativa del provvedimento si citano ben 5 permessi di ricerca che insistono parzialmente o integralmente in quest’area e di questi, uno riguarda la costa veneta, con il 40% dell’area interessata oltre le 9 miglia e, quindi, potenzialmente coltivabile.
Obiettivo dichiarato del governo è riammettere a produzione le concessioni presenti in Adriatico fino ad esaurimento dei giacimenti senza tuttavia considerare che parte di quelle concessioni è scaduta e che le concessioni hanno comunque una durata ben definita che prescinde dall’esaurimento o meno del giacimento.
L’emendamento approvato nel Consiglio dei ministri introduce pesanti deroghe al Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai): estende la misura prevista per l’area marina al largo del Delta del Po a tutte le aree marine, consentendo quindi il rilascio di concessioni per la coltivazione di gas anche tra le 9 e le 12 miglia marine per giacimenti con un potenziale superiore ai 500 milioni di metri cubi; inoltre prevedendo attività di ricerca e di estrazione di gas in alcune aree interdette, ma non ancora individuate, dal Pitesai.
L’insieme delle misure varate dall’esecutivo dovrebbe consentire di ottenere in 10 anni 15 miliardi di metri cubi di gas, di cui 2 subito, che andrebbero ad aggiungersi agli attuali 3,5.
Negli intendimenti del governo la misura ha lo scopo di mettere a disposizione di un numero imprecisato di imprese gasivore italiane -si stima possano essere 150- gas naturale ad un prezzo calmierato, quindi inferiore a quello ancorato all’indice Tff di Amsterdam.
La procedura scelta è simile a quella definita del Decreto legge n. 17 del 2022, approvato dal governo Draghi: sarà il Gruppo Gse a raccogliere le eventuali manifestazioni di interesse provenienti dalle compagnie Oil&Gas titolari delle concessioni e a stipulare contratti di fornitura di durata decennale ad un prezzo, che verrà fissato con decreto, compreso tra un minimo di 50 euro ed un massimo di 100 euro per megawattora.
La scelta di Meloni e della maggioranza che la sostiene, al tempo del Referendum del 2016 contraria a nuove attività estrattive in mare entro le 12 miglia marine, mostra limiti evidenti: non incide sulle cause strutturali del caro-energia che sta colpendo duramente tutte le imprese (non solo quelle gasivore) e le famiglie; premia i principali player dell’Oil&Gas – Eni tra tutti – che hanno tratto enormi profitti grazie alla crisi; promuove l’estrazione ed il consumo di gas naturale assestando un duro colpo alla transizione energetica.

Le cause del caro energia sono ormai note da tempo: mix energetico delle fonti di generazione elettrica sbilanciato a favore del gas, meccanismo di formazione del prezzo sulla borsa del gas e sulla borsa elettrica, ecc.. In particolare, il prezzo del gas risente fortemente delle manovre speculative di pochi operatori che, facendo cartello, determinano l’andamento della borsa di Amsterdam.

Paradossalmente, a beneficiare della misura saranno soprattutto coloro che hanno tratto maggiore vantaggio dalla crisi energetica. La maggior parte delle concessioni fanno capo a Eni, la stessa che nei primi 9 mesi del 2022 ha portato a casa utili per 10,8 miliardi di euro. Come? L’Eni, che importa circa la metà del gas naturale importato dall’Italia in un anno, si approvvigiona di gas per il 61% del suo fabbisogno dalle importazioni tramite contratti pluriennali (fino a 30 anni), a prezzi blindati e secretati dallo Stato, espressi sostanzialmente dai prezzi doganali. Il prezzo di riferimento per le sue vendite di gas a terzi è però quello spot-Psv (Ttf). Il differenziale tra prezzo spot-Psv (Ttf) e prezzo doganale fa sì che Eni, al pari di altri operatori, tragga profitto dal caro-gas.
La linea estrattivista dettata da Meloni risponde in modo errato ad un problema reale ed incentiva l’estrazione di modesti quantitativi di gas “nazionale” rallentando la già lenta transizione energetica in atto nel nostro Paese. Piuttosto che spingere sulle leve dell’efficienza e delle rinnovabili, il governo rilancia lo sfruttamento ed il consumo del gas naturale, rendendo ancor più dipendente famiglie ed imprese da una fonte energetica di cui il nostro Paese è povero.
Le riserve di gas accertate dal Mite al 31/12/2021, tra certe, probabili e possibili, ammontano a 111.075 miliardi metri cubi ma la concreta possibilità di sfruttamento riguarda soltanto 70/80 di essi. Premesso che, secondo dati Arera, nel 2021 i consumi di gas naturale hanno toccato quota 74 miliardi di metri cubi, le riserve nazionali di gas concretamente disponibili potrebbero far fronte alla domanda interna per 12 mesi o poco più.
Si tratta di quantità non disponibili tutte e subito e, comunque, non rinnovabili una volta esaurite. I freddi numeri ci dicono quindi che “sovranità energetica” e “nuove estrazioni di gas nazionale” sono un ossimoro e che l’approccio del governo è dettato da una visione ideologica.
Ma non è tutto. Il nuovo mix energetico voluto da Meloni avrà immediate ricadute in termini di mancato rispetto degli obiettivi climatici ed ambientali che l’Italia si è impegnata a rispettare in sede internazionale. Ne consegue che anche il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima (Pniec) ed il Pnrr, che si riconnette al primo, dovranno essere riscritti. C’è da stupirsi, a questo punto, che in sede Cop 27 Meloni chieda di rallentare l’uscita dalle fonti fossili?
In un quadro di così lucida coerenza “fossile” non deve parimenti stupire che il governo non abbia inserito nell’ordine del giorno della seduta del 4 novembre l’approvazione delle norme attuative sulle Comunità energetiche rinnovabili e le linee-guida per identificare le aree idonee su cui installare impianti fotovoltaici, misure attese da mesi e che potrebbero consentire la realizzazione di almeno 10 GW/anno di nuova generazione elettrica in un Paese, come il nostro, “baciato dal sole” come pochi altri ma in cui metà della produzione di energia elettrica dipende dal gas.
Meloni e la sua maggioranza hanno, evidentemente, ben altre priorità».
Buon martedì.
Nella foto. frame di un video sulle azioni di protesta di Greenpeace in Adriatico nel 2018

Il volto autoritario e machista del governo Meloni

Il decreto legge passato alla cronaca come provvedimento “anti rave” rappresenta lo strumento politico-giuridico con cui la destra ha mostrato subito in maniera muscolare il suo volto autoritario e proteso verso la realizzazione dello Stato di polizia in sostituzione dello Stato di diritto. Il rave è stato solo il pretesto per motivare, in modo approssimativo e incostituzionale, i presupposti di necessità ed urgenza. Per intervenire sul rave bastavano gli strumenti normativi esistenti. Con il decreto legge voluto dalla premier Giorgia Meloni e dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si attenta alle libertà civili delle persone.

È introdotto il reato di assemblea, riunioni, manifestazioni, cortei, occupazioni, raduni, incontri, di oltre 50 persone che a discrezione delle forze di polizia possono essere ritenuti pericolosi per l’ordine e la sicurezza pubblica o la sanità pubblica. Per gli organizzatori è prevista una pena da tre a sei anni, quindi arresto in flagranza, possibilità di custodia cautelare, intercettazioni, addirittura si introduce la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale, provvedimento utilizzato per i delitti di mafia. Per i partecipanti è sempre reato ma con pena ridotta.

Si tratta di una fattispecie delittuosa abnorme, illegittima ed incostituzionale. Viola i principi di tassatività e determinatezza che debbono caratterizzare le norme penali, lasciando invece una discrezionalità ai limiti dell’arbitrio alla polizia giudiziaria prima e alla magistratura dopo. Non sussistono i presupposti di necessità e di urgenza. Si violano i principi di libertà di riunione ed associazione scolpiti tra i diritti fondamentali della Costituzione. Autore di questa norma monstrum è un prefetto della Repubblica, oggi ministro dell’Interno, capo politico delle forze di polizia. Da lui politicamente partono direttive ed ordini per reprimere il dissenso e il conflitto sociale. Con il rischio concreto di un uso politico delle forze di polizia che sono al servizio del popolo e non di una parte politica.

Siamo all’abuso giuridico del potere, all’uso illegittimo del diritto e all’oscurantismo politico più retrivo. La retorica autoritaria e repressiva di destra diventa norma. Il diritto viene piegato all’ideologia politica. Hanno paura del dissenso e della democrazia e preparano manganelli, manette e galere. Quelle moltitudini di persone, spesso disperate e affamate di diritti che ho visto negli anni di sindaco di Napoli sotto il Comune e con i quali dialogavo nel conflitto sociale senza mai richiedere uno sgombero o un manganello diventano oggi piazze da arrestare per sporcare per sempre la fedina penale di chi non piega la schiena al sistema.

Oppure pensiamo a ragazze e ragazzi che occupano una scuola o un’università, oppure ancora a cittadine e cittadini che manifestano contro il caro bollette, ed anche ogni iniziativa spontanea per far sentire la voce della democrazia. Le voci non gradite al potere verrano punite. Poi è un’arma micidiale per intimidire in via preventiva ed evitare proprio che ci possano essere manifestazioni e dissenso. Già i governi di centro-sinistra e quelli a maggioranza Cinquestelle avevano mostrato profonda insofferenza verso i luoghi di libertà e le forme di dissenso: si pensi ai decreti sicurezza che colpivano anche gli spazi culturali e i beni comuni oppure la stessa modifica oltremodo repressiva della fattispecie di reato di blocco stradale. Insomma il potere è tendenzialmente sempre più allergico alla democrazia, alla partecipazione, al dissenso, immaginiamoci poi alle contestazioni.

Per poi arrivare in queste ultime settimane all’insediamento di Meloni alla presidenza del Consiglio e al suo primo decreto legge machista e bullo contro i diritti e le libertà civili. Non so se fa più orrore un politico che agisce in questo modo o un uomo delle istituzioni prestato alla politica che piega il diritto all’ideologia. Chi usa la violenza della legge e del potere contro i diritti è un debole che usa la spada di ferro dell’ordine costituito contro i veri deboli e invece la spada di latta contro il sistema criminale, la borghesia mafiosa e la corruttela di stato. Non è questo un governo autorevole ma un governo autoritario.

 

* L’autore: giurista e saggista dopo molti anni di lavoro da magistrato e da sindaco di Napoli, Luigi de Magistris oggi guida l’Unione popolare

In foto: la presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi

La lezione laica di Lucio Libertini, che ha molto da dirci oggi

Lucio Libertini è stato un protagonista della storia della sinistra italiana e del rapporto tra masse e legalità costituzionale. E’ stato un politico coerente, laico e innovatore, certamente un dirigente eretico del movimento operaio. Una figura da riscoprire oggi. Il 2 dicembre a Pistoia si terrà una giornata dedicata al suo percorso di intellettuale e militante,  organizzata dal Comitato per il centenario dalla nascita di Lucio Libertini. La sua lezione si lega alla grande stagione dei partiti. Per Libertini il partito era, insieme, intellettuale collettivo gramsciano ma anche “partito sociale”.

Il rapporto con le masse ne era la linfa ineludibile, per evitare sclerosi, centrismo, burocratizzazione (mali frequenti dei partiti operai). Libertini riteneva essenziale l’unità tra socialisti, comunisti come elemento di originalità, in Italia, rispetto alle altre esperienze europee. E’ stato un esempio quotidiano di coerente pensiero laico, una dimensione che illuminava i suoi scritti, il suo stile di direzione, le campagne di massa che organizzava e dirigeva. Libertini portò anche in Rifondazione comunista, negli ultimi anni della sua vita, il suo rigore antistalinista. La sua critica dello stalinismo e dell’Urss fu ferma e recisa ma non lo portò ad abbracciare la sponda liberista. Non abbandonò il rapporto con il pensiero socialista e comunista. Libertini resta l’autore delle “tesi sul controllo operaio” e  degli scritti sul partito di classe, uno dei fondamenti italiani della cultura anticapitalista, che furono la trama del suo pensiero sino alla morte. Già quella ricerca straordinaria, infatti, portata avanti insieme a Raniero Panzieri, disegnava una uscita da sinistra dalla devastante crisi dello stalinismo. E la ricerca continuò negli anni successivi.

Non a caso, quando il Psi scelse il centrosinistra con la Dc, Libertini si fece promotore del Psiup (partito piccolo ma molto importante anche per la sua composizione operaia e sindacale molto colta), fino alla confluenza nel Pci nei primi anni Settanta, dopo la sconfitta elettorale del Psiup. L’analisi delle composizione di classe e produzione e riproduzione delle catene del valore del capitale, il tema della formazione sociale sono sempre state al centro della sua analisi, così come l’attenzione alle involuzioni istituzionali. La sua battaglia contro la “truffa del maggioritario” e per la rappresentanza proporzionale, nel rispetto della legalità costituzionale, è stato per tutti noi di grande insegnamento. Fu naturale, per Libertini, come disse, contro la svolta della Bolognina schierarsi per la costruzione di Rifondazione comunista. Una coerenza, ma anche un saper osare, un azzardo scientifico, sostenendo sempre una visione critica e democratica del comunismo.

Libertini era davvero “liberamente comunista”; lottò per la rifondazione con la medesima energia con cui si era sempre schierato contro il culto acritico dell’Urss e di Stalin. Crediamo che sia tuttora di straordinaria centralità la questione che Libertini propose in un famoso articolo nel 1990: ” Mi chiedo se la vicenda di questo secolo, con il tragico fallimento dei regimi dell’Est, segni la vittoria definitiva del capitale, che distrugge persone, natura, seppellisce la questione del socialismo; o se la degenerazione di un grande processo rivoluzionario, che ha inciso nella storia del mondo, (e le nuove gigantesche contraddizioni del capitalismo), ripropongano, in termini nuovi, la questione del socialismo , dell’orizzonte ideale. Nel passato sono stato considerato un revisionista, quasi un traditore, perché mi sono rifiutato di definire socialisti e comunisti quei regimi, pur riconoscendo alcune storiche realizzazioni; ora mi si vuole far apparire un conservatore stalinista perché rifiuto di seppellire il socialismo sotto le macerie dell’Est…Una cosa è rifondarsi, altra cosa è abiurare”.

Mentre ricercava Libertini faceva militanza attiva accanto e con i soggetti sociali, studenti, lavoratori, popolo, affrontando le questioni che determinano le loro condizioni di vita. La sua era una militanza a tutto tondo fatta di assemblee, convegni, informazione, lavoro istituzionale. Soprattutto dell’intreccio tra questi momenti. In epoche in cui la politica ancora si occupava di trasformazione e non di eseguire ordini. Lo si può definire un vero riformatore, definizione ben diversa da quella di riformista. Riformatore è chi opera il cambiamento e lo fa avendo a mente l’esigenza di un mondo complessivamente diverso. Si può essere riformatori e rivoluzionari ed anzi questi due elementi si aiutano dandosi concretezza e prospettiva. Si può invece essere riformisti ideologici e dunque senza riforme, anzi affondando il significato stesso della parola riforma.

Da lavoratore instancabile partecipa ad esempio alla stagione del corpo a corpo sul profilo riformatore che si prova a determinare dopo le grandi lotte degli anni ’60 e ’70 e delle grandi avanzate elettorali del PCI, partito di cui dirige l’attività su temi a sensibilità di massa come la casa, i trasporti, il territorio e la vita urbana. Lo fa negli incontri popolari, nelle grandi conferenze tematiche che organizza, nel lavoro parlamentare che produce un poderoso quadro riformatore che prova a scardinare il peso dei poteri forti, a partire dalle rendite, che pesano su questi aspetti della economia e della vita. Leggi sulla casa, piano trasporti, lotta all’abusivismo che però riconosca i bisogni e li liberi dalla speculazione, edilizia e città e dunque produzione e riproduzione. Organizza, scrive, incalza, tra le persone e nel parlamento, col partito e i movimenti. Scrive per giornali articoli di lotta. Spiega i passaggi istituzionali. Riflette nei convegni.

Stagione complessa e anche controversa quella dei governi ispirati dal tentativo di una egemonia riformatrice anche sulla democrazia cristiana. Libertini che pensa sempre alla alternativa e che appoggerà Berlinguer dopo la fine di quella stagione si spende fino in fondo. Il quadro riformatore su casa e trasporti è fatto di luci ed ombre. Disseminato di trappole per favorire il permanere e il rilanciarsi di vecchi e nuovi poteri. Che puntualmente avverrà dopo la sconfitta e il disarmo dello scioglimento del Pci cui Libertini non si rassegna proponendo una nuova forza, Rifondazione comunista, che voleva di massa perché i partiti o sono di massa o non sono. Perché le riforme si fanno con le masse organizzate. Grande dirigente popolare dell’ultimo periodo in cui la politica prova a cambiare con le masse prima di divenire gestrice o imbonitrice come governance o come populista al servizio della controriforma neoliberale.

Dunque quello del comitato che lo ricorda non è solo un lavoro di mantenimento del passato ma di investimento per il futuro.

L’immagine di Lucio Libertini è tratta da Senato.it