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Perché il Pd non va rifondato

«Ai nostri dirigenti nazionali mica interessa il territorio. Ciondolano tra carbonare e amatriciane»; «ma su Sud e lavoro, avete sentito qualcosa, un progetto? Niente, balbettano»; il Pd «è un partito maschilista, le donne per contare devono piegarsi alle correnti»; e ancora: il Pd è «screditato, respingente, misogino, confuso, ondivago, incoerente»; il Pd «è stato un insuccesso»; denunciamo «dossieraggi per far fuori dalle liste un ragazzo di 28 anni»; al Pd «serve ri-radicarsi nel Paese e capire se crede o meno in sé stesso»; un partito che «se non ha identità riconoscibile, allora l’identità diventa quella del Governo»; «serve una rivoluzione» (da La Repubblica del 6 e 7 ottobre 2022).

Non sono parole, giudizi che vengono dalla destra vincente delle ultime elezioni politiche. Sono incredibilmente parole che vengono da esponenti del Pd stesso, fuori e dentro la Direzione nazionale (De Luca, Provenzano, Cuppi, Morani, D’Elia, Lepore. I nomi che “‘contano” al momento tacciono, a parte brevi dichiarazioni di circostanza: Franceschini, Bonaccini, Boccia, Guerini). E tali giudizi si aggiungono alle dichiarazioni clamorose del predecessore di Letta, quel Zingaretti che si dimise da segretario in quanto «si vergognava di un partito impegnato solo a spartirsi le poltrone». Gli stessi esponenti che, con Letta, fino a soli pochi giorni fa, decantavano le grandi qualità del partito, unico argine alle destre, perno del centrosinistra.

Quale di quelle caratteristiche denunciate possono ritenersi proprie di un partito di sinistra?
Perché inutile girarci attorno: il primo e più tenace e pericoloso nemico del Pd è il Pd, e non da oggi.
Un partito che in tutti gli anni della sua esistenza non ha mai voluto affrontare, per convenienza, il nodo di fondo: chi è, chi rappresenta, quale la visione di mondo e di Paese. Un partito che non ha mai voluto discutere davvero, analizzare ciò che avveniva nel Paese, raccontare le grandi vittorie nelle amministrative (che vittorie spesso non erano, se solo si fosse analizzato).

Un partito che da anni non conosce il significato delle parole analisi, critica e autocritica (che fine hanno fatto le Agorà?), cui gli basta avere assessori, sindaci, ministri. Perché non basta darsi una “spolverata” di civismo, di solidarismo, per essere, ed essere percepito, partito di sinistra. Perché se poi sei il partito “della vocazione maggioritaria”, del Job act e della legge elettorale Rosatellum che ora, fintamente, non piace a nessuno (li fece Renzi, vero, ma da segretario del Pd e con una lunga corte di adoranti), della precarizzazione, del governo per il governo, che approva la riduzione dei parlamentari, che approva l’aumento delle spese militari e via elencando, hai voglia a definirti di sinistra.

Questa ambiguità di fondo del Pd ha costituito da un lato la garanzia di sopravvivenza (il fascino che ancora esercita su parte consistente del suo elettorato che lo vota, come un tempo, magari oggi turandosi il naso, perché “l’ha detto il partito”, non rassegnandosi che quel partito non c’è più) ma allo stesso tempo ne rappresenta il limite vero, perché non convince una altra gran parte di popolo di sinistra (che si rifugia oggi nei 5S e soprattutto nell’astensione) né all’opposto quella porzione moderata e “liberista” che preferisce orientarsi verso Calenda, né infine quella parte di elettorato popolare (che non vuol dire populista, ma delle periferie, degli strati meno protetti, e persino dei lavoratori a rischio “proletarizzazione”) che si affida alla destra vista non più come pericolo ma come ancora di salvataggio. Per essere il partito di tutti, nella narrazione, diventa il partito di nessuno.
Se il Pd in questi anni avesse definito il proprio abito, avrebbe avuto il merito di semplificare il campo politico, e, non di minore importanza, avrebbe contenuto l’avanzata delle destre e dei populismi in genere. E, paradossalmente, avrebbe rotto gli argini alla sua stessa crescita.

Se il Pd avesse scelto, persino legittimamente, di essere un nuovo moderno partito moderato, delle classi medie, liberista, certo con un’attenzione ai temi sociali, avrebbe potuto diventare un punto di riferimento sicuro per quel mondo, e probabilmente maggioritario. Stessa cosa se avesse scelto di essere un moderno soggetto dichiaratamente di sinistra, adottando programmi e facendo scelte conseguenti (esempi del Portogallo, della Spagna e in ultimo della Francia), e avrebbe invero potuto rappresentare il punto di riferimento di quel mondo, riducendo la frammentazione, e riconducendo al suo interno le varie sensibilità pure esistenti, e contribuito fortemente a limitare l’astensionismo.

Invece la sua ambiguità, il fare politiche liberiste ma al contempo dichiararsi partito di sinistra, ne fanno il vero nodo irrisolto della politica italiana. E finché questo nodo non si scioglie, non si riuscirà ad avere né un vero partito di centro moderato né “progressista”, né una sinistra compiuta. Perché poi alla fine la destra vince non perché FdI prende il 25% dei voti (un quarto dei votanti un ottavo degli elettori), perché la Lega prese anche di più, così come Fi (la loro somma è sostanzialmente stabile). La destra vince perché da anni oltre il 40% degli italiani si orienta a destra, stando ai sondaggi degli ultimi anni, non giorni, e quindi con un annoso problema di “egemonia” culturale oltre che politica.
La destra vince perché banalmente, semplicemente e prevedibilmente, si è unita, se pure furbescamente, sfruttando l’opportunità che il Rosatellum gli ha concesso e che, ripetiamo, è frutto avvelenato dello stesso Pd.

Ora si parla di “rifondare” il partito, di rivederne le basi, di ridiscutere tutto, persino, dice qualcuno, il nome ed il simbolo. Se questa operazione si traduce, come purtroppo pare, e senza cogliere l’opportunità storica, in uno scontro di apparato, tra capi e capetti, tra dirigenti, tra aspiranti segretari, al motto di “tutto cambi perché non cambi nulla”, allora è una pura operazione di facciata, da utilizzare già subito alle prossime elezioni nel Lazio e in Lombardia, dove stavolta non basterà però l’allarme patetico del “se no vince la destra” (ha vinto già nel Paese). Ma se fosse davvero sincera, cioè destinata a chiarire in modo definito natura e prospettive dell’attuale partito, non può che essere il primo passo non solo verso il chiarimento negli schieramenti politici nel Paese, ma potrebbe essere davvero l’approdo per tutto quel mondo che non poteva riconoscersi nel Pd.

Ciò vorrebbe dire passare non per la rifondazione del partito, ma attraverso il suo scioglimento, come di tutte le formazioni piccole e meno piccole alla sua sinistra, che non avrebbero più ragione sociale, per dare vita ad un nuovo, diverso partito.
Bisognerebbe cogliere questa opportunità per tirare una netta linea di demarcazione che discrimini chiaramente, e ovviamente legittimamente, chi è da una parte chi dall’altra. Ciò vorrebbe dire tagliare coraggiosamente con parte di apparato dei suoi mainstream (ex-renziani, Minniti, veltronisti, le finte narrazioni civiche, le narrazioni sui sindaci vincenti ma minoritari del secondo turno, ecc.), facendo anche scelte dolorose, persino sul piano personale e affettivo, ma riconoscendo che alcune visioni non hanno casa, non in un Pd rifondato, ma in un partito nuovo, altro: una Bolognina due.

Facendo un simile uno sforzo, politico e intellettuale, questo sì davvero generoso e di valore storico, si potrebbe aprire un processo “costituente”, non già del solo Pd ma collettivo di tutti i soggetti a sinistra a vario titolo interessati e chiamati al confronto, libero e paritario, e che potrebbe davvero essere un primo passo, forse decisivo, per la ricomposizione delle varie frammentarietà, più o meno fortunate, al termine del quale, a fronte di uno scioglimento comune, si possa dare vita finalmente ad un soggetto unitario, che guardi oltre alla propria sopravvivenza: offrire al Paese finalmente un grande partito di sinistra moderno, ricco anche di sensibilità pure diverse, ma che si riconoscono in una medesima prospettiva di fondo, e dove il confronto sia finalmente di idee e non tra correnti, dove il centro della discussione non sia la distribuzione degli incarichi, ma la definizione di una nuova idea di Paese.

Questa è la vera sfida che i risultati elettorali lanciano al Pd e alla sinistra tutta: ripensarsi, e ripensare ai motivi veri, oltre che alla necessità, di unità. Non so se sapremo cogliere l’occasione, se sapremo rinunciare ciascuno alle proprie rendite di posizione, ma il tempo è questo. Abbiamo almeno cinque anni.

L’autore: Lionello Fittante è tra i promotori degli Autoconvocati di Leu ed ex componente del Comitato nazionale èViva

Nella foto: la Direzione nazionale del Pd, Roma, 6 ottobre 2022

Quei giovani attivisti che lavorano per la pace senza chiedere armi

Con l’obiettivo di perseguire la via del cessate il fuoco attraverso la diplomazia, dal 21 al 23 ottobre si svolgerà in diverse città italiane una mobilitazione dal titolo “Verso una conferenza internazionale di pace”. Una soluzione che alla luce della minaccia atomica di Putin e degli ultimi attacchi missilistici russi su Kiev si fa ancor più urgente e necessaria. Il testo che segue è il racconto della nuova Carovana della pace (la prima era partita in aprile) che si è tenuta dal 26 settembre al 3 ottobre, una iniziativa «per incontrare e stringere rapporti con la società civile, ed in particolare gruppi giovanili di studenti e obiettori di coscienza e il Movimento pacifista ucraino».

Una settimana in Ucraina, raggiunta via Slovenia, Ungheria, Romania, entrando dalla frontiera di Siret, dopo aver oltrepassato i Carpazi e la Transilvania. Cinquemila chilometri percorsi con il nostro camper, un van, tre automobili, e con il treno notturno di Ukrzaliznycja che impiega oltre 15 ore di viaggio per arrivare a Kiev attraversando tutto il Paese, con lo scotch ai finestrini per evitare schegge in caso di deflagrazione.

La quarta Carovana di pace “Stop the war now”, composta da 25 persone, è partita il 26 settembre e rientrata in Italia il 3 ottobre. Abbiamo portato un carico di aiuti umanitari, tre metri cubi di vestiario invernale (giacche a vento, maglie termiche, sacchi a pelo) come ci è stato chiesto dalle associazioni partner che assistono i profughi provenienti dai territori occupati del Donbass.

Ma la nostra missione, oltre che di solidarietà con le vittime, questa volta aveva un carattere prevalentemente politico: incontrare e sostenere concretamente gli obiettori di coscienza, i pacifisti e i nonviolenti ucraini, con le associazioni della società civile coinvolte nei processi di peacebuilding, la costruzione della pace e il rispetto dei diritti umani.

Guidata da Un Ponte per e dal Movimento nonviolento la Carovana ha avuto un’agenda fitta e ha realizzato tutti gli obiettivi che si era posta.

Nella bella Università di Chernivtsi, patrimonio Unesco, abbiamo incontrano i giovani studenti (facoltà di giornalismo, giurisprudenza, scienze politiche, storia) per il seguitissimo seminario “Immaginare la pace durante il conflitto”, introdotto da tre relazioni in presenza: sul peacebuilding di Mohamed Ambrosini di Un Ponte per, su “giovani, pace e sicurezza” di Daniele Taurino del Movimento nonviolento  e sul tema “Per un’Europa giovanile e democratica” di Antonio Argenziano, Segretario generale della Gioventù federalista. Con i docenti universitari abbiamo messo le basi per la realizzazione nell’Università ucraina di un corso di Scienze per la pace, in collaborazione con la “Rete Università per la pace” italiane. Sarebbe la prima volta in un Paese in guerra.

C’è stato poi un incontro con associazioni giovanili, studenti e giornalisti per un confronto sul ruolo della società civile nella costruzione della pace attraverso il partenariato umanitario e il lavoro delle organizzazioni non governative nella solidarietà con le vittime della guerra.

Lasciata Chernivtsi, siamo arrivati a Kiev. La città, di chiaro respiro europeo, è contraddittoria: il traffico scorre ordinato, ma nella metropolitana si avverte un clima di tensione e preoccupazione. Negozi e ristoranti sono comunque pieni, ma la normalità prevale solo fino alle 23,  poi scatta il coprifuoco e le luminarie si spengono. Il suono della sirena alle 4 di notte, è impressionante. Solo pochi scendono nei rifugi. Dopo 10 minuti sul cellulare arriva il segnale di cessato allarme.

Nell’Hotel dove alloggiavamo siamo stati raggiunti dagli attivisti del Movimento pacifista ucraino (Upm). Yurii Sheliazhenko, segretario del Movimento, ci ha accompagnati alla statua del Mahatma Gandhi eretta nel centralissimo giardino botanico, presenti anche altri due rappresentanti di Upm, l’obiettore Sergej e l’attivista Katya, che leggono e commentano la loro proposta di “Agenda di pace per l’Ucraina e per il mondo”. Dicono: «Dobbiamo sfidare con la nonviolenza lo stereotipo della vittoria militare». E aggiungono: «La pace e la solidarietà in Europa e nel mondo è un sogno potente, ma si è trasformato nella selvaggia illusione di schiacciare il nemico comune ad ogni costo, trascurando il fatto che esso già convive con la paura ed è costretto ad affrontare quotidianamente orribili spargimenti di sangue, carenza di cibo, iperinflazione, crisi economica ed ecologica e l’incubo di una concreta guerra nucleare seriamente pianificata. Pace e solidarietà comportano la necessità di un cessate il fuoco immediato e di colloqui di pace globali per trovare un terreno comune tra l’Ucraina e la Russia, tra l’Est e l’Ovest». A margine abbiamo conosciuto l’avvocata del giornalista pacifista Ruslan Kotsaba, sotto processo per “alto tradimento” per sue dichiarazioni, con rischio condanna a 15 anni di carcere, con l’obiettivo di sostenere la difesa legale e accendere i riflettori internazionali sul caso.

Proseguono gli incontri con le realtà della società civile. Nella loro sede incontriamo una ong che fornisce assistenza legale ai lavoratori in lotta: dall’inizio della guerra sono stati persi 5 milioni di posti di lavoro, in una condizione di totale deregolamentazione che prevede anche licenziamenti senza nessun ammortizzatore sociale. Una dirigente e una delegata del sindacato del pubblico impiego ci dicono della loro forte preoccupazione per il taglio, dall’inizio della guerra, del 30% dei lavoratori, la mancanza di parità salariale e la diversità di trattamento di genere rispetto agli standard dell’Unione europea cui si guarda come riferimento per i diritti.

Poi abbiamo visitato i centri giovanili ucraini, finanziati dal ministero dello Sport e della gioventù, che dal giorno dell’inizio della guerra si sono trasformati in centri logistici per l’aiuto umanitario e per il supporto psicologico e comunitario, rielaborazione del trauma e promozione di cultura come strumento di pace. Conosciamo anche due attivisti nei territori occupati, visibilmente stremati dopo mesi di spola portando aiuti e riportando, quando possibile, profughi: un’azione di resistenza civile sempre più difficile in luoghi dove manca totalmente ogni informazione, mancano i mezzi di comunicazione, prevale il disorientamento, e dove cresce l’odio reciproco.

Nella sede del Consiglio nazionale dei giovani ucraini (Nycu) la carovana ha ascoltato i bisogni delle organizzazioni giovanili che vogliono continuare il proprio impegno non soltanto nel campo umanitario, ma anche nella promozione dei diritti e di una società più giusta, inclusiva e pacifica. Da parte nostra abbiamo offerto la collaborazione per iniziative congiunte.

La responsabile dei programmi dell’Institute for peace and common ground, ha posto l’accento sull’importanza di non pensare alla pace soltanto alla fine del conflitto ma di costruire fin da ora percorsi di giustizia riparativa e dialogo anche con campagna comunicative e sociale contro i discorsi d’odio per aumentare la resilienza delle comunità locali.

Infine abbiamo realizzato anche due incontri istituzionali, con l’Ambasciata italiana e la Nunziatura apostolica a cui abbiamo esposto i contenuti e gli obiettivi della nostra carovana.

Siamo tornati a casa con l’agenda piena di contatti e l’impegno di far conoscere le voci di chi in Ucraina non chiede armi ma lavora concretamente per ottenere pace.

Considerano questa la vera vittoria possibile.

L’autore: Mauro Valpiana è presidente del Movimento nonviolento e componente dell’Esecutivo di Rete italiana Pace e disarmo

Nella foto: manifestazione per la pace in Kazakhstan, 6 marzo 2022

Crollano, per fortuna, i tifosi dell’escalation

Negli Usa una discussione schietta e sincera, senza sentire esagitati bellicisti da divano che additano amici di Putin ogni secondo, è già iniziata da giorni. Da noi ieri il direttore de La Stampa Massimo Giannini ha scritto un editoriale impossibile fino a pochi giorni fa in cui dice che è arrivato «forse il momento che le cancellerie euro atlantiche aprano un confronto serio con Zelensky, non per accusarlo o isolarlo, ma almeno per capire qual è la sua strategia, e qual è per lui il confine tra protezione e aggressione. E ovvio che il presidente ucraino combatte questa guerra con i mezzi che ha a disposizione e che ritiene più efficaci. Ma un conto sono le operazioni belliche che il suo esercito effettua (col nostro aiuto) per riconquistare i territori ucraini usurpati dagli invasori. Altro conto sono le missioni che i suoi 007 effettuano oltre i confini, andando a colpire l’Orso russo nella sua tana. Le implicazioni possono essere molto diverse».

Scrive Giannini: «E poiché (come abbiamo detto) la sua guerra è pure la nostra, quelle implicazioni riguardano anche noi. L’Occidente ha un dovere nei confronti di Zelensky: lo deve sostenere, senza distinzioni pelose. Ma Zelensky ha un impegno nei confronti dell’Occidente: lo deve ascoltare, senza decisioni precipitose. Nella spirale che ci sta risucchiando, a ogni azione ucraina può corrispondere una reazione russa che potrebbe non colpire più soltanto Kiev, ma l’intera Alleanza Atlantica e l’intera comunità internazionale. Di questo il commander in chief ucraino deve tenere conto. A meno che (e non vogliamo crederlo) non pensi di trascinarci tutti nella Terza Guerra Mondiale. Che per altro, forse, è già cominciata».

Qualcuno tardivamente ci sta arrivando. Tralasciando i veri amici di Putin e coloro che chiedono una resa ucraina c’è molto di più dei testosteronici guerriglieri da divano nostrani (molti curiosamente appartenti al sedicente universo liberale) di cui occuparsi. Salutiamo l’abbandono del pensiero binario e la benvenuta complessità della situazione in Ucraina. Discuterne seriamente significa innanzitutto smettere di eccitarsi per le bombe giuste, insistere nel raccontare il genocidio russo e l’orrore di questa guerra (e di tutte le guerre) in cui Putin sta dando sfogo alla sua natura criminale e chiedere che gli attori in campo siano all’altezza della situazione, tutti.

Potremo così finalmente lasciar perdere quei miseri personaggi che usano il dolore ucraino per sistemare le proprie antipatie personali e da cortile (un esempio su tutti lo striscione su Gazprom alla manifestazione della Cgil che è stato subito rimosso dal servizio d’ordine) e preoccuparci, come scrive Giannini, della «spirale che ci sta risucchiando», «a meno che Zelensky (e non vogliamo crederlo) non pensi di trascinarci tutti nella Terza Guerra Mondiale. Che per altro, forse, è già cominciata». Confidando che l’Ucraina possa presto tornare a essere libera.

[Durante la notte, dopo la prima stesura di questo articolo, Putin è tornato a colpire con missili sulla capitale ucraina, colpendo obbiettivi che non hanno nulla di militare come l’università e un parco. Qualcuno lo chiama terrorismo. È guerra, quella guerra che Gino Strada additava come sbagliata sempre, tutta. Alcuni chiederanno ancora più armi, ancora più sangue. Altri tiferanno ancora di più l’escalation, come dice Nico Piro che sul suo account twitter scrive: «Ricordate gli opinionisti con l’elmetto che gioivano per esplosione su ponte Kerch? Ora si indignano per attacco su Kyev (anticipato mesi fa dai russi tra possibili rappresaglie) producendosi in distinguo da azzeccagarbugli. La loro è una narrazione tossica, tifano escalation». Come scrive Stefano Barazzetta: “Un ponte è un obiettivo militare (chi ride per un bombardamento che ha ammazzato anche dei civili è da internare). Bombardare il centro città durante l’ora di punta è un atto terroristico. Le differenze ci sono. Detto questo, l’escalation fa solo il gioco di Putin].

Buon lunedì.

Memorie di una faina che ha molto amato. L’esordio pluripremiato di Zannoni

«Avevo intrappolato la mia prigione nella carta. Ero di nuovo libero, e triste». L’esordio di Bernardo Zannoni (27 anni), I miei stupidi intenti, pubblicato da Sellerio nel 2021 (vincitore del Premio Campiello 2022 e del Premio Opera prima Severino Cesari nell’ambito di Umbria libri), vive di parole, parole che danno libertà e forse dannazione. È un libro che parla di libri, anzi del Libro e di scrittura; è un libro di storie, a partire da quella del narratore protagonista, una faina di nome Archy, che, rimasta zoppa, viene ceduta dalla madre in cambio di una gallina e mezzo all’usuraio Solomon, una volpe, che da aguzzino diventerà il suo maestro e mentore, perché insegnerà ad Archy a leggere e a scrivere. Il fatto che i personaggi del romanzo di Zannoni siano animali, lo collocano naturalmente nel solco della tradizione favolistica, ma in modo diverso: Zannoni non ha una morale da trasmettere e l’idea di scegliere degli animali come personaggi del suo libro, in realtà, sembra più riconducibile all’esigenza di essere libero da insegnamenti e considerazioni morali.

Semmai il richiamo alla favola va inteso in senso etimologico, perché I miei stupidi intenti è un romanzo che mette al centro il narrare e il raccontare; lo scrivere per esaltare ed esorcizzare al tempo stesso i sentimenti “primitivi” degli uomini, amore e paura, e per sconfiggere la morte («La morte la uccidi se non ci pensi», e se la scrivi, la racconti). L’esordio di Zannoni è un grande elogio alla solitudine; molti personaggi del libro appaiono come anime salve, e lo sono per statuto Archy e Solomon, il cui rapporto vive di silenzi e di parole silenziose, scritte e lette, che assumono un carattere sacerdotale, sacrale. Solomon e Archy, il maestro e l’allievo (e Archy, da anziano, diventerà a sua volta maestro, dell’istrice Klaus): «La vecchia volpe decise di insegnarmi tutto quello che sapeva. L’oggetto sul tavolo, la parola di Dio, mi disse di chiamarlo libro, e i segni in esso contenuti scritte. Per capire cosa dicevano dovevo imparare a leggere. Una volta imparato a leggere avrei anche imparato a scrivere. La vecchia volpe sapeva fare entrambe le cose, e siccome ero diventato suo apprendista, disse di non chiamarlo più signore, ma solo Solomon».

I miei stupidi intenti è anche il libro delle domande. «Sai cos’è l’amore?», chiede il vecchio Solomon al giovane Archy, che sta imparando a sue spese quanto può essere meravigliosa e terribile la vita, e che deve oltrepassare la sua personale linea d’ombra («Non avevo più paura, ma continuai a piangere ancora, di gioia»); la vita, che dà e ferocemente toglie, come il suo perduto amore, la bella Luise, sua sorella, che verrà uccisa per invidia dalla madre, e Anja, che fugge da lui di nascosto con i figli, ma che lui non riesce a condannare. «La notte prima ci eravamo detti le nostre ultime parole, e non avrei mai più potuto dirgliene altre, come adesso desidero». Le parole, la parola, che dà il nome a tutto ed è un dono, o una maledizione, che è anche fulgido tracciante di certe meravigliose latitudini semantiche ed esistenziali. «Vuoi che ti insegni le parole?», chiede Archy a Klaus; «Decidi tu, Archy». I miei stupidi intenti di Bernardo Zannoni lascia aperte davanti a sé diverse strade da percorrere. Non resta che attendere quali.

Foto in apertura da Wikipedia

 

L’attualità del cinema muto che superava i confini

La nuova edizione delle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, il festival che da oltre quarant’anni riporta al pubblico contemporaneo la meraviglia del cinema delle origini, è sicuramente tornata ai livelli pre-pandemia, in termini di pubblico internazionale e di possibilità di fruire appieno delle strutture festivaliere, in primis il Teatro Verdi. E anche quest’anno, dal primo all’8 ottobre la programmazione cattura con una  ricchezza di titoli inediti e di nuovi filoni di ricerca. Questo cinema ad un occhio superficiale e anestetizzato dall’intrattenimento contemporaneo forse potrà sembrare fuori dal tempo ma a vederlo qui a Pordenone, sul grande schermo, appare in tutta la sua meraviglia e attualità.
Per parlarne abbiamo incontrato Jay Weissberg, direttore del festival ma anche giornalista, critico cinematografico e scrittore.

Direttore Weissberg il cinema delle origini  non ha valore solo filologico ma anche una sua “attualità”?
Nella mia vita professionale ho sempre cercato di conciliare il cinema classico con quello contemporaneo. Gran parte dei miei colleghi ritiene che il cinema in senso moderno abbia inizio con Tarantino, o tutt’al più con Cassavetes. C’è un pregiudizio non solo da parte del pubblico, ma anche all’interno dell’industria cinematografica, nei confronti del cinema delle origini. Per me questo è sempre stato motivo di frustrazione: ai miei occhi non è importante che una cosa sia nuova, ma che sia fatta bene, con creatività. Se diamo un’occhiata alla produzione cinematografica del 1907 ad esempio non possiamo non renderci conto di quanto questi film siano innovativi. Quindi, sì, è bello poter lavorare sia nell’ambito della critica cinematografica che del festival di archivio, ma anche frustrante, perché non posso, come critico dedicare abbastanza tempo e risorse al cinema delle origini.

Quest’anno il PorSilent film festival di Pordenone torna a riscoprire le donne che hanno fatto il cinema muto. In particolare c’è un focus su Norma Talmadge che all’epoca fu una delle attrici più apprezzate dal pubblico e che poi è stata completamente dimenticata. 
Insieme a Chaplin, Pickford, Fairbanks è in assoluto una delle interpreti più importanti del cinema muto, figura molto apprezzata dal pubblico, in grado di fare grandi risultati di botteghino. Una artista poliedrica, in grado di passare dalla commedia al dramma e di interpretare caratteri molto diversi in modo sempre molto naturale, priva cioè di una eccessiva teatralità, ma dotata di una grande espressività e mimica. Cominciò con la Vitagraph e fece tantissimi film di successo, soprattutto melodrammi. Dopo l’avvento del cinema sonoro interpretò solo due film, che andarono male, e questo creò il falso mito che non fosse una buona attrice. Fu dipinta con malevolenza sia a livello professionale che personale. Mettiamoci anche che lavorò con tanti grandi registi ma non si legò mai a nessuno, come invece Greta Garbo e Clarence Brown. Tutto ciò la relegò all’oblio più di altri attori dell’epoca del muto. Ma era una attrice raffinata e abbiamo motivo di pensare che avesse anche un significativo ruolo produttivo e capacità imprenditoriale.

L’anno scorso il focus era stato su un’altra donna indipendente e talentuosa, Ellen Richter, Che con la sua interpretazione di donne forti e indipendenti, ha saputo rappresentare e mostrare il rapporto irrisolto che la borghesia occidentale aveva con l’irrazionale. Queste artiste erano spesso mediterranee, gitane, est-europee. Quest’anno con la sezione “Ruritania” si torna ad indagare il ruolo del cinema nel rappresentare la diversità?
Sì, è sempre interessante e disturbante l’idea dello sguardo dell’altro, sull’altro. E trova espressione anche nella rassegna di quest’anno sul cinema coloniale olandese, e nella proiezione di Nanouk Of the North (Nanouk l’Eschimese) di Flaherty: questo film è stato molto criticato perché rappresenterebbe sempre la prospettiva dell’uomo bianco, ma appare comunque un tentativo di rapporto, di superamento di un atteggiamento “orientalista” e stereotipante verso le altre culture, così diffuso in Occidente. Ecco il concetto di Ruritania è intriso di tutto questo.

Ruritania è i nome di un fantomatico, sontuoso e arretrato regno balcanico, teatro di intrighi a corte, scambi di persona, re e usurpatori, fughe e rapimenti, che appare per la prima volta nel celebre romanzo di Anthony Hope  Il prigioniero di Zenda e poi in innumerevoli film.
Sì, è un tema di grande rilevanza che non è mai stato trattato in modo approfondito in ambito internazionale. Sull’argomento c’è un po’ di letteratura anglosassone, dobbiamo molto ad esempio al libro Inventing Ruritania di Vesna Goldsworthy, che rappresenta bene come questo colonialismo dell’immaginario, di “orientalizzazione” sia stato applicato ai Balcani, visti in modo paternalistico come società primitive, turbolente, litigiose, contrapposte a un Nord, a un Occidente sviluppato, razionale, superiore. L’argomento è molto attuale, e merita un punto di vista internazionale, se pensiamo che sono stati identificati oltre 250 film muti sul tema, e solo in Italia tra il 1911 al ’25 sono stati girati almeno 65 film ambientati in luoghi come la “Silistria”, versione italiana della Ruritania. Quindi c’è molta ricerca da fare. E poi ci sono i topoi correlati: quello del doppio, sempre presente in questi film, l’attenzione e il fascino esercitato dalle vicende di nobili e regnanti, persone al di sopra della gente comune. La critica ha sempre negato dignità culturale a questa vasta produzione cinematografica, che tratta temi che le elite culturali delle società democratiche contemporanee vorrebbero dire superati, e ma che, l’abbiamo visto con le celebrazioni per la morte della regina Elisabetta, ancora oggi riescono a creare grande partecipazione popolare.

La critica non ha saputo quindi cogliere che attraverso questi film la società cercava di rappresentare se stessa e non a caso sceglieva i Balcani,
diversi sì, ma non così tanto, tutto sommato piuttosto vicini.
Esatto, non si è scelta la Cina, l’Africa, alla fine siamo tutti europei. Loro sono come noi ma non sono noi, e questo è motivo di grande fascinazione. C’è poi una linea sottile tra la realtà e la fiction. Ho voluto programmare anche diversi cinegiornali, per avere un’idea realistica dei Balcani dell’epoca. Ed è interessante indagare quanto la realtà stessa di quei luoghi e di quelle persone si sia lasciata influenzare dall’immagine cinematografica che si aveva di loro in un continuo rimando tra realtà e fiction.

A passo di danza nella Domus aurea

Roma è ricca di luoghi magici e la Domus Aurea è uno di quelli. Quando si scende nelle profondità del Colle Oppio è impossibile rimanere indifferenti al susseguirsi di meraviglie che appartenevano alla sontuosa Villa di Nerone. Pitture in quarto stile pompeiano – che decoravano anche gli ambienti di servizio; mosaici, tracce di articolate strutture, giochi di acqua e di luce, lasciano solo immaginare l’antico splendore di questa meravigliosa domus.

Ebbene, dopo circa duemila anni, la Domus aurea rivive grazie a Moisai 2022. Voci Contemporanee in Domus Aurea. Rassegna organizzata e promossa dal Parco archeologico del Colosseo, con la direzione artistica di PAV che, fino al 9 ottobre, celebra le Muse, protettici delle arti, figlie di Zeus e Mnemosine. Con Moisai, l’aula ottagona, concepita da Nerone come coenatio, ovvero spettacolare sala per banchetti, torna ad aprirsi all’arte. L’ambiente, ideato per affascinare gli ospiti, è tutt’ora coperto da un’imponente cupola in calcestruzzo, realizzata grazie ad un’innovativa tecnica ingegneristica che adopera i pilastri degli otto ambienti laterali – creati appositamente – per sostenere il peso della volta. Inoltre, secondo le fonti, la sala Ottagona, era dotata di una struttura lignea, progettata dagli architetti Severo e Celere che, grazie a complessi ingranaggi ad acqua, ruotava su se stessa lungo l’arco della giornata, simulando il movimento del mondo intorno al sole, simbolicamente rappresentato dal trono, collocato al centro, in corrispondenza dell’oculus zenitale, da cui, all’occorrenza, piovevano petali di fiori ed essenze profumate.

Roma Domus Aurea MOISAI 2022 02-10-2022
Alcune Coreografie

In questa cornice, ho incontrato Polimnia, Musa della danza, definita da Nonno di Panopoli, nelle Dionisiache, la madre della danza, che: «muoveva le braccia e disegnava nell’aria l’immagine di una voce silenziosa, parlando con le mani e muovendo gli occhi in una forma di silenzio piena di significati…», rappresentata da Alcune Coreografie, progetto del filmaker e performer Jacopo Jenna, interpretato da Ramona Caia.

Videoarte e danza si compenetrano in un meta-spettacolo che incarna a pieno le parole del poeta greco: «parla della danza attraverso la danza e con essa si confonde fino a produrre nuove immagini».

Nella prima parte dell’opera la danzatrice si rapporta ad un video che presenta una serie di frammenti di danze diverse. Scene tratte da film, video amatoriali, documentari, si susseguono, senza soluzione di continuità e senza un ordine logico, in un ritmo incalzante e serrato. Dal balletto classico, alla Haka degli All Blacks; dai rituali orientali, ai night club. Ramona Caia si rivela portentosa nel rispondere al video, riprendendone i movimenti con precisione, velocità e limpidezza, nonostante gli input continui, contraddittori e bruschi. La danzatrice con piena padronanza del proprio corpo e, attraverso l’armonia delle sue movenze, trasforma la fredda sequenza video in una coreografia fluida, femminile ed umana. 

Roma Domus Aurea MOISAI 2022 02-10-2022
Alcune Coreografie

Nella seconda parte dello spettacolo, Ramona Caia si misura con il video dell’artista Roberto Fassone che, suddiviso in “Composizioni”, ha come protagonista una natura di ampio respiro. Grandi orizzonti e paesaggi sconfinati, si alternano a microcosmi dalle proporzioni colossali.
L’artista adotta un linguaggio simbolico ma, nello stesso tempo, ironico e leggero, giocando con parole, suoni e immagini per creare una sottile sensazione di spaesamento nello spettatore. Come se lo scopo fosse quello di far cambiare punto di vista, creando uno slittamento del focus. La risposta di Ramona Caia è immediata. La sua danza si adegua al video, facendosi più “silenziosa”. Se prima la coreografia era strutturata principalmente su una direttrice verticale, nella seconda parte prevale una dimensione orizzontale. Come a voler riprendere ed amplificare, con i movimenti del corpo, i vasti orizzonti del video.

La capacità di Ramona Caia di umanizzare la proiezione attraverso la sua interpretazione, sollecita una riflessione sulla dicotomia umano/non umano; sul rapporto uomo/macchina. Sottolineando come la tecnologia sia uno strumento a servizio dell’uomo e non viceversa. Messaggio reso ancor più efficace dalla location d’eccezione in cui è ambientata la performance: la Domus Aurea; luogo che oggi rivive proprio grazie al virtuoso uso delle innovazioni tecnologiche che rendono possibile la riscoperta e la tutela del passato.

«Tutto il mondo gridi: Donna, vita, libertà»

La brutale uccisione della curdo iraniana Masha Amini ha scatenato la rivolta in Iran. Che ha già fatto centinaia di vittime a causa della violenta repressione del regime degli Ayatollah. Ma che tuttavia non si arresta, con università in sciopero e una mobilitazione studentesca che non ha pari. Perché questa rivolta è diversa da quelle precedenti? Perché potrebbe essere l’inizio di una vera rivoluzione contro il regime teocratico? Lo abbiamo chiesto a una attivista iraniana che vive in Italia. Per non metterla a rischio la chiameremo con un nome di fantasia. Il nome de plume da lei scelto è Zané Bitarbiat che in persiano significa “donna scostumata”.

«In estrema sintesi la rivolta oggi in Iran si distingue dalle precedenti per alcuni elementi cardine – risponde in modo diretto e pragmatico come chi ha poco tempo da perdere -. In primo luogo è una protesta femminista ma intersezionale contro tutte le forme di oppressione, per questo è riuscita a unire tutto il popolo in Iran scavalcando le differenze di genere, etnia o classe sociale. Così è diventata una protesta radicale e strutturale, in questo senso è una rivoluzione. Ma soprattutto è una protesta con un discorso internazionalista e universale. È sotto gli occhi di tutti: in poco tempo è riuscita ad ottenere un ampio sostegno internazionale proprio perché lotta contro le oppressioni che esistono in tutti i paesi del mondo.

Cosa la distingue questa dalle rivolte precedenti e dall’onda verde?
Negli ultimi anni ci sono state varie proteste in Iran con diverse rivendicazioni. Nel 1999 scoppiarono le proteste studentesche per la libertà di stampa, nel 2009 fiorì il Movimento verde contro i brogli elettorali e per la democrazia. Nel 2017/1018 ci sono state rivolte su scala nazionale contro la discriminazione di classe e il carovita. Nel 2019/2020 seguirono altre manifestazioni sempre di radice economica e per la giustizia sociale. E oggi vediamo le proteste in tutte le regioni iraniane che hanno al centro i diritti delle donne. Nel frattempo, tra le varie suddette ondate di protesta, ci sono state anche varie lotte più specifiche in Iran, contro diverse forme di discriminazione: di classe, etnia e genere. Ricordiamo lo sciopero degli operai dello stabilimento di zucchero di Haft Tappeh o di Acciaio di Ahwaz contro la privatizzazione delle industrie, lo sciopero degli insegnanti contro la privatizzazione delle scuole. La campagna di un milione di firme contro le leggi discriminatorie di famiglia, la protesta delle “ragazze della via di Rivoluzione” contro il velo obbligatorio, le rivolte nella regione araba di Kuzistan, in Kurdistan iraniano e in Baluchistan contro la repressione economica e la crisi ambientale in queste regioni emarginate.

Londra, 25 settembre. Manifestazione di protesta per la morte di Mahsa Amini, davanti all’ambasciata iraniana

Che tracce hanno lasciato?
Tutti questi movimenti e lotte in queste decenni hanno contribuito alla crescita della società iraniana dal punto di vista della consapevolezza, perché gli iraniani le hanno seguite con l’attenzione. Possiamo dire che la società iraniana, con esperienza e sacrificio, ha acquisito una conoscenza molto avanzata sulle tematiche sociali e politiche. La protesta in corso oggi in Iran si basa su un discorso emancipato e progressista. È sicuramente una protesta contro il regime ma come accennavo, con una lettura femminista e intersezionale. Ed è riuscita a raccogliere tutte le rivendicazioni precedenti contro tutte le forme di oppressione e discriminazione di classe, di genere e di razza. Ecco perché è riuscita ad unire di tutti i gruppi sociali in Iran. Anche gli uomini in questi 43 anni di repressione hanno capito che se le donne non saranno libere, non saranno liberi neanche loro.

Le uccisioni non si fermano, c’è da temere che la repressione possa essere sempre più violenta?
Sì, è un timore concreto, il regime iraniano è uno dei regimi più brutali oggi nel mondo. Purtroppo è anche attrezzato: in molto “avanzato” e sofisticato reprime ogni forma di protesta in modo “soft” ovvero tramite la propaganda e l’intelligence e in modo “hard” tramite le armi e con la forza. Il suo track record è ben noto a tutti quelli che hanno fatto ricerca e seguito la storia politica contemporanea del Paese.

Abbiamo saputo di ondate di protesta nelle città ma anche nelle periferie e della partecipazione di persone di tutte le età a questa lotta no violenta che non è “solo” contro il velo, ma anche e soprattutto contro il regime. Potrebbe segnare la la fine della teocrazia?
Secondo me, come accennavo, questa protesta è sicuramente una rivoluzione culturale e da questo punto di vista ha già vinto. La società iraniana in queste settimane ha fatto un salto gigantesco ed è diventata molto emancipata. Le donne in questo movimento hanno acquisito una posizione di grande rilievo nella mentalità di ogni iraniano. Nessuna scuola o programma politico avrebbe potuto ottenere un tale risultato in così poco tempo. Per quanto riguarda invece l’altra forma di rivoluzione che prevede il rovesciamento del regime, dovremmo attendere ancora ma non è da escludere. Le proteste questa volta si sono prolungate molto e i manifestanti hanno più esperienza anche nella lotta contro la polizia e l’apparato repressivo del regime. Per fare la rivoluzione, però, ci devono essere determinate condizioni.

Ovvero?
Una “causa” e in questo caso esiste ed è molto potente, si chiama Donna, Vita e Libertà. Una partecipazione di massa e i manifestanti sono uniti e sono milioni. Ma serve anche l’organizzazione: purtroppo a causa della repressione, i manifestanti non sono del tutto organizzati. Ma forse la tecnologia riuscirà anche a colmare questa mancanza…vediamo.

Scioperi nelle università, ma anche nelle scuole superiori. Si parla di una grande partecipazione degli studenti. Sta maturando una nuova consapevolezza civile fra loro?
I ragazzi in Iran si sono sempre occupati di politica. L’Iran, diversamente dalle società occidentali o dalle cosiddette società sviluppate e democratiche, non è affatto politicamente addormentato. Anche perché il peso del regime si sente anche in modo concreto già dall’età di 7 anni. Mi riferisco alle bambine che sono costrette a portare il velo, ai ragazzi che sono costretti a ripetere la propaganda del regime nelle scuole senza proferire parola o ai giovani che devono fare conti con la censura e molte altre politiche repressive. I giovani iraniani hanno sete di conoscenza. Internet ha aiutato questi ragazzi ad avere accesso a tutte le informazioni che cercavano in questi anni. Ha aiutato a formare gruppi e dibattiti su molte tematiche che si sono sviluppate sui social network. Insieme alle lotte che ho menzionato prima, questi fattori hanno fatto sì che la società iraniana sia in buona parte politicamente consapevole e matura, già da un’età molto giovane.

Roma, 1 ottobre 2022 – Manifestazione di solidarietà con le proteste in Iran per la morte di Masha Amini (Foto di Rossella Carnevali)

Le donne in particolare sono le più colpite ma non arretrano. Perché gli ayatollah e tutti i regimi religiosi odiano le donne?
Allora è importante notare che il regime iraniano non è soltanto un regime teocratico. Questo regime, così come tutte le altre organizzazioni ideologicamente basate sull’integralismo islamico, come ad esempio i talebani, hanno un elemento in comune: la discriminazione. Da questo punto di vista questi movimenti sono molto simili al fascismo e al nazismo. Solo che il fascismo storico ha alla base e mette in pratica la discriminazione “razziale”. L’integralismo islamico invece implementa la discriminazione del “genere”.La prima cosa che fece Hitler fu discriminare gli ebrei e obbligarli fisicamente a portare una fascia con la Stella di Davide sul braccio. Nello stesso modo, il regime iraniano, all’indomani dell’insediamento al potere dopo la rivoluzione del 1979, per prima cosa ha costretto le donne a portare il velo e ha modificato tutte le leggi della famiglia per colpire le donne. Ecco perché non parlerei di regime teocratico ma di regime “islamo-fascista”. Anche per un discorso di giustizia pensando a un domani quando, come ci auguriamo, la società iraniana sarà libera. Bisogna identificare e avere ben chiaro il “reato” che hanno commesso questi criminali in questi decenni. Praticare una religione di per sé non è un reato. Dobbiamo stare attenti.

Accanto alle donne che si tolgono il velo si vedono anche giovani uomini che gridano “Donna, vita, libertà”. È cresciuta una nuova consapevolezza maschile?
Assolutamente sì. Anche se la lotta contro il patriarcato, ovviamente, non è finita: la sua struttura ha una storia millenaria. La maggior parte degli uomini, in particolare i giovani, hanno compreso che le donne manifestanti stanno rivendicando la loro libertà insieme alla libertà per tutti compreso il genere maschile. Ma ci sono sempre gli uomini in Iran, così come in Italia e in tutto il mondo, che cercano di negare i discorsi femministi e chiedono “What About Men?” Per esempio chiedono perché non venga inclusa la parola “uomo” negli slogan del movimento e accusano il movimento di essere contro il genere maschile. Hanno perfino tentato di cambiare lo slogan “donna, vita e libertà” introducendo quest’altro slogan: “uomo, patria e sviluppo”! La reazione delle donne iraniane a questi tentativi? È stata molto femminile. Ci passano sopra con un sorriso perché l’essenza della loro protesta ormai è talmente potente che non la si può più fermare. Ormai tutto il mondo sta gridando: donna, vita e libertà!

Con la censura imposta dal regime i manifestanti come riescono a comunicare? Come riuscite a tenervi in contatto?
Essendo molto giovani, e perlopiù millennial, gli iraniani ormai sanno come aggirare i filtri imposti dal regime su internet. Telegram sicuramente è un sistema molto diffuso e utilizzato da noi. Ci sono migliaia di canali e gruppi iraniani su telegram con temi politici. Ecco, prima parlavo della mancanza di organizzazione tra i manifestanti. Penso sicuramente che telegram abbia aiutato anche a organizzare meglio queste proteste “grass-root” e spontanee. Tramite questi canali e gruppi, gli iraniani lanciano anche gli slogan delle proteste e possiamo anche formulare una sorta di manifesto “in pillole” ad hoc per ogni protesta e durante il suo percorso, che viene subito condiviso tra la massa. Da questo punto di vista la tecnologia e internet ha aiutato molto. Sì riesco a contattare gli iraniani ma chiunque può farlo volendo. Basta saper parlare persiano e aderire a questi gruppi telegram o partecipare ai social network iraniani.

Quanto è importante risvegliare l’attenzione internazionale?
L’importante è non dimenticare e non abbandonare questa protesta. Io sono molto critica verso certi media mainstream in Italia e nei Paesi occidentali. Il giornalismo qui molte volte, è un giornalismo commerciale. Il giornalista scrive seguendo il trend della giornata per “vendere al meglio” il suo articolo. Le cause come quelle iraniane, per i giornalisti, presto “passano di moda”. Questo non deve accadere. Quindi quello che posso dire è, se veramente la comunità giornalistica è solidale ed è ispirata dall’idea “Donna, vita e libertà”, deve continuare a mantenere i propri riflettori accesi, anche se il regime dovesse reprimere e azzittire questo movimento per un certo periodo. Anzi è proprio in questi momenti bui che bisogna fare informazione.

Come valuti l’ipotesi di sanzioni avanzata da esponenti politici europei? Rischierebbero di colpire ulteriormente la popolazione?
Francamente l’argomento sanzioni “sì o no” per gli iraniani è datato. Gli iraniani sono sotto sanzione dal regime da oltre 40 anni. Il dibattito su questo tema è più volto agli interessi della borghesia occidentale. Non riguarda l’interesse del popolo iraniano. Certo le sanzioni che colpiscono determinati prodotti come i medicinali etc, sono disumani. Ma in generale agli iraniani interessano poco gli scambi commerciali dell’entourage del regime iraniano con le aziende multinazionali occidentali. Tanto non saranno loro a vederne i profitti.

Perché la lotta di liberazione in Iran ci riguarda tutti

La rivoluzione in Iran sta mostrando caratteristiche inimmaginabili e senza precedenti nei quarantatré anni di regime teocratico. In quest’ultima settimana sta assumendo un carattere molto più radicale perché ora i protagonisti sono, oltre agli studenti universitari di oltre centodieci accademie di tutto il Paese, anche i liceali delle maggiori città dell’Iran.

Questo movimento spontaneo è apertamente e strenuamente contrario alla struttura conservatrice del regime e in questo senso si mostra come un movimento molto “occidentale”. A protestare non sono solo le masse urbane, istruite, borghesi e giovani studenti, ma anche larghi strati della popolazione rurale. C’è anche un elemento di natura etnica in queste proteste a causa del fatto che la giovane Mahsa Amini, assassinata a Teheran in un distretto della “polizia morale”, era curda. E non è un caso che lo slogan più gridato sia: “Zen, Zendegi, Azadi” (Donne, Vita, Libertà), molto simile allo slogan utilizzato dai gruppi curdi nella guerra civile siriana: “Jin, Jiyan, Azadi” (Donne, Vita, Libertà).

La dinamica delle manifestazioni è diventata sempre più dirompente e con un linguaggio sempre più diretto. La nuova generazione iraniana è in contatto con il resto del mondo e preferisce usare un linguaggio più esplicito e più radicale, diverso da quello dei loro nonni e bisnonni. Non parla con il codice del 1979: le parole d’ordine di giustizia, di trasparenza e di indipendenza della rivoluzione khomeinista appaiono in tutta la loro inadeguatezza e obsolescenza.

Per comprendere questa rivolta popolare e spontanea che da oltre tre settimane scuote il regime dei mullah è bene precisare che i manifestanti – donne e uomini, giovani e anziani, scesi per le strade in ogni angolo del Paese, dai quartieri ricchi di Teheran a quelli poveri delle più remote province e campagne – stanno rischiando la vita non per chiedere piccole riforme, ma perché sia posta fine all’insopportabile Repubblica islamica abbattendo il “regime di apartheid di genere”.

La differenza fondamentale di queste proteste rispetto a quelle del 2009 e del 2019 è la centralità e la partecipazione diretta delle donne iraniane. Ciò non era mai accaduto prima! Questo movimento popolare e spontaneo, che non vuole alcun leader, letteralmente insorto nelle piazze e nelle strade dell’Iran, ha invece radici nelle coraggiose e iconiche proteste del “Mercoledì bianco” del 2018 a Teheran, quando giovani donne si toglievano il velo in una pubblica piazza per sventolarlo come una bandiera.

Questo gesto è una «blasfemia» per il regime oscurantista e crudele degli ayatollah, una sfida alle leggi islamiche che impongono alle donne di tenere sempre il capo e i capelli coperti e di indossare vestiti lunghi e larghi “per non eccitare gli uomini”.

Ora le donne di tutte le province dell’Iran si tolgono l’hijab e ad esso danno fuoco, lo fanno con rabbia strappando dagli edifici pubblici le foto di Khamenei, di Khomeyni e di Qassem Soleimani, il comandante della Forza Quds ucciso dagli americani. Lo stesso fanno le giovani adolescenti nei licei che si fanno fotografare mostrando il dito medio accanto ai ritratti dei mullah appesi alle pareti della loro classe.

Vogliono liberarsi dall’oppressione, sfidano apertamente la regola dell’hijab e pubblicano in Rete le foto e i video delle loro performance per incoraggiare tutte le altre donne alla ribellione su Instagram, WhatsApp, Twitter e Facebook. Queste manifestazioni sono dense di simboli. Dal 16 settembre si registra un’ondata di sfida contro il sistema a colpi di simbolismi.

Il velo è il simbolo dell’oppressione; i capelli tagliati, le ciocche dei capelli che le donne stringono tra le mani dopo essersi rasato il capo, sono il simbolo del dolore, del lutto, del coraggio, della rabbia e dell’orgoglio. Durante il genocidio perpetrato dall’Isis a Shengal nel 2014, in nord Iraq, le donne ezide sono state viste tagliarsi i capelli. Coloro che hanno perso i loro cari, le donne violentate, a cui sono state spezzate le ali, sono use tagliare i loro preziosi capelli per mostrare tutto il loro dolore e il loro orgoglio.

Le coraggiose ragazze dell’hijab sono diventate l’incubo di Ali Khamenei. Ma attenzione, l’hijab ha un alto valore simbolico, è come il Muro di Berlino: i manifestanti credono che se lo si abbatte l’intero sistema crollerà.

L’abolizione dell’obbligo dell’hijab dunque non è il limitato, unico obiettivo, della loro rivoluzione. Abbattere il regime che impone l’“apartheid di genere” significa infatti abbattere l’intero sistema della Repubblica islamica. È in questo senso che va inteso il simbolismo dell’hijab e la lotta contro l’apartheid di genere.

I manifestanti in sostanza vogliono il crollo della teocrazia dalla quale si sentono oppressi dal 1979, vogliono vivere in democrazia e libertà, in un sistema in cui siano rispettati i diritti di tutti e non vogliono certo tornare indietro, ai tempi dello scià.

Dopo l’uccisione della ventiduenne curda-iraniana Mahsa Amini, massacrata di botte nel furgone della polizia per non aver indossato correttamente l’hijab, come prescrive la legge islamica in Iran, un’analoga sorte è stata riservata alla giovane Hadith Najafi di 23 anni.

Sarina Esmaeil-Zadeh era una splendida ragazza di 16 anni, anche lei è stata vittima della brutale repressione delle proteste anti regime, uccisa a Karaj dalle forze di sicurezza dopo essere stata duramente picchiata alla testa a colpi di manganello.

La piccola Nika Shakarami è un’altra splendida ragazza di 17 anni, dolcissima e piena di vitalità, brutalmente uccisa a Teheran dalla famigerata “polizia morale” dopo essersi esibita cantando a capo scoperto durante una manifestazione di liceali in ricordo di Mahsa Amini. Dopo una settimana, il suo corpo è stato ritrovato alla periferia di Teheran con il naso rotto e il cranio fratturato da molteplici bastonate.

Mahsa Amini, Hadith Najafi, Nika Shakarami, e Sarina Esmaeil-Zadeh sono solo alcune delle vittime della furia omicida di un regime crudele.

Le forti restrizioni su Internet operate dal regime costringono i manifestanti ad usare strategie di comunicazione molto fantasiose. Fanno cioè uso anche del porta a porta. Lasciano volantini davanti agli usci delle abitazioni e si danno così appuntamento, indicando luoghi e orari delle manifestazioni. Sui volantini è scritto questo messaggio: “La Repubblica Islamica sta cadendo. Unisciti a noi!”. “Se non puoi venire, diffondi il messaggio in modo che altre persone vengano”.

La leadership iraniana continua a dipingere queste proteste come un complotto straniero. Il presidente Ibrahim Raisi ha espresso sostegno ai primi commenti sulle proteste fatte da Khamenei sfoderando il classico pretesto dei regimi autocratici: la teoria del complotto esterno, sostenendo che le proteste e i disordini sono orchestrati dagli Stati Uniti e dal finto regime tirannico sionista, dai loro mercenari e dai traditori iraniani residenti all’estero.

Non è noto il numero preciso di vittime in queste prime tre settimane di protesta. Secondo l’organizzazione “Iran Human Rights” (Ihr) con sede a Oslo, la repressione del governo ha provocato la morte di almeno 160 manifestanti, ma sappiamo che il bilancio più pesante in termini di morti, arresti e torture, riguarda le aree del Kurdistan iraniano e le regioni del Sīstān e Balūcistān iraniano fortemente sottosviluppate.

Per queste ragioni il segretario del Partito Radicale Maurizio Turco e Irene Testa (tesoriera del Partito radicale ndr) convocano, a distanza di una settimana, una seconda manifestazione per la liberazione del popolo iraniano. L’appuntamento è per sabato 8 ottobre alle 17 davanti l’Ambasciata dell’Iran, a sostegno del popolo iraniano e delle donne contro il regime degli ayatollah. Le autorità iraniane in queste ore sono sempre più spietate nel tentativo di reprimere la rivoluzione popolare contro il regime teocratico e misogino. Il regime dimostra tutto il suo terrore davanti alla sollevazione in corso nelle ultime settimane e si serra nella difesa feroce delle leggi islamiche. Migliaia gli arresti e centinaia i morti. Ora si avverte l’urgenza di sentire le voci ferme di condanna da parte di tutti i governi occidentali, che accompagnino un’auspicata mobilitazione mondiale da parte della società civile.

Gli autori: Irene Testa è tesoriera del Partito Radicale, Mariano Giustino è corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia

Nella foto: manifestazione a Beirut a sostegno della protesta delle donne iraniane, 21 settembre 2022

Chi evade sull’evasione fiscale?

La relazione scomparsa del ministero dell’Economia che contiene i dati sull’evasione fiscale in Italia e che analizza l’impatto della flat tax al 15% per le partita iva che fatturano fino a 65mila euro continua a far parlare. La relazione del 2021 conteneva solo stime preliminari e per questo si attendeva con curiosità la Relazione 2022 sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva in allegato alla Nota di aggiornamento al Def (Nadef). Non c’è traccia. Ed è un gran peccato perché sull’evasione fiscale e sulla flat tax il prossimo governo di Giorgia Meloni ha puntato moltissimo in campagna elettorale (nonostante le cifre diverse tra loro sparate da Salvini e e Berlusconi).

Ieri Antonio Misiani, ex vice-ministro PD dell’Economia nel governo Conte 2, ha ricordato che «i contenuti sono un patrimonio informativo importante per i cittadini» e per questo ha lanciato un appello al ministro Daniele Franco: «Mi auguro che lo faccia il prima possibile». Luigi Marattin, presidente della Commissione Finanze e responsabile economico di Italia Viva, chiede “perché il governo non pubblica, come dovrebbe fare, in allegato al Def, la Relazione annuale che mostra l’andamento del recupero da evasione negli ultimi tre anni?». «L’esigenza di non urtare la sensibilità di nessuno, – spiega Marattin – qualora presente, credo valga meno dell’esigenza pubblica di sapere come sta andando la lotta all’evasione nel nostro Paese».

Nei giorni scorsi l’aveva chiesta anche Gianna Fracassi, vicesegretaria generale della Cgil, era intervenuta: «Se il Mef non la pubblica, chi ha la responsabilità politica di quel dicastero deve quanto meno spiegare il perché», aveva osservato. Cecilia Guerra (Articolo uno, fresca di rielezione alla Camera nella lista Pd-Italia democratica e progressista) fa sapere: «Non vedo ragioni per le quali la Relazione sull’evasione fiscale non debba essere pubblicata. Ha un importante valore informativo e conoscitivo ed è per questo curata da una commissione indipendente. È sempre stata allegata alla Nadef per ovvie ragioni di trasparenza».

Marco Grimaldi, capogruppo di Liberi e Uguali (rieletto con l’alleanza Verdi/Sinistra Italiana) si chiede se si tratti di «una reticenza nei confronti di rilevazioni emerse o misure suggerite che potrebbero non coincidere con gli indirizzi dell’attuale maggioranza». Una nota congiunta dei sindacati Cgil-Cisl-Uil nei giorni scorsi avevano rilasciato una nota chiarissima: «Non comprendiamo per quali ragioni la Relazione sull’economia sommersa e l’evasione fiscale e contributiva e il relativo Rapporto sui risultati conseguiti in materia di contrasto all’evasione non compaiono tra gli allegati della Nota di aggiornamento al Def. La Relazione – scrivono i sindacati – è un lavoro di grande interesse: strumento di trasparenza e di responsabilità, indicatore di efficacia delle norme che, nel tempo, hanno provato a porre un rimedio alla grave anomalia del sistema tributario del nostro Paese, costituita da un livello di evasione fiscale non paragonabile a quello di nessun altro Paese sviluppato». Si legge: «Le norme a cui ci riferiamo – sottolineano Cgil-Cisl-Uil – dallo split payment alla fatturazione elettronica, all’incrocio delle banche dati e allo sviluppo dei pagamenti tracciati, sono il frutto di anni di richieste da parte di Cgil, Cisl, Uil. Non è un caso che i dati pubblicati lo scorso anno abbiano attestato, per la prima volta, che il mancato gettito sia stato inferiore ai 100 miliardi di euro. Auspichiamo che si tratti solo di una svista, considerato che nel testo della Nadef sono contenuti riferimenti alla Relazione stessa». Intanto passano i giorni.

Buon venerdì.

«Ciò che conta è la postura». Annie Ernaux, premio Nobel per la letteratura 2022

«Il tema non è così importante. Ciò che conta è la postura nella scrittura. Io ho scelto la realtà». Con queste parole dirette, asciutte, Annie Ernaux dialoga con il coraggioso Marco Missiroli, artista in residenza all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, diretto per qualche settimana ancora da Marina Valensise. «Durante tutta la mia giovinezza ho letto romanzi di finzione, poi ho scoperto che nei romanzi poteva entrare la realtà e ne sono rimasta sconvolta». La sala conferenze dell’Istituto accoglie i visitatori tra specchi e boiserie dorate, le ampie finestre dell’Hôtel de Galliffet affacciano su un giardino verdissimo, con un prato e i grandi castagni così caratteristici della Rive Gauche. Si entra in un tempo altro, il tempo letterario, lo stesso che si ritrova nei libri di Annie Ernaux.

La memoria come strumento di ricerca della realtà, la memoria che tradisce, che cambia, che rimuove, che amplifica e che viene ricostruita, o forse decostruita attraverso la scrittura. Un esercizio di sottrazione più che di accumulazione. Ernaux racconta che l’accumulazione avviene nel lavoro di preparazione che può durare anni: note, liste di ricordi, una frase, una parola, un dialogo avvenuto molti anni prima. «Prima di scrivere, non c’è niente, solo una materia informe, ricordi, visioni, sentimenti… poi mi metto alla ricerca della forma». In uno dei suoi capolavori La Place, Il posto (L’orma editore per la traduzione italiana), la forma è completamente svuotata di ogni sentimento, sebbene nasca dal dolore, la progressiva separazione dal padre, l’allontanamento dalle proprie origini sociali e la morte di quest’ultimo, la scrittura è “piatta” come la definisce l’autrice, «ho tolto tutto, è stata una sorta di depurazione, mi sembrava l’unico modo giusto di trattare l’argomento, di rimanere fedele alla storia che dovevo raccontare».

C’è una componente politica in questa scelta di spoliazione. Lo spiega bene Annie Ernaux nel libro che raccoglie le sue conversazioni con Frédéric-Yves Jeannet, L’écriture comme un couteau, la scrittura come un coltello: “Porto nella letteratura qualcosa di duro, di pesante, di violento anche, legato alle condizioni di vita, alla lingua del mondo che fu il mio, completamente, fino a diciotto anni, un mondo operaio e contadino. Sempre qualcosa di reale. Ho l’impressione che la scrittura è ciò che posso fare di meglio, nel mio caso, nella mia situazione di transfuga, come atto politico e come dono.

Piove fuori in questa estate che non arriva. Piove forte e la sala si fa scura, poi esce il sole mentre la pioggia continua a scendere e il verde delle piante diventa oro e smeraldo, più scintillante ancora degli specchi e delle boiserie. E penso a quanto i libri di questa donna siano importanti per me. A quanto la sento presente, viva, radicale. A quanto le sue parole mi tocchino nel profondo, sconvolgendomi. È questa la letteratura. Mi avvicino a lei alla fine dell’incontro con un po’ di emozione per farle firmare una copia del suo ultimo, bellissimo libro, Mémoire de fille, che si conclude con questa frase: «È l’assenza di senso di ciò che viviamo nel momento in cui lo viviamo che moltiplica le possibilità della scrittura». Siamo sedute per qualche minuto una accanto all’altra, scambiamo qualche parole, poi mi scrive: «A Chiara, con tutta l’emozione di un bisogno di scrivere condiviso». Per un istante la solitudine della scrittura è spezzata. Come in un incantesimo.