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Un decalogo sull’ambiente per i partiti

Dieci punti già pronti per una campagna elettorale che guardi all’ambiente. A sottoscriverli è il gruppo scientifico Energia per l’Italia, coordinato dal professor emerito dell’Università di Bologna Vincenzo Balzani, con numerosi scienziati e accademici.

«Siamo in una “tempesta perfetta”  – spiegano – nella quale le difficoltà sociali ed economiche della pandemia non ancora risolta si sommano all’emergenza climatica e alla crisi energetica, resa ancor più drammatica dalla guerra scatenata dalla Russia nel cuore dell’Europa». «In questo momento – si legge nell’appello – nel quale le italiane e gli italiani sono ancora preoccupati per la propria salute fisica, ma ancor più per le bollette di gas e luce e per i rincari del cibo, nel quale gli agricoltori vedono sparire i raccolti e le aziende energivore sono costrette a fermare gli impianti, nel quale i giovani vedono sfumare il loro futuro, siamo chiamati a votare avendo ben chiari i programmi dei partiti che si candidano a governare».

«Il decalogo:

1 TRANSIZIONE ENERGETICA, DALLE FONTI FOSSILI ALL’EFFICIENZA E ALLE FONTI RINNOVABILI

Secondo l’Agenzia europea dell’ambiente dal 1980 al 2019, a causa degli eventi estremi dovuti alla crisi climatica, l’Italia ha subito perdite economiche stimate in 72,5 miliardi di euro. L’inquinamento è responsabile in Italia di 60mila morti ogni anno. La dipendenza dalle importazioni di gas e petrolio ci espone ai rischi della speculazione dei mercati e ci rende soggetti ai ricatti di regimi autocratici e antidemocratici. La crisi idrica che sta colpendo il Paese mette a rischio dal 30 al 50% della produzione agricola nazionale, penalizza la filiera agroalimentare, a causa dell’aumento generalizzato dei prezzi ed aumenta quindi le diseguaglianze sociali e di genere. È necessario accelerare la transizione dalle fonti fossili ed inquinanti ad un sistema basato sul risparmio energetico, l’efficienza e le fonti rinnovabili. Con queste scelte, dipenderemo meno dalle importazioni di gas e petrolio, avremo rapidamente bollette più basse, benefici ambientali e climatici, e anche una crescita virtuosa degli investimenti e dell’occupazione.

2 DEMOCRAZIA ENERGETICA, ENERGIA COME BENE COMUNE

Il Sole è il più grande “reattore a fusione nucleare” già disponibile per la produzione di energia rinnovabile e fornisce ogni anno 15mila volte l’energia di cui l’umanità necessita. La ricerca scientifica ha sviluppato le tecnologie necessarie a catturare l’energia solare come il fotovoltaico, il solare termico e l’eolico, così come quelle per conservare l’energia in maniera molto efficiente, ad esempio con le batterie al litio e i pompaggi idroelettrici. È necessario che ognuno di noi sia messo nelle condizioni di produrre energia pulita e soprattutto di condividere e scambiare l’energia prodotta attraverso la rete elettrica e il relativo mercato, che devono essere riorganizzati per gestire il 100% di energia elettrica rinnovabile. L’energia deve diventare un bene comune, staccandosi dalla logica dei sistemi centralizzati in cui pochi producono/distribuiscono e tutti consumano la risorsa, se hanno la possibilità di acquistarla. La democrazia energetica si può realizzare attraverso un’economia di condivisione del vettore energetico che alimenta le nostre società e una rete che supporta l’autoconsumo collettivo, attraverso l’indispensabile evoluzione delle comunità energetiche.

3 BASTA CON I SUSSIDI ALLE FONTI FOSSILI

In Italia ogni anno ben 35,5 miliardi di euro di denaro pubblico vanno a sostenere la produzione e l’impiego di fonti fossili. Secondo l’Ocse, questi sussidi gravano in modo importante sui conti pubblici e sulle tasche dei contribuenti, sono dannosi per l’ambiente, socialmente iniqui e inefficienti; l’onere che ne deriva grava sulla fiscalità generale e sottrae risorse che potrebbero essere destinate ad altri finanziamenti di pubblica utilità. Un tale fardello ambientalmente dannoso e socialmente iniquo va rimosso e le risorse economiche così liberate devono essere utilizzate per sostenere la transizione ecologica.

4 L’ENERGIA NUCLEARE NON È LA RISPOSTA GIUSTA ALLA CRISI

Un ritorno al nucleare per supportare la transizione ecologica e combattere il cambiamento climatico, come alcuni politici stanno affermando, è totalmente sbagliato per vari motivi. Non si tratta di una fonte energetica verde perché, se è vero che nelle centrali nucleari viene prodotta elettricità senza generare CO2, a monte se ne genera moltissima per processare il combustibile, per costruire e infine smantellare la centrale; l’uranio non è una fonte energetica rinnovabile e le scorte di combustibile sono limitate; il problema delle scorie non ha ancora una soluzione e sussiste il pericolo di gravi incidenti alle centrali, come Chernobyl e Fukushima dimostrano; la costruzione di una centrale nucleare richiede grandi investimenti e almeno 15 anni per completare i lavori; la dismissione di una centrale è un’impresa ancora più costosa della sua costruzione e produce altre scorie che non sappiamo dove mettere. Nel caso specifico dell’Italia, poi, c’è da considerare che il nostro Paese non è adatto al nucleare, essendo un territorio densamente popolato e sismico, che non ha riserve di uranio e, ormai, non ha neanche più le competenze per costruire e gestire una centrale nucleare, cosa che ci renderebbe dipendenti da altre nazioni che hanno uranio e tecnologia.

5 EDIFICI E TRASPORTI EFFICIENTI, SOSTENIBILI E NON INQUINANTI

Gli edifici italiani costruiti durante il boom economico del dopoguerra mostrano gravissimi limiti dal punto di vista energetico, generando alti costi energetici e forti emissioni di CO2 per il riscaldamento e il raffrescamento. Si deve assolutamente rimettere mano alla coibentazione e al miglioramento energetico di tutti gli edifici pubblici e privati puntando alla sostituzione delle caldaie a gas con efficienti termopompe elettriche, alimentate da fonti rinnovabili. Occorre inoltre un piano straordinario per l’installazione di pannelli solari termici per la produzione di acqua calda sanitaria.

I trasporti in Italia generano il 25% di tutte le emissioni di gas serra, un fortissimo inquinamento dell’aria e sono quasi del tutto dipendenti dalle importazioni di petrolio. È necessario potenziare i trasporti pubblici locali a trazione elettrica, trasferire quote rilevanti delle merci su treno e vietare la vendita di nuovi motori termici entro una data ravvicinata. È necessario istituire prezzi politici per gli abbonamenti mensili o annualisull’intera rete del trasporto pubblico, utilizzare solo motori elettrici, estendere i treni veloci sull’intera rete, costruire una rete ciclabile nazionale molto capillare.

6 ATTIVARE SUBITO IL PIANO NAZIONALE DI ADATTAMENTO AL NUOVO CLIMA

Il cambiamento climatico è già in atto e sta creando impatti notevoli su popolazione ed ecosistemi. Bisogna assolutamente ridurre le emissioni di gas serra e quindi l’uso dei combustibili fossili (mitigazione) e allo stesso tempo bisogna agire sugli effetti del nuovo clima con azioni di adattamento, per ridurre i rischi già presenti e quelli futuri, anche maggiori e più frequenti. In Italia esiste una Strategia di adattamento nazionale da dieci anni, ma non c’è ancora un Piano nazionale di adattamento che selezioni le azioni prioritarie e le metta in atto, al contrario di quanto avviene in tutti i Paesi europei. È tempo che l’Italia si allinei; siamo già in clamoroso ritardo!

7 FORMAZIONE PER UNA CITTADINANZA CONSAPEVOLE E RICERCA FINALIZZATA A RISOLVERE LE CRISI

Il Paese deve investire in formazione e ricerca, a maggior ragione in un momento di crisi. La formazione è necessaria per avere cittadini e politici consapevoli delle grandi sfide che li attendono, mentre la ricerca è fondamentale per lo sviluppo. Formazione significa fornire agli studenti una preparazione inter- e trans-disciplinare creando lo spirito critico, necessario per muoversi nel mare delle informazioni oggi disponibili, e affrontare il problema della sostenibilità nelle sue tre dimensioni, ambientale, economica e sociale, facendo riferimento all’Agenda 2030. Ricerca significa investire il denaro pubblico avendo sempre in mente il bene sociale. Poiché i finanziamenti, per quanto cospicui, sono sempre limitati, occorre definire le linee di ricerca da potenziare; dovranno essere privilegiate quelle tematiche che ci permettono di trovare possibili soluzioni ai gravi problemi sanitari, ambientali, economici e sociali che caratterizzano la nostra epoca.

8 AGRICOLTURA SOSTENIBILE, CONSERVAZIONE DEL SUOLO E PROTEZIONE DELLE FORESTE

Il clima è cambiato e cambierà ancora; è dunque essenziale un adattamento del sistema agricolo italiano al nuovo clima: diminuzione e compatibilità ambientale delle produzioni animali, oggi eccessive e sostanzialmente insostenibili; potenziamento del settore biologico e delle produzioni locali; drastico abbattimento dei danni arrecati dall’agricoltura industriale ai suoli, alle acque e alla biodiversità; massima integrazione con l’ambiente e le risorse naturali disponibili. Le foreste non vanno tagliate ma protette e devono continuare a crescere e assorbire CO2. Serve un serio impegno per fermare il consumo irreversibile di suolo che si riflette sul dissesto idrogeologico, sul ciclo dell’acqua e indirettamente sul clima. I soldi pubblici che vanno alle imprese agroalimentari devono essere condizionati all’effettivo miglioramento sul fronte ambientale.

9 PROTEGGERE LA SALUTE DALL’INQUINAMENTO DELL’ARIA

La protezione dell’atmosfera deve agire sia sulle emissioni di gas serra, per limitarne gli impatti sul clima, sia sulle emissioni di inquinanti primari e secondari, per minimizzare le concentrazioni di composti insalubri nell’aria che respiriamo. Esempi di inquinanti sono il black carbon e l’ozono a bassa quota, che hanno effetti sulla salute e sul riscaldamento a breve termine del pianeta. In generale, come afferma l’Organizzazione mondiale della sanità nel suo rapporto 2021, gli sforzi per migliorare la qualità dell’aria possono ridurre i cambiamenti climatici e gli sforzi per la mitigazione dei cambiamenti climatici possono, a loro volta, migliorare la qualità dell’aria. Diminuendo cioè l’uso dei combustibili fossili si crea un circolo virtuoso che impedisce in Italia e nel mondo milioni di morti premature dovute sia alla cattiva qualità dell’aria che alle conseguenze del cambiamento climatico.

10 PIÙ EQUITÀ SOCIALE IN ITALIA E NEGOZIARE PER LA PACE IN EUROPA

I dati Istat informano che nel 2022 la povertà assoluta ha raggiunto il massimo storico in Italia, con circa 5,6 milioni di poveri. La pandemia Covid-19 e il cambiamento climatico hanno aumentato le disuguaglianze, esacerbando le difficoltà sociali e sanitarie. Per ridurre le disuguaglianze occorre, da un alto, redistribuire il reddito mediante tassazione progressiva più spinta, tetti agli stipendi più elevati, alte tasse di successione e tasse sui patrimoni elevati e, dall’altro, sviluppare e potenziare i servizi e i beni pubblici: sanità, scuola, trasporti, strutture sportive, parchi.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa, ha fatto decine di migliaia di vittime ed è già un conflitto di lunga durata con drammatiche conseguenze. Questa guerra va fermata subito e va cercata una soluzione negoziale; con le principali reti pacifiste e organizzazioni della società civile del nostro Paese, raccolte nel cartello Europe for Peace, chiediamo che l’Italia si impegni affinché riprendano i negoziati per un immediato cessate il fuoco».

Ora la palla passa ai partiti.

Buon martedì.

Nancy Pelosi a Taiwan, tanto rumore per nulla?

Da 25 anni un presidente della Camera dei rappresentanti statunitense non metteva piede sul suolo di Taiwan, lo hanno ricordato in tanti. Ma quali saranno le reali conseguenze a livello di rapporti di forza in Asia orientale?

Andiamo per ordine. Dopo una serie di dubbi e di temporeggiamenti, la democratica Nancy Pelosi è atterrata a Taipei il 2 agosto, capitale dell’isola taiwanese attorno alla quale si era già mobilitato l’esercito cinese ufficialmente per delle esercitazioni.

Visitare Taiwan non è come fare tappa in una qualsiasi delle mete dell’area indopacifica selezionate per il viaggio istituzionale di Pelosi. Che la terza carica degli Stati Uniti scelga di fare visita a uno Stato che la Cina non riconosce come indipendente, ha tutto un altro peso. Le relazioni tra Washington e Pechino, così come quelle tra Stati Uniti e Taiwan, sono regolate da dei trattati internazionali specifici, rispettivamente il Comunicato di Shangai del 1972 e il Taiwan relations act del 1979. Nel primo, come ha ricordato anche Asia times, si pone come vulnus principale tra Usa e Cina lo status di Taiwan: Pechino non ne riconosce l’indipendenza, ma la considera una provincia cinese. Gli Stati Uniti accettavano questa posizione e si auspicavano una risoluzione pacifica della situazione. Se il presidente statunitense o il vicepresidente visitassero Taipei, sarebbe un implicito riconoscimento dell’indipendenza di Taiwan, e il trattato andrebbe a monte.

Questo non vale, però, per la speaker Pelosi, almeno non ufficialmente. Dal punto di vista tecnico, infatti, la terza carica dello Stato non è annoverata tra quelle figure diplomatiche la cui presenza sul suolo di qualsiasi Paese farebbe scattare automaticamente “l’allarme riconoscimento”. Tuttavia, è più o meno come sfidare a sparare qualcuno che ti sta puntando una pistola, sapendo che sei appena fuori la linea di fuoco e che quindi non può colpirti. Pericoloso lo stesso, però. Pechino ha più volte ribadito che la presenza di Pelosi a Taipei non era gradita, e che se avesse scelto di visitare comunque Taiwan ci sarebbero potute essere conseguenze (non a caso, ci sono in corso “esercitazioni militari” cinesi a un tiro di schioppo dall’isola).

Ma quindi, sapendo qual era la posta in gioco, perché il presidente Joe Biden non ha impedito alla speaker Pelosi di recarsi a Taiwan? Dal punto di vista meramente procedurale, il presidente non può impedire alla speaker di recarsi in un Paese straniero, vigendo la separazione dei poteri tra Parlamento e presidenza. Di certo, non mancano gli espedienti che un inquilino della Casa Bianca può utilizzare per persuadere un membro del suo governo a seguire una determinata linea di comportamento. Ad esempio, come suggerisce Asia times, avrebbe potuto negarle l’utilizzo di un mezzo militare statunitense, se non convincerla a desistere del tutto. Eppure, Pelosi è andata avanti con il suo proposito, prima omettendo la tappa a Taiwan dall’itinerario e accendendo qualche timida speranza, per poi invece apparire sul suolo di Taipei.

Molto ci si sta interrogando sulle ostinate motivazioni di Nancy Pelosi nel volersi recare sull’isola. Il professor Mario Del Pero sul Giornale di Brescia ha suggerito di leggerci un tentativo, da parte del Congresso, di voler riaffermare la propria autorità nel definire la politica estera statunitense. Solo in gravi casi di emergenza, infatti, spetta al presidente decidere la linea da tenere. Negli ultimi cinquant’anni, però, sempre più spesso i ruoli si sono ribaltati, e con le elezioni di midterm alle porte riaffermare la propria importanza non è un aspetto secondario. L’affrancamento dalla Cina, soprattutto dal punto di vista economico, è un tema che unisce democratici e repubblicani, seppur con declinazioni diverse. In più, continua Del Pero, secondo i sondaggi dell’agenzia Gallup, ben l’80% degli statunitensi non vede di buon occhio Pechino, una percentuale che è aumentata del doppio negli ultimi dieci anni. Se per i repubblicani sono i rapporti commerciali con la Cina il punto più importante, per i democratici è il confine tra autoritarismo e democrazia a diventare centrale, soprattutto la questione dei diritti umani. Non a caso, Nancy Pelosi ha affermato più volte che il vero motivo della sua visita, durata 19 ore, riguardava proprio questo aspetto.

L’ultimo speaker ad aver messo piede a Taiwan prima di Pelosi era stato il repubblicano Newt Gingrich nel 1997. Il clamore suscitato era stato, però, molto inferiore. Questo perché Gingrich era in realtà il rappresentante dell’opposizione, visto che il presidente era a quel tempo il democratico Bill Clinton. Pelosi, invece, è dello stesso partito di Biden, il che fa pensare che le sue azioni siano in qualche modo avallate dalla Casa Bianca, o quanto meno tollerate. La continuità di partito che si è presentata in questo caso non ha nulla a che vedere con il caso della visita di Gingrich.

La visita di Pelosi e della delegazione congressuale che si è recata a Taiwan è stata percepita da Pechino come una «importante provocazione politica» e una sfida alla sovranità cinese, fa sapere la Cnn. Il plauso fatto dalla speaker alla resistenza taiwanese nella difesa per la democrazia non ha certo aiutato a calmare le acque, per quanto Pelosi abbia ribadito più volte che da parte degli Stati Uniti non c’è nessuna volontà di alterare lo status quo. Eppure, le esercitazioni militari organizzate dalla Cina sono praticamente senza precedenti, visto che arrivano a sconfinare nelle acque territoriali di Taiwan. Sono peggiori persino di quelle della grande crisi dei rapporti tra Pechino e Taipei risalente a metà anni 90. Non sembra esserci, almeno per il momento, la volontà da parte cinese di innescare un’escalation militare, ma la dimostrazione di forza messa in atto fa pensare che a fare le maggiori spese della visita di Nancy Pelosi non saranno gli Stati Uniti, ma Taiwan stessa.

A innervosire particolarmente il presidente cinese Xi Jinping è il fatto che che non essere riuscito a impedire a Pelosi di recarsi a Taipei in qualche modo indebolisce la sua posizione, proprio quando mancano pochi mesi a una mossa che potrebbe cambiare il suo futuro politico. Questo autunno, infatti, in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese, Xi ha intenzione di rompere le convenzioni e presentarsi per un terzo mandato come leader della Cina. Il fallimento nei confronti di Pelosi non mette in pericolo questa mossa, ma certamente ha un peso d’immagine soprattutto a livello interno: dopo aver avvertito Joe Biden che il viaggio della speaker equivaleva a «scherzare con il fuoco», la rabbia di Xi plausibilmente non si riverserà su Washington, ma su Taipei. Non potendo punire militarmente gli Stati Uniti, sarà l’isola a subire inasprimenti militari ed economici, riporta ancora la Cnn.

Eppure non tutti, a Taiwan, vedono la Cina come il nemico da cui affrancarsi. In un interessante articolo, il New York times racconta la storia del San Jiao Fort cafè, costruito sul tetto di un bunker militare a sole sei miglia dalla città cinese di Xiamen. I suoi proprietari sono Chiang Chung-chieh, di 32 anni, e Ting I-hsiu, di 52. Se la Cina dovesse decidere di prendere Taiwan con la forza, le reazioni dei due sarebbero ben diverse: combattere per il primo, arrendersi nel caso del secondo. Sono maggiormente i giovani, infatti, a identificarsi come indipendenti da Pechino. Questo nonostante sia stata la generazione di Ting a vivere direttamente gli attacchi della Cina. Ma la liberalizzazione economica e l’aver ricevuto un’istruzione che mirava a stringere i legami con Pechino hanno fatto sì che questi aspetti prevalessero sugli altri. Cosa ben diversa per la generazione di Chiang, che ha conosciuto solo il pugno di ferro di Xi Jinping e che non ha nessuna voglia di vedersi “riunita” alla Cina.

Attualmente, l’idea prevalente degli abitanti di Taiwan è di mantenere le cose come stanno: ben l’86% è a favore della conservazione dello status quo. In questa percentuale esistono posizioni un po’ sfumate tra loro: il 25,8% vuole lo status quo con l’obiettivo in futuro di arrivare all’indipendenza, il 25,5% vuole lo status quo all’infinito e il 5,6% vuole mantenere solo per adesso lo status quo, ma punta a un’unificazione guidata da Taiwan e non dalla Cina. Solo il 6,6% dei taiwanesi chiede l’indipendenza il prima possibile, percentuale in calo rispetto al 2008, quando erano l’8,7%.

La visita di Nancy Pelosi finirà nei libri di storia delle relazioni internazionali, scalzando quella di Gingrich del ’97. Ma per sapere quali saranno davvero gli effetti a lungo termine bisognerà aspettare e vedere, e non è detto che la scelta di andare a sostenere la democrazia taiwanese si rivelerà davvero la mossa più giusta.

Aed Yaghi: «Io, medico a Gaza sotto l’incubo delle bombe israeliane»

Dopo 74 anni dalla Nakba-Catastrofe e a 15 di assedio alla popolazione che vive nella striscia di Gaza, e “assedio” è una parola difficile da scrivere senza tremare, una parola che ricorda orrori indicibili che avrebbe dovuto essere rilegata nel Medio Evo, i riflettori sono ancora accesi sulla tragedia umana del popolo palestinese. (Nella Striscia di Gaza il 5 agosto l’attacco aereo del governo d’Israele ha provocato decine di vittime ndr).

Gaza una striscia di terra e sabbia di 360 kmq, due volte l’area metropolitana di Milano, dove sono accatastati due milioni di palestinesi di cui il 74% sono rifugiati che vivono con gli aiuti dell’agenzia delle Onu, Unrwa e con una disoccupazione che nel 2020 è stata stimata del 53%. Due milioni di persone, il 56% sono bambini, costrette a rimanere in quel lembo di deserto schiacciato contro il mare, sorta di campo di concentramento dal 2007, perché i valichi di Rafah e Erez sono chiusi e sotto controllo militare, martellati da bombardamenti continui, nel ripetersi cadenzato delle demolizioni punitive di case e luoghi pubblici a contare, giorno dopo giorno, i feriti e i morti.

La falda acquifera è inquinata e l’acqua è ben sotto la soglia considerata “potabile” dall’Oms; la luce è erogata a intermittenza e i servizi sanitari sono al collasso per la cronica mancanza di attrezzature e medicine. In una simile situazione non stupisce che il Comitato Internazionale della Croce Rossa dichiari che circa 100mila persone, il 5% della popolazione nella Striscia di Gaza soffra di disabilità e che l’Oms abbia valutato che, nel 2018/2019, ogni mese, almeno tre bambini diventano permanentemente disabili a causa dei conflitti armati.

Di questa realtà parliamo con il dottor Aed Yaghi direttore del Palestinian medical relief society (Pmrs) a Gaza. Aed è un uomo gentile e determinato che non si perde d’animo. A fatica è riuscito ad ottenere il permesso per arrivare a Milano e conoscere i responsabili dell’Associazione Fonti di pace che, grazie al contributo dell’8 per mille della Chiesa Valdese, finanzia un progetto di Servizi socio sanitari e riabilitativi a favore di 180 persone diversamente abili, in particolare donne e bambini. Il progetto, della durata di sei mesi, è totalmente realizzato dal Pmrs nella striscia di Gaza nel governatorato di Khan Younis.
Aed a Gaza ci è nato, anche lui come la maggioranza degli abitanti della Striscia è un rifugiato, figlio di rifugiati cacciati dal villaggio di Al Masnia nel governatorato di Ramla, oggi una base militare israeliana.

Aed Yaghi, direttore del Palestinian medical relief society

«Tempo fa mi è capitato di viaggiare con mio figlio dalla striscia di Gaza in Giordania. Il villaggio di Al Masnia è sulla strada. Ci siamo fermati perché volevo mostragli l’unico edificio rimasto integro, la scuola dove suo nonno aveva studiato. Non ci siamo potuti avvicinare, cancelli e barriere impediscono il passo. Per i rifugiati che anni fa hanno lasciato la loro casa, i campi ricchi di frutta, la terra, e adesso non hanno nulla, è una grande sofferenza. Dalla Nakba sono passati 74 anni e rispetto a quella storia, ciò che sentiamo io e mio figlio è diverso da quello che prova mio padre. Ma noi siamo cresciuti e abbiamo educato i nostri figli e la nostra gente nella consapevolezza della nostra storia di rifugiati, del nostro diritto a tornare nei villaggi dove sono le nostre origini. Quando, non lo sappiamo, ma abbiamo speranza». Aed in arabo significa “la persona che torna alla sua terra”.

Dottor Aed Yaghi, cosa significa fare il medico a Gaza?
È difficile svolgere qualsiasi attività a Gaza, ma noi medici dobbiamo pensare oltre che a prenderci cura delle nostre famiglie anche delle altre persone, gente che vive in estrema povertà e chiede aiuto. Per noi medici che viviamo a Gaza, il problema più grande è la difficoltà di muoverci, di uscire dall’assedio, di fare esperienze professionali altrove. Israele impedisce infatti la formazione del personale medico. Le nuove tecnologie, internet, zoom, ci aiutano nella comunicazione con l’esterno ma manca la possibilità di fare esperienza diretta. Siamo sotto stress come persone e come medici, l‘occupazione ci toglie vita ma la nostra resistenza continua perché non possiamo perdere la speranza. Senza speranza la vita non può continuare.

Le disposizioni previste dalla Convenzione di Ginevra dovrebbero proteggervi…
Le quattro Convenzioni di Ginevra del 1949 e i Protocolli aggiuntivi del 1977 e 2005 costituiscono la base del Diritto internazionale umanitario. Le Convenzioni impegnano gli Stati occupanti a proteggere la popolazione nel corso degli attacchi, in modo particolare i malati, i feriti, il personale medico, le ambulanze e gli ospedali. Ma Israele non rispetta le Convenzioni. Quattro anni fa un cecchino dell’esercito israeliano ha assassinato Razan al Najjar di 21 anni, una giovane volontaria paramedico che con il Pmrs portava soccorso ai palestinesi feriti. L’esercito israeliano attacca deliberatamente ambulanze, personale medico, distrugge ospedali e centri sanitari. Nel corso dell’attacco israeliano del 2014 l’ospedale al Wafa di Gaza, l’unico nella striscia destinato al ricovero di persone ferite e con disabilità, fu totalmente demolito e altri 52 centri sanitari ed ospedali furono colpiti e danneggiati dai bombardamenti israeliani.

Qual è oggi la situazione sanitaria nella striscia di Gaza?
Dal 2007 la popolazione della striscia di Gaza vive sotto assedio e sotto continui attacchi armati. Questa condizione ha determinato, per un settore sanitario già in sofferenza, carenza di adeguate infrastrutture, attrezzature, medicinali e materiali di consumo. Per il personale medico e paramedico è difficile, ripeto, avere l’opportunità di fare formazione e aggiornamento. Le poche strutture mediche accessibili sono sovraccaricate e le prestazioni sanitarie sono spesso interrotte per mancanza di elettricità. Molte cure specialistiche e farmaci salvavita non sono disponibili. Negli ultimi due anni con l’emergenza Covid-19 la situazione si è aggravata, minacciando ulteriormente la salute e le strutture pubbliche sanitarie. Di fatto gli ospedali e i distretti sanitari non sono stati in grado di rispondere alle necessità della popolazione. L’insicurezza alimentare è in aumento, sono in crescita i livelli di malnutrizione e anemia tra i bambini, i traumi psicologici, la povertà e il degrado ambientale hanno avuto un impatto negativo sulla salute fisica e mentale dei residenti che soffrono di ansia, angoscia e depressione. Dall’inizio dell’assedio, l’accesso alle cure mediche negli ospedali fuori dalla striscia di Gaza è diminuito: Israele ha ulteriormente limitato il rilascio di permessi per migliaia di pazienti che necessitano di cure immediate poiché i trattamenti specialistici ed urgenti non sono disponibili nel nostro territorio. Secondo gli ultimi rapporti del Ministero della salute mancano circa il 41% di farmaci di base come antibiotici e il 27% dei materiali sanitari, mentre Israele ritarda e impedisce l’entrata degli aiuti sanitari nella striscia di Gaza. È leggermente migliorata la situazione dell’erogazione di energia elettrica, ora disponibile per 10-13 ore al giorno rispetto alle 8 ore dello scorso anno, tuttavia secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’Office for the coordination of humanitarian affairs dell’Onu, Ocha, non è sufficiente a soddisfare i bisogni. Chi può, supplisce alla mancanza di corrente elettrica con l’uso dei generatori, ma questa soluzione crea nelle strutture sanitarie grossi problemi. Quando i macchinari passano dall’energia elettrica al generatore si rileva una irregolarità per la caduta della tensione che molto spesso causa la rottura o il malfunzionamento delle attrezzature sanitarie.

Contaminazione ed inquinamento dell’acqua, mancanza di elettricità: quali danni per la salute della popolazione e come affrontare il problema?
La situazione idrica a Gaza è disperata: oltre il 90% dell’acqua estratta dalla falda acquifera risulta non sicura per il consumo. Tre abitanti di Gaza su cinque acquistano acqua potabile da venditori privati non regolamentati con pesanti ricadute economiche sull’economia delle famiglie già povere. La falda acquifera è stata inquinata a causa delle infiltrazioni di acque reflue che non trattate vengono scaricate in mare e una parte di esse finisce nelle acque sotterranee. Gli impianti di trattamento delle acque non sono adeguati, spesso fuori servizio a causa della mancanza di energia elettrica o perché distrutti nel corso degli attacchi militari israeliani. Uno studio ha rivelato che più di un quarto delle malattie diffuse e il 12% delle morti di bambini e neonati a Gaza sono riconducibili all’acqua inquinata. Sono stati, inoltre rilevati livelli di contaminazione dell’acqua, dovuti alla presenza di metalli pesanti derivati dai bombardamenti e dall’ uso di armi “non convenzionali” come il fosforo. Il centro statistico del Ministero della Salute ha denunciato un aumento di diverse forme di tumore, riconducibili anche alla situazione ambientale e dell’acqua in particolare. (vedi studio Water Quality in the Gaza strip: the present scenario).

Rispetto alla salute delle donne, quali progetti di prevenzione sono necessari secondo il Pmrs?
Presso i suoi centri sanitari il Pmrs garantisce alle donne assistenza sanitaria tra cui l’assistenza preconcezionale, salute della madre e del bambino, assistenza prenatale, parto sicuro e assistenza postnatale, pianificazione familiare, servizi per la menopausa, assistenza sanitaria per adolescenti. Inoltre fornisce medicinali, vitamine e integratori. Serve più informazione sui temi legati alla salute riproduttiva e un’adeguata prevenzione per contrastare infezioni veneree e da epatiti. Il Pmrs si avvale anche di un team specializzato che fornisce la consulenza domiciliare a donne di diversi gruppi di età. Inoltre durante le emergenze viene attivato un team mobile. Nel corso dell’ultima aggressione israeliana, nel maggio 2021, il Pmrs ha operato con personale paramedico per fornire a domicilio servizi sanitari alle donne in gravidanza e in particolare a quelle che stavano allattando. Abbiamo anche attivato un servizio Srh (Sexual reproductive health) con il quale, attraverso un’applicazione, diamo informazione sui temi di salute sessuale e riproduttiva. Questa iniziativa in particolare è rivolta a giovani e adolescenti che possono porre domande senza il timore che la loro privacy venga compromessa. Altre iniziative, in particolare per le donne, sono finalizzate a dare supporto psicosociale, consulenza legale e prematrimoniale per i fidanzati.

L’assedio e i continui attacchi armati causano in particolare per i bambini disturbi permanenti derivanti da stress post traumatico. Quali soluzioni e progetti in corso ha previsto il Pmrs?
Da 15 anni Gaza è sotto assedio terrestre, marittimo e aereo, un blocco illegale israeliano che ha causato diffusa disoccupazione e povertà, entrambi noti fattori di rischio per lo sviluppo di malattie mentali. L’impatto della pandemia di Covid-19 e i continui attacchi armati, cinque negli ultimi 14 anni, l’ultimo a maggio 2021, hanno determinato una situazione umanitaria disperata, provocando gravi danni materiali. Un vero e proprio strangolamento psicologico quotidiano e i bambini sono i soggetti più vulnerabili. In quella fascia di età, infatti, si registrano alti tassi di disagio mentale e conseguenti disturbi da stress post-traumatico (Ptsd), depressione, ansia, problemi comportamentali, disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Nel 2021 la Global child protection area of responsability (Gcp AoR) stima che il 53% dei bambini di Gaza hanno bisogno di protezione e servizi del Mental mealth and psychosocial support (Mhpss). In questo campo il Pmrs ha svolto un ruolo fondamentale implementando attività volte a ridurre questi disturbi attivando sessioni individuali di supporto psicosociale per bambini con disabilità e bambini rimasti feriti nel corso delle aggressioni israeliane e promuovendo attività ricreative come i campi estivi rivolti ai bambini di tutta la striscia di Gaza con particolare attenzione a quelli che vivono in aree emarginate.

Intravede una soluzione politica per risolvere l’assedio di Gaza e bloccare la sistematica occupazione di case e terre in Westbank?
Una soluzione politica esiste ma può essere raggiunta solo con l’impegno del governo israeliano a rispettare il Diritto Internazionale e le risoluzioni Onu che affermano il ritiro di Israele dalle terre occupate del 1967 e il diritto del popolo palestinese ad avere uno Stato. Israele deve anche porre fine a tutte le sue violazioni, rilasciare i prigionieri, porre fine alle attività di colonizzazione, smantellare gli insediamenti, rimuovere il muro dell’apartheid, cessare le procedure di ebraizzazione di Gerusalemme, fermare l’espulsione dei palestinesi dalle loro case e terra e porre fini ai criminali assassini dei civili palestinesi. Fino ad ora il governo israeliano non ha mai rispettato le molteplici risoluzioni delle Nazioni Unite che andavano anche in tal senso. Noi palestinesi abbiamo bisogno che si ponga fine all’occupazione, ma anche di rimuovere l’intero sistema di apartheid.

Quale ruolo può avere l’Europa per arginare l’espansione israeliana?
L’Europa in particolare, e la comunità internazionale in generale, potrebbero fare molto per obbligare Israele al rispetto del diritto internazionale, purtroppo però l’Europa continua a non svolgere il proprio ruolo in questo contesto politico. Basta guardare le azioni messe in campo dopo lo scoppio del conflitto russo-ucraino alla fine dello scorso febbraio. Sono state imposte sanzioni contro la Russia, ma in tutti questi anni l’Europa e la comunità internazionale non sono stati in grado di prendere alcuna decisione riguardo all’occupazione israeliana. L’Europa è tenuta ad esercitare una reale pressione sullo Stato di Israele per obbligarlo al rispetto del diritto internazionale e porre fine all’ occupazione. L’Europa dovrebbe boicottare, imporre sanzioni, fermare gli investimenti e smettere di fornire armi a Israele; riconoscere il diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese e continuare a sostenere i palestinesi senza legare gli aiuti alla pretestuosa richiesta di far decadere i legittimi diritti del popolo palestinese. E in tal senso la domanda è “l’Europa oserebbe chiedere a Israele di cambiare i suoi programmi?” Fino ad ora l’Europa ci ha fornito aiuti in cambio di sottomissione ed accettazione e non è questo che il popolo palestinese vuole. Il popolo palestinese chiede all’Europa di perseguire attraverso la Corte penale internazionale i responsabili israeliani dei crimini commessi. Siamo costretti a registrare che ad oggi la comunità internazionale non ha ancora attivato azioni per rendere giustizia alle vittime palestinesi, a quelle donne, a quegli uomini, a quei bambini massacrati dalle bombe israeliane.

Nella foto: case distrutte a Gaza dopo l’attacco aereo israeliano, 8 agosto 2022

Arturo Scotto: Per mero narcisismo, Calenda spiana la strada a Meloni

Carlo Calenda si è sfilato dall’accordo – molto vantaggioso per lui – stipulato con il Pd di Enrico Letta. Presidenzialista, pro nucleare, contro il reddito di cittadinanza, il leader di Azione auspica una legislazione ambientale “leggera” pro aziende, lancia la campagna elettorale dai distretti industriali.

Arturo Scotto, da coordinatore di ArticoloUno, come legge questo strappo? Forse è più coerente se Calenda va a destra?

Quello che conta è il presupposto. Se il tema è evitare che la destra estrema raggiunga il 65 per cento dei seggi, anche Calenda risulta utile. Il campo progressista è talmente frastagliato e diviso che fare gli schizzinosi e disperdere voti negli uninominali è un lusso che possono permettersi in pochi. Dopodiché le differenze con Calenda sono grandi su temi decisivi come la pace e la guerra, il fisco, il lavoro, l’ambiente e anche su un certo modo di intendere la politica. Consentitemi di dirlo: la nuova “questione morale” in Italia sta anche in classi dirigenti incapaci di fare storia, che si guardano solo l’ombelico, che rimuovono l’interesse generale e vengono meno alla parola data perché perde qualche follower su twitter. Uno spettacolo francamente deprimente. Calenda ha trafugato un’agenda Draghi (che non esiste) e l’ha sostituta con il manuale del perfetto narcisista. Ma così si regala a Giorgia Meloni un’autostrada.

Diranno: non si può fare solo appello contro la destra, si deve dire per cosa ci si mette insieme.

Vero, ma se non riconosci chi è l’avversario principale, poi non sei in grado nemmeno di costruire una visione comune.

Dunque che fare di fronte al pericolo che vincano le destre e che cambino la Costituzione in senso presidenzialista?
Diciamo un no netto al presidenzialismo: è la scorciatoia che percorrono tutti coloro che intendono rispondere alla crisi della democrazia riducendola al soprammobile sulla scrivania del capo assoluto investito dal popolo. I sistemi liberal-democratici nati in Europa dopo il fascismo non riescono più a ridurre la diseguaglianza tra chi ha e chi non ha, a sbloccare l’ascensore sociale, a garantire un futuro alle nuove generazioni che conoscono prevalentemente lavori umilianti. Il nazionalismo – e quindi il richiamo all’uomo forte – è la conseguenza di un modello che non riesce più a dispiegare una prospettiva di giustizia sociale. Non è una novità nel panorama occidentale e ha sempre innescato scenari catastrofici. A Giorgia Meloni oggi viene concesso un salvacondotto che a Gianfranco Fini, nonostante il ripudio del fascismo come male assoluto dopo Fiuggi, non è stato mai concesso. La leader di Fratelli d’Italia non ha mai pronunciato frasi così definitive: ha sempre pattinato sull’ambiguità, rifugiandosi dietro il comodo alibi dell’anagrafe. Su questo in tanti, in troppi stanno zitti, forse perché come sempre in Italia la tentazione di andare in soccorso del presunto vincitore è irresistibile. Non si può oggi accantonare la pregiudiziale antifascista e accontentarsi di una semplice professione di fede atlantista da parte della leader di Fratelli d’Italia: un certo establishment si tolga dalla testa che basta questo per legittimarla sulla scena internazionale. Non basta. Dunque, preoccuparsi per il suo arrivo a Palazzo Chigi è un dovere patriottico.

La destra si finge paladina del popolo, ma dice no a nuove, proporzionate, tasse, propone incentivi solo per le imprese e la flat tax. Come stanno realmente le cose?

Il programma della destra a trazione Meloni sembra il carnevale di Rio. Con Berlusconi che ha sostituito un milione di posti di lavoro con un milione di alberi e Salvini che – nostalgia canaglia – prova a reindossare la felpa della polizia provando a tornare al Viminale. Restano sullo sfondo i fatti, al netto della “ammuina” di queste ore: autonomia differenziata e Flat Tax. La più grande operazione di redistribuzione verso i ricchi della storia repubblicana. Da un lato puntano a smontare quel che resta dello stato sociale, delegando alle Regioni più forti la qualità dei servizi essenziali e scaricando sul resto un po’ di elemosina. Dall’altro la tassa piatta che favorirà i milionari, scassando le casse dello Stato e allargando le diseguaglianze tra i redditi. Puntano a prendere i voti dei molti per aiutare i pochi: il solito vecchio trucco della destra. Bisogna smascherarlo con coraggio.

Il problema è anche questa legge elettorale frutto del Pd renziano? Purtroppo non è stata fatta una legge proporzionale, come era stato promesso quando il Pd si è allineato al taglio del numero dei parlamentari voluto dai M5s.

Il Rosatellum è il lascito più mefitico della stagione renziana: un’impalcatura cervellotica che costringe a coalizioni forzose senza nemmeno l’obbligo di un programma comune, di un contrassegno comune, di una leadership comune. Un maggioritario sporco incastonato in un proporzionale spurio. Dove l’elettore finisce per perdersi nel labirinto di Minosse degli algoritmi e fino in fondo non sa nemmeno dove e a chi finisce il suo voto. Andava cambiata, ma la destra e Renzi non hanno voluto. Ora dobbiamo farci i conti e siamo obbligati a costruire alleanze tecnico elettorali più ampie per evitare che la destra faccia cappotto negli uninominali, dove si vince con un voto in più. La saggezza vorrebbe che tutti quelli che non sono di destra si mettessero insieme evitando di regalare seggi. Vediamo fino a dove si arriva. Ciascuno poi correrà nel proporzionale con la propria piattaforma. La destra ha più dimestichezza con gli accordi di potere: non si frequentano tutto l’anno, ma al cenone di Natale si ritrovano attovagliati insieme felici e contenti aspettando la mezzanotte per il liberi tutti. A sinistra, diciamo, si fa un po’ più fatica.

Nonostante tutto Pierluigi Bersani sostiene che sia stato un errore escludere il M5s dal patto a sinistra per le elezioni.

Bersani ha ragione. Io rivendico l’esperienza giallorossa e continuo a non avere preclusioni sugli apparentamenti tecnici. Tuttavia, mi spiace che i Cinquestelle non abbiano compreso che la crisi avrebbe aperto la strada alle elezioni anticipate, come da tempo voleva la destra, e che la domanda di protezione dei ceti più deboli – davanti a guerra, pandemia e inflazione quasi a due cifre – in quel momento incrociava anche una richiesta di stabilità politica, interrompendo un faticoso riavvicinamento tra esecutivo e sindacati attorno all’emergenza salariale. Come dire, è peggio di un crimine, è un errore. E gli errori in politica producono conseguenze drammatiche come la rottura di quel campo progressista a cui lavoravamo faticosamente da tre anni: siccome reputo Giuseppe Conte un uomo intelligente, non posso immaginare che non l’abbia messo nel conto. Andare separati oggi non deve però chiudere un dialogo per il giorno dopo. Dopo il 25, c’è il 26 settembre e bisognerà tornare a dialogare e confrontarsi sul merito. Da parte nostra non ci sarà nessun attacco al M5S perché l’avversario si chiama destra. Mi auguro ci sia reciprocità. In ogni caso, non delego a nessuno la rappresentanza degli interessi e dei bisogni dei lavoratori, dei precari dei poveri. La sinistra siamo noi.

La campagna elettorale è, anche per di tempi rapidissimi in cui si gioca, tutta schiacciata sul presente. Provando a guardare più lontano, Articolo Uno come immagina l’Italia da qui a venti, trent’anni? Quali sono le idee che mettete in campo?

Al nostro Congresso di aprile abbiamo scelto una linea chiara: costruire una proposta nuova della sinistra democratica italiana, del lavoro, dell’ambiente, dei diritti civili, pienamente nel solco della famiglia socialista europea. L’obiettivo era un processo costituente di tutti i democratici e progressisti entro l’anno: oggi dobbiamo montare tutto in pochi giorni a causa della precipitazione elettorale. Ma la sfida resta: siamo cofondatori di una lista che mi auguro inneschi la nascita un nuovo soggetto politico il cui obiettivo storico deve essere restituire centralità e rappresentanza al mondo del lavoro. Significa potere d’acquisto dei lavoratori e dei pensionati, fine della stagione della precarietà che è la cifra principale delle giovani generazioni e non solo, nuova legge sulla rappresentanza per smontare il ricatto dei contratti pirata. Non è più immaginabile che il corpo a corpo nelle fabbriche e nei luoghi del disagio lo subappaltiamo a qualcun altro, come è stato fatto negli ultimi anni. La frattura si ricompone se hai proposte nette e chiare: bisogna chiudere la stagione della subalternità al pensiero unico.

Non solo sui diritti sociali, ma anche su quelli civili il patto che era stato stipulato con Calenda dal Pd appariva quanto meno generico. Perché ora non osare di più?

La vera sconfitta della legislatura è stata il naufragio dello ius scholae. Che già nasceva da una mediazione con il M5s che storicamente era contrario perché ancora intrappolato nei decreti sicurezza di Salvini. La nostra proposta resta sempre la stessa ovvero lo Ius Soli: chi nasce in Italia è cittadino italiano. Punto. Anche per questo va respinta questa destra che difende gli evasori fiscali e criminalizza chi scappa dalla fame e dalla guerra.

Ora si potrebbero appoggiare gli occhi di tigre e si potrebbe cominciare a parlare di diritti

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 06-08-2022 Roma (Italia) Politica - Elezioni - Incontro tra Partito Democratico, Sinistra Italiana, Europa Verde - Nella foto: il Segretario PD Enrico Letta 03-08-2022 Rome (Italy) Politics - Elections - Meeting between the Democratic Party, the Italian Left, Green Europe - In the photo: PD Secretary Enrico Letta

Cosa insegna lo sfacelo che si è concesso a Calenda? Siamo sempre al solito antico peccato originale del Partito democratico: la sua irrefrenabile voglia di annacquarsi a destra per accontentare una delle due anime che si sono unite alla fondazione del partito e che non sono mai riuscite a trovare una sintesi.

Una campagna elettorale persa completamente nella sua fase iniziale può essere rilanciata parlando dei temi: una transizione ecologica che no,  non è un “bagno di sangue” come furbescamente detto da Cingolani; diritti individuali e collettivi (ddl Zan, ius scholae e altro) che ora si possono proporre senza cercare la mediazione con chi più o meno apertamente li osteggia; un attacco sincero alle rendite che bloccano questo Paese e impoveriscono il welfare; un salario minimo che non sia delegato a chi i salari li ha scassati in questi ultimi anni; un Reddito di cittadinanza (chiamatelo come vi pare) che salvi le persone dalla povertà (partendo dal milione di persone salvate che tutti fingono di non vedere); una narrazione che si scosti dai frigni di imprenditori troppo furbi e che si focalizzi sulla mancanza di opportunità dignitose per chi un lavoro lo cerca; una progressività delle tasse com’è scritta nella Costituzione e che sia la destra che il centro vogliono continuare a violare; la cancellazione dei vergognosi patti con la Libia che hanno le impronte digitali di Minniti e la bava di Salvini e di Meloni.

Il cambio di paradigma nell’alleanza elettorale del centrosinistra è un’opportunità se non ci si metterà in testa di inseguire gli elettori dei più draghiani di Draghi e se si smetterà di cercare gli elettori che poi sono gli stessi che esultano per la rottura di Calenda. E magari, una volta tanto, si potrebbe smettere di pensare che la politica funzioni con addizioni di partiti illudendosi di fare massa di elettori.

Questa è l’occasione. Come andrà, non so.

Buon lunedì.

Ascanio Celestini: «Il mio modo di fare politica? Scrivo e racconto storie»

Il Parco degli acquedotti all’Appio Claudio a Roma è un luogo speciale. Qui fino agli anni Settanta esistevano baracche addossate alle costruzioni romane e abitate dagli immigrati italiani arrivati nella Capitale e qui si sono svolte molte delle storie che Ascanio Celestini ha raccontato in Museo Pasolini, lo spettacolo ideato in occasione del centenario della nascita dello scrittore friulano. Un lavoro che ha debuttato a novembre scorso e che l’artista porterà nella tournée estiva in Italia: il 6 agosto a Jerzu (Nuoro), il 31 agosto a La Morra (Cuneo) , il 2 settembre a Trento e poi in altri luoghi. È prevista più avanti anche una tappa europea a Londra. Museo Pasolini è stato trasmesso anche dalla Rai.

Incontriamo Ascanio Celestini in occasione dello spettacolo che si è svolto il 28 e 29 luglio nell’ambito dell’Estate romana al Parco degli acquedotti. Ascoltarlo e vederlo in scena significa provare l’impressione di essere di fronte a un mondo reale, ma sempre imprevedibile. Un mondo ricco di storie da ascoltare, per le quali Celestini è indispensabile per poterle acquisire nell’unica maniera poetica, e al contempo, democratica e profondissima.

Ascanio Celestini, quando ti sei accorto che volevi fare questo mestiere?
L’ho capito quando ho cominciato a studiare all’università, nel momento in cui ho pensato che per fare politica non bastava partecipare alle riunioni del partito – quando ero ragazzo io esisteva ancora il Pci -, ma che occorresse partecipare alla vita pubblica. Ho capito allora che potevo trovare una maniera per esprimermi attraverso il mio lavoro. Che è quello di scrivere storie, e quindi ho pensato che questo sarebbe stato il modo attraverso il quale avrei potuto partecipare alla vita pubblica.

Quindi credi in un teatro politico?
Io non credo che il teatro sia più importante se è un teatro impegnato, cioè se chi fa teatro lo fa con un fine politico, però, per me, come artista, lo è. Anche se non esprimo alcun  giudizio nei confronti di chi porta in scena, per esempio, Goldoni solo perché è divertente, magari ce ne fossero…

La cultura permette di conoscere le idee e le ideologie, quindi porta a pensare…
Sì, quello che dici tu infatti è centrale. È fondamentale studiare: quando fai questo mestiere studi e prendi coscienza che ha un senso andare sul palco e portare sul palco dei contenuti importanti.

Il tuo spettacolo sta ottenendo molto successo, ci puoi dire cosa ti ha spinto a scriverlo e portarlo in scena?
Io ho sempre letto i testi di Pasolini con una grande passione, perché ho sempre pensato che fosse uno scrittore importante da studiare, colui che raccontava le cose da sapere sulle classi subalterne, sui poveracci. In questo caso specifico, volevo raccontare cosa è accaduto nel Novecento e lui è lo “scrittore” del Novecento.

Il rapporto che hai con Pasolini è anche un rapporto con la memoria?
Ti rispondo dicendo che vicino a quegli acquedotti romani ci sono state le baracche fino al 1974. E sono riuscito a fare delle interviste a quelli che ci hanno vissuto.

Come li hai rintracciati?
Beh, intanto quelli che erano dei ragazzini negli anni Settanta, ora hanno quasi settant’anni, è stato quindi facile incontrarli. Un pezzo del mio spettacolo Museo Pasolini parla proprio di loro. Inoltre alla biblioteca di Anagnina, c’è un archivio che può essere consultato e in cui sono raccolte le biografie e le informazioni relative a coloro che hanno vissuto nelle baracche e a Roberto Sardelli, il sacerdote e scrittore che nel 1968 decise di andare a vivere tra i baraccati dell’Appio Claudio. Ecco, io semplicemente ho fatto questo: racconto storie, non è un lavoro particolarmente complicato.

Se tu dovessi analizzare come si sta procedendo per favorire la crescita culturale nel nostro Paese, quale fotografia faresti dell’attuale situazione? Cosa consigli agli addetti ai lavori nelle scuole, nelle associazioni, nelle istituzioni e dell’arte?
Sono tante domande contemporaneamente! Credo che in questo momento dovremmo capire quanto conoscere la storia rappresenti uno strumento importante, rispetto al quale abbiamo il dovere di organizzarci, altrimenti non capiamo come entrarci, nella storia. Quindi dobbiamo studiare, per esempio comprendere cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo o in America, o in Giappone. Dico sempre a mio figlio, che ha 15 anni, che dobbiamo studiare le lingue e quella che una volta veniva chiamata psicologia dei popoli. Insomma, dobbiamo prepararci, altrimenti non riusciamo ad avere una relazione con “l’altro”.

In questa relazione con “l’altro” si percepisce oggi una mancanza di comunicazione, una paura di interagire, mentre stanno prendendo sempre più piede frange di estrema destra che diffondono pregiudizi. Anche propalando (false) notizie sull’arrivo di “nuovi poveri”. Che cosa si può fare?
Noi non abbiamo paura dell’altro, noi abbiamo paura “dell’altro che siamo noi”, della nostra relazione con l’altro che siamo noi. Abbiamo paura della nostra reazione nei confronti dell’altro, di quello che siamo noi rispetto all’altro. Non è solo una questione psicoanalitica, si tratta proprio della nostra incapacità di capire cosa potremmo fare nel momento in cui persone straniere arrivano sotto casa nostra, nel nostro negozio di barbiere, nel nostro teatro. Siamo noi che dobbiamo saper gestire la nostra relazione con l’altro.

Una risposta molto significativa, su cui dovremmo riflettere tutti per un po’.

Qui l’intervista di Alessia Barbagli uscita il 26 aprile 2019 su Left.

Cari compagni, davvero non c’è alternativa al Pd e alle destre?

Le polemiche televisive dopo la caduta del governo si consumano tra ultimatum e penultimatum, veti e appelli: spesso cortine fumogene che nascondono trattative, posizionamenti e piccole furbizie. Se proviamo a diradare un po’ della polvere lo scenario appare certamente problematico, ma meno confuso.

Cominciamo dall’analisi della crisi: i grandi media hanno raccontato una “crisi incomprensibile” alimentando la retorica del populista dall’alto che contrappone “gli italiani,” mobilitatisi per il premier, al Parlamento e ai partiti. L’enfasi sulla competenza e l’affidabilità contro l’improvvisazione promuove implicitamente la governance affidata alle élites contro la partecipazione dei cittadini. L’ostilità alle misure di solidarietà e redistribuzione si maschera con l’omaggio al merito e all’uso oculato delle risorse, ma fa pagare la crisi e l’inflazione a chi lavora, contrastando un aumento delle retribuzioni.  La crisi di governo non è, dunque, solo frutto di impazzimento della politica: rivela la debolezza della delega a una guida tecnocratica e l’emergere non più rinviabile di interessi divaricanti.

Sinistra italiana ha approcciato la crisi con la proposta di una coalizione larga e plurale che comprendesse la sinistra le forze ecologiste, il Pd e il M5Stelle. Questa proposta è venuta meno mostrando la fragilità del riferimento al “campo largo”. Le questioni su cui il M5Stelle ha confusamente e tardivamente chiesto al governo un segno di discontinuità erano largamente condivisibili. Lo stesso presidente del Consiglio ha contribuito alla involuzione della crisi, inserendo nel decreto aiuti anche misure eterogenee ed estranee al patto di governo, e poi ponendo la fiducia sul decreto senza stralciare scelte come l’inceneritore di Roma. La scelta successiva di rassegnare le dimissioni davanti al presidente della Repubblica è stata una “drammatizzazione” del conflitto. Il Pd non ha provato a dialogare sul merito con quello che indicava come potenziale alleato, ma ha vincolato possibili alleanze al sostegno a Draghi e alle sue politiche. Altre forze come Italia Viva ne hanno approfittato per chiedere uno spostamento a destra della coalizione di governo e per una virata presidenzialista e antiparlamentare. In questo contesto il centrodestra ha colto l’occasione per andare al voto nella realistica prospettiva di vittoria, una vittoria, non a caso, trainata proprio dal partito che ha scelto di porsi all’opposizione di questo governo.

Cosa fare ora per battere le destre? Mi si dirà tutto questo fa parte delle recriminazioni sugli errori compiuti, ora si tratta di battere una destra aggressiva e pericolosa che potrebbe manomettere la Costituzione. Questo allarme risulta obiettivamente meno efficace dopo 18 mesi di governo di unità nazionale con le destre e dopo troppe iniziative promosse da forze di centrosinistra che hanno aggredito garanzie e assetti costituzionali. Ma proprio per chi si è opposto a quel governo e a quelle sciagurate iniziative contrastare le destre resta una priorità.

Per questo appare irresponsabile la scelta del Pd di chiudere all’alleanza con il M5s, incentrando la campagna elettorale e la propria proposta politica sulla riproposizione delle politiche del governo Draghi. Una scelta sbagliata, politicamente regressiva e chiaramente perdente sul piano elettorale. Le destre, peraltro, non si battono sommando percentuali elettorali, ma contrapponendo un’alternativa credibile in risposta alla sofferenza sociale. Per contrastare il prepotente ritorno della destra sarebbe necessario che alla “’Agenda Draghi”, si sostituisse una “Agenda sociale e ambientale”: salario minimo a 10 euro l’ora, una legge sulla rappresentanza che stabilisca valore generale per i contratti firmati dai sindacati più rappresentativi, tassazione degli extra utili di Società energetiche, banche e assicurazioni, reddito minimo, reddito di cittadinanza, reale riconversione ecologica, chiudendo il ciclo dei rifiuti, uscendo dai combustibili fossili e cambiando modelli di consumo e mobilità.

Ma l’accordo politico siglato tra Letta e Calenda disegna una prospettiva e un approccio completamente diversi. Le minacce di abbandono da parte del leader di Azione per incompatibilità con la sinistra e le forze ambientaliste non sancivano una centralità di queste nello scontro sulla definizione del profilo della coalizione ma si sono rivelate un riferimento retorico giocato nella contrattazione.

Togliendo, dunque, un altro po’ di fumo dal campo della discussione risultano chiari altri elementi. Non è in campo una “coalizione per battere le destre”, e non c’è dunque nessun “accordo tecnico” tra forze diverse per perseguire questo obiettivo. Il Pd mette in conto la sconfitta della coalizione e mira esplicitamente a focalizzare lo scontro sulla polarizzazione tra sé e Fratelli d’Italia anche con l’effetto di fagocitare i propri eventuali alleati facendo agire il “voto utile” anche su chi aderisse alla coalizione. C’è una coalizione con un suo profilo politico programmatico prevalente. L’agenda Draghi non è un richiamo residuo ma un riferimento politico chiaro che resta al centro del dibattito.

L’adesione ad una coalizione basata sull’agenda politica programmatica dello scorso governo, come chiarito in più occasioni dal Pd, sarebbe un atto incomprensibile, anche senza l’ingresso al fianco del Partito democratico, dei transfughi di Forza Italia Brunetta Gelmini, di Azione, Di Maio, ecc. L’inclusione di Sinistra italiana in un’alleanza che, nel perimetro e nelle proposte, si identifica nel precedente esecutivo a cui si è opposta fin dall’inizio, ne determinerebbe la disgregazione e ne annienterebbe la funzione, con un impatto devastante sulla sua credibilità politica.

Non si tratta solo di posizionamenti elettorali: a ben vedere la guerra ha determinato un ulteriore passaggio che non riguarda solo l’invio delle armi e l’accettazione della cronicizzazione di un conflitto bellico nel cuore dell’Europa, ma implica l’assunzione di una retorica atlantista che seppellisce il riferimento a un modello europeo autonomo sul piano economico e istituzionale.

Lo scenario appare dunque più intellegibile e potrebbe anche motivare a una mobilitazione in grado di attivare energie e parlare a quella parte del paese che è stata colpita dalla crisi e dalla sua gestione e che appare priva di rappresentanza e fuori dalle rappresentazioni, muta e frammentata e dunque tentata o dall’indifferenza o dall’urlo. Ma qui si misurano altre difficoltà, alcune, di nuovo frutto del polverone di cui sopra, e altre più profonde e difficili da aggredire.

Davvero non c’è alternativa? Molti a sinistra, confondendo spesso la rassegnazione con la lucidità d’analisi paiono sposare il famoso slogan adottato da Margaret Thatcher per affermare la fine della storia e di ogni spazio di conflitto: “non c’è alternativa”. In questo modo il reale diventa l’unico possibile e ogni tentativo di svolgere un’azione soggettiva, un “cercare ancora” viene condannato come velleitario e ideologico. Passando dai grandi assetti sociali alle piccole vicende della politique politicienne che si consuma sulle agenzie di stampa, l’obiezione che si propone è che non siano praticabili altre aggregazioni elettorali. Chi rifiuta di aggregarsi alla coalizione a guida Pd potrebbe solo scegliere l’onorevole prospettiva di andare da solo: una sorta di non-scelta valida più come spauracchio che come alternativa reale.

Una possibilità di aggregazione a sinistra. Eppure, anche in questo caso, a voler vedere oltre la cortina fumogena delle dichiarazioni e controdichiarazioni, la possibilità di un’aggregazione a sinistra, comprendente il movimento cinquestelle è stata in campo fin dall’inizio. Ovviamente i processi politici vanno costruiti: non si può affermare che si sceglie un’opzione e si ricorrerà all’altra solo come soluzione di risulta. È normale che gli interlocutori in questo caso si attrezzeranno anche nella loro propaganda a motivare la rottura. Anziché attendere che si definiscano degli assetti rispetto ai quali collocarsi, è urgente svolgere un’iniziativa per far emergere un’aggregazione di cambiamento che assuma un ruolo nella definizione di un quadro politico più avanzato. Possiamo dire molte cose sulla natura controversa del movimento cinquestelle, che ha però affrontato una difficile scissione su un conflitto politico chiaro con il trasloco della componente Di Maio (non certo meno controversa) nella coalizione a guida Pd. Ma è evidente che il dato prevalente è oggi l’aggregazione potenziale attorno ad esso di una proposta alternativo alle destre distinta dal centro ad egemonia draghiana.

In questo passaggio si misura il ruolo e l’utilità di una sinistra autonoma, riconoscibile, capace di incidere sul contesto politico e di proporre una reale transizione ecologicamente sostenibile, socialmente equa e in grado di rispondere alle sfide che troppo spesso vengono solo evocate retoricamente.

Una sinistra che contrasti l’egemonia di un polo neocentrista e provi a costruire aggregazioni larghe, ma capaci di cambiamento. Non un polo identitario e autosufficiente ma un’aggregazione consapevole della propria pluralità e disponibile, a partire dalla propria autonomia, a costruire convergenze e alleanze dopo il voto, per dare al paese la proposta di governo più avanzata possibile.

Le nostre scelte devono tener conto innanzitutto del bene del Paese, conquistare una rappresentanza istituzionale della sinistra e preservare il patrimonio di radicamento, impegno e credibilità che Sinistra Italiana ha costruito con le scelte di questi mesi come condizione per costruire una proposta sociale ed ecologista per il futuro. Come abbiamo scritto nel documento promosso da circa trecento iscritte e iscritti di tutte le regioni e come abbiamo confermato nel documento presentato nell’assemblea nazionale, noi non ci rassegniamo. I tempi sono strettissimi e bisogna vincere resistenze, diffidenze reciproche, ritardi nella costruzione di pratiche condivise nella società a cui fare riferimento, ma è ancora possibile far vivere la possibilità di un’alternativa.

Sinistra Italiana e il suo gruppo dirigente possono svolgere un ruolo prezioso, con l’urgenza imposta dai tempi, per costruire un campo ambientalista, di sinistra e pacifista, aperto e plurale, con un programma chiaro, che metta al centro della campagna elettorale la drammaticità delle questioni sociale e ambientale.

*L’autore: Stefano Ciccone fa parte della direzione nazionale di Sinistra Italiana

Fiano (Pd): «I compromessi si fanno per battere Meloni»

Emanuele Fiano lei è stato esponente del Pds e poi parlamentare del Pd nelle ultime tre legislature. La prima domanda che le pongo è che c’è un popolo di elettori che in questo momento sta a guardare quello che sta succedendo nel Pd alle prese con le alleanze. Con moltissime critiche rivolte all’accordo Letta-Calenda, per essere quest’ultimo troppo spostato su posizioni liberiste. Che cosa ci può dire?
La mia posizione è molto semplice, e gliela spiego. Noi siamo dentro un sistema sostanzialmente maggioritario, anche se è per due terzi proporzionale. Dove vigono sistemi maggioritari, come negli Stati Uniti, nel partito democratico convivono personalità come Sanders e un’altra come il presidente Biden che hanno visioni economiche e sociali e di politica estera molto diverse. Sanders in Italia sarebbe uno della sinistra, un socialista, uno che ha parlato di nazionalizzazioni nell’economia americana, mentre Biden è un uomo della sinistra liberal democratica. Un altro esempio, nei laburisti inglesi convivono i trotzkisti e i lib-lab. Sto parlando di sistemi maggioritari dove si vota nei collegi più o meno esattamente come si sta per votare noi nei collegi uninominali della Camera e del Senato. Anche nei sistemi storicamente proporzionali, anche se corretti, come quello tedesco o spagnolo, alla fine si creano coalizioni multicolori: in Germania per 15 anni i socialdemocratici sono stati alleati della Merkel e adesso comunque Scholz ha un governo multicolore; in Spagna il socialista Sanchez è alleato con Podemos che è nato come un movimento antisistema che è stato avvicinato in parte, con tutte le dovute differenze, addirittura al M5s. E anche in Francia, vediamo che Macron è costretto a mettere insieme forze eterogenee.

Quello che non va giù sono le visioni contrapposte all’interno della stessa coalizione. E poi il partito democratico americano ha una lunga tradizione storica.
Ma anche il Pd quando è stato fondato tra il 2007 e il 2008 con la spinta di Veltroni e ciò che abbiamo scritto nello statuto, è stato pensato come un contenitore di idee diverse. Oggi, certo, uno ha il dirittissimo di dire “Il Pd sbaglia ad allearsi con Carlo Calenda” perché quella non è esattamente la sua agenda, oppure invece c’è un altro che dice “A me va bene Calenda, ma non mi va bene Fratoianni”… E poi c’è Calenda a cui non piace l’agenda di Fratoianni, e viceversa. Però dobbiamo essere in grado di mettere in fila le nostre priorità.

Qual è la sua priorità?
Io temo che la destra guidata da Giorgia Meloni abbia una visione della nostra Costituzione, delle riforme costituzionali, del nostro ruolo e posto in Europa e nel mondo che io definisco preoccupante. La destra di Meloni per cinque volte si è astenuta sul Pnrr, quindi tradotto in maniera semplice, significa che non avremmo avuto il Pnrr, se avesse governato lei in quegli anni. Il sistema presidenzialistico che vogliono proporre a me non va bene. Quindi noi abbiamo delle scelte prioritarie, non che siano meno importanti le scelte sui rigassificatori ai quali io sono favorevole o le scelte sul nucleare, che è una cosa ancora più complessa. Ripeto, non che quelle siano poco importanti ma l’idea che possano governare persone che vogliono cambiare radicalmente il sistema, che si sentono più vicini all’Ungheria di Orban e alla Polonia che lotta contro i diritti civili, che a un’idea di Europa che abbiamo sviluppato negli ultimi 36 mesi, a me fa paura. Per giungere all’obiettivo di allontanare questo possibile risultato, io sono disponibile a fare dei compromessi.

Lei parla di compromessi, ma le chiedo: una volta andati al governo come farete a governare? Sto pensando alla presenza di Gelmini che ha contribuito alla deriva della scuola o anche all’autonomia differenziata, visto che proprio lei come ministro del governo Draghi la stava portando avanti.
Intanto Gelmini e Carfagna, che hanno aderito al partito di Calenda, e che sono anche una novità degli ultimi cinque minuti, sono comunque due persone. La cosa che le unisce a Calenda e quindi anche a noi, se rimarrà questo patto, è il fatto che volevano mandare avanti il governo Draghi come noi, perché sapevamo, come ha confermato anche lo stesso presidente del Consiglio ieri sera nella conferenza stampa che ci aspettano nubi preoccupanti in autunno, sappiamo che sarà un autunno difficile per la povera gente, con oltre 5 milioni di italiani che sono o già in povertà o oltre la soglia di povertà, quelli che in questi anni hanno perso il 40 per cento del potere d’acquisto dei salari. Quindi per tutte queste persone, ancora prima di parlare delle sigle dei partiti o delle agende, era fondamentale mandare avanti il governo Draghi. Due sindacati hanno protestato, secondo me giustamente, perché nei provvedimenti del Decreto aiuti il taglio del cuneo fiscale che si riversa sui lavoratori alla fine porta un risultato modestissimo in termini di euro. Ma c’è da dire che il governo Draghi ieri ha fatto manovre senza extra debito perché si sta occupando degli affari correnti. Un governo politicamente in carica e sorretto da una maggioranza parlamentare avrebbe potuto o dovuto chiedere – o le forze politiche avrebbero potuto votare una mozione in Parlamento – una manovra extra debito straordinario. Per cui ciò che ci unisce a Gelmini e Carfagna non è la loro ideologia, ma questi ultimi cinque minuti del loro percorso. Dopodiché sono due persone, rispetto a un numero, speriamo grande, di rappresentanti eletti del centrosinistra.

Ma tornando alla questione del programma non ci sono contraddizioni in seno all’alleanza elettorale?
Certo, ci sono. Ma le voglio fare un esempio. Prendiamo l’Emilia Romagna, che è la regione dove si stanno predisponendo dei rigassificatori ma dove contemporaneamente una giunta di centrosinistra, che va da Renzi a tutta la sinistra con Elly Schlein che è vicepresidente, ha promosso ed iniziato un super piano per le energie rinnovabili. Questo significa governare insieme tra forze anche eterogenee ma all’interno di un’idea progressista che ha accenti diversi, è vero. Ma sul piatto della bilancia c’è un pericolo più grande e che viene prima della questione dei rigassificatori, e cioè il cambiamento della Costituzione senza nemmeno il referendum, nel caso il centrodestra raggiunga i due terzi. Insomma, io direi a Calenda o a Fratoianni: se stiamo insieme si può trovare una formula che accontenti abbastanza entrambi, ma se non stiamo insieme il rischio è che non si faccia assolutamente nulla perché governerebbe gente che ha idee completamente diverse.

A proposito di governo, ipotizziamo che nel caso di una vostra vittoria tuttavia dobbiate avere bisogno di alleati. Ho appena letto che Calenda esclude qualsiasi coinvolgimento del M5s con cui voi però avete già governato in passato. Come la mettiamo?
Guardi, la battuta migliore di questi momenti è un tweet di Matteo Orfini che dice più o meno così: “Non abbiamo un hacker per sospendere twitter per tutti per tre giorni, così riusciamo a fare tutte le coalizioni che vogliamo?”. Noi non dobbiamo prendere i tweet come parola finale, basta vedere cosa hanno detto in passato M5s e Lega a proposito di alleanze reciproche e poi sono andati insieme… potrei dirle anche di Calenda cosa ha detto in passato… Ognuno di noi ha dei limiti che s’impone in quel momento, poi bisogna anche vedere qual è il momento del Paese. Quando siamo di fronte, prima alla tragedia del Covid e poi a quella della guerra, siamo di fronte a problemi che richiedono scelte eccezionali. Enrico Letta l’ha sempre detto che il governo Draghi era eccezionale e irripetibile.

E sulla questione di future alleanze di governo con i Cinque stelle?
Io oggi non so risponderle. So che non abbiamo condiviso per niente la loro scelta rispetto al governo Draghi.

In Sicilia il campo progressista, M5s, Pd e sinistra è visto come l’unico modo per battere il centrodestra alle elezioni anticipate del 25 settembre. Perché in Sicilia sì e nel resto del Paese no?
Sulla Sicilia non so risponderle. Comunque dalla prima Repubblica in poi le questioni locali non sono state uguali a quelle nazionali, in Emilia Romagna come le dicevo Bonaccini governa con i renziani…

Renzi viene dal Pd, non è un corpo estraneo al partito…
Sì, ma alle elezioni in Emilia Romagna si è presentato come Italia viva.

Ha citato Renzi, lei sarebbe disposto ad una alleanza con Italia viva?
Rispondo con quanto ha risposto sempre il mio segretario: noi non poniamo veti. Ovviamente poi ci vuole chiarezza degli intenti ma non abbiamo posto veti perché altrimenti non varrebbe il discorso che ho fatto all’inizio. Se la posta in gioco è così in alto, molta alta deve essere la capacità di non porre veti. Quanto a Renzi penso che la sua posizione risenta molto delle posizioni e delle scelte che fa Calenda per rispecchiamento. Noi abbiamo un’unica posizione: non poniamo veti, a parte a quelli che in questo frangente hanno detto di no a Draghi. Non c’è nessuno fuori della porta, poi certo, una volta che ha bussato, bisognerà parlarci.

Lei nel 2017 ha presentato una proposta di legge contro la propaganda del fascismo. C’è qualcosa che la preoccupa in questo momento storico?
La mia più grande paura è la banalizzazione della storia, cioè che nelle prossime generazioni se ci saranno – e ci sono – esponenti politici che trasmetteranno un senso comune per cui gli italiani non avevano colpe, che le leggi razziali non erano così gravi ecc. non assumeremo la lezione della storia per la quale mi sono impegnato tutta la vita. E cioè il comprendere come e perché nascono le dittature. E tra l’altro è proprio nei frangenti di disagio sociale che si offre il terreno di coltura migliore a chi propone – per fortuna una minoranza – il revanscismo neofascista, la riedizione di simboli, di miti, sui quali Giorgia Meloni sta molto attenta a cadere, e che bisogna in tutti i modi combattere. Ma al di là di questo, è ancora peggio ciò che sta accadendo i questi ultimi dieci anni in cui alcuni leader mondiali come Putin o europei come Orban o partiti come AFd in Germania o quello di Marine Le Pen in Francia ci hanno proposto che sia venuto il tempo delle democrazie illiberali. La stessa cosa che è successa in Europa tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso. Di fronte alla complessità di problemi come la pandemia e di fronte alla crisi economica e sociale dovuta alla guerra che ricade direttamente sulle tasche dei lavoratori, ecco, quando il tessuto sociale si deteriora, quando vengono meno le condizioni materiali di vita e di conseguenza anche i diritti, quando aumenta la diseguaglianza, è sempre possibile che grandi masse di popolazione vengano irretite da quei leader, da quelle guide che propongono soluzioni semplificate e che dicono sostanzialmente che la democrazia liberale come l’abbiamo sempre conosciuta è troppo lenta, troppo farraginosa, non decide, non risolve i problemi.

Se ci sono masse che vengono irretite, però significa che c’è stato un vuoto culturale della sinistra. Pensiamo solo alla scuola, alle scelte del Pd in tema di politiche scolastiche, con la Buona scuola renziana che è stata il colpo di coda della riforma Gelmini, oppure adesso il provvedimento che stabilisce che a 8mila professori esperti andranno 5mila euro in più, rispetto agli altri, insomma questi sono schiaffi al sistema della formazione.
Quello dei professori esperti dipende dal governo Draghi… Sul fatto che la scuola sia fondamentale per impedire che le masse vengano irretite, sono d’accordo. Una volta in un evento pubblico denunciai proprio la riduzione delle ore di storia nelle scuole superiori e il fatto che nonostante l’impegno di migliaia di professori, tanti giovani non hanno assimilato il perché sono nati il fascismo e il nazismo. Baumann diceva che quando si sta male nell’oggi e si perde la speranza del domani, che è l’utopia che ha sempre mosso la nostra ideologia di liberazione – comunismo, socialismo, cattolicesimo sociale -, il rischio, già successo nella storia, è quello che lui chiama la retrotopia.

E quindi?
Ritornano alla prima domanda, la mia paura è che legittimissime differenze e discussioni tra diversità di vedute e di storie – come quelle di Fratoianni e Calenda – mettano a rischio il risultato principale, cioè battere il centrodestra.

Ultimissima domanda, torno sul M5s. Vi potreste alleare una volta al governo?
Intanto dobbiamo vedere quale sarà il nuovo Movimento Cinque stelle. In parte è cambiato: Conte non è Grillo né Casaleggio e ha avuto anche poco tempo per fare il leader del partito. Non so rispondere adesso, ripeto, se non che di fronte a problemi grandi per il bene dell’Italia chi può dire cosa succede… Ci sono preclusioni per me: non andrei mai al governo con la destra destra di questo Paese. Con Fratelli d’Italia avrei dei problemi irrisolvibili.

«L’Agenda Draghi non esiste»: parola di Draghi

Toh, cade il populismo delle élite. E poiché questa campagna elettorale è frastornante per la stupidità a far crollare tutta la retorica ascoltata fin qui è proprio Mario Draghi, il santino sventolato per non dover parlare di programmi e per puntare ai voti fideistici stropicciando la politica. «Io non ho iniziato il governo con una Agenda Draghi, è fatta di riforme e interventi. È difficile dire esista una agenda Draghi», ha detto ieri Mario Draghi, assestando un bel colpo a Calenda, Renzi, Letta e Bonino che da giorni non fanno altro che parlare di un’agenda politica affiliandola a un governo tecnico.

Come se non bastasse Draghi aggiunge: «I nostri provvedimenti hanno caratteristica di urgenza». Certo: il governo Draghi era nato per fare ciò che serviva per uscire dalla pandemia e per sistemare le carte del Pnrr. Ora, sinceramente, votereste un partito che vi dice «usciremo dalla pandemia e sistemiamo le carte»?. No, certo che no. Indipendentemente dalla vostra posizione politica, destra o sinistra, liberale o meno, sarebbe troppo poco.

Quindi cosa ci dicono le parole di Draghi? Che la campagna elettorale fin qui è stata piena di niente, una spartizione di posti rivenduta come scontro di idee. Così accade di doverci sorbire perfino Di Maio che dà lezioni di dignità a una coalizione illudendosi che qui fuori non si sappia che è scontento di non poter offrire niente agli ex grillini che l’hanno seguito alla ricerca di un posto al sole. Ci tocca vedere Calenda rivenduto come potabile per una sbiadita idea di centrosinistra mentre svuota per l’ennesima volta l’dea di centrosinistra per riempire il suo granaio.

L’agenda Draghi non esiste ma soprattutto non esiste una campagna elettorale che ancora una volta utilizza l’arma stolta del “voto utile” come unico spunto. Sono già passati diversi giorni e siamo ancora qui. Intanto a sinistra Unione Popolare deve raccogliere firme e trovare i pochi certificatori che non avevo prenotato le ferie semplicemente per avere la dignità di poter correre. Intanto Salvini, Meloni e Berlusconi stanno scegliendo il catering per i festeggiamenti.

Sembra quasi che l’urgenza non sia ancora abbastanza urgente, a 50 giorni dal voto. Una volta si diceva “fate qualcosa di sinistra” ora ci accontenteremmo di un “fate qualcosa” che non sia discutere di posti. E rimettete via quella “Agenda Draghi” con cui vi siete coperti le pubenda.

Buon venerdì.

Caro Conte, correre da solo è un errore politico

Conte sbaglia, come si dice con linguaggio sportivo, a voler correre da solo. Per alcune ragioni evidenti, che è utile mettere in evidenza, in questo momento, per il vantaggio generale e non certo per denigrarlo. Non appartengo alla folta schiera degli ipocriti mestatori che lo hanno crocifisso per la caduta del governo Draghi. Le possibilità di un ritorno al dialogo con il Partito democratico oltre che moralmente umilianti sono politicamente inesistenti. Quel partito, un aggregato conservatore di capicordata elettorali, non farà mai un passo indietro sulla sua scelta atlantista di portare la spesa in armamenti al 2% del Pil.

Ci sono ragioni di tradizione politica e di convincimento in questa scelta, in tale pervicace fedeltà atlantica, ma anche ragioni che ci rimangono ignote. Il Pd, in tutte le sue componenti, non è mai stato sfiorato da un qualche sospetto sulle condizioni drammatiche in cui versa il pianeta, non si è mai curato dei problemi ambientali e territoriali del Paese. Perché non dovrebbe volere il termovalorizzatore a Roma, il nuovo stadio nella capitale, il rigassificatore a Piombino o dovunque sia, la discarica su una sorgiva in provincia di Reggio Calabria, e altre felici scelte ambientali? Come può pensare Conte di continuare a essere l’alleato di questo gruppo senza erodere ulteriormente le ragioni che stanno alla base del M5s?

La scelta di andare da solo e rigenerarsi con una campagna solitaria sfiora il suicidio. Le ragioni originarie che portarono alla nascita e al successo dei M5s si sono dissolte, in parte dilapidate dalle scelte di governo. Il vero e proprio sfondamento elettorale di quel movimento fu preparato per anni dagli spettacoli di Beppe Grillo, il primo leader (un comico) ad aver reso popolari in Italia i temi dell’ambientalismo. Un lavoro che ha raccolto alla fine le istanze di tanti comitati sparsi sull’intero territorio italiano ignorati dai partiti. Il movimento raccoglieva quei temi e li arricchiva con altre proposte popolari come il reddito di cittadinanza e soprattutto ha finito con l’incrinare la critica più dirompente al sistema politico italiano. Alla vecchiezza del suo personale, alla sua inamovibilità, alla sua impotenza operativa, alla sua corruzione. A dare voce, volto, carica vitale a quel movimento, davanti a Grillo e Casaleggio, c’erano giovani come Luigi Di Maio e  Alessandro Di Battista, che nella genericità della loro collocazione politica, raccoglievano efficacemente le pulsioni radicali sia di destra che di sinistra affioranti dal magma sociale messo in moto.

Dove sono oggi queste condizioni? Ed è possibile ricrearli volontaristicamente? I Cinquestelle sono ormai un’altra cosa, riplasmati da Conte, che li ha forniti di  regole, e di ordinamenti più stabili e certi. Anche la  sua figura,  com’è evidente, non ha le caratteristiche comunicative dei due giovani leader oggi divisi. Conte è uno straordinario negoziatore, l’ha dimostrato nel modo più clamoroso nelle trattative con l’UE per i fondi del PNRR. Non ha il linguaggio del trascinatore, ma sarebbe uomo prezioso nell’arcipelago della sinistra, dove potrebbe  svolgere un ruolo originale. E della sinistra, beninteso, fa parte anche Unione Popolare, che non è figlia di un dio minore. A meno che il suo radicalismo non sia temuto perché onesta intransigenza.

Quale è il senso di questo isolamento? Dopo le elezioni come si collocherà, con chi continuerà a fare politica? Le finalità, i valori ideali  che possono ridare qualche ragion d’essere al  movimento cinquestelle, dopo le tante delusioni inflitte al suo elettorato,  stanno tutte nel campo della sinistra, a cominciare dal rifiuto alla guerra e dell’ambientalismo. Noi non  abbiamo un ecologismo di destra. E nel Pd è pura fuffa. Perché Conte non dà una mano a trovare almeno un accordo tecnico per evitare che un vittoria straripante della destra sconvolga la nostra democrazia?