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A lezione di “femminismo dell’uguaglianza” con Aleksandra Kollontaj e le altre valchirie rosse

L’occhio di una macchina da presa sfiora due mani di donna, incerte, straziate, che prima l’una, poi l’altra afferrano lentamente il corpo di un fucile che sappiamo di un uomo amato appena ucciso. Successivamente, lo stesso occhio ne coglie con insistenza le dita insanguinate che, in precedenza, avevano raccolto delicatamente una coccinella rossa, celebrando il momento di un altro intenso amore. Immagini struggenti di un film potente: Resistance. La battaglia di Sebastopoli. Per chi scrive, bellissimo per la profondità e l’efficacia con cui tratteggia luci e ombre della vita della protagonista, Ljudmila Pavlienko, la cecchina dell’Armata Rossa con al suo attivo 309 uccisioni naziste accertate nella Seconda guerra mondiale.

Con la sua storia si apre il libro dell’americana Kristen R. Ghodsee – edito da Donzelli – Valchirie Rosse. Le rivoluzionarie dell’est, prima di una iconica cinquina di rivoluzionarie socialiste che hanno cambiato la storia culturale, politica e sociale delle donne in Europa e nel mondo. A seguire le storie di tre eroine della Rivoluzione russa del 1917: Aleksandra Kollontaj, poliglotta estremamente dotata e abilissima oratrice, prima donna ministro per l’Assistenza sociale e prima donna che parlò di sessualità in termini umani, politici e storici, riconoscendo al privato la sua dimensione politica e sociale; la pedagogista Nadežda Krupskaja, moglie di Lenin, che attuò una vera e propria rivoluzione radicale promuovendo per le donne istruzione, alfabetizzazione e diffusione della biblioteconomia; Inessa Armand, il grande amore di Lenin, poliglotta anch’essa, rivoluzionaria appassionata, che fu a capo di quello che si può considerare il primo ministero degli Affari femminili in Unione sovietica, lo Ženodtel. Ultima, in ordine di tempo, la scienziata e partigiana bulgara Elena Lagadinova, che combatté il suo governo alleato dell’Asse durante la Seconda guerra mondiale, e fu a capo del movimento globale delle donne. Le loro vite scorrono in un arco di tempo che va dal 1869, data di nascita della Krupskaja al 2017, anno della morte della Elena Lagadinova.

Perché le “valchirie” del titolo? La prima ad essere apostrofata con l’appellativo delle antiche divinità guerriere germaniche dalla stampa internazionale e dai suoi stessi compagni bolscevichi fu Aleksandra Kollontaj e Ghodsee lo estende, non a caso, a tutte le donne descritte nel libro per sottolinearne la forza e il coraggio quasi sovrumano che le accomuna nel combattere le disuguaglianze di genere, e nel creare nuove opportunità per milioni di donne nel mondo. Scrivere di queste donne – sottolinea l’autrice, docente di Studi russi e dell’Est Europa all’Università di Pennsylvania, con studi approfonditi su emancipazione femminile, sessualità e socialismo – significa riconoscere «la storia diversificata e di ampio respiro dell’attivismo delle donne socialiste e comuniste».

Se guardiamo alla storia del femminismo occidentale, le vicende di Mary Wollstonecraft, Stuart Mill, Olympe de Gouges si attestano sostanzialmente sulla rivendicazione dei diritti individuali. Rivendicazione che si impone prepotentemente con l’esordio del femminismo liberale successivo allo sviluppo del capitalismo. Il consolidamento di una società fondata su un patriarcato mai superato che trova le sue fondamenta nella famiglia, di cui sono brutali pilastri la subalternità umana ed economica della donna e il suo controllo sociale, spinge a reclamare per le donne diritti civili, economici e giuridici.

Aleksandra Kollontaj e le sue compagne socialiste si collocano all’opposto del femminismo “individualista” liberale. Il loro “femminismo dell’uguaglianza”, per anni disconosciuto o minimizzato dalla maggior parte degli studiosi occidentali, contesta la miopia liberale sullo sfruttamento e le condizioni di vita delle donne operaie, allarga lo sguardo al sistema sociale ed economico, orienta la sua lotta verso una trasformazione radicale sociale ed economica, unica in grado di eliminare alla radice le diseguaglianze e i rapporti di dipendenza, e favorire un’uguaglianza sostanziale e non formale tra uomini e donne. A differenza delle liberali borghesi, ci dice l’autrice, queste donne «hanno combattuto fianco a fianco con le loro controparti maschili per creare un mondo più equo per tutti attraverso l’azione collettiva».

Storie di donne certamente tenaci, audaci. Ma non prive di opacità, subordinate come sono al peso violento delle derive di un comunismo che – nonostante le battaglie per l’uguaglianza e contro lo sfruttamento – è rimasto stretto all’autorità religiosa del “Pater familias”, arretrando pesantemente su molte delle conquiste fatte dalle donne.

Le ferite di una guerra disumana e la depressione – che aveva colpito anche Inessa Armand, dopo una vita di militanza e di amore travagliato per Lenin – divoreranno Ljudmila Pavlienko. La sua corsa ostinata verso un’“uguaglianza” con l’uomo che il film Resistance ben racconta, la trascinerà, come molte donne, nel sangue della guerra “patriottica”, tutta maschile, contro il nazifascismo, travolta dal turbine di un atroce e insensibile calcolo politico.

Aleksandra Kollontaj sarà sempre brutalizzata verbalmente con ironia e cattiveria, nonostante l’impegno coraggioso e instancabile per conquistare le donne al socialismo e alla parità dei diritti, e non avrà che pochissimo appoggio dai compagni di partito e dalle stesse compagne. Va certamente riconosciuto che in un secolo e mezzo di storia la realtà delle donne in Europa è di fatto molto cambiata. Sicuramente in meglio, anche se le sfide non si sono esaurite.

In questo libro non si fanno sconti al socialismo reale e non se ne diminuisce la portata tragica. Ma nonostante la scarsa libertà individuale, l’economia pianificata e la sua mancanza di dinamicità e rendimento, la persistenza del patriarcato, le statistiche portate dall’autrice dimostrano come nei Paesi socialisti sia aumentata l’aspettativa di vita in pochi decenni rispetto ai Paesi industrializzati, come sia diminuito il tasso di mortalità infantile e abbattuto l’analfabetismo. Le donne hanno conquistato opportunità di studio e di lavoro prima inimmaginabili.

Ci sono alcune «caratteristiche fondamentali necessarie agli aspiranti rivoluzionari» – scrive l’autrice – che le Valchirie rosse hanno lasciato in eredità, come coltivare relazioni sociali, la conoscenza, la flessibilità mentale in grado di accogliere nuove idee, l’impegno, la tenacia. Ma a queste forse va aggiunto – come sottolinea Noemi Ghetti nella bella e ricca prefazione – quello che ha indicato Aleksandra Kollontaj nel suo rivoluzionario Largo all’eros alato! ovvero un soddisfacente vita sessuale e affettiva oltre l’indipendenza economica, il diritto al lavoro e i servizi sociali perché, conclude felicemente, «il passaggio tutto umano dalla soddisfazione dei bisogni alla realizzazione delle esigenze, implicito nelle qualità enumerate dal libro, è il naturale e necessario sviluppo del marxismo in una moderna concezione della realtà umana».

Per continuare la ricerca:

Annalina Ferrante è autrice del libro Aleksandra Kollontaj. Passione e rivoluzione di una bolscevica imperfetta (L’Asino d’oro edizioni)

Noemi Ghetti, autrice di numerosi libri, fra i quali qui ricordiamo

 Gramsci e le donne  (Donzelli) La cartolina di Gramsci (Donzelli), Gramsci nel cieco carcere degli eretici (L’Asino d’oro edizioni)

Incendio a Matanzas. Bruxelles aiuti Cuba come Cuba ha aiutato noi

Solo dopo una settimana un incendio, provocato da un fulmine che il 5 agosto ha colpito una riserva di greggio, minacciando seriamente la città di Matanzas a Cuba, è stato messo sotto controllo.
L’incendio, sin da subito, ha dimostrato enormi proporzioni. Nonostante le autorità provinciali siano rapidamente arrivate sul luogo dell’incidente, i vigili del fuoco sono stati impegnati diversi giorni prima di riuscire a spegnere le fiamme.
L’obiettivo fondamentale delle prime ore è stato quello di mantenere il raffreddamento del serbatoio ed evitare fuoriuscite di carburante, impegnando in questo lavoro le forze di Matanzas, Mayabeque, Artemisa e L’Avana. Eppure le esplosioni si sono susseguite.
Un primo bilancio ha fatto registrare 125 feriti, 17 pompieri dispersi e 24 ancora ospedalizzati di cui 5 in condizioni gravissime e critiche. Circa 5mila persone sono state evacuate dall’area.

Per giorni la furia del fuoco non si è placata. Si sono susseguite nuove esplosioni e nuovi bagliori si sono alzati nel cielo nella zona industriale di Matanzas. Colonne di fumo sono state visibili a più di 100 km dall’epicentro dell’incendio.
Questa situazione ha determinato l’interruzione di produzione dell’impianto della centrale termoelettrica Antonio Guiteras di Matanzas, generando inoltre contraccolpi sull’intero sistema energetico dell’Isola.

La solidarietà internazionale non ha tardato e la Repubblica cubana ha da subito ringraziato Messico, Venezuela, Russia, Nicaragua, Argentina e Cile per il sostegno accordato.
In queste ore Johana Tablada, del ministero degli Affari esteri di Cuba, ha dichiarato che gli Stati Uniti hanno preso la decisione di offrire consulenza tecnica. Una buona notizia. C’è un accordo bilaterale firmato durante l’amministrazione Obama per coordinare le operazioni e combattere gli sversamenti di greggio in mare, ma questo non si applica ai disastri a terra. L’Avana, al momento, ha svolto colloqui con esperti statunitensi, che sono stati pubblicamente ringraziati.

Sin dalle prime ore del disastro, ho cercato di seguire l’andamento della catastrofe esprimendo solidarietà nei confronti del popolo cubano e tenendo contatti serrati con le ambasciate di Bruxelles e Roma.

L’Europa deve urgentemente fare la sua parte, nel vincolo di solidarietà che lega i nostri popoli. Per questo ho chiesto formalmente all’Alto rappresentante della politica estera Ue, Josep Borrell, un impegno concreto.

Credo fermamente che sia nostro dovere e responsabilità come Unione europea fare del nostro meglio per garantire il massimo supporto. Non dimentichiamo che l’isola è ancora in difficoltà per responsabilità del blocco economico, per la crisi pandemica e il conseguente crollo dell’industria del turismo. Da ultimo non dobbiamo mai dimenticare il supporto delle brigate mediche cubane che solo pochi mesi erano in prima fila in Europa e nel nostro Paese durante il picco dei contagi di coronavirus e della paura.
La diplomazia può viaggiare sulle gambe della solidarietà tra i popoli. Questo approccio riguarda le istituzioni e riguarda anche ognuno di noi. Per questo è importante donare per contribuire al ripristino della normalità e alla ricostruzione.

L’autore: Massimiliano Smeriglio è parlamentare europeo (Alleanza Progressista dei Socialisti e dei Democratici S&D)

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Chi desiderasse offrire il proprio sostegno solidale per risarcire i danni dell’incendio nella zona industriale di Matanzas, indichiamo di seguito i dettagli del conto bancario per le donazioni

Conto: 03000000005336242
Titolo: DONAZIONI DI EMERGENZA
Codice SWIFT: BFICCUHHXXX
Indirizzo della banca: 5ta Avenida n. 9009, Playa, L’Avana, Cuba.
Beneficiario del conto: Ministero del Commercio Estero e degli Investimenti Esteri.
Sede legale: Infanta n. 16, Vedado, Piazza della Rivoluzione, L’Avana, Cuba.

La peggiore destra di sempre

Conviene leggerlo con calma il “programma” elettorale che il centrodestra ha partorito dopo una lunga gestazione riempita di messaggi contraddittori.

Si capirebbe, ad esempio, che la flat tax per le partite iva altro non è che il modo per aumentare le (finte) collaborazioni con le aziende togliendole dall’impiccio di dover assumere. Rendere più conveniente la precarietà è un ulteriore passo verso una precarietà peggiore.

Ci si renderebbe conto che gli hotspot su Paesi stranieri (quello che Meloni fino a pochi giorni fa chiamava “blocco navale” e che invece non è altro che un appaltare il problema) è un’idea già di Boris Johnson nel Regno Unito. Andate a vedere la fine che sta facendo. Stupisce anche l’idiozia di credere che si possa trattare con Paesi instabili e inaffidabili. Se non fosse così la gente non scapperebbe, evidentemente. Notevole anche la faccia tosta con cui si parla di “integrazione”. Chi integrerebbero se non vogliono nessuno?

Leggendo il programma della peggiore destra di sempre ci si rende conto che è tutto miele per gli evasori fiscali. Facciamo i conti ancora oggi, nella situazione in cui siamo, con condoni mascherati, con innalzamento delle soglie dei contanti (le mafie ringraziano), con l’avversione per i pagamenti digitali (gli evasori applaudono) e con una riforma del fisco raccontata in due righe senza sapere da dove hanno intenzione di prendere i soldi.

Se leggete il programma della peggiore destra di sempre vi accorgerete che nonostante tutto il loro can can contro il Reddito di cittadinanza è ammuina elettorale. Anche la peggiore destra di sempre sa che i poveri votano, eccome, e quindi promette di regalare soldi (come l’innalzamento delle pensioni, le dentiere e tutto il resto) semplicemente chiamandoli in altro modo. Hanno negato la povertà e ora le chiedono il voto.

Se leggete il programma elettorale della peggiore destra di sempre vi rendete conto che il presidenzialismo fortemente voluto da Berlusconi (per accarezzare il sogno di diventare imperatore) è ancora più inquietante in un momento in cui il primo partito in Italia oggi presenta il suo simbolo con la fiamma tricolore. Quel partito a cui è bastato un passaggio di qualche secondo contro il fascismo per essere riabilitato.

Buon venerdì.

 

Vite cancellate. «Sembra che per il mondo la nostra Somalia non esista»

Mohammed s’addormenta, stretto fino alla testa nelle lenzuola. Sembra diventare una scatolina. Il dolore all’addome, i tormenti di dentro. Nelle narici dell’anima, seppure lontano nel tempo, il puzzo del fondo del barcone, quel misto di umido e morte tra alghe e muffe e fumo del motore. La paura, il silenzio, lo sguardo comunque luminoso dei compagni di viaggio che quasi rifletteva quello spettrale del Mediterraneo, quando di notte tutta quell’acqua diventa un’oscurità inconcepibile.

«La mia stanzetta sembra una reggia, mangio tre volte al giorno, posso dormire», ci racconterà al risveglio questo ragazzo di 22 anni, gli occhi limpidi, sorridente, tra una fitta e l’altra. Lo abbiamo incrociato in un reparto dell’ospedale “Annunziata” di Cosenza, in Calabria, ricoverato lì già da quasi tre mesi a causa di una difficile infezione all’apparato digerente che spesso lo costringe a letto, raggomitolato. Le memorie impresse a fuoco: l’infanzia, la sua vita da ragazzino in Somalia che poi fu costretto a lasciare, il viaggio infinito affrontando il deserto fino in Libia prima di imbarcarsi con sua moglie Aina, poi l’inferno della traversata quando si è sentito «un puntino insignificante nell’universo». Due giovanissimi sposi e una “crociera” di nozze lungo il più grande cimitero per migranti del pianeta nel tentativo di sottrarsi ai mostri della povertà, della fame, della sete. Oggi il loro Paese è ancora sull’orlo della catastrofe, come tutto il Corno d’Africa.

Bishaaro*, 17, lives with her family in a displacement camp in Baidoa, southern Somalia.
Her and eight family members were forced to flee after they lost their livestock due to the drought.
In the camp, Bishaaro* says they only eat one meal a day and they need essentials like food, water and access to school.
Save the Children provided a water truck in the camp for displaced families to access clean water.

Basta un rapido sguardo all’ultimo rapporto delle Nazioni Unite: almeno un milione e mezzo di bambini somali con meno di 5 anni sono gravemente malnutriti, quasi 400mila sono a un passo dalla morte, mentre la regione sta vivendo la siccità forse peggiore della sua storia. Notizie, numeri, carte per lo più ignorati e volontariamente, da un Occidente sempre più accartocciato sulle logiche di un criminale profitto tout court, di una economia di mercato impazzita. Peccato però che dietro vi sia un dramma epocale, e per protagonisti milioni tra donne, uomini, anziani. E bambini. Save The Children ci fa sapere che in una struttura di Baidoa a sud-ovest del Paese, gestita dall’organizzazione internazionale, nei primi 6 mesi di quest’anno è cresciuto del 300 per cento il numero di piccolissimi che hanno dovuto ricevere cure per la forma più acuta di malnutrizione. A giugno quasi 500 bambini acciuffati per i capelli (ma il cui destino è tutt’ora incerto, moltissimi nel frattempo certamente saranno morti) ovvero, ci spiegano, un numero quattro volte superiore a quello di gennaio. Una catastrofe che macina morte, e velocissima cambia volto di giorno in giorno. «Stiamo affrontando molte nuove sfide rispetto a soli due o tre mesi fa. Siamo al limite», dice il dottor Farhiyo Mohamud Abdirahman, al lavoro in questa disperata prima linea da oltre due anni.

Ma più in generale, nel Corno d’Africa – che viene da quattro stagioni consecutive senza piogge – a pesare sulla crisi è anche l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e questo grazie alla guerra scatenata dalla Russia in Ucraina, oltre naturalmente alle ripercussioni della pandemia. Si calcola che almeno 18,5 milioni di persone tra Somalia, Etiopia e Kenya siano state colpite dalla siccità. Quella messa peggio è proprio la Somalia. Si rischia di bissare il disastro del 2011, quando per la carestia morirono 260mila persone, la metà dei quali circa erano bambini molto piccoli.
Non erano, e non sono numeretti sparsi qua e là su un documento ufficiale. Sono volti, e nomi, e storie, sogni, speranze. Vite cancellate come con un segno di matita. Avevano anch’essi un nome, un volto, e tutto il diritto di vivere, i venti bambini morti per esempio a giugno nello stesso centro medico di Baidoa. Più del doppio rispetto a maggio, la cifra più alta degli ultimi 12 mesi. «Viviamo in un mondo in cui sappiamo come prevenire la fame, eppure centinaia di migliaia di persone continuano a morire», osserva sconfortato Mohamud Mohamed Hassan, direttore di Save the Children in Somalia, secondo cui «oggi permettere che avvenga tutto questo è una scelta politica». Un gioco brutale sulla vita degli altri, i diseredati, gli invisibili. Perfettamente ce l’ha più volte spiegato il professor Gian Andrea Franchi, che con sua moglie Lorena Fornasir, psicologa, da anni a Trieste accolgono e curano i migranti che attraversano l’apocalisse della rotta balcanica per poi raggiungere il sogno dell’Europa, la “salvezza” o, piuttosto, un minimo di riposo mentale da fame, povertà, emergenze climatiche e guerre: «Noi, gli occidentali, i privilegiati, i discendenti dei colonizzatori, dei conquistatori. Loro, gli orientali, i diseredati, i discendenti dei conquistati, dei colonizzati».
In Somalia chi tra questi invisibili diseredati vive nelle zone più estreme mangia e beve ciò che trova. Quando, lo trova. «Carne putrida, acqua sporca dagli abbeveratoi del bestiame, e anche lottando contro gli animali selvatici per afferrare qualcosa di mangiabile», denuncia Gabriella Waaijman, direttore Umanitario globale dell’organizzazione. Storie orribili.

Come quella di Casho, 33 anni, che ha perso due dei suoi sette figli a causa del morbillo. Quando si ha fame e sete e non hai nemmeno la forza di piangere si muore anche per una banale malattia. Da noi si risolve con una tachipirina e un giocattolo, lì si crepa. La maggior parte del bestiame della famiglia di Casho è morto di sete. Hanno camminato tutti insieme per due giorni fino al campo profughi di Baidoa, con la speranza di trovare aiuti. «I miei bambini hanno sofferto moltissimo – ha raccontato Casho –, senza cibo, né acqua. Allevavamo animali e coltivavamo la terra, adesso i nostri animali sono morti e i raccolti sono persi». Centinaia di migliaia di persone come Casho sono fuggite via in cerca di cibo, acqua pulita e cure mediche. La fame tuttavia è uno spettro con cui si combatte ogni giorno negli stessi campi. «Non abbiamo mangiato né ieri sera né oggi, non abbiamo nulla neanche per i prossimi giorni»: a parlare è un ragazzino di quindici anni, si chiama Ali, arrivato a Baidoa a giugno. «Chiediamo l’elemosina al mercato per avere un po’ di mais o qualche soldo, ma torniamo tante volte a casa senza niente e andiamo a dormire senza aver mangiato», dice, prima di eclissarsi, concedendo agli operatori di Save The Children una fotografia. Bishaaro ha appena due anni più di Ali, è una ragazzina bellissima. «Siamo qui da 15 giorni – racconta ai volontari – e l’ultima volta che abbiamo mangiato è stata quando la donna che vive nella tenda accanto alla nostra ci ha dato qualcosa, due giorni fa». Qualche kuraariye, i kiwi, o un po’ di qarre, l’anguria. Se ne va in giro, cercando invano qualcosa. Sua madre si spacca la schiena raccattando un po’ di legna da ardere, che vende al mercato. Spesso nemmeno un ciocco. Bishaaro e i suoi arrivarono al campo a bordo di un carretto di fortuna che non era nemmeno il loro carretto. «Quando siamo stati sfollati, abbiamo lasciato tutto alle spalle», dice, allontanandosi.

Nel vicino Kenya non se la passano meglio. Circa 942mila bambini più piccoli di cinque anni e 135mila donne incinte e madri che allattano sono alla fame più nera. Milioni di persone sono cadute in povertà e le famiglie non possono permettersi di sfamare i propri figli o mandarli a scuola. Circa 3,3 milioni di bambini sono a rischio di abbandono scolastico in Kenya, Etiopia e nella stessa Somalia, un numero triplicato in soli tre mesi. Anche loro, 3,3 milioni di nomi, non numeri. Come la piccola Mahad, 12 anni, che vive in un villaggio a nord della contea di Garissa, vicino al confine con la Somalia, con sua madre e sette fratelli. La sua famiglia ha perso centinaia di animali a causa della siccità e ora sta lottando per permettersi il cibo e il denaro necessario per farla studiare. «Da grande voglio fare l’insegnante», afferma con la forza che le resta. La scuola per lei è un grande amore, e viene prima di ogni altra cosa. Ma quale futuro l’attende?
Difficile capire nel profondo, in quale smarrimento si possa precipitare. Mohammed ne sa qualcosa. Legge con noi i report, annuisce; è un dramma che ha vissuto sulla sua pelle. Ripete d’aver visto morire tanti suoi amici, molti bambini del villaggio. Finché una mattina decise, sebbene così giovane, di affrontare quel viaggio con Aina. «Pensavo di trovare braccia aperte, mi ero convinto di questo. Pochi invece sanno chi siamo, da dove arriviamo, e che siamo uguali a voi», dice, con un filo di voce. «Quello che più mi fa soffrire, peggio di questi spasmi, è che il mondo sembra non accorgersi di noi. Io sono come tutti gli altri, come te per esempio…», si ferma, ci osserva. «Sono andato a scuola per quanto ho potuto – racconta ancora –, vorrei continuare ad andarci una volta che tutto si sistemerà. Se sogno? Sì, certo che lo faccio. Sogno di diventare un pilota di aeroplani, di volare, di tornare in Somalia, nel mio paese magari un giorno risanato».

Poi ci confida dell’amore per sua moglie, di un abbraccio lungo tutto il viaggio dall’Africa all’Europa, del figlio che sta per arrivare. Nascerà a Firmo, un piccolo centro italo albanese in provincia di Cosenza posto in cima a un altopiano, ai piedi della maestosa catena del Pollino. Gli ricorda le belle e misteriose montagne della sua martoriata Somalia. Andando via, lo vediamo prendersi cura di un anziano con il quale divide la stanza d’ospedale, sistemargli le lenzuola, imboccargli qualcosa e sotto lo sguardo incredulo degli operatori sanitari, di altri pazienti, dei familiari di questi. È uno sguardo che troppo spesso, tuttavia, nasconde quella voce arcana a cui molti di noi danno pieno ascolto: raccomanda di stare alla larga, di non fidarsi. E che noi siamo migliori di loro.

Come muore una democrazia

Ormai giornalmente veniamo avvertiti che il centro-destra potrebbe raccogliere fino al 48% dei voti validi, con il Fratelli d’Italia ben sopra il 20%, il partito più votato in Italia. Sarà anche vero che questo Paese è sempre stato «di destra», ma questo risultato segnerebbe senza dubbio un momento di svolta nella storia politica italiana. La domanda che sorge spontanea, però, è: come è possibile che siamo arrivati a questo punto? Un partito «post-fascista», i cui legami ideali con il fascismo non sono mai stati veramente recisi, si troverà dunque al governo, eletto dagli italiani, esattamente cento anni dopo quella marcia su Roma che segnò la triste involuzione autoritaria del Paese.

Se qui siamo arrivati, non è però un caso. E non è tanto – come superficialmente affermano in molti – perché FdI è stato all’opposizione del governo Draghi, facendo tesoro della rendita di posizione di cui gode sempre chi si schiera contro, nonostante la supposta «popolarità» dell’ex banchiere e i suoi «ottimi risultati». Il successo di FdI e della destra viene da lontano e molto hanno contribuito, a quel successo, il centro-sinistra e le sue politiche.

È da ormai più di un decennio che movimenti e posizioni «populiste» vanno affermandosi in Europa, coniugandosi con l’affermazione di movimenti apertamente filo-fascisti o nazisteggianti, quella «alt-right», la destra «radicale» che per molti versi è diversa dalla vecchia destra neo-fascista degli anni Settanta. È una destra che raccoglie attorno ai neo-conservatori frange apertamente filo-fasciste, appellandosi anche ai ceti popolari, facendo leva su sentimenti di rancore e rivalsa che albergano nel corpo sociale, soprattutto tra quelle fasce che più hanno vissuto sulla propria pelle gli effetti negativi della globalizzazione, le politiche di austerità, e che si trovano «escluse», marginalizzate, ceti medi e medio-bassi «proletarizzati» che sono rimasti spiazzati dalle dinamiche del capitalismo neo-liberista che si è affermato negli ultimi trent’anni. Si trattasse solo di quelle élite neo-conservatrici che non si riconoscono più nelle intemperanze della Lega o nel moderatismo post-democristiano di Forza Italia, non ci sarebbe forse di che preoccuparsi. Il fatto è che il consenso si è allargato alle fasce deboli, rimaste alla mercè delle dinamiche del mercato, senza «protezioni», dal sotto-proletariato dei «coatti» ai «perdenti della globalizzazione».

La dinamica politica italiana, in questo, mostra sviluppi preoccupanti, ma anche molto prevedibili. Che riflettono, da un lato, i mutamenti sociali in atto e, dall’altro, l’evolversi della cosiddetta «offerta» politica, data dalle forze politiche attive e dai messaggi e prospettive che offrono. Dopo il 1989 e, soprattutto, dopo il 1992, con lo scioglimento del Partito comunista, tangentopoli, l’adesione al Trattato di Maastricht e l’inizio della «globalizzazione», il panorama politico italiano muta radicalmente. A sinistra, la transizione è incerta, mentre a destra il blocco conservatore si ricompatta attorno a Forza Italia, il partito-azienda del Signor B. Il travaglio dei post-comunisti vede fasi alterne, perdendo progressivamente pezzi, per approdare al centro-sinistra dell’Ulivo nel 1996, che governa fino al 2001 e poi di nuovo dal 2006 al 2008.

Quando nasce il Partito democratico di Veltroni a «vocazione maggioritaria», alle elezioni del 2008 la sinistra e il centro-sinistra non riescono a coagulare più del 40% dei voti, mentre il centro-destra ottiene il 46.8% e l’Udc di Casini il 5.6% (la destra si ferma al 2.4%). Fino ad allora, il “blocco sociale di riferimento” del centro-sinistra è più o meno definito, come lo è quello del centro-destra. Il 2008, però, è anche il primo anno di una crisi economica che si protrarrà fino al 2013, con effetti catastrofici. Il Pd non coglie cosa sta avvenendo nel tessuto sociale. Il sostegno al governo Monti, dal 2011, con la sua agenda “rigorista” nel nome dell’austerity europea, provoca il primo definitivo smottamento, di cui trae vantaggio il messaggio egalitario e “populista” dei neonati 5 Stelle di Grillo. Ma il divario tra il Paese e il palazzo si allarga, soprattutto tra i ceti popolari, come testimonia la partecipazione elettorale: tra il 2008 e il 2013 il numero dei votanti scende da 37,9 a 35,3 milioni.

Nel 2013, i voti del Pd scendono da 12 a 8,6 milioni (il 25.4%), mentre la coalizione raggiunge il 29.6% (con Sel al 3,2%), il centro-destra si ferma al 29.2%, la coalizione di Mario Monti ottiene il 10.6%, mentre Rivoluzione civile si ferma al 2,3%. Il M5s, invece, prende il 25.6%, raccogliendo buona parte del voto “in uscita”, a sinistra come a destra, degli «scontenti», mobilitati dalle istanze «anti-sistema» che il movimento esprime. Per l’intera legislatura, però, il Pd mantiene la guida del governo, con Letta, Renzi e poi Gentiloni, non modificando sostanzialmente la sua agenda politica.

Così, le istanze populiste e demagogiche trovano facile terreno di coltura, alimentate dall’insoddisfazione crescente e dalla stagnazione del Paese. Nel 2018, i votanti scendono ancora, a 33,9 milioni, i voti del Pd calano a meno di 6,2 milioni (il 18,8%), e al centro-sinistra va il 22,9%, mentre Liberi e uguali ottiene il 3,4% e gli altri di sinistra appena l’1,6%. Il centro-destra ottiene il 37% (la Lega il 17,4%, Fi il 14% e FdI il 4,4%). Ed è il M5S a uscire vincitore, raccogliendo ben 10,7 milioni di voti (il 32,7%) tra i ceti medi e medio-bassi delle periferie urbane e nel sud. Ma anche la Lega, sotto la guida di Salvini.

Il populismo 5 Stelle è fondamentalmente rivolto al popolo come «demos», con le sue istanze egalitarie, anti-elitarie e le sue promesse assistenzialistiche. Quello della Lega è rivolto al popolo come «ethnos», rimarcando istanze securitarie e identitarie, anti-immigrazione, anti-europeiste, protezionistiche, «sovranistiche» (si veda Ardeni, Le radici del populismo, Laterza 2020). Sia la Lega che il M5s si rivolgono ai ceti medi e medio-bassi, in questo, cogliendo la disaffezione profonda di vaste fasce dell’elettorato verso sinistra e centro-sinistra, tra le quali si alimenta il disagio sociale e il rancore.

A nulla valgono quattro anni e mezzo di una legislatura in cui il M5s, partito di maggioranza relativa e sempre al governo, nei due esecutivi a guida Conte e Draghi, non riesce a portare a termine alcuna delle sue promesse – se si esclude l’inutile riduzione del numero dei parlamentari e il reddito di cittadinanza – mentre la Lega, al governo in due esecutivi, dopo l’imposizione dei «decreti sicurezza» pare rivolgere le sue attenzioni più al nucleo originario della sua base sociale che a quello dei ceti popolari non protetti. Così, quattro anni e mezzo sono passati senza che il Pd abbia non solo fatto un’analisi consequenziale di quanto andava corretto della sua linea e delle sue politiche ma stando al governo nel nome della “responsabilità”, prima per non “consegnare il Paese alle destre”, poi per affrontare l’emergenza della pandemia e sostenere il governo di “unità nazionale” sotto la guida di Mario Draghi. Preoccupandosi dei «diritti», senza peraltro portare a casa alcun risultato (dallo ius soli alla legge Zan). Una strada intrapresa da tempo, peraltro, nell’illusione che lasciando fare ai mercati, la crescita avrebbe beneficiato tutti, buttando a mare l’esperienza del capitalismo regolato. Continuando a guardare ai ceti medi. Dimenticandosi, ancora una volta, di quelle classi popolari che non sono più, evidentemente, nel suo radar. E che ora, dopo aver visto sciogliersi come neve al sole le promesse del M5s, come non poteva essere altrimenti, guarderanno a destra, nella speranza di trovare un nuovo rifugio o resteranno semplicemente a casa, senza ormai alcuna fiducia che questa democrazia sia in grado di rispondere ai loro bisogni.

Così muoiono le democrazie, ignorando quella domanda di eguaglianza nella libertà. Lasciando i ceti deboli allo sbaraglio, in mano alla destra radicale, che ora raccoglie tra i delusi della Lega quanto dagli esclusi di ogni tipo. Contento di difendere la cittadella «progressista», il Pd si accontenterà di raccogliere gli stessi consensi di prima, tra i ceti medi protetti. Sperando che l’astensione massiccia dai delusi dei 5 Stelle faccia alzare le percentuali sui voti validi. E aprendo la via all’involuzione illiberale, mai come oggi a portata di mano.

L’autore: Pier Giorgio Ardeni è professore ordinario di Economia politica e dello sviluppo all’Università di Bologna. È autore di numerosi saggi tra cui Le radici del populismo (Laterza 2020) ed è uno degli autori del libro collettaneo di Left di maggio 2022 “Tax the rich” (a cura di Piero Bevilacqua) 

L’attitudine al servilismo

Intorno a Giorgia Meloni si è attivato un meccanismo molto italiano, che ha a che fare con il potere e che ben descrive l’anima nera di questo Paese.

Giorgia Meloni studia da wasp (donna bianca anglosassone protestante, il modello mito dei repubblicani) ripetendo interviste in cui è vestita da repubblicana statunitense, truccata da repubblicana statunitense, con improbabili sfondi di abitazioni Usa. Per passare dalla figura della coatta romana post-fascista alla donna internazionale davvero può bastare uno studio di immagine ben fatto? È vero che il suo competitor Salvini si dedica a Nutella e spritz – non è particolarmente difficile da battere in termini di credibilità – ma sembra che tutti abbiano dimenticato l’enorme quantità di falsità e violenza verbale che Giorgia Meloni ci ha rifilato negli ultimi anni.

Com’è possibile che una leader di partito e il suo partito improvvisamente diventino credibili dopo essere stati derisi? Semplice, basta avere una buona predisposizione al servilismo. C’è una parte dei giornali che ha come missione aziendale (e a volte anche editoriale) quella di piacere al potere, chiunque esso sia. Sono i media che di volta in volta diventano berlusconiani, poi montiani, poi renziani, poi salviniani, poi draghiani e ora senza troppi problemi si cambiano l’intimo per esser pronti a diventare meloniani. Li riconoscete facilmente: sono quelli che nelle ultime settimane insistono sul fatto che l’antifascismo sia un vezzo e che Giorgia Meloni non sia fascista «perché l’ha detto» lei. Hanno il coraggio di scriverlo esattamente così.

Ieri Carlo Calenda (uno che sta ampiamente dimostrando di essere pronto ad attraccare in ogni porto pur annusare il potere) ha riportato un’agenzia di stampa che riprendeva il discorso multilingue confezionato da Giorgia Meloni per diventare potabile a livello internazionale (in cui dice – in inglese – «no ambiguità sul fascismo») e ha scritto: «Penso che sia doveroso prendere atto di questo passaggio chiaro e netto di ⁦Giorgia Meloni». Eccola la normalizzazione per utilità personale.

Del resto per essere antifascisti bisogna avere la schiena dritta, non cadere mai nella tentazione di assecondare i potenti.

Buon giovedì.

Raccolta firme: «Discriminato chi non è già in Parlamento». La denuncia di Marco Cappato

In questa concitata e rapidissima campagna elettorale rimane sotto traccia una grave discriminazione di cui pochi parlano: non tutte le liste hanno pari opportunità. Le forze che erano già Parlamento possono perpetuarsi. Chi era fuori rischia di non avere accesso. Perché non è possibile fare la raccolta firme in digitale come consentito per i referendum? Abbiamo rivolto queste ed altre domande a Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni che sta portando avanti la battaglia per i diritti di tutti. «Le discriminazioni purtroppo sono tante e toccano vari aspetti» risponde Cappato che ha da poco presentato la lista Referendum e democrazia. Da dove partire? «Inizierei dal fatto che i partiti che già dispongono di strutture parlamentari e servizi sono avvantaggiati nella corsa elettorale. Bisognerebbe mettere tutti coloro che devono raccogliere le firme nella condizione di farlo. Questo è il primo livello di discriminazione. C’è sotto una logica inaccettabile: chi non è in Parlamento deve dimostrare di esistere. Chi invece è in Parlamento già esiste».

Chi deve raccogliere le firme non si può coalizzare?
Questa è la seconda discriminazione. Chi deve raccogliere le firme non si può alleare. Questo indipendentemente dal fatto che abbia una struttura potentissima, milioni di euro per raccogliere le firme e candidati in tutti i collegi. Se non hai l’esenzione e vuoi fare un accordo con qualcuno, devi farlo anche sui collegi uninominali. Ma chi ha l’esenzione i collegi uninominali non li chiude se non all’ultimo minuto. Dunque se una lista – di destra, di centro, di sinistra – vuole fare un accordo non lo può fare. È una questione totalmente discriminatoria.

Come si può superare questa discriminazione?
L’unico modo sarebbe permettere di raccogliere le firme sul simbolo e non sulle liste complete. Raccolgo 60mila firme e poi faccio gli accordi con chi voglio, come gli altri, che possono cambiare i candidati fino all’ultimo momento. “Mi piaceva Letta adesso non mi piace più”… fin qui hanno fatto come gli pare.

Calenda, prima di fidanzarsi con Renzi e non dover più raccogliere le firme,  riteneva di aver diritto all’esenzione per il fatto di essere parlamentare europeo anche se è stato eletto nella lista Pd-Siamo Europa il soggetto politico che oggi si chiama Azione ma all’epoca delle elezioni non era presente con il suo simbolo. L’esenzione non vale però per l’Unione popolare. Come leggere queste disparità?
Sotto questo riguardo l’Unione popolare ha subito una discriminazione in più: erano presenti in Parlamento ma non è bastato. Sono stati esentati solo coloro che erano coalizzati. È una discriminazione nella discriminazione. Tutto questo è completamente illegale, assurdo, incostituzionale, non saprei come altro definirlo. Il governo ha il compito di diminuire l’impatto di queste discriminazioni. Per farlo deve autorizzare a raccogliere le firme sul simbolo e non sulle liste complete e con raccolta di firme digitale come già si può fare per i referendum.

Avevate rivolto un appello a Draghi riguardo alla possibilità di raccogliere firme in digitale. C’è stata risposta?
Silenzio assoluto; 25 persone hanno fatto lo sciopero della fame. Virginia Fiume è stata in sciopero della fame per dieci giorni. Non abbiamo ricevuto alcuna risposta. Neanche un commesso parlamentare che ci abbia dato conto della ricezione del nostro messaggio.

Quali sono le conseguenze di queste spinte all’auto conservazione delle forze oggi in Parlamento?
Hanno riflessi politici forti anche sulla campagna elettorale. Stiamo parlando di questioni che sono apparentemente tecniche, fatte apposta per essere incomprensibili. Il risultato è che non interessano a nessuno. La conseguenza è un sistema blindato su una cerchia di partiti che alle ultime elezioni non sono stati neanche in grado di portare a votare un elettore su due. E che tuttavia possono tranquillamente continuare a parlare di se stessi, degli accordi, di chi fa il premier, senza prendere minimamente in considerazione questioni sociali enormi, divisive al loro interno, pensiamo ai cosiddetti temi etici o delle libertà civili. Ma anche a temi rispetto ai quali non sono minimamente preparati a proporre soluzioni concrete in primis i cambiamenti climatici che sono la priorità delle nuove generazioni.

Cosa c’è dietro questa auto blindatura del sistema?
Serve a tenere fuori dalla porta certe urgenze senza dover pagare un prezzo sul piano elettorale, se non sul piano dell’astensionismo. Ovviamente questo non è deciso da un “grande vecchio”. Io non sto facendo un ragionamento complottista. Dico che molte forze politiche hanno perso il contatto con la società. Ne sono consapevoli e tentano di recuperarlo sul piano della demagogia e della propaganda. Loro pensano di riuscire a drogare la campagna elettorale pagando lautamente agenzie di comunicazione. Spendono molto, tanto dura poco. Così alcuni saranno attratti dal fatto che tanto vince la destra, altri il centrosinistra, altri saranno attratti dallo slogan del giorno, la flat tax. Così anche questa volta si scavalla l’appuntamento elettorale e poi si ricomincia come prima.

A pochi giorni dal lancio di Democrazia e referendum già 700 persone si sono proposte come candidate della vostra lista incentrata su tematiche centrali come quella dell’ambiente. In questi giorni circola un appello di scienziati. C’è chi parla anche di “Agenda Giorgio Parisi”. Qual è la vostra proposta?
Noi portiamo l’urgenza della democrazia, come priorità assoluta per poter affrontare le grandi questioni del nostro tempo. Perché il tema dei rigassificatori o dei termovalorizzatori è esplosivo? Lo è perché viene affrontato come bandiera ideologica, da una parte e dall’altra. Quando parliamo di grandi opere o di grandi infrastrutture energetiche scatta la sindrome “non nel mio cortile” soprattutto – a mio avviso – perché non c’è informazione e non c’è coinvolgimento dei cittadini. Sulle grandi infrastrutture energetiche ci saranno comunque i favorevoli e contrari ma è importante discuterne. Si possono fare dibattiti pubblici sulle grandi opere, assemblee di cittadini come si fa nel resto d’Europa. Oggi ci sono strumenti. Per chi crede nella democrazia dovrebbero diventare un investimento prioritario. Usare la rivoluzione digitale e tecnologica per realizzare una rivoluzione democratica di partecipazione, questa è la priorità che avrà effetto poi sulle politiche riguardo ai cambiamenti climatici, sulle politiche sulla società civile, sulle grandi questioni sociali e del lavoro.

Due parole pressoché assenti in questa campagna elettorale sono diritti e laicità. Per aver accompagnato in Svizzera la signora Elena, malata terminale di cancro lei rischia fino a 12 anni di carcere. Come le era già accaduto per il caso di Dj Fabo. Dopo la sentenza del 2019 della Consulta il Parlamento avrebbe dovuto fare una legge sul fine vita. Quella in discussione, purtroppo, è perfino peggiorativa della situazione attuale. Siamo punto e a capo?
La disobbedienza civile di cinque anni fa ha poi portato alla legge sul testamento biologico e anche a una sentenza della Corte costituzionale che ha legalizzato l’aiuto al suicidio a determinate condizioni. In questo modo siamo già stati riformatori attraverso la non violenza. Ora dobbiamo proseguire il cammino, nonostante la strada verso il referendum sia stata sbarrata dalla Consulta guidata da Giuliano Amato. Nonostante sia stata sbarrata la strada delle leggi di iniziativa popolare e dell’iniziativa parlamentare. Nonostante tutto questo sia stato affossato. Le minoranze organizzate come quelle clericali e quelle collegate a vario titolo con il Vaticano, anche se non hanno un forte consenso nella società, hanno un efficacissimo potere di interdizione e di ricatto all’interno dei partiti e delle coalizioni. Torniamo dunque a parlare di un problema democratico. Problematiche particolari prevalgono sull’interesse generale, prevalgono sull’opinione pubblica anche se quest’ultima è molto più avanti del ceto politico su questi temi. Mettere al centro la democrazia ha esattamente questo significato.

Un’altra parola chiave di questa campagna elettorale è antifascismo. Anche lei è entrato nel dibattito su cosa è fascista, ricordando che la legge del 1930 lo è pienamente…
In Italia abbiamo ancora residui e scorie del regime fascista. Ci sono scorie di Stato etico nel codice Rocco ma anche per una certa organizzazione corporativa della società dove si sentono le corporazioni ma non si ascoltano i cittadini. Tutto diventa un negoziato. Una volta c’era la camera dei fasci e delle corporazioni, molto resta di quella eredità del regime fascista io penso che vada affrontata in modo molto diretto. E poi ci sono politiche fascistoidi che pur essendo nate in tempi più recenti mantengono quella impostazione ideologica. Ovviamente non risalgono all’epoca fascista ma hanno quella certa impostazione leggi come quella sulle droghe che mette fuorilegge milioni di consumatori. Tendenzialmente vi è contenuto un rischio totalitario, per fortuna è ampiamente disapplicata. Purtroppo a farne le spese sono solo i poveracci. E poi ci sono segnali da non sottovalutare come l’esibizione di camicie nere, simboli saluti. Ma ho l’impressione che l’eredità fascista della quale quale è necessario e urgente occuparsi è più che altro quella che sta nei fatti di oggi che nei simboli di ieri, che pur tuttavia sono significativi in quanto simboli di insofferenza, di una nostalgia che è figlia anche del fallimento del nostro sistema democratico nell’appassionare cuori e menti alla democrazia.

Nei giorni scorsi da più parti è stato proposto un suo diritto di tribuna nelle liste del centrosinistra, cosa risponde?
Lo hanno proposto degli intellettuali come Gianrico Carofiglio e Giuliano Ferrara, li ringrazio. Lo leggo come un segnale di attenzione e di stima, perché loro non sono leader politici. Non è il loro compito proporre degli accordi, dal punto di vista politico, pur con le differenze che soprattutto Ferrara ha sottolineato. Dunque io non posso che ringraziarli.

Breve storia del Pd: le sue responsabilità (di ieri e di oggi) per la crisi sociale del Paese

Occorre di tanto in tanto fermarsi e guardare indietro, fare un po’ di storia, per capire come siamo arrivati sin qui. E un buon filo d’Arianna per districarsi nel labirinto della cronaca carnevalesca di oggi è la vicenda del Partito democratico. Nato nel 2007 dalla fusione dei Democratici di sinistra e della Margherita, è stato sino al 2018 il maggiore partito italiano e, con alcune interruzioni, nel governo della Repubblica per quasi 9 anni. L’intera XVII legislatura coperta con i governi Letta-Renzi-Gentiloni. In tutto 15 anni che, per i tempi della politica, per le sorti di un Paese, costituiscono una stagione abbastanza lunga perché sia possibile valutarne le responsabilità.

Comincio col rammentare che, erroneamente, questa formazione è stata sempre considerata l’amalgama di due grandi eredità politiche, quella comunista e quella democristiana. Non è così. Tanto i dirigenti comunisti che quelli cattolici, prima di fondersi, avevano subìto una profonda revisione della loro cultura originaria. Prendiamo gli ex comunisti. Dopo il 1989 essi hanno attraversato, come tutti i partiti socialisti e socialdemocratici europei, il grande lavacro neoliberale, mutando profondamente la loro natura. Tanto Mitterand in Francia, che Schroeder in Germania, Blair nel Regno Unito, D’Alema ( insieme a Prodi e Treu) in Italia, hanno proseguito o introdotto nei loro Paesi le leggi di deregolamentazione avviate dalla Thatcher in Gran Bretagna e Reagan negli Stati Uniti. In sintonia con Clinton, che nel corso degli anni 90 ha abolito la legislazione di Roosevelt sulle banche, essi hanno liberalizzato i capitali, reso flessibile il mercato del lavoro, avviato ampi processi di privatizzazione di imprese pubbliche e beni comuni, isolato ed emarginato i sindacati.

Democratici americani, socialdemocratici ed ex comunisti europei hanno sottratto le politiche neoliberistiche dai loro confini americani e britannici e le hanno diffuse più largamente nel Vecchio Continente. Un compito svolto senza incontrare resistenza, perché gli agenti politici si presentavano ai ceti popolari col volto amico e le insegne delle organizzazioni di sinistra. Hanno cosi impedito ogni reazione e conflitto. Negli anni 90 le élites di queste forze, hanno compiuto un capolavoro politico: hanno abbandonato il loro tradizionale insediamento sociale (classe operaia e strati popolari) e hanno salvato se stesse come ceto, mettendosi alla testa del processo della globalizzazione. Serge Halimi ha ricostruito con copiosa ricchezza di particolari questa vicenda (Il grande balzo all’indietro. Come si è imposto al mondo l’ordine neoliberale, Fazi 2006).

Sarebbe un errore moralistico tuttavia bollare come tradimento tale ribaltamento strategico. Quei gruppi dirigenti, nutriti di cultura sviluppista e privi di ogni sguardo agli equilibri del pianeta, non hanno fatto fatica a convincersi che rendere sempre più libero e protagonista il mercato, togliere lacci e lacciuoli, come ancora si dice, avrebbe accresciuto la ricchezza generale e dunque allargata la quota da distribuire anche ai ceti subalterni. E a questo compito residuale hanno limitato il loro rapporto col mondo del lavoro, ritagliandosi spazio e consenso tra i gruppi dirigenti. Senza dire che nel vocabolario della cultura neoliberista (libero mercato, flessibilità del lavoro, competizione, meritocrazia, ecc) essi hanno trovato il repertorio linguistico per innovare il loro discorso politico, quello più confacente alla loro nuova collocazione. Quella di forze politiche che non dovevano più promuovere e orientare il conflitto sociale, ma ottenere consenso elettorale per politiche di mediazione e di lenimento risarcitorio degli effetti più aspri dello sviluppo derogolamentato.
Dunque le forze che danno vita al Pd non sono gli epigoni dei vecchi partiti popolari, nati dalla Resistenza, sono forze del tutto nuove, indossano il vestito smagliante del vecchio avversario di classe. Ma quello di Veltroni e degli altri nasce come un progetto invecchiato, perché vuole imporre in Italia il bipartitismo in una fase storica in cui esso è al tramonto negli stessi Paesi in cui ha avuto più fortuna.

Qualcuno ricorda quando il Financial Times si scandalizzava per i programmi elettorali dei Tories e dei Laburisti nel Regno Unito, che erano pressoché identici? La stessa cosa accadeva negli Usa, fino a quando Trump non ha incarnato l’estremismo del primatismo bianco. Luigi Ferrajoli ha scritto pagine lucidissime su quei sistemi elettorali nel secondo volume dei suoi Principia iuris (Laterza 2007). Ma il tentativo di trasferire nel nostro Paese il sistema politico anglo-americano è poi velleitario non solo perché non tiene conto delle nostre varie culture politiche. Come se bastasse creare un unico contenitore per due contendenti, lasciando fuori tutti gli altri, per assicurare stabilità al sistema politico e conseguire la tanto agognata governabilità.

La storia non si lascia comprimere dal volontarismo istituzionale. Quella scelta ha contributo col tempo a mettere all’angolo le varie forze di sinistra, Rifondazione Comunista, Sel, Sinistra italiana, ecc (che portano la loro quota specifica di responsabilità), senza tuttavia risolvere i problemi di coesione e stabilità al proprio interno e nel sistema politico. Ma il tentativo nasconde un altro deficit analitico, comune a tutti coloro che ricercano la “governabilità”, accrescendo la torsione autoritaria degli ordinamenti. La fragilità dei governi riflette in realtà quella dei partiti, vuoti di ogni progettualità, privi ormai di forti ancoraggi sociali (tranne in parte la Lega) e trasformatisi in agenzie di marketing elettorale. Essi inseguono gli umori dei gruppi sociali, in parte creati, e non solo veicolati, dai media, protagonisti in prima persona della lotta politica, e perciò sono volatili, scomponibili come giocattoli di Lego.

Ma ciò che quasi tutti ignorano è che nella stagione di euforia neoliberista i partiti hanno consegnato al mercato, cioè al potere privato, non poche prerogative che erano del potere pubblico. E oggi il ceto politico, si ritrova con strumenti limitati di regolazione e controllo, sempre più costretto a subire la spinta del capitalismo finanziario a trasformare lo Stato in azienda. Le procedure di scelta e decisione dei Parlamenti e dei governi appaiono troppo lente rispetto alla velocità dell’economia e della finanza senza regole. Se un operatore può spostare immense somme di danaro con un gesto che dura pochi secondi, all’interno di società capitalistiche in competizione su scala mondiale, è evidente che la struttura degli Stati democratici appare ormai come un organismo arcaico. E senza un vasto ancoraggio con i ceti popolari, senza essere supportati dalla loro forza conflittuale, i partiti sono fragili e i governi instabili.

Dunque il Pd è nato come “forza di governo”, emarginando le culture politiche alla sua sinistra, imponendo o caldeggiando il sistema elettorale maggioritario. Ciò ha prodotto una torsione antidemocratica all’interno dei partiti in cui le segreterie hanno accresciuto il proprio potere sulla scelta della rappresentanza parlamentare, sempre più sottratta ai cittadini elettori. Un colpo alla democrazia dei partiti e a quella del Paese, governato da Parlamenti nominati, frutto di leggi elettorali spesso incostituzionali.

Se poi entriamo nella narrazione storica delle scelte partitiche e di governo compiute in 15 anni di storia nazionale non possiamo non stupirci della capacità manipolatoria dei gruppi dirigenti di questo partito, e della grande stampa, nel celare la sua natura conservatrice, spacciandolo per una forza di centro-sinistra. Si può ricordare il Jobs Act? Alcuni compassionevoli difensori scaricano la responsabilità su Matteo Renzi, quasi non fosse rampollo della stessa casata. Ma dopo di lui il lavoro precario in Italia è dilagato, il Pd non si mai mosso per arginarlo e, meraviglie delle meraviglie, si è insediato anche in ambito pubblico. Nel ministero dei Beni culturali, presieduto per un totale di 7 anni da Enrico Franceschini, siamo al “caporalato di Stato”, con una miriade di giovani che tengono in piedi  musei e siti con contratti a tempo determinato e salari da fame. Non va meglio ai ricercatori della Sanità pubblica, 1290 operatori con una media di 10 anni di precariato alle spalle. Sono i nostri giovani più brillanti, quelli che la Tv ci mostra dopo che sono scappati, quando hanno avuto successo nelle Università straniere. Nel 2021 con la ripresa dell’occupazione del 23%, il 68% è di contratti stagionali, il 35% in somministrazione, e solo 2% a tempo indeterminato.

Ma tutto il mondo del lavoro italiano ha conosciuto forse il più grave arretramento della sua storia recente. «Secondo l’Ocse l’Italia è l’unico Paese europeo che negli ultimi 30 anni ha registrato una regressione dello stipendio medio annuale del 2,9%» (D. Affinito e M.Gabanelli, Corriere della Sera, 11 luglio 2022). E siamo ora al dilagare dei lavoratori poveri. Il rapporto dell’11 luglio del presidente dell’Inps Tridico ricorda che «il 28% non arriva a 9 euro l’ora lordi». Tutto questo quando non muoiono per infortuni: nel 2020 1.270 lavoratori non sono tornati alle loro case. Poveri in un mare di miseria, perché oggi contiamo oltre 5 milioni di poveri assoluti e 7 di milioni di poveri relativi. Ma c’è chi sta peggio. Nelle campagne è rinato il lavoro semischiavile comandato dai caporali. La figura dei caporali era attiva in alcune campagne del Sud negli anni 50, poi travolta dall’onda di conflitti del decennio successivo. Negli ultimi 20 anni è risorta, ma si è diffusa anche nelle campagne del Nord.

Dobbiamo ricordare le condizioni della scuola? Renzi ha portato alle estreme conseguenze, secondo il dettato neoliberista europeo, avviato in Europa col Processo di Bologna (1999) e introdotto in Italia da Luigi Berlinguer, la trasformazione in senso aziendalistico degli istituiti formativi. Con l’alternaza scuola/lavoro ha portato la scuola in fabbrica e la fabbrica nella scuola. Ma il processo è proseguito con gli altri governi per iniziativa o col consenso/assenso del Pd e prosegue ancora oggi, grazie all’assoggettamento dei bambini e dei ragazzi a logiche strumentali di apprendistato, perché acquistino competenze, non per formarsi come persone. Gli insegnanti vengono obbligati a compiti estenuanti di verifica dei risultati, sulla base di test e misurazioni standardizzate, quasi fossero dei capireparti che sorvegliano gli operai al cottimo. Essi non sono più liberi nelle loro scelte educative e culturali, trasformati come sono in esecutori di compiti dettati dalle circolari ministeriali. Sotto il profilo culturale, la torsione della scuola a strumento di formazione di individui atti al lavoro, al comando, alla competizione, – di cui il Pd è il più convinto sostenitore – costituisce il più sordido e devastante attacco alle basi del nostro umanesimo, della nostra civiltà.

Ma il giudizio da dare a questo partito non può riguardare solo le scelte di governo. Certo, alcune sono particolarmente gravi. L’iniziativa del ministro Marco Minniti, nel 2017, di armare la Guardia libica per dare la caccia ai disperati che si avventurano nel Mediterraneo, allo scopo di rinchiuderli e torturarli nelle loro eleganti prigioni, rappresenta forse il più feroce atto di governo nella storia della Repubblica. Dal 2017 sono affogati in quel mare oltre circa 2mila esseri umani ogni anno.

Ma ci sono iniziative meno cruente, non per questo però meno devastanti. La scelta del governo Gentiloni di stabilire “accordi preliminari” con Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna per avviare i loro progetti di autonomia differenziata è un passo esemplare. Mostra quale visione del futuro del nostro Paese orienta il gruppo dirigente del Pd. Un’Italia abbandonata agli egoismi territoriali delle regioni più forti, la competizione neoliberista portata dentro le istituzioni dello Stato, per disgregare definitivamente un Paese già in frantumi.

Ma occorre mettere nel conto dei 15 anni di presenza politica anche il “non fatto direttamente”, le leggi e le scelte accettate, dal governo Monti nel 2011 a quello Draghi appena concluso. E non abbiamo spazio per elencare le scelte avallate, dalla riforma Fornero all’inserimento in Costituzione dell’obbligo del pareggio di bilancio. E tuttavia non possiamo dimenticare che il Pd ha sabotato in ogni modo il referendum vittorioso per la publicizzazione dell’acqua, ha taciuto di fronte al continuo sottofinanziamento della scuola e dell’Università, non si contrappone ancora oggi al sostegno pubblico alla medicina privata. Il Pd non ha preso alcuna iniziativa per sanare un territorio devastato dagli incendi d’estate e travolto dalle alluvioni in inverno, ha anzi taciuto e sostenuto, tramite i suoi presidenti di regione e sindaci, la cementificazione selvaggia del Paese, la più totalitaria d’Europa. Il Rapporto nazionale Ispra 2022 denuncia che nel 2021 abbiamo raggiunto il valore più alto  negli ultimi dieci anni di consumo di suolo con la media di 19 ettari al giorno, per effetto di cementificazione, soprattutto per la costruzione di edifici. È una cifra spaventosa, una sottrazione di verde che espone il territorio alle tempeste invernali, accresce la temperatura locale, sottrae ossigeno alle città appestate dallo smog.

Potremmo continuare ricordando che il Pd non ha mai mosso un dito contro le disuguaglianze selvagge che lacerano il Paese, ha votato la riforma fiscale Draghi che premia i ceti con redditi superiori ai 40 mila euro, mentre il suo segretario, con l’elmetto guerriero in testa, ha prontamente accettato la richiesta Nato di portare al 2% del Pil le nostre spese annue in armi, poco meno di 40 miliardi di euro. Un vero sollievo per le nostre brillanti finanze.

Ma non abusiamo della pazienza del lettore. Quanto già scritto mostra ad abundantiam come questo partito ha immobilizzato un Paese che sta su un piano inclinato e quindi se sta fermo scende, quando, con le proprie scelte, non lo ha spinto indietro. Ma la difesa dello status quo oggi, mentre tutto precipita e il pianeta mostra segni di collasso, è una strada rovinosa.

Dunque, al netto degli effetti prodotti dalle scelte dei governi precedenti, è evidente che il Partito democratico, in questi ultimi 15 anni di storia, è il maggiore responsabile del declino italiano. Per tale ragione tutte le rare lucciole di persone effettivamente progressiste che si aggirano disperse nella pesta notte del suo conservatorismo, concorrono, sia pure involontariamente, a nascondere la natura antipopolare di questo partito, i danni storici inflitti all’Italia. Votarlo non è il meno peggio, ma il peggio.
Ne va dunque dell’onore dei giornalisti italiani continuare a pronunciare il nobile lemma sinistra e alludere al Pd. Così come ne va dell’onore, della coerenza e della ragione di Sinistra italiana continuare a ricercare una alleanza elettorale con questo partito, che ha dimostrato, con ampiezza di prove, di essere un avversario di classe.

Il blocco navale è una cagata pazzesca

Giorgia Meloni parla poco. C’è da capirla, la sua posizione è talmente avvantaggiata – anche  rispetto ai suoi alleati – che può solo sbagliare. Ma poiché non può pagare la campagna elettorale a farsi foto sentendo profumo di Palazzo Chigi la leader di Fratelli d’Italia ha ritirato fuori uno dei suoi pezzi forti, il blocco navale, e non le è nemmeno scappato da ridere.

Il blocco navale del resto ormai è un genere letterario che affonda le radici al tempo di Mare Nostrum, quando anche i più feroci dovettero arrendersi di fronte alla Cedu e alle Convenzioni internazionali. Dice l’articolo 42 dello Statuto delle Nazioni Unite che il blocco navale non può essere attivato unilateralmente da uno Stato se non nei casi di legittima difesa, e cioè in caso di aggressione o guerra. Poiché il contrasto dell’immigrazione non è una guerra (anche se a Meloni e soci piacerebbe) sarebbe semplicemente illegale.

Giorgia Meloni ha poi provato a correggere la sua proposta parlando di hotspot in Libia, rafforzando di fatto gli accordi con la Libia che iniziarono sotto il governo Gentiloni e che furono rinforzati da Matteo Salvini. Giorgia Meloni, come molti altri, sembra ignorare consapevolmente che stringere accordi con la Libia significhi non avere idea della situazione politica di quei territori e non conoscere la costante violazione dei diritti umani. Stringereste un patto con dei carnefici? A meno che Giorgia Meloni non dismetta i panni da novella statista e confessi limpidamente di volere proprio questo. Gianfranco Schiavone, membro di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), spiega a Eleonora Camilli per Redattore Sociale: «Questo tipo di proposte hanno tutte un retropensiero non espresso ma evidente: che si possa impedire il diritto di asilo come diritto di accesso individuale al territorio, selezionando i ‘veri rifugiati’ e bloccando le frontiere – dice Gianfranco Schiavone -. L’ipotesi è quello di un blocco navale realizzato sotto altre forme più o meno legali, ma tra l’ipotesi iniziale e quella apparentemente più ragionevole c’è una continuità di pensiero. Invece il diritto d’asilo prevede sempre il diritto di accesso al territorio dello Stato in cui si vuole chiedere protezione»

Giorgia Meloni parla poco ma quel poco di cui parla è violento e sbagliato.

Buon mercoledì.

Baldino (M5s): Corriamo da soli, i giovani sono al centro del nostro programma

«Agli elettori di sinistra dico questo: se vogliono avere la garanzia che il loro voto non vada sprecato, votino noi» ha detto Giuseppe Conte a Repubblica. «Sicuramente – dichiara-  non potremo fare un accordo con la destra, hanno soluzioni inadeguate». Quello che posso garantire è che le nostre riforme, dal salario minimo alla lotta al precariato, le realizzeremo costi quel che costi o, se non saremo al governo, le difenderemo con le unghie». Chiusa ogni strada di accordo con il Pd, il Movimento 5 stelle guidato da Conte sembra avviarsi a una corsa in solitaria alle elezioni del 25 settembre.  Ma c’è chi dice che sarebbe un errore sia per la sinistra che per il M5s non esplorare possibili alleanze, vista la vicinanza su molti punti di programma che riguardano la giustizia sociale e ambientale. Ne abbiamo parlato con la deputata M5s Vittoria Baldino.

Onorevole Baldino dopo che Calenda si è sfilato dal patto con Letta è cambiato lo scenario per il M5s? Quali sono le alleanze “naturali”?
 
Per noi non cambia niente. Il nostro spazio è dettato dai temi che portiamo avanti da sempre. Le alleanze dovrebbero essere funzionali a condividere una visione di Paese ed essere più forti per poterla realizzare. Così abbiamo ragionato in questi anni al governo, portando la destra a votare riforme che si definiscono di sinistra e la sinistra ad accelerare su temi che propone da sempre ma con poco coraggio. Noi ci occupiamo di questioni come la giustizia sociale, il sostegno alle persone più deboli e di vere politiche votate all’ecologia e alla salvaguardia dell’ambiente a tutela delle future generazioni. Siamo lì, in quello spazio.

Vista questa brutta legge elettorale, il Rosatellum, perché non unire gli sforzi a sinistra?

Questa domanda andrebbe fatta a chi si definisce di sinistra e poi si scopre pronto ad alleanze con forze politiche ed esponenti che hanno propugnato e ancora propugnano il liberismo più sfrenato, lo smantellamento del settore pubblico e un totale disinteresse per i temi ambientali. Quella alleanza sembra non essere andata a buon fine non per discordanza sui temi- che pure erano abbastanza evidenti – bensì su questioni e scaramucce che riguardano quote di collegi. A noi non è mai interessato essere collocati a sinistra, ci interessa che si vada nella direzione che riteniamo più giusta volgendo lo sguardo al futuro.

La deputata M5s Vittoria Baldino (foto dalla sua pagina facebook)

Il Movimento ha alle spalle un periodo di lotte radicali per l’ambiente, contro il consumo di suolo ecc. Come riprendere quelle battaglie? Potreste far vostra “l’agenda” del Nobel Giorgio Parisi?

Sì, senz’altro. In questo, siamo diversi sia dalla destra sovranista, sia da quello che una volta si definiva centrosinistra, ora sempre più spostato verso un indefinito centro. Negli ultimi mesi, anzi negli ultimi giorni, abbiamo assistito a dei riposizionamenti politico-elettorali che hanno finito per rendere sempre più indistinguibili gli schieramenti. Guardandoli bene, infatti, su molti temi non si differenziano per nulla. Calenda è per il nucleare, il Pd di Letta e Gualtieri per gli inceneritori: la pensano esattamente come Meloni e Salvini. Non abbiamo battaglie da riprendere perché non le abbiamo mai abbandonate, anche a costo di essere attaccati ogni giorno.

La questione della costruzione della pace è scomparsa dal dibattito. Va rilanciata e in che modo?

Il conflitto russo ucraino sembra essere svanito dai riflettori, eppure i giorni di guerra che si susseguono ancora confermano che eravamo nel giusto: le armi non avrebbero portato la pace. Bisogna concentrare tutti gli sforzi sulla diplomazia, quelli fatti non sono stati evidentemente sufficienti. Lo diciamo da mesi e continueremo a farlo.

È scomparso anche il dibattito sugli scenari geopolitici che cambiano. L’Italia si può chiudere in un orizzonte sovranista?

Il quadro geopolitico internazionale è in preoccupante evoluzione e si prospettano scenari economici, e quindi anche sociali, preoccupanti. È evidente che nessuno oggi può farcela da solo di fronte alle emergenze che affrontiamo e che hanno ormai una dimensione planetaria. Penso agli effetti economici della guerra sull’energia e sul grano. Quella del sovranismo è una ricetta ormai obsoleta e fallimentare, dobbiamo aprirci non chiuderci. Vogliamo un’Europa forte e aperta e insistere verso politiche economiche, energetiche, ambientali e sociali condivise, come abbiamo fatto con il presidente Conte nei periodi più bui della pandemia, spostando il dibattito dall’austerità alla solidarietà.

La campagna elettorale è molto schiacciata sul presente, manca una visione. Il M5s come immagina l’Italia da qui a venti, trent’anni? Concretamente quali politiche per una società più giusta e democratica, più rispettosa dell’ambiente, attenta alla soddisfazione dei bisogni delle persone ma anche alle esigenze di realizzazione delle persone attuando l’articolo 3 è l’articolo9 della Costituzione?

I giovani e la persona saranno al centro del nostro programma. Immaginiamo un’Italia che sia locomotiva d’Europa, ma per farlo occorre proseguire il percorso riformatore che abbiamo iniziato in questa legislatura. Occorre riformare il mercato del lavoro recependo la domanda di cambiamento che arriva dai giovani di tutto il mondo e che si sta espandendo a macchia d’olio: maggiore flessibilità di orari e di spazi, maggiore attenzione al benessere individuale e collettivo, livello di salari adeguati e maggiore facilità a fare impresa.

Quanto alla scuola alla ricerca all’università? 

Bisogna investire maggiormente nella scuola, in ricerca e innovazione, fornendo gli strumenti per fare scelte consapevoli e adatte al contesto territoriale in cui si vive, aggredendo il processo di desertificazione di interi territori dal nord al sud alle isole. Occorre restituire ai nostri ragazzi e ragazze il diritto a restare nel proprio Paese. Progresso vuol dire fare scelte coraggiose sui diritti sociali e civili, sull’inclusione generazionale e di genere, su questi temi non ci siamo mai tirati indietro. Il principio solidaristico dell’art. 3 della Costituzione è sempre stato il nostro faro, lo abbiamo dimostrato con l’attenzione ai più deboli con il reddito di cittadinanza, screditato in maniera così ingenerosa e ideologica da chi ama mettere in contrapposizione i problemi quotidiani delle persone. L’art. 9 della Costituzione lo abbiamo modificato, inserendo la tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e della biodiversità come principio fondamentale che deve guidare anche le scelte di politica economica pubblica e privata. Vorremmo inserire anche il diritto di accesso alla rete per tutti, in un mondo sempre più interconnesso anche l’accesso universale a internet è garanzia di inclusione, lo abbiamo visto durante la pandemia che, seppur nella sofferenza diffusa, ha posto l’acceleratore verso riforme sostanziali del modo di lavorare, studiare, vivere. Non bisogna tornare indietro, ora dobbiamo correre.