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De Magistris: «L’Unione popolare è l’unica vera alternativa alle destre»

Ex magistrato, già sindaco di Napoli, Luigi de Magistris chi glielo ha fatto fare di metterci la faccia, di correre alle elezioni del 25 settembre con l’Unione popolare, nuova formazione di sinistra che sta raccogliendo le firme sotto l’ombrellone? Cosa ha fatto scattare la motivazione nonostante la corsa contro il tempo?
Io sono molto motivato anche se il progetto politico al quale stavamo lavorando, ovviamente, guardava alle elezioni della primavera. Con la caduta del governo Draghi c’è stata questa accelerazione estiva con raccolta di firme a 40 gradi, mentre il personale pubblico al quale dobbiamo chiedere i certificati è in ferie. E’ una corsa ad ostacoli. Ma è anche qualcosa di molto più grosso. C’è una forte motivazione perché siamo l’unica proposta alternativa alle destre.

Rispetto all’accordo Letta-Calenda?
Rispetto a quel patto assistiamo a un quadretto tragicomico da saltimbanchi della politica. Vediamo presunti leader di partito che saltellano da una parte all’altra non per costruire programmi nell’interesse del popolo italiano ma per trovare le poltrone a loro più confacenti.

In cosa si distingue la vostra Unione popolare (che evoca La nuova unione popolare di Mélenchon in Francia) e che riunisce Potere al Popolo, Rifondazione Comunista – Sinistra Europea, il gruppo parlamentare ManifestA e personalità di spicco della realtà intellettuale?
Questa è l’unica proposta fin dall’origine pacifista. Fin dal primo momento siamo stati su questo fronte. E’ una proposta ambientalista, costituzionalmente orientata, per la giustizia sociale. E’ sostanziata da percorsi e da persone credibili. C’è la mia storia di garanzia nella lotta alle mafie, di lotta alle corruzioni (di cui nel Paese non si parla più). Dietro all’Unione popolare c’è una squadra di storie individuali e collettive. Ed è l’unica notizia, mentre sui media domina la sceneggiata degli uni apparentemente contro gli altri, mentre sono tutti quanti insieme come ministri del governo Draghi.

Nel patto Letta-Calenda, che va da Fratoianni di Sinistra italiana a Gelmini, ex ministra di Forza Italia, ora passata ad Azione, indubbiamente qualche contraddizione c’è. Fratoianni si è battuto per la scuola pubblica, Gelmini ha tagliato i fondi alla scuola e sostiene l’autonomia differenziata. Come possono stare insieme?
Da tempo stavano lavorando a un grande centro. Lo scenario è chiaro: da una parte le destre (più che centrodestra direi destra con un pizzico di centro, con Meloni, Salvini e quel che rimane di Forza Italia di Berlusconi), dall’altra un grande centro. Vedo che i giornalisti nei pastoni continuano a chiamarlo “sinistra”, “centrosinistra”. Ma ormai è definitiva la collocazione al centro di Letta, principale azionista del governo Draghi, protagonista del fronte bellicista, regista del grande centro che va da Mastella a Gelmini, Carfagna, Brunetta Calenda, Di Maio, Renzi, Fratoianni Bonelli. Ribadisco: rispetto a questo grande centro l’unica opzione nuova siamo noi.

In che modo?
Avevamo proposto di formare un terzo polo. Se Fratoianni avesse ascoltato la base del suo partito, che si è espressa in modo chiaro in proposito, se Conte avesse davvero voluto rompere con Draghi… ma forse il suo è stato un riposizionamento, una furberia, non so. Il suo silenzio mi fa pensare che non guardi alla costruzione di un campo in cui finalmente si possa realizzare ciò che il M5s ha detto ma evidentemente non vuole realizzare: acqua pubblica, no agli inceneritori…

Quella di Conte dal suo punto di vista è solo una politica degli annunci?
Parliamoci chiaro, io credo che gli italiani debbano cominciare a valutare chi le cose le ha fatte e chi le dice ma non le ha realizzate. Tornando alla sua domanda, chi glielo ha fatto fare di metterci la faccia: porto l’esperienza di chi ha fatto l’acqua pubblica, di chi non ha privatizzato un servizio di rilevanza istituzionale, di chi ha realizzato politiche dei beni comuni, di chi si è speso per la democrazia partecipativa, di chi ha buttato fuori la camorra e i politicanti dal palazzo. Il silenzio di Conte lo interpretiamo come una non volontà di venire su un campo alternativo di rottura rispetto al sistema. Questo fin qui. Poi le cose in politica possono cambiare, fino all’ultimo minuto.

Cosa risponde a chi accusa la sinistra radicale di nihilismo? C’è il rischio concreto che la destra meno presentabile vinca le elezioni. Dopo cinque anni di loro governo cambiare le cose sarebbe difficile tornare indietro. Potrebbero cambiare la Costituzione in senso presidenzialista. Rischiamo che l’Italia diventi come l’Ungheria di Orban?
Questa argomentazione non regge più, Il Pd è già al governo con la destra. Non è credibile il segretario Letta quando dice non dobbiamo andare con Salvini e con Berlusconi, mentre fa parte di un governo con ministri che sono espressione proprio di quella parte. Questo è il primo fatto. Il secondo- e non mi fa per nulla piacere dirlo – è che le peggiori riforme negli ultimi anni le ha fatte il centrosinistra: dalla cancellazione dell’articolo 18, al Jobs act di Renzi, ad alcune controriforme costituzionali, per non dire del progetto di autonomia differenziata. Ci troviamo di fronte ad una totale inaffidabilità democratica dei partiti di centro al governo.

Resta la questione del voto utile contro la destra destra.
E’ inutile agitare lo spauracchio della destra quando ci sei pappa e ciccia ogni giorno. Addirittura Letta è andato a fare il dibattito con la Meloni dove si sono scambiati fiori e carezze. Ora Letta mi viene a dire tutti contro le destre? Suvvia, oggi dobbiamo costruire proposte credibili, portare proposte ambientaliste, di sinistra, basate sulla Costituzione, questo è il tema. Io penso che una volta entrati in Parlamento con la forza della nostra proposta potremmo essere determinanti. Anche perché la destra non ha un numero di voti tale da essere autosufficiente.

Fin qui la pars destruens ma quali sono le vostre proposte riguardo all’agenda sociale? Parlate di giustizia ambientale legata a sociale, in che modo? Vogliamo essere coraggiosi, visionari, lei dice. E allora come immagina l’Italia da qui a trent’anni? Quali politiche per esempio per i giovani?
I segnali immediati che bisogna dare da subito sono sul tema economico, sociale, dei giovani e dell’ambiente. In primis, banalmente, bisogna contrastare le povertà, penso a un reddito domestico a quello di cittadinanza per chi è senza introiti. Questo però non deve essere un alibi per non attivare politiche per il lavoro. Il nostro obiettivo è crearlo. Perché solo con il lavoro c’è emancipazione. Il secondo segnale netto e immediato da dare è il varo del salario minimo. E’ necessario un adeguamento del potere di acquisto delle famiglie al costo della vita. Gli stipendi, pensioni o salari che siano, devono essere adeguati al caro vita. Per trovare le risorse necessarie dobbiamo tassare le grandi rendite finanziarie, quelle degli oligarchi e gli extra profitti delle multinazionali.

Basta?
No. Dobbiamo pensare a un nuovo modo di essere sinistra, non parlando solo ai dipendenti pubblici e agli operai ma anche al vasto mondo dei professionisti, delle partite Iva, dei lavoratori autonomi. Dobbiamo pensare anche alle piccole e medie imprese. Vanno sostenute. Meno burocrazia e più incentivi se creano lavoro e rigenerazione urbana, riqualificazione. Poi c’è il tema importantissimo della giustizia ambientale, a cui lei accennava: noi siamo in condizione – come dimostra la mia esperienza a Napoli – di risolvere l’emergenza rifiuti senza fare nuovi inceneritori. Dobbiamo sottrarre i beni comuni a chi li sfrutta per fare profitto privato. L’energia, l’acqua, le foreste, i mari sono una straordinaria ricchezza del nostro Paese, è un patrimonio enorme che deve essere e restare pubblico.

Quanto alle rinnovabili e alla non più rinviabile transizione ecologica?
Dobbiamo dire no all’implementazione del fossile, al nucleare, agli inceneritori. La vera politica ambientalista non emerge dall’accordo con Brunetta, Calenda e gli altri. Emerge dal dire no alle loro politiche, dicendo sì all’economia circolare, all’autosufficienza energetica, all’implementazione del solare, dell’eolico, del geotermico, di tutte le fonti non inquinanti. Questo solo per citare solo alcune priorità, ovviamente il programma è molto più ampio. Ma mi permetta di dire solo una cosa in più riguardo ai giovani.

Prego…
Secondo i nostri calcoli c’è bisogno di almeno un milione di posti di lavoro nella pubblica amministrazione perché ormai abbiamo solo pensionamenti. Per far ripartire il Paese deve ripartire anche il settore pubblico, il che significa far funzionare bene la pubblica amministrazione e snellire la burocrazia.

Lotta alle disuguaglianze, lavorare per la soddisfazione dei bisogni, ma la sinistra deve anche saper rispondere alle esigenze di realizzazione di sé delle persone, preoccuparsi del loro benessere, non solo materiale. Riflettere su ciò che fa star bene, la socialità, la cultura. Su questo lei a Napoli ha lavorato molto, cosa può dirci in base alla sua esperienza di cui racconta anche nel suo nuovo libro?
E’ vero investire sulla cultura è stato un punto importante per Napoli. Importante è anche contrastare la desertificazione di luoghi che vengono abbandonati, puntare sulla rigenerazione dei borghi, delle aree interne. Noi abbiamo inteso il turismo e la cultura non come gentrificazione e “turistizzazione” ma come valorizzazione culturale dei territori. La cultura è stata la principale arma di riscatto della nostra comunità. Puntare molto sulla nuova coesione sociale, lavorare sulla partecipazione, sui diritti e sulle libertà civili è il nostro obiettivo anche a livello nazionale. Noi non avremo nessun problema ad attuare i diritti civili. Così come non avremo problemi ad attuare una politica estera basata sulla fratellanza, sulla solidarietà con i popoli, come quella già avviate a Napoli con i curdi e i palestinesi, per arrivare all’Europa unita nelle sue diversità, rifiutando cortine di ferro e logiche da guerra fredda. Il nostro è un programma radicale ma di governo, non è astrattamente utopistico. A Napoli ho dimostrato che si può essere visionari e concreti allo stesso tempo.

Zappulla (Articolo uno): «In Sicilia, l’alleanza Pd-M5s-Sinistra è l’unico modo per battere il centrodestra»

Le dimissioni del governatore della Sicilia Musumeci sono sempre più probabili (la conferma dovrebbe arrivare durante la giornata del 5 agosto), questo significa che l’isola il 25 settembre vivrà un election day che accorpa politiche e regionali. Cosa farà il Pd? Reggerà l’alleanza del campo progressista che ha portato il 23 luglio a primarie condivise con i tre candidati Caterina Chinnici (Pd), la vincitrice, Barbara Floridia (M5S) e Claudio Fava della lista di sinistra Cento passi? «Ci stiamo impegnando e lavorando perché le divisioni nazionali, evidentissime, non si scarichino anche sulle vicende siciliane a tal punto da far saltare e rompere questa alleanza», dice Giuseppe Zappulla, segretario regionale di Articolo Uno in Sicilia, ex parlamentare Pd poi passato nel 2017 al movimento di Pier Luigi Bersani.

Zappulla spiega perché sarebbe una scelta autolesionista rompere quel patto. «In Sicilia se c’è una possibilità concreta per cui si possa sconfiggere il centrodestra, che è politicamente ed elettoralmente ancora molto forte, a dispetto del disastro economico, politico amministrativo di cui è responsabile, facendo precipitare la regione in una crisi molto più grave che nel resto d’Italia, è quello del campo progressista». Ce la farete? «Pare di sì, che manterremo questa coalizione e quindi potremo andare uniti alle elezioni». La contraddizione salta subito agli occhi, anche se in questo periodo la politica italiana non dà certo prova di scelte ponderate e omogenee: a livello nazionale il Pd di Letta rompe con il M5s e in Sicilia, dove la speranza è il campo progressista no? «Per la verità il patto con il M5s è la speranza anche a livello nazionale – risponde Zappulla -. Di certo la speranza non viene dall’alleanza del Pd con Calenda. Anzi, le dirò, se siamo arrivati a questo punto, non è che siamo alla frutta, siamo oltre».

Non parla a caso Zappulla. Un passato di sindacalista della Cgil, è stato tra i 261 militanti e dirigenti locali e nazionali di Articolo Uno che hanno firmato l’1 agosto un durissimo comunicato in cui viene definita sbagliata non solo la scelta del Pd di escludere dal fronte progressista il M5s ma anche quella della direzione di Articolo uno di «partecipare alla lista elettorale del Pd», considerata «prodromo di una confluenza dentro quell’organizzazione».
Zappulla spiega che quel testo non nasce improvvisamente, un caldo mattino d’estate.

«In verità da diverso tempo in Articolo uno c’è una dialettica interna che si è palesata nell’ultimo congresso, quando ancora non si immaginava l’accelerazione sulle elezioni. In quella occasione si sono manifestate due posizioni, quella della maggioranza con la mozione di Speranza e quella di una minoranza pur piccola, ma importante, costituita da chi non condivideva quella che io definisco più una deriva che un approdo politico. Cioè il rientro, sotto varie e mentite spoglie, dentro il Pd». Una mossa, continua il segretario siciliano di Articolo uno che sconfessa quanto era accaduto nel 2017: «Allora siamo usciti dal Pd perché non abbiamo condiviso una sorta di mutazione genetica del partito che dal moderno partito della sinistra riformista alla cui nascita pensavamo di aver contribuito, man mano è diventato, con Renzi ma anche al di là di Renzi, un partito di centro che guarda a sinistra, un partito liberal democratico».

Zappulla ricostruisce la storia di Articolo Uno e così sfila davanti agli occhi un altro pezzo della travagliata storia recente della sinistra italiana: «Volevamo rappresentare il lievito per un nuovo soggetto unitario plurale della sinistra, rimettendo insieme sigle e gruppi, per fare la seconda gamba dell’alleanza di centrosinistra, non di pura testimonianza, ma un partito che rappresentasse i riferimenti storici della sinistra, recuperando quello che il Pd, sia da un punto di vista culturale ma anche da un punto di vista politico ed elettorale, aveva perso».

Con il comunicato dei 261 viene formalizzata la nascita di un’area politica interna, “Verso il partito della sinistra e del lavoro” socialista, ecologista e femminista. Cosa significa, chiediamo a Zappulla, un’altra scissione? «Parlare di scissione significa sminuire una cosa che è seria, nessuno di noi si sogna di dividere Articolo Uno. L’obiettivo è esattamente all’opposto della “scissione dell’atomo”, vogliamo tornare alla missione originaria di Articolo uno». Ma da qui al 25 settembre cosa farete? «Ci sono scelte e posizioni assunte e chiarite, altre che valuteremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni. In questa confusione totale anche noi stiamo osservando come si sviluppano le cose. Una cosa è certa, l’abbiamo detto: non li seguiremo dentro la coalizione con il Pd che comunque è da chiarire. Un conto è l’alleanza – che non riteniamo sia sbagliata – altra cosa è inserirsi dentro il simbolo del Pd rinunciando al nostro che, poi, appunto, sostanzialmente significa il rientro nel Pd».

A proposito del M5s, è stato un errore escluderlo, continua Zappulla, «dopo alcuni anni in cui si è lavorato insieme per la costruzione di questo campo progressista, Pd, M5s e noi di Articolo Uno». «La sensazione è che si sia colta l’occasione, la scusa per rompere un’alleanza con il M5s che peraltro i numeri dicono che è l’unica che può rendere competitivo per esempio l’uninominale col centrodestra. È una scelta autolesionista».
Ma in concreto come vi muoverete? «Non staremo a guardare, noi riteniamo che nessun voto vada disperso per la battaglia per la democrazia e la costituzione e del centrosinistra contro il rischio evidente della vittoria della destra, non faremo appello all’astensionismo né di altra natura. Quale indicazione di lista? Stiamo valutando, stiamo vedendo come si evolvono le cose».

Ma di fronte ad una eventuale alleanza di Sinistra italiana, Europa verde, M5s, come si collocherebbe l’area interna di Articolo uno? «Io non sono il rappresentante – risponde Zappulla – di quest’area politica, le posso dire a livello personale che un’ipotesi di questo genere la vedo con molto interesse. Non mi chieda altro, in questo momento».
E invece cosa pensa dell’Unione popolare? Magari con dentro anche Conte? «Io tutto ciò che si aggrega anche a sinistra lo vedo con grande interesse, quello che sostengo però è che la frantumazione, il male storico della sinistra italiana almeno degli ultimi venti anni, è quello dei particolarismi, delle divisioni e quindi, ecco, io preferirei che si riuscisse a trovare almeno sui grandi temi una coalizione, un’alleanza generale. Ci sono questioni, che io condivido di quel progetto che sta nascendo, però non credo che in questo momento la strada maestra sia quella della frantumazione e della divisione».

Così Roberto Latini fa rifiorire il mito di Venere e Adone

Una vera e propria ripartenza. L’edizione 2022 ci consegna un Segesta Teatro Festival rinnovato nel nome e nella direzione artistica. Un’edizione che, come scrive Claudio Collovà, «racchiude la magia del silenzio e delle voci che… sono state chiamate a raccolta: la creatività della nostra isola, e della comunità artistica nazionale e internazionale».
L’8 agosto, nello scenario del Parco archeologico di Segesta, va in scena Roberto Latini con la prima nazionale di Venere e Adone. Siamo della stessa mancanza di cui son fatti i sogni. variazione n.7. Latini sarà presente al festival (che si svolge fino al 4 settembre) anche con il Cantico dei Cantici, Premio Ubu 2017 per il miglior attore o performer e per il miglior progetto sonoro o musiche originali a Gianluca Misiti.

Latini, spesso assistiamo ai suoi spettacoli in spazi inusuali, capaci di restituire immediatezza e intensità alla messinscena. Pensiamo allo Spazio Garage a Largo Spartaco a Roma, che ha ospitato nel 2018 Della delicatezza del poco e del niente o, come in questo caso, al ritorno dell’artista ad un teatro antico. Che importanza riveste il luogo nel tuo incontro con lo spettacolo e con lo spettatore?
I luoghi sono le persone. Penso sia sempre così e nei teatri o negli spazi allestiti per spettacolo è ancora più evidente. Le persone e la loro partecipazione, cura, condivisione, sono i luoghi dell’occasione dell’incontro.
 Alcune volte, certamente, la differenza la fa la storia, l’emozione rispetto a chi ci ha preceduto, l’architettura o la funzionalità delle soluzioni, ma quando inizia lo spettacolo, lo spazio sparisce e rimangono le persone. Forse sono loro stesse a “farsi luogo” e quando saliamo sul palco dobbiamo solo andargli incontro.
 Che questo accada in spazi improvvisati o in teatri convenzionali, abbiamo a che fare sempre con un’unicità irreplicabile, come il tempo.

Venere e Adone è l’argomento che Shakespeare scelse per la riapertura dei teatri dopo che nel 1593, a Londra, i teatri erano stati chiusi per l’epidemia di peste. Come è avvenuto l’incontro tra la sua ricerca, tra il tuo corpo/voce e il racconto mitologico? Profonda intuizione e, insieme, dialogo invisibile tra l’artista e il suo tempo?
Venere e Adone è un mito al quale penso come una piccola primavera. Il fiore che compare dove scompare il corpo di Adone, mi piace pensare possa essere il primo di tanti altri lasciati da Venere o Amore. 
In tutti i suoi elementi, la narrazione sembra prestarsi a una metafora: Amore e i baci, la caccia, il bosco, il cinghiale, Adone, Venere, si raccontano al di là dell’evidenza.
 In questi anni intermittenti, sospesi, ho ripensato più volte a questo mito e spero che questo tempo, seppur tragico, possa regalarci bellezza e colori. 
Il teatro è una delle possibilità più concrete, anche se, per sua natura, intrattenibile.

Nelle Metamorfosi di Ovidio, Adone muore nel bosco durante una battuta di caccia, e dal suo sangue spunta un fiore bianco e rosso. Possiamo leggervi, in questa ri-nascita, la resistenza e la vitalità dell’artista, al quale il presente – interrogato con domande precise e decise – sembra chiedere di stare dentro gli eventi e di essere rivoluzionario?
La variazioni che il mito permette sono le pagine di un diario immaginario che testimonia i tentativi e le tentazioni.
 Mi sembra impossibile non stare dentro gli eventi. Il Teatro è convocazione, prossimità, interazione, partecipazione. Con ostinazione e certo impegno, impegno certo, cerchiamo di cambiare le domande per cambiare le risposte, ma quello che possiamo fare di rivoluzionario è semplicemente, costantemente, rinnovarci nel patto tra platea e palco.

Kazimir Malevich, nel 1916, scriveva: «In arte c’è bisogno di verità, non di sincerità.» Fortebraccio Teatro mostra di sospingere la ricerca in tal senso, scegliendo sapientemente i gesti, il ritmo delle parole e anche i silenzi intorno. E, a proposito di silenzi, sui profili social della compagnia scorgiamo numerose immagini di platee vuote, sospese, in attesa che l’appuntamento tra il teatro e il suo pubblico si compia. Alludono, forse, queste immagini, alla ricerca dell’artista che – dopo questi anni di pandemia che hanno investito e travolto la cultura e, in particolar modo lo spettacolo dal vivo -, si confronta con l’urgenza di una radicale trasformazione?
Proprio nelle settimane scorse, durante una prova, ho insistito sulla parola “verità”. Non era prevista. Non era scritta. Forse si è detta da sola, attraverso me, mentre cercavo la strada. Si è articolata in un piccolo testo che spero possa avere capacità future, oppure senza ulteriore destinazione, rimanere nel circolo dei pensieri.
Poi, se è vero, ed è vero, che la qualità delle parole si misura nella qualità di silenzio che queste producono, nella qualità di silenzio che ci consegnano, l’immagine delle platee vuote può sembrare quella di un’assenza. In realtà, mi piace pensare che siano gli scatti “della festa”. Da lì a poco, o appena dopo, mentre “nel mentre” non è documentabile. Un’evocazione. Un ricordo prima di ricordare, prima di averne memoria e poi nella sensazione del tempo, diramato.

In Esercizi del no (all’interno della raccolta Giuramenti) Mariangela Gualtieri “cerca il suo no”. E scrive: «È tempo di pronunciare ora /dire, quella secca parola. /Tempo di saperla dire. No… Vieni dentro il petto /dentro la voce. Radica in me, /cresci, fermo, netto, disadorno, nitido no.»
A cosa dice “no”, oggi, l’uomo e l’artista Roberto Latini?
Spero di imparare da Mariangela e dai suoi esercizi.
 Intanto, direi all’insidia delle politiche culturali, difficilmente meritevoli di corrispondere alla realtà lavorativa degli artisti.

Una Difesa che non ci difende dalle vere emergenze

Incendi, terremoti, alluvioni, bufere, inquinamento delle falde…Ce n’è per tutte le stagioni e a volte, al di là delle stesse stagioni, i disastri ambientali si ammucchiano nel nostro Paese,  contemporaneamente, uno sull’altro.
Adesso – come ogni anno – l’Italia sta andando a fuoco a causa della siccità, delle mancate misure preventive e manutentive, dello sfaldamento delle competenze antincendio del corpo forestale voluto dal Pd di Renzi, del sistematico disinvestimento in uomini e mezzi, della privatizzazione dell’aviazione antincendio, della sostanziale latitanza delle forze armate nel supporto alla Protezione civile.

Protezione civile che, al netto della generosità dei suoi volontari e delle sue volontarie, si trova costantemente in uno stato di cronica inadeguatezza: se per un disastro non viene dichiarato lo stato di calamità naturale i suoi volontari (che evidentemente per vivere fanno altro) possono intervenire soltanto il fine settimana perché l’eventuale sospensione dal lavoro non verrebbe riconosciuta e retribuita.
Un disastro nel disastro con chiare e pesanti responsabilità politiche.

Perché di fronte alle conseguenze del caos climatico, degli eventi calamitosi e della voracità capitalistica ecocida che sono le vere minacce alla nostra sicurezza e sopravvivenza i governi di centro destra-sinistra o tecnici si girano sempre dall’altra parte?
Perché il nostro parlamento ed i nostri governi sono occupati da un unico partito consociativo atlantista, bellicista e liberista a cui del cambiamento climatico e (della giustizia sociale) non importa sostanzialmente nulla.

Perché per queste forze politiche, da Fratelli d’Italia al Pd passando per la Lega, i temi della “sicurezza” e della “difesa” e del cosiddetto “interesse nazionale” del Paese vengono fatti coincidere solo con la belligeranza atlantica ed il sostegno perpetuo all’industria bellica nazionale. È il partito unico dei banchieri, delle multinazionali e dei bombardieri.
Con il pretesto della guerra in Ucraina la Nato ha deciso che il 2% del Pil da dedicare alle spese militari non sarà più un punto d’arrivo ma un punto di partenza e che in totale la forza di reazione rapida dell’Alleanza dovrà passare dagli attuali 40.000 effettivi a 300.000. Una (quasi) decuplicazione epocale.

Cosa significherà tutto ciò per un Paese come l’Italia sempre in prima fila nell’esaudire le richieste strategiche della Nato e degli Stati Uniti?
Passeremo dagli attuali 80 milioni al giorno spesi per una folle belligeranza, ai 100 milioni al giorno e poi oltre…
Per fare cosa?
Non certo per garantire “sicurezza” e “difesa” dalle vere minacce di cui abbiamo appena accennato ma per inseguire le minacce ed i nemici indicati dalla Nato partecipando da protagonisti alla dissennata corsa agli armamenti globale e alla connessa nuova guerra fredda.

Ma questa escalation bellicista non è cominciata ieri…
In uno studio sulla trasformazione delle forze armate pubblicato nel 2011 due analisti dell’Istituto affari internazionali, Michele Nones e Alessandro Marrone, arrivavano a queste conclusioni:
«Possedere capacità militari integrabili e bene equipaggiate è una pre-condizione, necessaria ma non sufficiente. Oggi, infatti, conta se queste capacità sono effettivamente impiegate, possibilmente al massimo livello di complessità, incluse operazioni combat. Se invece le capacità restano, per scelta politica, inutilizzate, allora diventano inutili come strumento di sostegno della politica estera e dello status internazionale dell’Italia. Non siamo più ai tempi della Guerra fredda, quando bastava “mostrare i numeri” ovvero presentare capacità teoricamente disponibili, anche a prescindere dal loro effettivo impiego…»
In sintesi oggi dobbiamo sparare con tutto quello che possiamo produrre «…al massimo livello di complessità…» oppure di questo esercito professionale non ce ne facciamo proprio niente. Non si tratta quindi di una mera esibizione di potenza: perché “rango e status” del nostro Paese possano aleggiare alti nel firmamento della così detta Comunità internazionale questa potenza deve essere impiegata, dimostrata sul campo, spesa insieme ai nostri partner Nato.

E sembra proprio che il partito unico della guerra abbia recepito la dottrina: l’Italia è il secondo Paese dopo gli Stati Uniti per presenza di truppe e assetti nelle missioni Nato.
L’organizzazione basata sul volontariato professionale, richiesta dagli Stati Uniti agli alleati al vertice Nato di Roma del 1991, ha rappresentato la chiave di volta tecnica e giuridica di questa belligeranza. Da quel vertice infatti emerse che non sarebbero più serviti eserciti territoriali difensivi ma corpi di spedizione professionali da integrare in un nuovo standard tecnico-organizzativo di proiezione di forza: la Nato si preparava a diventare apertamente offensiva e a percorrere le immense praterie che il crollo dell’Unione sovietica aveva aperto.
Alla prova dei fatti la professionalizzazione delle Forze armate ha quindi accompagnato la militarizzazione della politica estera del nostro Paese (e guarda caso di tutti quelli che la hanno adottata come modello per le Forze armate).

Per cambiare rotta bisogna avere il coraggio politico di abbandonarla. Esigere una riduzione delle spese militari e una conversione dell’industria bellica senza toccare la forma professionale delle forze armate, cioè l’attuale modello di difesa, è come avere una macchina da corsa e poi pretendere che funzioni col motore di una utilitaria.
Ma a noi, cittadine e cittadini, non serve a nulla una macchina da corsa che gareggi nei circuiti della belligeranza globale, a noi serve una utilitaria che possa districarsi per le piste forestali del nostro fragile Paese.

Rifondazione Comunista fu l’unico partito ad opporsi con lungimiranza a quella contro riforma delle forze armate. L’alternativa che si propose con il Ddl Russo Spena nel 1999 consisteva in un sostanziale ridimensionamento della leva militare/civile ed un suo adeguamento democratico (con aumento delle opzioni civili e l’istituzione di un Dipartimento di difesa civile e nonviolenta).
La proposta non venne nemmeno presa in considerazione: la postura difensiva che ne sarebbe derivata e che oggi sarebbe già “a regime” nel supporto massiccio e concreto alla protezione civile, non era compatibile con la nuova fase offensiva di rilancio della “Nato globale” e col nuovo concetto di difesa che, in barba al dettato costituzionale, ricomprendeva gli interessi nazionali nella difesa in armi del Paese.
Allora come oggi il monolitico e trasversale partito unico atlantista si mise sull’attenti.

Oggi abbiamo bisogno che tutte le risorse potenzialmente disponibili vengano organicamente impegnate nella difesa dalle vere minacce alla sicurezza dei cittadini come i terremoti, i grandi incendi, le alluvioni, il dissesto idrogeologico.
Solo in questo quadro di ragionamento riusciremo a tenere insieme la riduzione delle spese militari, la conversione dell’industria bellica, la difesa ambientale, una nuova politica estera e militare di pace e distensione, fuori dalla Nato.

La revisione dei concetti stessi di “sicurezza”, “difesa” ed “interesse nazionale” dovrebbero affiancare e sostenere una proposta di riforma organica di tutto il comparto: abbandono del modello offensivo/professionale, riassetto delle forze armate in funzione difensiva/territoriale sviluppando concrete sinergie, non sostituzioni, col settore civile nelle emergenze ambientali; ripristino della Guardia Forestale come corpo civile di polizia ambientale e adeguamento della politica industriale di Leonardo alle nuove necessità delineate dalla riforma del comparto.

Una riforma indispensabile per accompagnare la ridefinizione della politica estera dell’Italia in senso neutrale e cooperativo ed un protagonismo nei processi di disarmo convenzionale e nucleare.
Non un ritorno al passato ma semmai un necessario ritorno al futuro.

La legge elettorale non è un alibi per tutto

Foto Mauro Scrobogna/LaPresse 02-08-2022 Roma (Italia) Politica - Elezioni politiche - incontro PD Azione +EUROPA - Nella foto: il segretario PD Enrico Letta, il leader di Azione Carlo Calenda in occasione dell’incontro tenutosi alla Camera dei Deputati per definire le alleanze in vista delle elezioni politiche 02-08-2022 Rome (Italy) Politics - Political elections - PD Action + EUROPE meeting - In the photo: PD Secretary Enrico Letta, Action leader Carlo Calenda at the meeting held to the Chamber of Deputies to define alliances in view of the political elections

La legge elettorale fa schifo. Lo dice Rosato, di Italia Viva, dimenticando di esserne il padre, lo dicono tutti i partiti che tranquillamente l’hanno votata e lo dicono tutti i partiti che fino a qualche giorno fa erano tranquillamente al governo ma si sono dimenticati di metterci mano. Su questo siamo tutti d’accordo. Se fossimo un po’ più onesti potremmo dirci anche che la raccolta firme in agosto riservata solo a chi non conosce qualche notabile con in tasca un simbolo è una vergogna. Ma questo, se osservate bene, non lo dice quasi nessuno perché che Unione Popolare a sinistra non riesca a raccogliere le firme tornerebbe comodo a molti: se manca un pezzo di sinistra anche la sinistra più sbiadita può rivendersi come sinistra convinta.

Ma la vergognosa legge elettorale non può diventare un “liberi tutti” che consenta di mentire, questo no. I fatti e le parole contano. L’accordo tra Letta e Calenda non è solo “un’alleanza elettorale per fermare le destre” perché in quell’accordo c’è la sottoscrizione di punti politici, perché quell’accordo è figlio di una dinamica politica che ha inevitabilmente mostrato il Pd soggiogato al narcisismo di Calenda. In quell’accordo ritorna quell’Agenda Draghi che era spuntata nei primi giorni di campagna elettorale dei democratici e che poi si era ammorbidita per abbracciare le sensibilità di tutti, Verdi e Sinistra italiana compresi. La favola del “stiamo insieme solo perché questa legge elettorale ce la impone” non è credibile: se l’obiettivo fosse stato quello di fermare le destre avremmo dentro anche il M5S (nei sondaggi di oggi sarebbe stata un’alleanza che se la giocava sul serio) e ci sarebbe dentro anche Italia Viva e Matteo Renzi. Non prendiamoci in giro, dai.

Se ci fosse almeno un po’ di onestà intellettuale la smetterebbero di fingere di dimenticare che Mariastella Gelmini ha distrutto la scuola italiana, partorendo la peggiore riforma della nostra storia repubblicana, un macigno sullo sviluppo del nostro Paese, con professori sempre meno motivati, programmi ministeriali scarsamente seguiti, un tasso d’ignoranza altissimo fra gli studenti, ricercatori senza fondi e personale universitario formato in larga parte di precari. Con la sua riforma 25mila supplenti hanno perso il loro incarico, 87.400 cattedre sono state eliminate e 44mila tecnici sono stati colpiti dai tagli al personale. Per la riforma universitaria, col decreto legge 180/2008, è stato innalzato il turnover dal 20% al 50% per tutti gli atenei che non risultino onerosi, con la conseguenza che molti insegnamenti sono rimasti scoperti. Per di più, la quota destinata alla ricerca scientifica è diminuita del 7%, portando l’Italia al di sotto della media europea. Difatti, con la legge del 30 dicembre 2010, la figura del ricercatore a tempo indeterminato è stata sostituita da quella del ricercatore a tempo determinato che può usufruire di contratti della durata di 3 anni rinnovabili al massimo per due volte.

Costruire un’alleanza elettorale in cui Calenda è la spalla di Letta nella comunicazione è una scelta politica, non c’entra la legge elettorale. Costruire un’alleanza in cui Di Maio è stato coccolato e salvato è una scelta politica. Costruire un’alleanza in cui ex colonnelli del partito di Berlusconi vengono salutati come salvatori della patria è una scelta politica. Costruire un’alleanza elettorale in cui un rigassificatore diventa un punto di programma condiviso (con la macelleria sociale che c’è in giro) è una precisa scelta politica che non c’entra nulla con la legge elettorale.

Prendetevi la responsabilità di fare politica. Non raccontateci di essere stati costretti a compiere scelte. Non funziona.

Buon giovedì.

Vacilla l’intesa tra rossoverdi e Pd. Un grande “terzo polo” di sinistra è più vicino?

Ormai il quadro delle elezioni sembrava definito. Con l’accordo tra Letta (segretario Pd) e Calenda (leader di Azione) e con l’accompagnamento di Della Vedova per più Europa, il vecchio centrosinistra viene sussunto in un’alleanza politica liberale, segnata dall’atlantismo e dalla cosiddetta “agenda Draghi”. A questo punto però l’alleanza con Sinistra italiana e Verdi, che era data per fatta, ha ripreso a fibrillare (l’incontro previsto per martedì 3 agosto è stato rinviato). D’altronde l’accordo “liberale” è così chiaro e dettagliato – definendo per altro una divisione 70 a 30 delle candidature sul totale di quelle da spartire tra dem e Azione – da lasciare ben poco spazio politico agli altri aggregati cui i contraenti principali pensano di concedere magari qualche nota programmatica. Tra questi, appunto, anche la lista congiunta di Sinistra italiana (che ha per altro deciso a maggioranza di puntare all’alleanza coi dem, ma con molte contrarietà interne) ed Europa verde.

Nei giorni scorsi De Magistris, che sarà in campo con la lista di Unione popolare, aveva molto insistito per un’alternativa di governo sia alle destre che ai liberali proponendo un patto a Cinquestelle, Sinistra italiana e Verdi, intellettuali e movimenti. Ma né Conte né Bonelli né Fratoianni avevano risposto. Cosa succederà ora dopo l’accordo Calenda-Letta?

Il testo di Letta e Calenda – l’uno già europarlamentare del gruppo dei liberali, l’altro attualmente a Bruxelles nel medesimo gruppo – è segnato dal neo atlantismo, dal riferimento stretto alle norme europee. Cosa preoccupante se si pensa che dal primo luglio la Bce ha posto fine agli acquisti senza limiti di titoli di debito pubblico per passare ad acquisti a richiesta e condizionati. Entra poi nel dettaglio, in negativo, su punti su cui i verdi hanno una visione assai differente, come i gassificatori. E sulla “revisione” del reddito di cittadinanza. L’accordo non riflette né la drammaticità della crisi sociale né di quella democratica. L’antifascismo è sussunto dall’antiputinismo. Infatti non ci sono attacchi diretti a Meloni che è assolutamente filo atlantica. La Costituzione, per la quale molti temono, neanche viene citata. E d’altronde i soggetti contraenti hanno partecipato più volte alle sue manomissioni come con l’inserimento del pareggio di bilancio, la riforma del titolo quinto, il taglio del Parlamento. Ed ora vogliono l’autonomia differenziata.

Oltre la contesa tra questi due blocchi di destra e liberale, ad ora e in attesa di possibili colpi di scena, ci saranno i Cinquestelle, quello che ne rimane dopo la rapida dissipazione del loro patrimonio. E ci sarà Unione popolare, unica lista pacifista e alternativa, nata dall’impegno di De Magistris, ex sindaco di Napoli, di ManifestA, gruppo formato da parlamentari uscite dai Cinquestelle, Rifondazione comunista, Potere al popolo e altri soggetti politici, sociali e intellettuali che si stanno allargando viste anche le scelte fatte da altri e potrebbe rappresentare una sorpresa positiva.

A destra, invece, le tre principali forze avevano già da tempo messo a punto la propria alleanza. Sicuramente contraddittoria, ma non per questo meno efficace. Divise sul governo Draghi – Lega e Forza Italia lo appoggiavano, Fratelli d’Italia no – si sono ricongiunte con un cambiamento anche dei ruoli. Fratelli d’Italia, forza erede della destra storica ora al primo posto nei sondaggi, è il partito che garantisce la totale fedeltà altantica e alla Nato e la prosecuzione dell’invio delle armi in Ucraina. Non che Salvini e Berlusconi propongano cose molto diverse, ma su di loro le accuse di filo putinismo sono più insidiose. Al contrario, Forza Italia e Lega sono la continuità con Draghi. E tutte e tre soffiano sul malessere sociale che è molto pesante.

Per la prima volta nella Storia del Paese in Italia si voterà a settembre, il 25, e non come da tradizione in primavera. La crisi è precipitata in tempi rapidissimi e altrettanto rapidamente il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha sciolto le Camere e il Consiglio dei ministri ha fissato la data per le elezioni. Questa accelerazione rende più difficile la partecipazione democratica considerando che la formulazione e la presentazione delle liste deve essere fatta in pieno agosto. Per altro, per una norma approvata in extremis, mentre quasi tutti i partiti o soggetti politici così come modificati dai tantissimi cambi di casacca in Parlamento saranno esentati dal raccogliere le firme per presentare le liste, pochi altri dovranno invece avere decine di migliaia di sottoscrizioni di cittadini certificate formalmente per poterlo fare.

Tra le forze che dovranno affrontare una raccolta firme impegnativa c’è Unione popolare. La lista che si rifà esplicitamente all’esperienza della Nupes di Jean-Luc Mélenchon in Francia ed è la sola che propone un’alternativa pacifista, di sinistra, ecologista e sociale. La lotta di Unione popolare si muove su due fronti. Contro le destre ma anche contro il macronismo del Pd. De Magistris, Rifondazione e molti altri hanno molto insistito perché i Cinquestelle, Sinistra italiana ed Europa verde convergessero in un’alleanza da terzo polo invece che andare da soli, i Cinquestelle, o col Pd, Si e verdi. Una convergenza su temi fondamentali come la pace, il salario minimo, il reddito di cittadinanza, la difesa della Costituzione, il rilancio del pubblico. Se purtroppo non sarà così. Unione popolare comunque sarà in campo perché, come si è visto in Francia, serve una proposta alternativa. Le crisi, economica, sanitaria, bellica, climatica, ormai si sommano e le vecchie politiche e le vecchie classi dirigenti si mostrano totalmente irresponsabili. Serve una alternativa per l’Italia e per l’Europa.

Per potersi presentare alle urne però Unione popolare dovrà raccogliere decine di migliaia di sottoscrizioni, nonostante a questa lista contribuiscano diverse parlamentari che, uscite da tempo dai Cinquestelle e avendo fatto opposizione di sinistra a Draghi, hanno dato vita alla Camera e al Senato a frazioni parlamentari con la denominazione “ManifestA- Potere al popolo Rifondazione comunista”. Un fatto importante in quanto queste compagne uscendo dai Cinquestelle hanno scelto di rappresentare quella sinistra che per non venire a compromessi con forze ambigue e moderate era risultata esclusa nelle scorse elezioni. Quando “a sinistra” si presentarono due liste, Potere al popolo (con dentro Rifondazione comunista, il Partito comunista italiano e Sinistra anticapitalista) e Liberi e uguali (Leu, composto da D’Alema ed altri ex del Partito democratico e Sinistra italiana). Leu elesse, e poi successivamente la quasi totalità dei suoi parlamentari si trovò ad appoggiare il governo Draghi mentre Sinistra italiana no.

Il governo Draghi, sostenuto da una grandissima maggioranza che andava dal Pd alla Lega, con la sola opposizione consistente di Fratelli d’Italia, sembrava destinato ad arrivare a termine di legislatura. La crisi invece è stata repentina e fragorosa. La sua dinamica lascia aperti molti interrogativi sulle cause. Infatti il casus belli è stato un provvedimento non votato dai Cinquestelle, come era già accaduto con altri provvedimenti da parte di altri componenti della maggioranza, su cui il governo aveva posto la questione di fiducia. Anziché andare avanti, Draghi ha scelto la drammatizzazione. Ha chiesto una verifica della fiducia senza alcuna vera trattativa sui punti programmatici problematici. Cinquestelle, Lega e Forza Italia non hanno partecipato al voto di fiducia e Draghi si è dimesso. Nessun altro governo è stato tentato. I Cinquestelle hanno chiesto chiarezza programmatica. Lega e Forza Italia un governo senza di loro. Ma le Camere sono state sciolte.

La cosa che ha più colpito è che il Partito democratico aveva puntato tutta la sua politica sull’alleanza strategica con i Cinquestelle. Mentre nel momento della crisi di governo li ha accusati di irresponsabilità e ha rotto con loro. Scelta che consegna i favori della vittoria alle destre che dopo essersi divise sul governo Draghi si sono ora riunite. Col Pd invece stanno andando gli scissionisti dei Cinquestelle capeggiati dal ministro Di Maio già capo politico della formazione. Proprio la scissione avvenuta prima del precipitare della crisi era un segnale significativo. Sempre con le forze centriste alleate al Pd stanno collocandosi diversi esponenti provenienti da Forza Italia che non hanno approvato la caduta di Draghi.

Il quadro politico che viene fuori risulta molto spostato a destra. Pd e forze centriste e già di destra. Magari dopo le elezioni si punterà a ciò che è successo già più volte e cioè una difficoltà politica da cui riemerga una larga coalizione, meglio se di nuovo con Draghi. Le destre riunite ma sempre concorrenti tra loro. Le accuse sono di irresponsabilità o di “filo putinismo”. In realtà le due coalizioni, destra e centrosinistra, come abbiamo detto sono entrambe filoatlantiche e a favore delle armi all’Ucraina.

Proprio qualche distinguo sull’excalation nell’invio di armi da parte dei Cinquestelle potrebbe aver influito sul precipitare della crisi. Così come la condizione di estrema difficoltà economica e sociale del Paese con l’impennata inflattiva, i redditi sempre più bassi e un’economia in crisi strutturale se non per i profitti delle multinazionali. Il governo Draghi aveva galleggiato senza neanche quelle misure che ad esempio su lavoro e lotta al carovita sono state prese dal governo spagnolo. D’altronde tutte le forze della sua maggioranza erano liberiste con qualche differenza nei Cinquestelle.

I Cinquestelle avevano rappresentato una rottura col bipolarismo italiano che da trent’anni vede il Pd andare alle elezioni chiedendo voti contro il nemico del momento, prima Berlusconi, poi Salvini ora Meloni, salvo poi votare spessissimo le stesse cattive leggi e fare addirittura molti governi insieme. Questa rottura è rimasta molto superficiale lasciando i Cinquestelle passare dal non allearsi a farlo prima con la destra, poi col Pd, poi con entrambi e, infine, essere fatto sostanzialmente fuori. La cosa migliore fatta, addirittura col governo con la Lega, è stata il reddito di cittadinanza. Pessimi i decreti Sicurezza, sempre con la Lega ma non abrogati dai governi successivi, e il taglio dei parlamentari. Che fa sì che ora si voti per Camera e Senato assai più piccoli, con una pessima legge elettorale, l’ennesima fatta per inseguire il modello maggioritario. Il Pd parla di rischio di vittoria delle destre. Cosa reale. Ma con buona parte di queste destre ha governato. Con i Cinquestelle ha rotto. E, soprattutto, ha fatto da trent’anni scelte che colpendo i ceti popolari hanno seminato tra essi un profondo malcontento. Non a caso le inchieste sugli elettori dicono che il Pd è più votato dai ceti sociali medio alti e i Cinquestelle tra quelli più in difficoltà. Mentre l’astensione sfiora il 50%. Ma i giochi non sono ancora tutti fatti.

Storie di donne contro la guerra, sulle orme di Rosa Luxemburg

Fra le aberrazioni di questa guerra dobbiamo rilevare il tentativo – a quanto pare riuscito – di femminilizzare la guerra nel paragone insistito tra l’Ucraina aggredita e una donna vittima di stupro o di femminicidio. Nella metafora i pacifisti sono stati accusati di restare a guardare in flagranza di reato, o peggio di voltarsi dall’altra parte senza intervenire per salvare la donna, o di limitarsi a cercare di dissuadere l’aggressore a parole. Sono stati accusati di non solidarizzare con la vittima e di essere, quindi, dalla parte dell’aggressore.

Il paragone è stato usato dalle donne stesse, anche da alcune femministe, così come da queste è stato rivendicato il dovere di inviare armi all’Ucraina (come, per esempio, la filosofa Rosi Braidotti in più riprese nel programma “Otto e mezzo” condotto da Lilli Gruber”). Sono state ricordate le staffette partigiane, le combattenti del Rojava a dimostrazione che la guerra “di resistenza” si addice alle donne. E nel far questo vengono dimenticate le circostanze e le forze in gioco assai diverse in un caso e nell’altro, laddove donne combattono per la liberazione di tutti all’interno di guerre imperialiste subite.

Non sono sufficienti i cordoni umanitari – dicono – è ipocrita il compianto delle vittime, bisogna armarle e consentire loro di difendersi. Armare l’Ucraina, addestrarla all’uso degli ordigni di ultima generazione significa, nell’attuale narrazione bellicista, non lasciare sole le vittime, anzi evitare che vi siano vittime. La Russia di Putin è vista come l’uomo rifiutato dalla sua ex, che non si rassegna ad averla perduta, che intende riprendersela con la forza, a costo di ucciderla. Senonché l’Ucraina, portatrice simbolica di un destino femminile di emancipazione, giovane di democrazia e di libertà, non ne vuol più sapere di una madre Russia fagocitante, brutalmente maschia, arcaica e imperialista. Perciò resiste e la sua difesa appare fiera ed eroica, “fino all’ultimo uomo” (che poi significa “fino all’ultimo ucraino”, non “fino all’ultimo americano” o “fino all’ultimo europeo” fornitore di armi).

In queste vesti ritorna la guerra in Europa riciclando e riadattando gli abiti femminili dei più triti argomenti della propaganda militarista primonovecentesca che, per esempio, aizzava i Paesi dell’Intesa alla guerra in difesa del Belgio “stuprato”. “Stupro del Belgio” fu l’espressione usata dalla stampa europea del tempo per descrivere l’invasione tedesca nel 1914, con le varianti del caso, come scrive Bruna Bianchi in Militarismus versus femminismo. La violenza alle donne negli scritti e nei discorsi pubblici delle pacifiste durante la Prima guerra mondiale«DEP Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile», p. 95 e 97: «Belgio e Francia vennero personificate nella contadina indifesa e la Germania nel maschio crudele dalla sessualità brutale. “Avrebbe almeno potuto corteggiarla!” recita un manifesto propagandistico». «L’invasione del Belgio sollevò a livello internazionale un’indignazione senza precedenti, “il martirio” della piccola nazione che decise coraggiosamente di resistere all’occupante divenne il tema portante della propaganda dei paesi dell’Intesa e in particolare della Gran Bretagna. Il Belgio assurse a simbolo della barbarie tedesca, un simbolo che consentiva di presentare la guerra come una lotta per il diritto, la libertà e la giustizia nelle relazioni internazionali».

 

A questo proposito la pubblicazione a Londra nel 1915 del “Rapporto Bryce” (Viscount J. Bryce, Report of the Committee on Alleged German Outrages Appointed by His Britannic Majesty’s Government, HMSO), che anni dopo si rivelò un falso, favorì l’entrata in guerra dei riluttanti (molte delle “testimonianze” che raccoglieva circolavano dal 1914). Tradotto in trenta lingue denunciava i crimini tedeschi, in particolare la violenza dell’esercito su migliaia di donne e bambini in Belgio e in Francia. Ne venivano stampate appendici a rotazione, distribuite in opuscoli a parte, ne venivano enfatizzati gli orrori in conferenze pubbliche. In Italia il Corriere della Sera e il Messaggero ne pubblicarono un’edizione popolare.

 

Oggi gli eredi di questa tradizione raccontano di “un’Ucraina aggredita, violentata”. Un tipo di informazione batte insistentemente il tasto sensibile degli stupri (su cui si stanno raccogliendo le prove). Perciò inviare oggi armi – dicono – impedisce che vengano violentate le donne ucraine. Se la chiamata alle armi allo scoppio della prima guerra mondiale puntava sullo stupro delle donne belghe e per estensione di tutto il Belgio, oggi si parla anche di stupri di bambini (e neonati, l’ho sentito dire in un talk televisivo). Ciò che qui vale la pena sottolineare è l’uso martellante di una tale propaganda che, ora come allora, insisteva nello sbattere in prima pagina gli oltraggi perpetrati esclusivamente dal nemico. Il culmine dell’orrore sotto questo aspetto è stato raggiunto con la diffusione dell’ignobile audio della moglie del soldato russo che incita il marito a stuprare le ucraine, ma con il preservativo, colloquio pubblicato dai canali del Sbu, il servizio di sicurezza ucraino e rimbalzato nei media di tutto il mondo. Per quanto riguarda l’Italia, si farebbe prima a riportare i pochi giornali – tra cui Avvenire, Il Fatto quotidiano, Il manifesto – che non hanno pubblicato la “notizia”. Gli altri si sono scatenati e, in qualche caso, sono tornati sulla vicenda anche più di una volta .

In questa narrazione si riconfigura la “guerra giusta” e insieme si coltiva il terreno della paura e del sacrificio in linea con l’imposizione di un’economia di guerra accompagnata dall’entusiasmo per nuovi investimenti nell’industria bellica; mentre gli Stati sarebbero chiamati ad armarsi su ben altri fronti, quello della catastrofe ambientale e della emergenza sanitaria, solo per limitarsi alle minacce e alle insicurezze globali che affliggono l’umanità tutta. Ciò spiega la mancanza di credibilità di una politica del riarmo che dice di guardare alla pace e alla sicurezza.

Le analogie nelle due narrazioni belliche sono tristemente palesi. La differenza tra coloro che si limitano a inorridire di fronte agli stupri, sia ora che un secolo fa, e coloro che sono contro la guerra è la consapevolezza che sia proprio quest’ultima il crimine che li contempla. Un crimine contro l’umanità legittimato da quei governi che oggi, come ieri, si appellano alla necessità della “difesa” e che, a conclusione della prima guerra mondiale, per esempio e non a caso, fece sì che gli stupri riconosciuti e condannati siano stati solo quelli dei vinti, non certo quelli dei vincitori.

Colpisce che nel pieno di una propaganda tanto pervasiva ci siano state allora nel 1914-18 femministe per la pace in grado di mantenersi lucide nella condanna della guerra in quanto tale, senza farsi trarre in inganno dalla attribuzione delle atrocità a una parte sola. Poté accadere che le stesse donne tedesche denunciarono l’invasione del Belgio, come d’altronde oggi fanno le femministe russe nei confronti dell’aggressione all’Ucraina.

Aleksandra Skochilenko, attivista del movimento Resistenza femminista contro la guerra arrestata ad aprile 2022

Anche le donne dei Paesi dell’Intesa condannarono il blocco navale ai danni della Germania e, in seguito, l’ingiustizia dei trattati di pace. Le pacifiste furono aspramente contrastate, ma riuscirono a radunare all’Aja, nel primo Congresso Internazionale delle donne per la pace, dal 28 aprile al 1 maggio del 1915, alcune centinaia di delegate e più di duemila partecipanti provenienti da Paesi sia belligeranti sia neutrali. È un dato notevole che fra le delegate dei Paesi in guerra, oltre alle inglesi, alle austriache, alle ungheresi, alle tedesche, fossero presenti anche le belghe.

La giornalista Eugénie Hamer (nella foto) è una delle cinque donne belghe autorizzate dall’occupante tedesco a partecipare al Congresso in rappresentanza dell’Alliance belge pour la paix par l’éducation, al contrario delle francesi che non furono autorizzate dal governo del loro Paese. Tuttavia, già alcuni mesi prima del Congresso, la giornalista francese Nelly Roussel in un articolo pubblicato su La Pensée Libre International il 6 febbraio 1915 non mancò di smarcarsi dal clima di odio generalizzato antitedesco diffuso dalla propaganda:

«In Francia hanno iniziato ad apparire le pubblicazioni ufficiali sulle “atrocità tedesche”. Molti se ne compiacciono. Alcuni, tra i quali io stessa, ne sono disturbati. Mi sembra cosa inopportuna e temo che al momento attuale possa condurre a due risultati, […] a terrorizzare la popolazione nelle regioni vicino al fronte, oppure, nel caso di una nostra invasione della Germania, a incitare i nostri soldati alle più orribili rappresaglie. Al contrario, se tali pubblicazioni fossero state rinviate fino alla fine delle ostilità, avrebbero potuto essere utili, a condizione, però, che avessero conservato un carattere di verità. [Le atrocità] dovrebbero essere presentate in modo da non esasperare il clima di odio a livello internazionale, ma in modo tale da ispirare un salutare terrore per il flagello della guerra che inevitabilmente provoca tante inutili sofferenze e causa crimini vergognosi» (Bianchi, cit., p. 99).

Non furono in molte a capirlo e tuttavia, come si vede, ve ne furono di capaci di smascherare l’uso strumentale della diffusione di alcune specifiche atrocità in funzione dell’allargamento e del perdurare del conflitto. Indubbiamente il congresso dell’Aja fu un avvenimento di importanza straordinaria e per certi versi rivoluzionario se pensiamo alle circostanze in cui si svolse, nell’attraversamento materiale di frontiere minate e nel superamento di una propaganda violenta che aveva travolto tutto.

(British &) American delegates to the International Congress of Women which was held at the Hague, the Netherlands in 1915. The delegates include: British feminist and peace activist Emmeline Pethick-Lawrence (1867-1954), social activist and writer Jane Addams (1860-1935), and Annie E. Malloy, president of the Boston Telephone Operators Union. To the right of Malloy may be labor journalist and activist Mary Heaton Vorse (1874-1966) and the woman wearing a hat on the far right may be Lillian Kohlhamer of Chicago. (Source: Flickr Commons project, 2012)

La sua presidente, Jane Addams, anticipatrice di molti temi dell’eco-femminismo contemporaneo, in uno scritto del 1922 ricordava come la stampa associava costantemente i termini di “traditore” o “filo-tedesco” con quello di pacifista. Un argomento brandito massicciamente dalla stessa nostra stampa odierna come liquidatorio di ogni forma di risoluzione del conflitto. L’epiteto di “putinista” impazza per screditare chi si oppone alla guerra anche da parte di gruppi femministi sui social. Non può che suonare sinistramente l’analogia della propaganda del primo conflitto mondiale con quella che pervade la scena mediatica odierna. La propaganda, allora come ora, punta su un coinvolgimento dell’opinione pubblica che, per essere efficace, va oltre i principi astratti del diritto internazionale, l’invasione dell’Ucraina oggi, la violazione della neutralità del Belgio ieri. Viene ricercato il crimine, preferibilmente nei confronti del corpo femminile e nella violazione dell’intimità domestica. Sono le stesse motivazioni invocate, per inciso, da ogni ampliamento legislativo di liberalizzazione della legittima difesa armata. “Vale la pena combattere per la tua famiglia?” Chiedeva ai suoi lettori un manifesto irlandese per il reclutamento. “Quando il nemico giungerà alla porta di casa tua, sarà tardi per farlo. Arruolati oggi stesso!”(Bianchi, p. 95).

Come prevedibile le attiviste per la pace vennero accusate di favorire indirettamente lo stupro di altre donne, e vennero derise nella loro pretesa di atteggiarsi a “madri degli uomini” essendo per lo più “prive di figli” e spesso “zitelle”. Il Congresso femminista dell’Aja ricevette l’epiteto di “zoo olandese”, un po’ come è capitato all’incontro romano del 2 maggio scorso – “Pace proibita” – ignorato dai media mainstream, e liquidato da certi commentatori come “il baraccone del Ghione”, o anche “il circo Barnum”.

 Assistiamo a una sessualizzazione della guerra russo-ucraina facilitata dal fatto che, mentre da un lato, il fenomeno del femminicidio è assurto a emergenza sociale, culturale, oggetto di sensibilizzazione pubblica e di nuovi provvedimenti legislativi, dall’altro lato la guerra, che da sempre è nel dominio della politica e dell’economia, viene al contrario trattata come una crisi e una tragedia di coppia. Per un verso è il modo che taluni hanno, donne comprese, di semplificare la guerra, di renderla alla portata dei talkshow, dall’altra è un modo scellerato di renderla familiare, riducendola a dramma quotidiano tra due persone, addomesticandola, insomma “umanizzandola”.

Ridurre la guerra allo scontro metaforico e individuale tra le persone della vittima e dell’aggressore vale a dimenticare che la guerra è proprio l’opposto. Il suo senso è ben rappresentato dal significato originario di mischia (dal germanico werra). È propriamente la cancellazione dell’individuo nel disordine, nella mischia del combattimento e nel fuoco incrociato delle pallottole, ma è anche l’annullamento del singolo nel corpo unico dell’esercito. Il soldato indossa l’uniforme. Il soldato perde la sua individualità nell’esercito-massa (per citare Elias Canetti di Massa e potere).

Elias Canetti, Dutch National Archives, The Hague, Fotocollectie Algemeen Nederlands Persbureau (ANEFO), 1945-1989

Anche i civili, soprattutto i civili muoiono in gruppo, in quanto massa, ammassati nei rifugi, o in massa sotto le bombe. E finiscono ammassati nelle fosse comuni. Ancor prima di perdere individualità morale soldati e civili perdono la loro individualità fisica, il loro corpo, la loro vita. Li hanno già persi nel momento in cui viene decisa la guerra, poiché è provato/scontato che questa farà vittime tanto più numerose quanto più durerà e quanto più grave sarà l’escalation. Tante più vittime quanto più valorosa la “resistenza”. Al di sopra della mischia (Au-dessus de la mêlée) sono intitolati da Romain Rolland una serie di articoli usciti a Ginevra nel 1914, poche settimane dopo lo scoppio della guerra contro la quale si batté disperatamente e isolatamente lo scrittore europeista.

Romain Rolland  

Per restare quindi dentro la metafora della vittima da sottrarre all’aggressore, andare in soccorso dell’Ucraina invasa fornendo armi e, se necessario, estendendo ad altri Paesi l’intervento armato, significa con certezza e paradossalmente sacrificarne a centinaia e a migliaia, di corpi di donne. La femminilizzazione e la sessualizzazione della guerra poi appartengono allo stesso codice militaresco/fascista che non a caso propone la castrazione chimica per i reati di stupro.
Esemplare il futurista, e fascista, Tommaso Marinetti, poi finito Accademico d’Italia e nelle fila della Repubblica di Salò: «Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei liberatori, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna “sottomessa e timorata”».

La mentalità fascista, a suo agio nel risolvere militarmente i conflitti, provvede a risolvere con la castrazione il rischio di recidiva del violentatore, poiché l’ideologia reazionaria ritiene che sotto sotto lo stupro sia solo una delle modalità dell’accoppiamento e che abbia a che vedere col desiderio, anche se non reciproco. È tristemente noto che stupro e castrazione sono (non per caso) pratiche di guerra, riducono a cosa il corpo di donne e uomini mentre gli esecutori spargono la loro, o impediscono l’altrui, progenie.

È perciò inaccettabile, e quasi incredibile, che femministe della nostra generazione abbiano potuto abbracciare la causa bellica. Sia perché non tengono conto, tradendolo, del femminismo storico teorizzatore e attivista contro la guerra, in uno spettro ampio che va dagli Stati Uniti fino alla Russia, da Jane Addams a Rosa Luxemburg, che furono antimilitariste e pacifiste proprio durante la guerra mondiale – insieme a molte altre – su versanti e con destini diversi. E sia perché non tengono conto, le interventiste, del più recente pensiero femminista della cura (v. Joan Tronto, The care collective) che dà evidenza e orienta l’azione sociale e politica a quanto di più strettamente legato biologicamente, eticamente, sentimentalmente, storicamente e infine filosoficamente, alla vita e al lavoro delle donne: riproduzione, accudimento, nutrimento, riparazione. In breve quanto attiene al mantenimento del nostro mondo e di quello altrui, in una accezione quanto più estesa possibile dell’idea di cura; dai rapporti interpersonali alle relazioni internazionali, dalla tutela del territorio alla salvaguardia del pianeta.

L’etica della cura emerge dopo secoli di discredito filosofico attribuito alla concretezza della vita, alla fisicità dei corpi, alla realtà delle emozioni, al valore dell’accudimento, alla centralità dell’empatia, ovvero, nella quasi totalità dei tempi e ovunque sulla terra, al mondo delle donne. Agli opposti di questa visione è l’incuria fino alla devastazione. La guerra ne è l’espressione più riuscita ed estrema.

Una immagine di una giovane donna della Nazione Seneca (che faceva parte della Confederazione degli Irochesi), 1908

Il tema della assoluta centralità della donna nel “mantenimento” del mondo e nella difesa di forme antiche di società pacifiche e comunitarie è trattato proprio nel numero di Left del 22 luglio 2022 nell’articolo di Fulvia Cigala Fulgosi, “Quando le donne costruivano la pace” – dedicato al ruolo determinante avuto dai clan delle native americane nella costruzione della Confederazione irochese, un modello di «governo generoso, egalitario, centrato sulle donne – e non a caso – pacifico».

Alla vulnerabilità dei corpi sono dedite da sempre le donne, mentre questa loro cura è stata ed è da sempre svalutata e relegata nell’invisibilità del privato. Non a caso i settori pubblici che vi sovrintendono sono i più vilipesi e negletti: sanità, assistenza ed educazione. Non vedere o fingere di non vedere queste implicazioni dando consenso al governo della cobelligeranza da posizioni femministe è inaudito. Il pensiero femminista della cura non ammette che, al livello della morale, l’idea di giustizia possa prescindere dalla protezione dei fragili, dei minori, degli anziani, dei bisognosi di cure, e possa prescindere dalla salvaguardia dell’ambiente e del pianeta. Ciò nell’interesse dell’intera società, per la sua salute e per il benessere di tutti, con riguardo anche a quanti sono lontani da noi nello spazio e nel tempo futuro. Studi diversi, anche disciplinarmente diversi, convergono sul dato di una realtà umana fondata su rapporti relazionali, di dipendenza e interdipendenza reciproca, che riguardano l’individuo come i popoli. Le teoriche della cura incoraggiano a pensare in termini globali riconoscendo un’unica umanità nella ricchezza di patrimoni culturali e sociali diversi, recuperando tradizioni di pensiero avverse ai nazionalismi, alle retoriche patriottiche, alla creazione del nemico e alla sua disumanizzazione.

Attiviste come la già ricordata Addams, come Grace Isabel Colborn (Bruna Bianchi, p. 100) avevano ben chiaro che la stessa mentalità militare fondata sul culto della virilità e sul disprezzo della debolezza fisica, sul soffocamento dei sentimenti di compassione e tenerezza implicavano svalutazione e asservimento delle donne:
«Il punto di vista militare è quello del disprezzo della donna, la negazione di qualsiasi valore che non sia la riproduzione. È questo spirito del militarismo, la glorificazione della forza bruta, che ha tenuto la donna in schiavitù politica, legale, economica.
Il militarismo è sempre stata una maledizione per le donne in quanto donne fin dall’alba della vita sociale […] Violenza domestica, violenza tra gli individui e tra le classi, tra le nazioni, le religioni; violenza tra uomo e donna: questo è ciò che più di ogni altra cosa ha impedito che le donne si esprimessero sulle questioni pubbliche, almeno fino a un recentissimo passato. La guerra ha creato la schiavitù con le sue conseguenze degradanti per le donne […], la guerra e la conseguente riduzione in schiavitù delle donne ha rappresentato la causa principale della poligamia […] La guerra ha creato e perpetuato quel dominio dell’uomo in armi che ha pervaso ogni situazione, dal parlamento in giù».

Esse respingono come oltraggioso l’invito dei propri governi ad allevare bambini per fronteggiare la guerra di domani:
«Ci si dice che “dobbiamo prenderci la massima cura dei bambini che di qui a vent’anni possono essere chiamati a respingere un altro attacco tedesco. “Nella guerra attuale granate e mitragliatrici sono le munizioni principali, ma i bambini rappresentano le munizioni della pace futura”[…]. Io rivolgo un appello alla maternità collettiva di questa nazione e a quella di tutto il mondo affinché si soffermi per un momento sul significato di queste parole. Nessuna guerra prima d’ora ha causato tante perdite come l’attuale, ma queste saranno insignificanti in confronto a quelle che potranno essere nella prossima guerra»(Bruna Bianchi, pp.101-102).

Per restare nella similitudine già usata – dell’unica realtà della vittima e del carnefice – che donne femministe si aggiungano al coro di quanti preferiscono “spaccare la faccia” all’aggressore, ucciderlo piuttosto che disarmarlo, vale a concordare, del tutto contraddittoriamente, con valori tradizionali/reazionari maschili e patriarcali. Ovvero quelli che conferiscono ai padri, ai fratelli, ai mariti il diritto/dovere di proteggere le figlie, le sorelle, le mogli. Non viene fatto appello agli istituti delle negoziazioni, delle trattative, del dialogo, che mirano a risoluzioni dei conflitti senza spargimento di sangue, che sono il segno di una sicurezza basata sul diritto e non sulle armi, garantita da una società libera perché democratica. Viene scelta, al contrario, la sicurezza dettata dall’ordine vigilato, dalla difesa e dalla protezione armate. Si abdica ai valori emancipatori femminili che sono rivelatori del grado di liberazione dell’intera società. La mentalità securitaria difensiva, per non parlare di quella preventiva, che vive nella guerra, è la stessa che vorrebbe introdurre l’ampliamento del diritto alla detenzione di armi per “legittima difesa”, (per difendere ogni tipo di proprietà privata, di cose e di persone, in primis delle proprie donne), ed è mutatis mutandis anche la stessa mentalità che vorrebbe la divisione degli scompartimenti ferroviari per sesso, per evitare le molestie maschili.

Una mentalità che procede per separazione, divisione, recinzione, confinamento, armamento. Come accade nei quartieri “sicuri” dei ricchi in Brasile, in Ecuador, o negli Stati Uniti, sicuri perché blindati e armati. Al di fuori è tenuto l’inferno degli scartati, dei poveri, degli abbandonati all’incuria e quindi alla violenza, delle maggioranze. Conosciamo i dati degli omicidi per arma da fuoco: per esempio nel 2017 in Brasile sono stati 63mila, negli Usa 17.284, e soltanto 367 (di cui 123 femminicidi) in Italia dove quasi nessuno possiede armi. Per evitare le stragi bisogna rifiutare il possesso di armi, per evitare lo stupro di guerra bisogna rifiutare la guerra.

Se ci appelliamo ai soli principi razionali/astratti della giustizia, senza includere il contributo del pensiero pacifista e femminista arriviamo a concepire e a giustificare il principio della “guerra giusta”. Quella russo-ucraina diviene tale proprio perché la si inquadra nel fermo-immagine dell’invasione, senza allargare il campo alla visuale di un conflitto pluriennale e in parte etero-organizzato. Complicazioni che ciascuna delle parti in causa, tra cui per esempio l’Italia, avrebbe avuto il dovere di affrontare in base alla sua propria cultura storica e politico-istituzionale diversa da quella della Russia, ma anche da quella degli Stati Uniti. Innanzitutto poiché fondata sulla Costituzione del 1948 e, in merito alla guerra, sul disatteso articolo 11 che, non a caso, ha trovato soprattutto in una donna (Lorenza Carlassare) – fra i costituzionalisti – una voce forte che lo ha ‘impugnato’ come principio invalicabile della nostra Carta, senza se e senza ma.

È inammissibile che femministe abbiano potuto abbracciare la cobelligeranza italiana, poiché le vittime di guerra sono soprattutto i civili (nelle guerre moderne il 90% dei morti – ci ha insegnato Gino Strada anche nell’ultimo libro Una persona alla volta (Feltrinelli) – sono civili) e, fra questi, in grande maggioranza donne e bambini. Poiché i sopravvissuti e le sopravvissute, mutilati o sani che siano, sono orfani, vedove; persone senza casa e senza lavoro. Attraverso i loro occhi dobbiamo guardare i cadaveri e le rovine. Non c’è bisogno di spiegare che il danno maggiore è infatti subito proprio dalle donne, distrutta ogni costruzione di civiltà, di comunità, di accoglienza, di riproduzione, di cura, ogni tessitura di relazioni, di legami. Lo sguardo attonito di fronte alle macerie è sempre lo sguardo di chi vede distrutta una intera vita di cura e di riproduzione.

Non ci sono vantaggi per le donne in guerra, come non ci sono vantaggi per la povera gente, da entrambe le parti.

Una donna a Kharkiv dopo un bombardamento, 13 marzo 2022

Lo sgomento che vediamo nelle donne che si aggirano tra le macerie delle loro case non ammette tentennamenti nella condanna di chi incita alla “resistenza” promettendo la “vittoria”. Imperativi che mai sono appartenuti alle donne e mai apparterranno loro, se non a quelle che, lasciandosi cooptare nelle gerarchie ordinate al patriarcato, ne consolidano la mentalità competitiva e bellicista. Irresponsabilmente, forse inconsapevolmente, di certo illusoriamente.

Certo né irresponsabile e neppure inconsapevole è l’atteggiamento di Virginia Woolf nei confronti della guerra, tra le voci più sorprendenti del pacifismo novecentesco. Occorre rinnegare una tale madre del femminismo storico per derogare al ripudio della guerra. Il pensiero di Woolf, letto nelle circostanze attuali, si impone con la forza di chi – mentre affronta il problema della guerra alla radice ̶ si assume la responsabilità di una fondazione del pensiero pacifista, di un cambio radicale di paradigma. Non un pensiero generico o astratto, ma un pensiero diverso, un pensiero di estraneità totalmente avulso dalla guerra, perfino estraneo, si direbbe, alla funzione riparatrice dei danni della guerra che spetterebbe “per natura” alla donna. La mentalità fascista le riserva infatti il compito di lenire le ferite del guerriero, oltre che di esserne il premio (per non dire il trofeo). Ma non è una coscienza decente quella che contempla corsie in cui crocerossine soccorrono feriti già costretti alla guerra.

Dietro la metafora della guerra sessualizzata/femminilizzata che afferma il diritto/dovere della vittima di difendersi “fino all’ultimo ucraino” proprio in nome dello status di vittima, si finge di non vedere l’ammontare delle vittime a migliaia, prevalentemente civili, quindi prevalentemente donne e minori in carne e ossa. Da notare che sono considerati diversamente i corpi degli eroi, per quanto morti anch’essi “per la patria”. Non abbiamo sentito la voce delle vittime, non abbiamo visto i loro volti, al contrario degli “eroi” incoronati dalla propaganda e dai media, i combattenti tatuati (spesso con una svastica o con il volto di Hitler).

L’eccidio di Buča diventa immagine emblematica della guerra. Intendo l’insistenza con cui sono state mandate le immagini della strage e soprattutto la falsa coscienza di mostrare indignazione per quei poveri cadaveri come se non fossero proprio fatti come quelli di Buča a essere esecrati dai pacifisti che chiedono di fermare la guerra. Come se le guerre, anche quelle che si credono “giuste” non provocassero ogni giorno cento Buča. L’orrore di Buča trascende l’esposizione dei cadaveri essenziali come prova del crimine di guerra (come se il crimine non fosse la guerra stessa) mentre le vittime sono presumibilmente migliaia. Buča, in sostanza, diventa solo la prova della criminalità del nemico, non del carattere essenziale della guerra, che per sua natura è un intreccio scambievole di gruppi di corpi che si contano morti da una parte e ancora vivi dall’altra, potenzialmente morti nella volontà del nemico (Canetti). Viene negato che la guerra, incoraggiata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Europa della Von der Lyen – i più entusiasti tra i membri della Nato – come strumento per ripristinare il diritto e consentire una “pace giusta”, è in realtà solo “la conta dei morti” (Canetti), non più consumata sul campo di battaglia, ma tra i civili – donne, bambini, anziani – del tutto estranei agli interessi dei belligeranti.

Per tornare ancora una volta alla similitudine usata della vittima e dell’aggressore: non si accorgono alcune femministe che questa sta innanzi tutto dentro una logica maschilista/patriarcale che designa una vittima femmina e un aggressore maschio e che già divide l’umanità su base sessuale laddove per un uomo “aggressore” ne viene immaginato un altro “salvatore”?

Un esercito aggressore, un esercito salvatore. Un Paese arcaico, un Paese moderno; una dittatura, una democrazia. Un patriarca cattivo e un patriarca buono. I buoni da una parte, i cattivi dall’altra mentre potenze superiori signoreggiano imperscrutabili.
Se le donne tutte non si mettono fuori della guerra “degli uomini colti” (Virginia Woolf chiamava così la borghesia e la classe dirigente inglese) restano intrappolate nell’ordine cavalleresco maschile che è la versione nobile del militarismo bellicista.
La condanna della guerra di Virginia Woolf (nella foto di George Charles Beresford, 1902) si nutre delle fotografie dei “cadaveri e delle macerie” che ha sotto gli occhi. Nel libro Le tre ghinee interrogandosi su come fare, cosa concretamente fare per prevenire la guerra, Woolf estrae, in diversi passaggi del suo discorso, le fotografie della guerra di Spagna, che sono quanto le basta per sottrarre retorica, oltre che senso, alla categoria del conflitto militare (qui il link di un progetto di staffetta di lettura da Le tre ghinee). Le donne sono “estranee” alla guerra non perché sia loro interdetto l’arruolamento nell’esercito, ma perché esse sono determinate a stare fuori dall’ordine marziale dei maschi che domina la società in ogni sua formazione, dalle gerarchie e dalla competizione nella sfera religiosa fino a quella universitaria. Woolf riconosce nell’esercizio della guerra la radice e il monumento del sistema patriarcale, insieme conflitto/scontro per il dominio ed erezione delle insegne della vittoria.

Distruzione e “gloria”. Che le donne stiano fuori da questo schema – dice Woolf – che non contribuiscano neppure col confezionare calze di lana per i soldati. Produrre calze di lana per i soldati significa, per Virginia Woolf, essere cobelligeranti, figuriamoci inviare armi!
Le armi che inviamo servono a prolungare la guerra – certo, una guerra “di difesa”, ma le parole non contano quando occultano astrattamente la realtà concreta di combattimenti che atterrano i disarmati, i civili inermi. Il pensiero femminista deve trovare parole nuove e diverse per prevenire la guerra. Almeno la metà del genere umano (una metà che attraversa tutte le classi sociali) a cui dovrebbe stare a cuore la liberazione di tutte e di tutti dalle oppressioni sistemiche (antidemocratiche) che riguardano la catastrofe ambientale e umana a medio termine, e la catastrofe umana, economica, culturale della guerra, ora.

Inutile restare dentro il dettaglio, dentro il limite irrelato del 24 febbraio giorno dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Ben prima di quella invasione occorreva intervenire assumendo decisioni per le vie diplomatiche, che pur dovranno esserci alla fine della guerra, con la differenza di non dover contare i morti, i feriti, gli sfollati, i miliardi spesi e quelli da spendere per la ricostruzione. Con la differenza di non dover fare i conti con l’impoverimento della maggioranza degli abitanti del pianeta e con l’aumentare della insicurezza alimentare dei più poveri, aggravate sempre dalla guerra. Con la differenza, per l’Europa, di non doversi oggi confrontare con nuovi nemici come il popolo russo già a lei legatissimo in passato.

Non rientra nella tradizione del pensiero femminista la logica imperialista, dell’una e dell’altra parte, che prepara la guerra allargando il confine Nato (e le basi militari) da una parte e invadendo uno stato sovrano dall’altra. Non vi rientra poiché, solo a voler guardare all’insegnamento di Virginia Woolf (dal lato inglese) e di Rosa Luxemburg (dal lato tedesco-polacco) capiremmo che ciò che conta non è la scintilla sprigionata il 24 febbraio scorso, ma la politica militarista imperante – oggi rilevata nella produzione e vendita di armi in crescita da parte dell’Italia e degli Usa e nella loro esportazione in molti dei paesi in guerra.

La scintilla del 24 febbraio, per essere compresa, non può essere valutata isolatamente, poiché non solo la realtà storicizzata va considerata in ogni aspetto che la contestualizza, ma anche la realtà presente, per essere compresa, non può sfuggire al contesto di riferimento. Quel contesto sono gli otto anni e le 14mila vittime (10mila russe, 4mila ucraine) della guerra invisibile del Donbass e il mancato rispetto degli accordi di Minsk.
Non si tratta più di assegnare torti o ragioni in presenza dell’aggressione russa, ma di condannare il mancato ricorso a soluzioni alternative alla guerra che esistono necessariamente come esisteranno inevitabilmente alla fine dei presenti combattimenti e degli insensati bombardamenti.

L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non solo doveva e poteva essere impedita dalle potenze europee ed extraeuropee (le europee soprattutto in virtù di una Unione che dovrebbe insegnare al mondo come si diventa un laboratorio di integrazione politica ed economica) evitando i rischi di una escalation militare di larga scala fino al superamento del tabù del nucleare, ma soprattutto doveva essere contrastata dall’Europa per disincentivare la spesa militare che è centro di interessi militaristici/imperialistici inammissibili in regimi di governo democratici. Mi rendo conto che è ingenuo pensarlo, come se non fosse bastata la pandemia a provare che le scelte di governo non hanno minimamente tratto conseguenze per potenziare il sistema sanitario pubblico duramente messo alla prova durante le fasi più acute del contagio.

Il gioco macabro è lo stesso di molte guerre. Sostiene Canetti – la cui meditazione su massa e potere compie affondi decisivi sulla morte e sulla guerra – che in principio ogni Paese si sente minacciato, e proclama questo pericolo pubblicamente al mondo:
«Si sia o meno gli aggressori, si cercherà sempre di creare la finzione di essere minacciati.[…]La morte, da cui in verità ciascuno è sempre minacciato, dev’essere proclamata come condanna collettiva perché ci si possa opporre a essa attivamente. Ci sono, per così dire, dichiarati tempi di morte durante i quali la morte si volge verso un intero gruppo determinato, scelto arbitrariamente. “Ora si va contro tutti francesi”, oppure “Ora si va contro tutti i tedeschi».
L’entusiasmo con cui gli uomini accolgono una dichiarazione di tal fatta, ha la sua radice nella vigliaccheria del singolo dinanzi alla morte. Da solo, nessuno vorrebbe guardarla in faccia. È già più facile in due, quando due nemici eseguono per così dire la reciproca condanna; e non è più affatto la medesima morte quando migliaia la affrontano insieme. Il peggio che possa capitare agli uomini in guerra – e cioè morire insieme – risparmia loro la morte individuale che essi temono più di tutto».

Bisogna ringraziare Canetti (e con lui pochi altri scrittori come Rolland, Zweig, Anders) per avere smascherato il vero volto dell’entusiasmo interventista, rovesciato il mito del coraggio e del valore guerresco, penetrata la materia oscura su cui riescono a far leva le fanfare necrofile dell’avanzata militare, delle conquiste imperialistiche.
Le donne, al contrario, ripudiano la guerra. Generatrici di vita e maestre di resistenza sono riparatrici e non distruttrici. Conoscono e amano l’unicità di ciascuno dei loro figli e figlie, e le differenze di cui è formata l’umanità dei popoli. La guerra è la rovina di ciò che le donne rappresentano e perseguono. Lo sapeva Virginia Woolf che tra le cose da imparare per prevenirla poneva «l’arte di comprendere la vita e la mente degli altri, insieme alle arti minori che le completano: l’arte di conversare, di vestire, di cucinare», che tra gli scopi di un college da lei immaginato indicava quello «non di segregare e di specializzare, ma di integrare» (Bianchi, p.62).

Lo sapeva, ancor prima, e fortemente, Rosa Luxemburg (nella foto alla Conferenza femminile  dell’Internazionale socialista, Stoccarda, 1907) imprigionata più e più volte per il suo irriducibile antimilitarismo. Oltre agli scritti di pensatrice politica formidabile, le sue lettere dipingono una passione inesausta per la vita in ogni forma, e studi e letture in ogni direzione disciplinare. Il più “intransigente impegno rivoluzionario” si esprime in una “voce di donna” , dando luogo forse al primo e unico esempio nella sinistra intellettuale mondiale di un internazionalismo sentito empaticamente:
«Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di “patria”, di “civiltà”, “libertà”, “diritto dei popoli” e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo» (Rosa Luxemburg, Lettere contro la guerra, Berlino 1914-1918, a cura di Anna Bisceglie, Roma, Prospettiva, 2004). Dopo la scelta del partito socialdemocratico tedesco di votare compatto l’aumento della spesa militare preparandosi al conflitto mondiale, dopo che Luxemburg ebbe il cranio fracassato a colpi di calcio di fucile prima di essere gettata nella Sprea, Hitler e il partito nazional socialista salirono al potere.

Siamo ripiombati in Europa in una barbarie culturale distruttiva del sogno dell’integrazione, in un arretramento spaventoso dalla rappresentanza democratica ammantati dei feticci delle bandiere, del razzismo e dell’oscurantismo nazionalistico, che credevamo sepolti. Conquistare l’umanità per il genere umano è un processo lento e difficile, ma andare nella direzione opposta non si addice alle donne. Non sarà fatto nel nome delle donne.

L’autrice: Paola Paesano è componente del direttivo di Costituente terra

Per approfondimenti:https://left.it/libri/#43

Pd calenda est

Dopo giorni di sportellate quindi Carlo Calenda ha trovato l’accordo con Enrico Letta. Il partito Azione (insieme a +Europa) farà parte del “campo largo” pensato dal Pd che ora (e molto probabilmente sarà l’assetto definitivo con cui si presenterà alle elezioni) va da Sinistra italiana e Verdi di Fratoianni e Bonelli fino alla parte più destrorsa di Calenda, facilmente riconoscibile dal marchio di Forza Italia slavato da poco sulle divise di Gelmini e Carfagna (in attesa che arrivi anche Brunetta).

L’accordo, come si legge oggi su tutti i giornali, pretende una quota del 30% dei seggi (rispetto al totale di quelli di Pd e Azione/+Europa), l’imposizione di non candidare “leader divisivi” nei collegi uninominali (ovvero Fratoianni, Bonelli, Di Maio e i fuoriusciti berlusconiani). Calenda è riuscito, al solito, a capitalizzare i suoi penultimatum, per farsi ipervalutare negli accordi elettorali. Piaccia o no (a me non piace per niente) il machismo politico rende. Anche se poi accade, come sta succedendo a Matteo Renzi, che ci si ritrovi irrimediabilmente soli.

L’accordo tra Letta e Calenda però non è solo sugli equilibri elettorali. L’accordo con Calenda contiene punti strettamente politici (sì all’agenda Draghi e ai rigassificatori, impegno a modificare reddito di cittadinanza e bonus 110%) che indicano una precisa scelta di campo. Enrico Letta, consapevole o no, ha dato l’occasione al segretario di +Europa Benedetto Della Vedova di affermare «questo non è un centrosinistra, è un centro (liberale, riformatore) e sinistra». Non ha tutti i torti, anche se definire “sinistra” il Partito democratico è un atto coraggioso o miope (e di miopia nelle valutazioni politiche ce n’è parecchie nel campo dei cosiddetti liberali.

Ora il compito più difficile sarà convincere gli elettori che con i loro voti non contribuiranno a fare eleggere Gelmini e Carfagna da una parte e Di Maio e Fratoianni dall’altra. Questa legge elettorale, è vero, fa schifo: costringe i partiti a creare alleanze elettorali che non sono coalizioni politiche – non esiste infatti un programma di coalizione – e contemporaneamente gli consente di simulare un “liberi tutti”. Calenda e Fratoianni insistono su questo punto: “Stiamo insieme ma non non c’entriamo niente”, ripetono e ripeteranno fino alle elezioni. Enrico Letta, per ora, azzarda di più ipotizzando un fronte che potrebbe addirittura governare. Comunque sia da fuori è un pasticcio piuttosto confuso.

Intanto si sono persi giorni buoni per parlare di programmi a limare alleanze elettorali intorno ai caminetti di partito (e oggi si continuerà ancora) e questa campagna elettorale in questa prima fase sembra un calciomercato estivo. Tra l’altro nelle prossime ore si capirà che la promessa di Letta sul Pd che “offrirà diritto di tribuna in Parlamento ai leader dei diversi partiti e movimenti politici del centrosinistra che entreranno a far parte dell’alleanza” significa che Di Maio (che non avrebbe mai preso il 3% con la sua lista per farsi eleggere nel proporzionale) sarà candidato nelle liste del Pd. Un bel premio, non c’è che dire. Sarebbe curioso capire per cosa sia premiato, tra l’altro.

Mentre i soliti noti giocano con le figurine chi cerca di proporsi come reale alternativa (Unione popolare sta apparecchiando una campagna elettorale improvvisa e difficile) deve provare a raccogliere le firme grazie a una tagliola ben studiata dal potere che mira a mantenere sé stesso. Forse che partiti senza simboli in omaggio (come quelli di Bonino o Tabacci) rischino di non potersi misurare alle elezioni è un problema di democrazia che meriterebbe attenzione trasversale di tutti i partiti. Ma qui siamo ai coltelli, mica alla politica.

Buon mercoledì.

Quel groviglio inestricabile di miserie e splendori chiamato Occidente

Ho sempre apprezzato gli storici che continuano a fare ricerca, a onorare operosamente il loro mestiere, anche dopo che la loro carriera si è conclusa e non devono più ubbidire a compiti istituzionali. È questo il caso di Fabio Fabbri, che per anni ha studiato la storia del movimento cooperativo italiano, illustrando con numerosi volumi e saggi una pagina rilevante e originalissima della storia del movimento operaio nel nostro paese. In coerenza con tali temi, Fabbri ha più tardi scritto per Castelvecchi una Storia del lavoro in Italia dall’Unità a oggi (2002), all’interno di una vasta opera in più volumi, dedicati a questo ambito sociale tra i più negletti dal mondo culturale italiano. Ma di questa fase di studi non si può non ricordare qui il ponderoso volume, di 600 pagine, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla guerra al fascismo (1918-1921), UTET 2008, in cui Fabbri, con una vastissima documentazione, mostra per mezzo di quale violenza omicida il movimento fascista è riuscito ad affermarsi in Italia. Vale a dire: il ricorso a incendi e saccheggi di Camere del lavoro, sedi di cooperative, di giornali e sezioni del Partito socialista; l’uccisione di militanti e assalti armati a paesi, finendo così col travolgere le strutture dello Stato liberale. Un testo che significativamente non ha ricevuto l’eco e la considerazione che meritava, perché apparso in una fase storica in cui l’antifascismo veniva svalutato quale elemento connotante della nostra democrazia.

Negli ultimi anni Fabbri, ha cambiato radicalmente spartito, ed è approdato alla storia culturale, dapprima con una collazione di saggi dedicati a personalità del mondo intellettuale e politico, e ora con un più impegnativo volume, L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura (Laterza, 2022). Diciamo subito che il tratto di originalità di questo volume consiste nell’essere una storia della cultura europea e occidentale scritta da uno studioso che non è uno storico della cultura, ma un ricercatore che ha dedicato una vita ai fenomeni economici e sociali dell’età contemporanea. Questo non essere del mestiere, cioè uno storico culturale tout court, gli dà per un verso un curiosità di scoperta e una capacità di stupirsi che trasmette anche al lettore, ma al tempo stesso gli consente di illuminare il lato oscuro e come vedremo anche sanguinario della pagina di arte e di civiltà che l’Europa scrive tra Otto e Novecento.

Della capacità di stupirsi e di stupirci è esemplare il primo capitolo: Un anno di grazia: 1907. In effetti a leggerlo si rimane storditi nello scoprire di quanti e rilevanti eventi è fitto quell’anno. Si parte dal mondo dell’arte. In febbraio a Parigi nel Salon d’Automne, una imponente mostra retrospettiva incorona il genio di Cézanne; Klimt compone alcuni dei suoi capolavori, come Dafne e il Bacio; Egon Schiele emerge coi suoi disegni Spiriti d’acqua. Sul versante letterario l’anno non è meno privo di novità: a Londra Virginia Woolf prende la guida del Circolo Bloomsbury, facendone un centro culturale di prima grandezza; a Trieste James Joyce scrive I morti e conosce Italo Svevo; Henri Bergson dà alle stampe L’evoluzione creatrice; al di là dell’Oceano Jack London pubblica Il tallone di ferro; Kipling riceve il premio Nobel per la letteratura. Sempre nel 1907, mentre Gustav Mahler compone la sua Sinfonia n.8, s’inaugura un servizio regolare di radiotelegrafia fornito dalla Marconi Corporation, in grado di far lanciare SOS alle navi transatlantiche in difficoltà. Naturalmente l’anno non è che una sezione di quell’epoca di rivoluzione culturale che va dal 1895 al 1914, in cui in cui si assiste alla nascita del cinema, alla diffusione dell’automobile, ai primi voli aerei, all’illuminazione elettrica delle città, alla nascita della psicanalisi, alla fioritura senza precedenti delle avanguardie artistiche dominate dal genio di Picasso, Gauguin, Matisse, ecc.

Naturalmente l’autore ripercorre pagine molto note di storia del ‘900. L’elemento di novità che contraddistingue questo lungo racconto, in cui vengono abbracciati molteplici aspetti di un’epoca, è per un verso la ricchezza di particolari poco conosciuti. Piccole notazioni che però hanno un sicuro rilievo storico. Si pensi ad esempio a come viene accolta la psicoanalisi in Italia dal più importante giornale dell’epoca, il Corriere della Sera, che nel 1911 la bandisce come antiscientifica, il cui “valore pratico” non può però «compensare gli svantaggi inerenti alla indiscrezione quasi ripugnante dei suoi procedimenti». L’Italia bacchettona erge subito barricate di fronte alla pretesa di analizzare l’inconscio. Ma il pregio maggiore di Alba del Novecento, a mio avviso, va cercato nell’intreccio che l’autore riesce a tessere e a svolgere tra le manifestazioni della cultura, i rapidi ritratti dei grandi protagonisti dell’arte, della letteratura e della scienza di quei decenni, e i fenomeni della storia reale. Più precisamente l’autore fonde in un unico racconto lo splendore della cultura europea con le vicende dell’imperialismo, con le guerre, la repressione, i massacri che gli Stati del Continente antico vanno perpetrando oltre mare nelle loro vecchie e nuove colonie.

E lo fa soffermandosi direttamente sulla vastità mondiale dell’Impero britannico, sui possedimenti francesi e tedeschi, raccontando alcune delle guerre più sanguinose, oppure dando voce agli scrittori che ne riflettono gli orrori. Come fa con Conrad, che aveva viaggiato lungo il fiume Congo rimanendo sconvolto dalla ferocia praticata contro le popolazioni native. Oppure con Louis Stevenson, o con Pierre Loti, il quale, in qualità di ufficiale della Marina francese, entrò a Pechino dopo l’invasione delle truppe europee per la Guerra dei Boxer, e descrisse l’orrore dei cadaveri sparsi per le strade e nelle fosse della “Città imperiale”: «Corvi e cani, calatisi in fondo alla buca hanno vuotato il loro torace, mangiato gli intestini e gli occhi; in un’accozzaglia di membra, prive ormai di carne, si vedono spine dorsali tutte rosse avvolte in lembi di vestiti». La storia d’Europa di quegli anni non è fatta solo delle luminarie della Belle Epoque, quella è semplicemente la storia dei vincitori.

*L’immagine è tratta dalla copertina del libro di Fabio Fabbri “L’alba del Novecento. Alle radici della nostra cultura” (Laterza)

Fate qualcosa di sinistra

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 04-02-2022 Roma Manifestazione degli studenti contro l’alternanza scuola-lavoro e le due prove scritte previste per l’esame di maturità Nella foto Un momento della manifestazione Photo Roberto Monaldo / LaPresse 04-02-2022 Rome (Italy) Demonstration by students against school-work alternation In the pic A moment of the demonstration

Sì, lo so bene, questo è il tempo degli appelli e probabilmente degli appelli tardivi. Forse andrebbe anche detto che gli appelli di questo tipo risultano sempre “tardivi” anche perché in questo Paese solo il profumo di elezioni sembra capace di trasformare la realtà e di alimentare l’iniziativa.

Lo scrive il gruppo di Qualcosa di sinistra:

«Lettera aperta a

Aboubakar Soumahoro, DeMa, Europa Verde, Gruppo ManifestA, Possibile, Potere al Popolo, Rifondazione Comunista, Sinistra Italiana

Siamo persone che il 25 settembre andranno a votare con la consapevolezza dell’ennesima sconfitta. Ci conoscete bene: siamo il popolo di sinistra stanco, arrabbiato, disilluso, stremato dalla situazione politica, economica, sociale e culturale di questo paese.

Sono decenni che, a un rafforzamento costante del blocco politico neoliberista, corrisponde la lenta frammentazione di quello socialdemocratico, ecologista e comunista.

Il 25 settembre questo paese sarà costretto a scegliere tra la coalizione più a destra della storia repubblicana e quella che farà esclusivamente gli interessi della classe dominante economica e finanziaria.

Abbiamo scritto questo appello in preda alla rabbia e alla disperazione, per chiedervi di mettere da parte opportunismi e ostilità e fare l’unico gesto di responsabilità nei confronti del Paese, del vostro popolo.

Per chiedere ad alcuni un passo indietro e ad altri un passo avanti.

Fate la cosa più ovvia, che per troppi anni è sempre stata la più difficile da realizzare: trasformate i valori in cui credete e crediamo in azione politica e costituite un’alleanza elettorale di sinistra alle prossime elezioni. Altrimenti sarà l’ennesima occasione sprecata per avviare un processo di rinnovamento strategico verso un progetto unitario.

E senza unità, il destino della sinistra italiana è uno solo e si chiama estinzione.

Non abbiamo più tempo da perdere.

Iniziate subito questo percorso di dialogo, mediazione e sintesi politica per contrastare l’ignobile agenda Draghi e quella ancora più violenta dell’estrema destra.

Un altro orizzonte comune è fattibile e urgente, per ridare speranza a milioni di persone schiacciate da politiche antipopolari, da echi di un nero passato mai superato e da un futuro chiamato collasso climatico.

Ormai è chiaro a chiunque che il ricatto del voto al meno peggio non porta alcun miglioramento politico, sociale ed economico alle fasce di popolazione più deboli e sempre più numerose.

E le recenti elezioni cilene, colombiane e francesi hanno tracciato la strada da percorrere per costruire la rinascita di una sinistra popolare, ecologista, transfemminista, antirazzista e anticolonialista.

Basta con i festeggiamenti per le vittorie della sinistra di altre nazioni.

Basta con egocentrismi e integralismi che portano solo all’eterna irrilevanza.

Basta con i campi larghi senza futuro e compromessi con i nemici di classe.

Pretendiamo l’unità socialista per ridare al popolo di sinistra e al Paese qualcosa in cui credere. Qualcosa per cui lottare.

Ascoltate la nostra voce per costruirne una sola.

Che la sinistra si unisca e faccia finalmente la sinistra!».

Buon martedì.