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Il regista Walid Falleh: «La mia cinepresa e il pescatore Chams, il “papà” di tutti migranti»

La forza della rivoluzione e la fiducia nel cambiamento traspaiono nei documentari del regista tunisino Walid Falleh. Fin dalla sua partecipazione alla Rivoluzione dei Gelsomini nel 2010 e nel 2011, Falleh, 38 anni, ha trovato nell’arte e nell’informazione un potente mezzo di cambiamento. La videocamera è diventata il suo sguardo, il mezzo attraverso il quale cerca di capire e raccontare la realtà. E la realtà che si è trovato davanti ha mille volti: la fiducia e poi la disillusione nel progetto rivoluzionario tunisino, la drammaticità delle morti in mare di chi cerca l’Europa, ma anche la lotta e la determinazione di molti migranti subsahariani nel sorpassare i confini e rivendicare i propri diritti. Falleh racconta la migrazione dentro e oltre le frontiere tunisine. E ribadisce, in ogni situazione c’è sempre una scelta.

Questa convinzione assume particolare valore nell’attuale contesto tunisino. «È molto preoccupante che la Tunisia abbia adottato una nuova Costituzione che compromette i diritti umani e mette in pericolo i progressi fatti dalla rivoluzione del 2011» denuncia Amnesty international in merito alla vittoria del Sì nel referendum dello scorso 25 luglio, indetto dal Presidente della Repubblica, Kaïs Saïed. Un voto che ha visto una astensione elevata, vicina al 70%, e ha provocato forti tensioni nel Paese. La crisi politica in atto, però, è frutto di una crisi economica e sociale. La Tunisia sta subendo le conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina, raggiungendo un tasso di disoccupazione del 16% con duri effetti sulla vita dei cittadini, molti dei quali vedono come primo responsabile dell’instabilità del Paese il partito islamico di Ennahda. Il partito è stato al centro della politica tunisina negli anni dopo la Rivoluzione fino al luglio 2021, momento decisivo nella crisi-politico istituzionale, in cui è maturata la svolta autoriaria del presidente Saïed.

In Tunisia lunedì 25 luglio è stata approvata la nuova Costituzione, mediante un referendum a cui solo il 30% della popolazione ha partecipato. Verrà quindi sostituita la Costituzione del 2014, accentrando in tal modo i poteri nelle mani del Presidente della Repubblica, Kaïs Saïed. Cosa pensa al riguardo?
Non si può ridurre l’attuale situazione in Tunisia a un giudizio sintetico, positivo o negativo che sia. Personalmente avevo supportato la decisione di Kaïs Saïed di sospendere il Parlamento lo scorso 25 luglio 2021 e di licenziare il primo ministro Hichem Mechichi. Ed è comprensibile la scelta di istituire un referendum nazionale per la riforma della Costituzione, svoltosi questo 25 luglio 2022. So che Kaïs ha preso questa decisione da solo e non ha considerato la società civile, ma ritengo che si stia passando attraverso un periodo di transizione in seguito al quale queste decisioni verranno poi accettate da tutta la cittadinanza. La popolazione vuole che i corrotti del governo degli anni precedenti siano chiamati a rispondere di fronte alla giustizia. Così Kaïs è visto come il salvatore e l’uomo adatto per la situazione. Fondamentalmente perché è un avvocato. Inoltre considero che sia più semplice vedere come responsabile una sola persona, che un intero gruppo di corrotti. Detto ciò, ovviamente rimaniamo in allerta e pronti a manifestare in caso che Kaïs superi il limite e instauri una dittatura. Al momento noi giovani continuiamo a lottare contro le aggressioni della polizia e questo rimane un punto nero del modo di governare di Kaïs. In generale penso si debba continuare a protestare e a impegnarsi per riuscire a sviluppare una migliore situazione economica che è ciò che più interessa ai cittadini.

Come si inserisce la questione migratoria all’interno di questo contesto?
In Tunisia molte persone vedono l’immigrazione nel Paese come un problema. Sono preoccupate per l’assenza di lavoro e l’economia in bilico. Così non riescono ad essere empatiche, fanno fatica a trovare soluzioni per dare una buona accoglienza. E a livello strutturale e istituzionale non c’è un piano, ma nuovi migranti continuano ad arrivare, così che si va creando un conflitto sociale.

Sta lavorando a un nuovo documentario proprio sul tema della migrazione, Baba Chams. Se da un alto vi è diffidenza, altre persone si stanno invece organizzando per reagire con la solidarietà, come racconta il tuo prossimo lavoro. Ci può spiegare meglio di cosa si tratta?
Il protagonista è un pescatore tunisino della mia città, Chamseddine Marzoug, che ha deciso di rimanere nel Paese, mentre la sua famiglia se n’è andata con un barcone. Sua moglie e i suoi figli sono tutti in Europa. È un pescatore, gli piace pescare, gli piace la sua routine e vivere a Zarzis. Fa attivismo politico, lo trovi dappertutto mentre aiuta e supporta i migranti a giro per la città. Nella sua casa in questo momento vivono alcuni migranti subsahariani a cui hanno bruciato l’appartamento: ha una nuova famiglia anche qui.

Chamseddine segue la legge del mare, non lascia morire chi ha bisogno di aiuto. Ma non si prende cura solo dei vivi…
Lo Stato tunisino non è preparato a gestire la migrazione subsahariana degli ultimi anni. Il governo non sembra interessarsene, perciò la questione diventerà ancora più problematica, socialmente e logisticamente. Ma Chamseddine ha reagito alla realtà che si è trovato di fronte. Così si è reso subito conto della necessità di un cimitero. Il “Cimitero degli stranieri”. Ha iniziato a seppellire i migranti non sopravvissuti al viaggio verso l’Europa e a prenderne i dati anagrafici, perché sapeva che la famiglia li avrebbe cercati e chiesto di loro.

Perché per il suo documentario ha scelto come titolo Baba Chams?
Baba significa papà in arabo. Chams è il suo nome, ma nella sua forma scritta significa anche “sole”. Tutti i migranti lo chiamano “baba, baba”; inoltre è il padre della sua famiglia in Europa. È affascinante vedere quest’uomo gentile come un padre, il padre di tutti. Perfino quando siamo andati al cimitero mi ha detto: «Vedi, queste persone non hanno una famiglia qui, sono io la loro famiglia». È commovente. Credo sia più o meno dal 2012 che li seppellisce, si prende cura di loro, prega per loro.

Perché ha deciso di raccontare questa storia?
Qualche anno fa ero a Zarzis, la mia città, in occasione di una protesta internazionale organizzata dai pescatori tunisini contro le frontiere e la guardia costiera italiana. Ho potuto conoscere meglio Chamseddine, così ho iniziato a seguire le sue attività e a riprenderlo. Spero di riuscire a finire il documentario per settembre, sto facendo un crowdfunding per portarlo a termine. Voglio raccontare la vita del pescatore, da solo a casa o in giro per la città, la routine con le sue tante famiglie. Non voglio che appaia solo la storia del cimitero, lui è più di questo. Lui era un semplice pescatore, non coinvolto nell’attivismo politico, ma ora se lo incontri lo percepirai quasi come un “eroe politico”, perché reagisce e fa semplicemente quello che sente come un dovere. La sua vita è cambiata radicalmente.

La migrazione, le morti in mare e alle frontiere, sono spesso percepite come qualcosa di distante dalla nostra vita di tutti i giorni. Chamseddine invece ne è venuto a contatto incontrando barconi pieni di persone mentre svolgeva le sue attività quotidiane da pescatore. Pensa che il suo sia un caso eccezionale?
No, ci sono molti altri esempi, io stesso lo sono. Prima non ero troppo interessato al tema migratorio, ma quando ho cominciato a vedere le persone partire di fronte ai miei occhi, mi sono chiesto che cosa avrei dovuto fare. Il mio impegno ha la stessa origine di Chamseddine. Immediatamente dopo la fine della rivoluzione in Tunisia, nel 2011, è iniziata la guerra in Libia, con cui Zarzis confina. Sono cominciati ad arrivare moltissimi rifugiati, intorno al milione, così le autorità tunisine hanno creato a Médenine, qui vicino, un campo per rifugiati insieme all’Unhcr, detto Choucha. Compare anche nel mio film Boza. È proprio in quel momento che molti giovani della mia città sono andati ad aiutare a Choucha come volontari insieme alla Croce rossa o al Danish refugee council, io compreso.

Boza – di cui poi le chiederò di parlarci – non è la sua prima opera in cui si parla di migrazione. Nel suo primo cortometraggio, Liberté 302, aveva raccontato insieme al suo gruppo, Zarzis Tv, una altro tipo di migrazione, quella degli stessi tunisini verso l’Europa…
Prima che andassi come volontario al campo profughi Choucha ho visto molte persone della mia città partire per l’Italia. Erano persone giovani, le stesse persone che avevano fatto la rivoluzione. Con il mio gruppo di amici, Zarzis Tv, abbiamo cominciato a filmare questa migrazione, perché volevamo capirla. Per me all’inizio quella situazione era incomprensibile, ogni giorno vedevo barconi pieni partire. Continuavo a chiedermi perché quelle persone non credessero in quello che avremmo potuto fare e cambiare dopo la rivoluzione. Perché non avessero fiducia. Ma poi ho capito che le ragioni per lasciare la propria terra sono molteplici, è una questione di libertà, dignità, vita. Un giorno un gruppo di giovani tunisini si era avviato verso l’Italia con un barcone improvvisato. L’esercito tunisino li ha rintracciati, per poi danneggiare e rompere la barca. Molte persone sono morte o rimaste disperse. Abbiamo deciso di raccontare questa vicenda. Il nome della nave dell’esercito è il titolo del nostro cortometraggio: Liberté 302.

Dopodiché ha cominciato a parlare della migrazione anche oltre le frontiere tunisine. Nel suo documentario, Boza, è partito dal suo Paese, ha oltrepassato i confini per arrivare fino all’Europa.
Dopo essere stato a Choucha, sono stato invitato in Marocco per lavorare con Gadem (Gruppo antirazzista di difesa e accompagnamento alle persone straniere e migranti, ndr). Lì, ho iniziato a riprendere alcuni momenti di un processo contro un attivista politico camerunense che difendeva i diritti dei migranti nel Paese. Anche se non compare nel film, è nata lì l’idea del mio documentario Boza, che ho iniziato nel 2014.

A differenza di Baba Chams, in Boza ci sono numerosi luoghi, differenti voci, e molteplici situazioni. Cosa li unisce gli uni con gli altri?
In Boza ci sono tre diverse prospettive, tre diverse possibilità. Volevo mostrare che c’è sempre una scelta. In Tunisia, nel campo di Choucha, le persone hanno deciso di aspettare. Attesa, solo attesa. Non hanno niente da fare, se non aspettare anni e anni che qualche organizzazione li consideri e che li porti in Europa regolarmente. Altri hanno preso una decisione. Partire. Questa è la seconda situazione che racconto: il Marocco e la foresta vicino Ceuta dove le persone si nascondono in attesa di trovare il momento giusto per provare ad attraversare il confine verso l’enclave spagnola. Appaiono poi alcuni momenti della Marcia per la libertà da Strasburgo a Bruxelles, durante la quale i migranti già arrivati hanno deciso di lottare, che è quello che mi auguro accada sempre. Lottare per i propri diritti. Le circostanze sono molteplici, ma si può sempre scegliere. Non conta tanto dove sei, ma come sei in quel luogo.

La parola boza, che è anche il titolo, viene introdotta attraverso la melodia di una canzone che alcuni migranti cantano nel bosco in cui sono accampati in Marocco. Cosa significa?
Nella foresta i migranti subsahariani hanno un linguaggio segreto. Davvero, è incredibile, hanno creato un linguaggio per non farsi capire dalla polizia e dalle persone arabe. Hanno dei codici. Boza è usato in diverse occasioni, quindi ha un significato ampio. Quando devono avviarsi verso il confine, devono “andare per boza”. Andare verso la vittoria. Ci sono alcuni video nel mio documentario dove alcuni ragazzi saltano il confine e iniziano a urlare “boza, boza”, “ce l’abbiamo fatta!”. Ho visto molta speranza seppur all’interno di un contesto così problematico.

Qual è la relazione tra spazio nascosto, come la foresta, spazio privato, come le case che riprende in Marocco, e spazio pubblico, come quello della marcia?
Non me lo sono mai chiesto. Penso che il legame tra gli spazi, il loro intreccio, sia venuto in modo spontaneo. Il mio modo stesso di filmare è spontaneo. Andando su un piano filosofico, la penso un po’ come Marx: attraverso l’esperienza delle persone, come la rivoluzione del 2010, nasce un’idea e da questa idea sorge l’esperienza che viviamo. C’è continuità. Per me è stato così, non avevo un’idea chiara sulla migrazione in Marocco e sulle frontiere. Poi sono andato con la mia videocamera nella foresta, ho potuto vedere cosa stava succedendo lì e farmi un’opinione attraverso la quale ho vissuto nuove esperienze. I miei documentari sono il mio riflesso. La videocamera i miei occhi. Nel contenuto non c’è solo quello che appare, ma anche quello che ho vissuto. Ho bisogno di immergermi e leggere l’esperienza che sto vivendo come se fosse un libro da cui imparare. Ho impiegato tre anni per finire Boza, mentre sono già due anni che sto seguendo Chamseddine.

Qual è la relazione tra lei come regista e i protagonisti dei suoi documentari?
Quando entri nella vita reale di alcune persone, è fondamentale per me rispettare alcune regole. Ad esempio, per realizzare Boza, non avrei mai potuto iniziare a filmare fin dal primo giorno in cui mi trovavo in Marocco nei luoghi in cui vivevano i migranti. Ho passato tempo con loro, ho cercato di capirli e di farmi capire, li ho coinvolti. Riprendevo le persone quando si sentivano a loro agio, a volte mi dicevano “Walid, riprendi”, in qualche modo stavamo lavorando insieme al progetto. Durante la rivoluzione avevo sentito il bisogno di raccontare quello che stava succedendo senza aspettare che qualcun altro dall’esterno lo facesse. Molti giornalisti e registi venivano a riprendermi: ho lavorato con loro, ho imparato da loro e poi ho trovato il mio modo di raccontarmi e raccontare. Per questo motivo ho cercato di coinvolgere i migranti dei miei documentari, affinché potessero imparare e decidere come esprimersi.

Quindi non sono passivi, ma soggetti attivi. Non sono solo vittime.
L’intera questione migratoria è densa di drammaticità, ovviamente. Ma c’è anche tanta speranza. Non ho ripreso solo sofferenza e pianti. Le persone danzano, cantano, si divertono e lottano. I problemi non possono cambiare velocemente, perciò è importante avere fiducia nel cambiamento. Per spiegarmi meglio, basta pensare alla rivoluzione. Non è stato facile ribellarci, ma ci siamo riusciti. Alcune persone però pensavano che dopo la rivoluzione tutto sarebbe andato meglio, improvvisamente. Così si sono depresse e hanno smesso di credere e impegnarsi per quello che eravamo riusciti a fare. Niente può cambiare in un anno o due, è un percorso lungo, in cui la speranza è fondamentale. Questo voglio mostrare nei miei documentari: la ribellione, la lotta. E nella lotta c’è speranza. Non serve aspettare che le organizzazioni europee ci vengano a salvare. Dobbiamo organizzarci e trovare soluzioni da soli. Dopo la rivoluzione molte organizzazioni sono venute a insegnarci la democrazia. Non l’ho mai sopportato. È bello vedere formarsi una società civile strutturata, ma non durerà a lungo se le persone non si autorganizzano seguendo il proprio modo di pensare e i propri bisogni, reagendo, tutte insieme.

 

Perché mettere il guinzaglio ai giudici non renderà i processi più veloci

Con la legge n. 71 del 17 giugno 2022, il Parlamento ha approvato la riforma dell’ordinamento giudiziario e delle disposizioni in materia di costituzione e funzionamento del Consiglio superiore della magistratura. Stiamo parlando della cosiddetta “riforma Cartabia”. Ne è scopo dichiarato l’efficientamento della giustizia italiana, uno step necessario per poter accedere ai fondi del Pnrr. È significativo che, per rendere efficiente il sistema giustizia, il legislatore abbia scelto di riformare l’ordinamento giudiziario.

Fugano l’opinione che il malfunzionamento della giustizia italiana dipenda in gran parte dai magistrati i dati statistici restituiti dall’ottavo rapporto elaborato dalla Commissione europea per l’efficienza della giustizia (Cepej), istituita con lo scopo di valutare e promuovere l’efficienza del funzionamento e dell’organizzazione della giustizia nei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa. Essi indicano che i magistrati italiani sono tra i più produttivi d’Europa, con indici di smaltimento delle pendenze pari o superiori al 100%. Ciò significa che costoro smaltiscono quanto e più di quanto ogni anno è assegnato a ciascuno di loro. Questi dati sono agevolmente fruibili online.

Venendo al dettaglio delle novità normative, hanno destato le maggiori perplessità della magistratura – che attraverso l’Associazione nazionale magistrati (Anm) ha indetto uno sciopero nazionale il 16 maggio 2022 – quelle introdotte in tema di: formazione del fascicolo personale del magistrato, valutazioni di professionalità, separazione delle carriere. I riferimenti normativi vanno ricercati nell’articolo 3, comma 1, lett. a), c) ed l), e nell’articolo 12 della già citata legge 71/2022.

Il testo licenziato dal Senato contiene già una disciplina di compromesso. Si tratta della connessione dell’esercizio del diritto di voto degli avvocati nei consigli chiamati ad esprimersi sulle valutazioni di professionalità dei magistrati al contenuto di eventuali precedenti segnalazioni su fatti specifici. Come pure dell’ancoraggio delle valutazioni di professionalità, anziché agli “andamenti statisticamente significativi nelle successive fasi e nei gradi del procedimento e del giudizio”, al rilevamento dei caratteri di grave anomalia in relazione all’esito degli atti e dei provvedimenti nelle fasi o nei gradi successivi.

Resta la chiara volontà di imprimere un’ulteriore spinta alla gerarchizzazione della magistratura, suddivisa fra magistrati di livello inferiore e superiore, con inevitabili effetti di burocratizzazione e standardizzazione della risposta di giustizia. Per il giudice, infatti, sarà meglio scegliere di appiattirsi sulle decisioni dei colleghi dei gradi successivi.

I magistrati non temono il fascicolo della performance, che ogni giudice aveva già. Questo oggi si arricchisce solo di giudizi idonei ad innescare le derive carrieristiche che la legge voleva evitare, spingendo i giudici a cercare di soddisfare le richieste del capo dell’ufficio per conseguire il miglior voto in pagella. Piccona la serenità del giudice se non condiziona la sua indipendenza l’attribuzione di un diritto di voto al difensore che al mattino siede in processo dinanzi a lui e di pomeriggio in consiglio giudiziario ad esprimersi sulla sua valutazione di professionalità.

A chi giova questo giudice spaventato, stritolato fra i numeri, i desiderata del capo del suo ufficio e il compiacimento del foro? Come questi interventi possano velocizzare il processo di un solo giorno è un mistero. Quanto al carrierismo, la riforma gli offre forse un percorso semplificato: il giudice che, avendo le migliori valutazioni, farà più strada sarà quello che si conformerà agli orientamenti dei colleghi dei gradi successivi, che compiacerà il capo dell’ufficio, che non scontenterà il foro. Come la separazione della carriere interferisca con l’efficienza del sistema penale è questione mai spiegata.

La narrazione dei giudici e dei pubblici ministeri delle medesime correnti di provenienza che concordano gli esiti dei processi non è che un’illazione senza concreto fondamento. Se la separazione delle carriere, accompagnata dall’attribuzione della determinazione dei criteri di priorità investigativa alle maggioranze politiche, è l’anticamera dell’attrazione del pm sotto il controllo dell’esecutivo, siamo al crepuscolo dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge. Se la giustizia non è un’azienda, le Procure della Repubblica non possono essere il luogo del politicamente corretto.

La Costituzione italiana ha voluto una magistratura autonoma dagli altri poteri dello Stato, composta da giudici inamovibili, che si distinguessero solo per funzioni. Ha voluto l’unità della giurisdizione requirente e giudicante e l’obbligatorietà dell’azione penale perché il pm non dovesse subordinare che alla legge le sue scelte investigative e si facesse così primo paladino dell’uguaglianza fra i cittadini davanti alla legge, scolpita fra i principi che sono a fondamento della Repubblica italiana.

Tali norme non hanno lo scopo di creare una casta ma sono lo statuto di una funzione di servizio nel superiore interesse dei cittadini. Sono questi i principi dello Stato di diritto che rischia di scalfire questa riforma, portatrice di un pericoloso messaggio culturale più che di significative modifiche. Non tutto si può sacrificare sull’altare dei finanziamenti pubblici. Non sempre basta che una riforma possa essere, infine, non incostituzionale.

 

Per approfondire, leggi gli interventi su Left di Giovanni Russo Spena e di Concetta Guarino

* L’autrice: Wilma Pagano è giudice presso la Prima sezione penale del Tribunale di Brescia e membro della Giunta esecutiva sezionale dell’Anm del distretto di Brescia

Bologna, 2 agosto 1980: la strage nera finanziata dalla P2

In poco più di due anni, considerando le lentezze della giustizia italiana, si sono conclusi i processi di primo grado nei confronti di altri due imputati per la strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, la più grave e sanguinosa nella storia della Repubblica: 85 morti e 200 feriti. Prima, il 9 gennaio 2020, dopo 52 udienze è arrivata dalla Corte d’assise di Bologna la condanna all’ergastolo per l’ex Nar (Nuclei armati rivoluzionari) Gilberto Cavallini, per concorso in strage con Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già sentenziati in via definitiva. Poi, il 6 aprile scorso, dopo 76 udienze, sempre la Corte d’assise di Bologna ha condannato all’ergastolo Paolo Bellini, anche lui accusato di essere un esecutore della strage, ex terrorista di Avanguardia nazionale, killer di ‘ndrangheta e per un periodo collaboratore di giustizia. Con lui sono stati anche condannati a sei anni per depistaggio l’ex capitano dei carabinieri Piergiorgio Segatel, e a quattro Domenico Catracchia (la richiesta era stata di tre anni e sei mesi), amministratore per conto del Sisde di immobili in via Gradoli a Roma, dove al n. 96 si era installata, tra il settembre e il novembre del 1981, una base segreta dei Nar. Catracchia avrebbe detto il falso negando di aver dato l’appartamento in affitto a un prestanome dell’organizzazione terroristica.

Nell’ambito di questo secondo procedimento giudiziario, fatto assai rilevante, la Procura generale di Bologna ha individuato come mandanti e finanziatori della strage: Licio Gelli, Umberto Ortolani, Umberto Federico D’Amato (per 20 anni al vertice dell’Ufficio affari riservati) e Mario Tedeschi (ex senatore missino e direttore de Il Borghese), tutti iscritti alla P2, non più perseguibili in quanto ormai defunti.

Va dato merito all’Associazione dei familiari delle vittime di essere stata all’origine di queste due nuove inchieste, avendo avviato negli anni precedenti un approfondito lavoro di ricerca, incrociando migliaia e migliaia di pagine di atti giudiziari, sempre analizzati separatamente e mai prima correlati fra loro, non solo relativi a Bologna, ma anche ai tanti processi per fatti di strage e terrorismo dal 1974 in avanti. Da questo lavoro è scaturito un dossier inoltrato alla magistratura nel luglio 2015 sul ruolo svolto nella strage da Gilberto Cavallini, ma anche sulle strutture clandestine che avevano operato, sui presunti mandanti e finanziatori degli stragisti.

Il filmato in Super 8 che inchioda Bellini
Paolo Bellini, 69 anni, era arrivato a questo processo vantando una lunghissima e quasi incredibile carriera criminale. Dopo aver assassinato il militante di Lotta continua Alceste Campanile, il 12 giugno 1975, ed essersi reso latitante all’estero dal 1976 per vari reati a suo carico, era tornato in Italia dal Brasile sotto falsa identità. Divenuto amico nel 1978 del procuratore di Bologna Ugo Sisti, che sarà poi titolare delle indagini sulla strage, proseguì la sua carriera come killer della ‘ndrangheta compiendo almeno dieci delitti, per poi collaborare con i carabinieri, ed in questa veste interloquire con la mafia siciliana, quella delle bombe del 1993 e degli attentati mortali a Falcone e Borsellino.

Decisiva per la sua condanna è stato un filmato amatoriale in Super 8, girato dal turista svizzero Harald Polzer pochi istanti dopo l’esplosione della bomba collocata nella sala d’aspetto, in cui il volto di Bellini era rimasto impresso. Si trovava lì. A riconoscerlo nelle immagini anche l’ex moglie che ha così fatto cadere l’alibi che alle 10.25, l’ora dello scoppio, lo collocava lontano dalla stazione.

Cavallini e quel legame coi carabinieri
Su Gilberto Cavallini erano stati invece riscontrati alcuni fatti di estrema rilevanza. Tra questi, i rapporti intercorsi fra le nuove leve del terrorismo nero, segnatamente i Nar, e i vecchi dirigenti di Ordine nuovo (fra cui Carlo Maria Maggi, condannato per la strage di piazza della Loggia del 1974 a Brescia) e di Avanguardia nazionale, ma soprattutto il possesso da parte dei Nar di decine di tesserini ufficiali dei carabinieri forniti dal colonnello Giuseppe Montanaro appartenente alla P2, nonché la disponibilità da parte di Cavallini, incredibile ma accertato, di numeri telefonici in uso all’ufficio Nato presso la sede della Sip (la società telefonica) di Milano.

Il conto corrente di Gelli
Ora, dalla documentazione raccolta dalla Procura generale di Bologna, che ha gestito l’atto di accusa nei confronti di Bellini e degli altri ex appartenenti ai carabinieri e ai servizi, si sarebbe arrivati alle prove dell’avvenuta regia da parte della P2 nell’organizzare la strage e gli innumerevoli successivi depistaggi, architettando false piste soprattutto internazionali per proteggere i Nar. In questo ambito sono stati acquisiti i riscontri dei finanziamenti dell’intera operazione, prima e dopo il 2 agosto 1980, elargiti a più riprese a partire dal febbraio 1979. Milioni di dollari (quasi 15) che, scandagliando gli atti del processo per il crac del Banco ambrosiano, la Guardia di finanza ha provato essere provenienti da conti correnti svizzeri di Licio Gelli.

Solo da uno di questi, presso la Banca Ubs di Ginevra (conto 525779-X.S.), rintracciato grazie a un manoscritto sequestrato allo stesso Gelli al momento del suo arresto in Svizzera, il 13 settembre del 1982, e significativamente denominato “Bologna”, sarebbero usciti cinque milioni di dollari. Uno di questi sarebbe stato addirittura consegnato in contanti dallo stesso Gelli in persona, pochi giorni prima della strage, ai neofascisti. I soldi sono quelli del Banco ambrosiano di Roberto Calvi, la “cassa” della P2, che sarebbero dunque serviti a finanziare anche i fascisti che eseguirono la strage, un commando più numeroso del solo gruppo di Fioravanti e Mambro, composto da elementi provenienti anche da Terza posizione e Avanguardia nazionale, tra loro Paolo Bellini.

Fascisti braccio armato della P2
Le nuove inchieste e le conclusioni dei processi a Cavallini e a Bellini dimostrerebbero che i Nar furono tutt’altro che un gruppo spontaneista, come solitamente descritti, ma letteralmente il braccio armato della P2, interni a quell’intreccio eversivo rappresentato dalla loggia segreta di Gelli, dai vertici dei servizi segreti e di alcuni apparati, con coperture nell’ambito dell’Alleanza atlantica. A riprova della loro natura la vicenda dei tesserini dei carabinieri, l’uso dei telefoni riservati della Nato, la vicenda del covo di via Gradoli, al civico 96, coperto dal Sisde.

Non solo Nar
A commettere la strage non furono solo i Nar. Quella mattina, queste le conclusioni processuali, alla stazione sarebbero stati presenti anche militanti di altre formazioni della destra eversiva come Terza posizione (Luigi Ciavardini e Sergio Picciafuoco) e Avanguardia nazionale, «cementate» da un fiume di denaro che arrivò dai conti svizzeri del Venerabile e dei suoi prestanome. Dietro di loro ancora una volta Ordine nuovo del Veneto, secondo la Procura generale «connivente», nonché «coinvolta nella fase di progettazione».

Due giorni prima: l’autobomba di Milano
Nella vicenda della strage di Bologna sempre in ombra e mai opportunamente approfondito è rimasto un attentato avvenuto poco più di 48 ore prima a Milano, quando mediante un’autobomba si colpì Palazzo Marino sede, del Consiglio comunale. All’1:55 del 30 luglio fu fatta saltare una Fiat 132 carica di esplosivo nelle vicinanze dell’ingresso riservato ai consiglieri. La vettura esplodeva disintegrandosi quasi completamente, causando gravi danni all’interno del palazzo con il danneggiamento di infissi e vetrate e lo scardinamento del cancello di ingresso. Davanti si formò un profondo cratere. Danneggiata fu anche la facciata della vicina chiesa di San Fedele, così alcuni stabili circostanti, nonché le vetture parcheggiate intorno. Parti della Fiat 132 vennero addirittura ritrovate sui tetti degli edifici che si affacciavano sulla piazza. Nessuna vittima.

Le conseguenze dell’esplosione sarebbero state anche maggiori se, oltre ai sei chili circa di polvere da mina tipo Anfo contenuti in un tubo di piombo, fossero esplosi altri due chili di esplosivo contenuti in un altro tubo e altri sei posti in una tanica, entrambi proiettati all’esterno della vettura e fortunatamente non deflagrati. Si era da poco conclusa la prima seduta del consiglio che aveva eletto la nuova giunta di sinistra, Pci-Psi. Il sindaco, Carlo Tognoli, solo da un attimo si era allontanato dal suo ufficio, al secondo piano. L’autobomba era stata collocata lì sotto a pochi metri. Una scheggia di lamiera fu ritrovata conficcata nell’apparecchio telefonico sulla sua scrivania. Solo per una manciata di minuti non si sfiorò un’ecatombe. Fu di fatto una mancata strage.

Furono indagati alcuni appartenenti al “Gruppo Giuliani”, una struttura eversiva di destra che si collocava in una sorta di crocevia eversivo tra i Nar, Costruiamo l’azione (erede della struttura di Ordine nuovo guidata da Paolo Signorelli) e la malavita comune. Ma non si arrivò a nulla, anche se in diverse deposizioni provenienti dall’interno degli ambienti neofascisti si confidò che l’attentato di Milano era stato «ideato» da Gilberto Cavallini. Tutti gli elementi raccolti portarono a concludere che l’attentato di Milano, con la volontà di fare strage di consiglieri comunali al varo di una giunta di sinistra, fosse parte del medesimo progetto eversivo, una prima tappa, ordita dalla P2 di Licio Gelli ed eseguita dai Nar.

* L’autore: Saverio Ferrari è direttore dell’Osservatorio democratico sulle nuove destre
* In foto: Il graffito “Muro della legalità” che commemora la strage di Bologna, nel sottopassaggio di via Triumvirato 

L’effetto spettatore e il video di Alika Ogochukwu

Il 13 marzo del 1964 a New York, nel quartiere New Gardens, Kitty Genovese rientrava a casa. Era tardi, le tre e un quarto di notte, e venne accoltellata Winston Moseley, che le corse dietro e la raggiunse in breve tempo, accoltellandola alla schiena per due volte. L’articolo del New York Times che raccontava quell’omicidio uscì parecchi giorni dopo (era il 27 marzo) e iniziava con la frase «Per più di mezz’ora trentotto rispettabili cittadini, rispettosi della legge, hanno osservato un killer inseguire e accoltellare una donna in tre assalti separati a Kew Gardens.» Successivamente le indagini che una dozzina di vicini (quasi certamente non i 38 citati dall’articolo del New York Times) avevano avuto modo di udire o osservare parti dell’attacco senza intervenire.

Gli psicologi sociali Bibb Latané e John Darley iniziarono una serie di ricerche sui motivi per cui non sempre le persone intervengono di fronte alle emergenze. Si chiama “effetto spettatore” e, come spiega bene Wikipedia, «è un fenomeno della psicologia sociale che si riferisce ai casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in difficoltà, in una situazione d’emergenza, quando sono presenti anche altre persone. La probabilità d’intervento è inversamente correlata al numero degli spettatori. In altre parole, maggiore è il numero degli astanti, minore è la probabilità che qualcuno di loro presterà aiuto. Numerose variabili intervengono nel determinare l’effetto spettatore. Esse comprendono l’ambiguità, la coesione sociale e la diffusione della responsabilità».

Le scoperte successive di Mark Levine e Simon Crowther (nel 2008) illustrarono che la dimensione crescente del gruppo inibiva l’intervento in uno scenario di violenza stradale quando gli spettatori erano estranei, ma incoraggiava l’intervento quando gli spettatori erano amici. Essi trovarono anche che quando l’identità di genere era rilevante la dimensione del gruppo incoraggiava l’intervento quando gli spettatori e la vittima condividevano l’appartenenza alla categoria sociale.

Alika Ogochukwu è stato ucciso a mani nude da Filippo Ferlazzo. Ha suscitato molta indignazione il fatto che Alika morisse mentre alcuni riprendevano con il proprio cellulare la scena e nessuno interveniva. Chi ha reso i neri “estranei” agli altri? Chi addirittura ha soffiato sulla guerra tra “noi” e “loro”? L’odio non nasce per caso. Quando poi intorno all’odio (e alla sua violenza) galleggia l’indifferenza significa che molti lo considerano fisiologico, nemmeno più una patologia. Così tutto è spiegato come semplice “esasperazione”. E invece c’è un criminale e una vittima. E ci sono dei mandanti morali.

Buon lunedì.

Non c’è solo il consumo di suolo. Ecco cosa minaccia il prezioso humus

Rice farmer Giovanni Daghetta gestures as he stands on on a completely dried rice field, in Mortara, Lomellina area, Italy, Monday, June 27, 2022. The worst drought Italy has faced in 70 years is thirsting the rice paddies of the river Po valley, jeopardizing the precious harvest of the Italian premium rice used for the tasty risotto. (AP Photo/Luca Bruno)

Il terreno è un habitat vitale, ricco di micro-organismi, come batteri, funghi, protozoi, nematodi, ma anche insetti, ragni, vermi, molluschi. Uno studio della Fao, dal titolo “State of Knowledge of Soil Biodiversity – Status, Challenges and Potentialities”, mostra come il suolo sia uno dei principali serbatoi di biodiversità del pianeta: circa un quarto delle specie si trova nel suolo e il 40% degli organismi viventi negli ecosistemi terrestri trascorre la propria vita, o parte di essa, nel suolo, inclusi rettili, anfibi, mammiferi. Il suolo inoltre ospita le radici delle piante. La presenza di funghi, piante e animali nel suolo e la loro decomposizione contribuisce alla formazione di humus e altre forme, più o meno complesse, di sostanza organica, che consentono la conservazione della biodiversità, l’agricoltura, il pascolo. La stabilità dei suoli e la sostanza organica influiscono sull’effetto serra, contribuendo a mitigare i cambiamenti climatici. La qualità del suolo, insomma, si ripercuote direttamente sulla qualità della vita degli esseri umani.

Il cemento avanza e divora il terreno, ma bisogna considerare quindi questo ulteriore problema complementare: il degrado del suolo. L’ultimo rapporto Ispra “Consumo di suolo, dinamiche territoriali e servizi ecosistemici” a cura del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (Snpa) evidenzia il record negativo di consumo del suolo nel 2021 – oltre 2 metri quadrati al secondo, una media di 19 ettari al giorno, il valore più alto negli ultimi dieci anni – parla infatti a più riprese del degrado del terreno.

Ma cosa significa degrado del suolo? Lo abbiamo chiesto a Lorenzo Ciccarese, responsabile Ispra dell’Area per la conservazione delle specie e degli habitat e per la gestione sostenibile delle aree agricole e forestali. Innanzitutto lo scienziato chiarisce: «Il suolo è presupposto di biodiversità in genere. E la biodiversità esiste se esistono dei suoli sani, vitali, resilienti, che hanno la capacità di rigenerare le funzioni che svolgono». È possibile, aggiunge, stabilire la qualità del suolo: «Ci sono dei caratteri del suolo che si misurano fisicamente e chimicamente. I caratteri fisici sono legati alla struttura, alla composizione, mentre invece i caratteri chimici sono legati soprattutto ai problemi di contaminazione oppure alla presenza di metalli pesanti o alla salinità. Insomma, quando si parla di caratteri fisici e chimici si definiscono tutti i parametri della qualità del suolo e quindi misurandoli, si può valutare come cambia la qualità dei suoli».

Quindi massima attenzione al consumo di suolo, che è un fatto importante a livello mondiale, continua Ciccarese, e che riguarda adesso soprattutto i Paesi in via di sviluppo – e anche l’Italia come dimostra il Rapporto Ispra – ma bisogna pure considerare il problema complementare del degrado del suolo. «Questo incide sulla sicurezza alimentare dell’intera umanità e investe la biodiversità in genere. La degradazione dei suoli significa infatti anche la degradazione dei servizi, dei benefici che il suolo fornisce alle persone e alla vita selvatica». Un tema, questo, che che è l’oggetto dell’ultimo rapporto dell’Ipbes, la piattaforma intergovernativa scientifica e politica sulla biodiversità e gli ecosistemi delle Nazioni Unite.

Quali sono i fattori della perdita di qualità dei suoli in Italia?
«Intanto va detto che l’agricoltura è il principale settore che subisce il consumo di suolo. Gran parte del territorio che viene consumato è suolo agricolo, e spesso proprio le aree agricole di maggiore qualità vengono utilizzate per costruire infrastrutture, strade. Sono quei terreni di pianura o nelle zone costiere dove si produce agricoltura ad alto reddito, orticultura, vigneti ecc.». Ma l’agricoltura, continua Ciccarese, «è anche un fattore di degrado dei suoli, costituisce, per così dire, un problema a sé stessa». Certo, ci sono anche altri fattori, come il deposito nei suoli agricoli di sostanze inquinanti provenienti dall’industria e dai trasporti, reflui urbani, per non parlare poi degli scarichi illegali di rifiuti.

Ma facciamo il punto sull’agricoltura.
Le monocolture intensive, l’uso indiscriminato di fertilizzanti, la mancanza di avvicendamento dei tipi di colture sono tra i fattori del progressivo impoverimento dei suoli.
«Questi sistemi monoculturali intensivi – grano su grano o granturco su granturco per molti anni – prima non erano possibili perché bisognava far riposare il terreno, intervenire con la letamazione, procedere all’avvicendamento, alla rotazione delle colture. L’agricoltura intensiva della rivoluzione verde, che ha avuto in Norman Borlaug il suo precursore, premio Nobel per la pace giustamente per aver lottato contro la fame nel mondo, ha creato però negli anni una serie di problemi. Non si può pensare che attraverso la meccanizzazione, l’uso di macchine pesanti, l’impiego di varietà genetiche molto produttive, le irrigazioni, le fertilizzazioni, si utilizzi il suolo come substrato privo di vita».

Anche perché poi si ottiene l’effetto opposto, dice l’esperto dell’Ispra riferendosi a casi italiani. «Quando i suoli perdono queste qualità fisiche e chimiche perdono la loro fertilità naturale e progressivamente non sono più disponibili alle colture agrarie, hanno perso la struttura e composizione e non portano più avanti le rese di una volta e quindi l’effetto che si produce è che questi terreni vengono abbandonati. Anche noi in Italia abbiamo delle aree dove si è verificato questo fenomeno. Importanti distretti ortofloricoli del Paese negli anni Novanta sono entrati in crisi, anche a causa di pratiche intensive di coltivazione, che prevedevano, tra le altre cose, l’uso di bromuro di metile con la fumigazione che, per combattere patogeni, parassiti ed erbe infestanti, abbatteva ogni forma vivente del suolo, dai batteri ai nematodi, dai semi delle piante spontanee agli insetti. Poi si è scoperto che questo gas, abbatteva la fertilità dei suoli, oltre ad arrivare in atmosfera e agire sugli strati dell’ozono. Naturalmente il bromuro di metile è stato proibito ed è interessante notare che la Convenzione di Stoccolma sugli inquinanti organici persistenti ha creato un protocollo per uscire dall’uso di queste sostanze che è servito in seguito come modello per accordi multilaterali come il protocollo di Kyoto».

Esistono soluzioni per ripristinare un suolo impoverito? «Ci sono segnali positivi poiché la comunità scientifica ha dato precise indicazioni che per funzionare dipendono ovviamente dalle scelte della politica. Ma intanto c’è da registrare il successo dell’agricoltura biologica che ha raggiunto oltre 2 milioni di ettari che rispetto alla superficie totale agricola rappresenta il 15 per cento. Una superficie in continua crescita anche se l’anno scorso c’è stata una battuta d’arresto». Da qui può venire un’azione di “restoration” dei suoli degradati, nell’ottica della Land degradation neutrality tra gli obiettivi dell’agenda 2030 delle Nazioni Unite.

Lorenzo Ciccarese entra nei dettagli: «Ci sono due strategie della commissione europea, una per la biodiversità e l’altra cosiddetta Farm to fork, che hanno un target in comune: ripristinare i suoli agricoli prevedendo di arrivare al 30 percento di agricoltura biologica entro il 2030 e dall’altra di ridurre il consumo di fertilizzanti e pesticidi e di ridurre il rischio associato al consumo dell’uso di pesticidi per gli esseri umani». Da esperto per la conservazione degli habitat naturali e della biodiversità lo scienziato spiega ancora: «Tra le misure, una importantissima, è quella di mantenere all’interno delle aziende agricole degli elementi di naturalità: i muretti a secco, i filari, le siepi, perché consentono agli impollinatori di trovare il loro habitat e di regolare il deflusso delle acque e di ridurre l’erosione del suolo. Tra gli effetti indiretti c’è anche quello di ridurre la concentrazione del capitale agrario, perché questi elementi di naturalità resistono o aumentano nelle piccole aziende che quindi sono associate anche alla sostenibilità, all’aver cura del territorio, al mantenimento dell’ambiente».

Veniamo all’emergenza del momento che stiamo vivendo: quanto la siccità può impoverire il terreno? «La prima cosa da dire è che i terreni che perdono di qualità sono anche i più vulnerabili ai cambiamenti climatici e dall’altra parte i cambiamenti climatici agiscono anche sulla qualità dei suoli perché, per esempio, con l’aumento della temperatura aumentano i processi ossidativi della sostanza organica dei terreni che ormai mediamente, in Italia, è intorno all’1 per cento. Per sostanza organica si intende l’humus, i composti del carbonio, micro organismi ecc. La sostanza organica è importante perché riduce l’evaporazione dei suoli, ne mantiene l’umidità. Quando questa sostanza organica viene ossidata viene restituita in atmosfera sotto forma di CO2 e si aggrava il problema del climate change. Questo è uno dei problemi aggiuntivi, tra i cosiddetti “positive feedback” messi in evidenza dall’Ipcc, che includono anche il rilascio di metano, un potente gas serra, e altri gas serra in atmosfera dal permafrost, il terreno perennemente ghiacciato che riguarda 1,5 miliardi di ettari a scala globale. Complessivamente il permafrost stiva circa il doppio della quantità di carbonio immagazzinato in atmosfera. Per effetto dell’aumento della temperatura questi terreni si stanno scongelando producendo altro metano che viene immesso in atmosfera».

«Il mio nome è Armfin. Sono il dio della potenza totale»

“Sto lavorando in questi giorni sulla guerra globale in Ucraina e sulla finanziarizzazione dell’acqua e della natura su scala mondiale. Ne è uscito, “effetto collaterale “, il testo a ruota libera qui di seguito”. Riccardo Petrella*

*-*

Chi sono
Vengo da tempi lontani, oscuri, generato da molte madri e tanti padri in ogni parte dell’universo.
All’origine ero solo forza. Per esistere e sopravvivere ho dovuto catturare la forza dalla quale ero nato. Così sono cresciuto rubando, l’energia alla vita: alle pietre, all’acqua, agli animali, alle piante, alla terra, al vento, al sole… ed oggi all’atomo, alle cellule, alla luce, all’intelletto. Una forza violenta, cioè che ho usato ed uso con tutti i mezzi per impormi alle altre forme di vita. Essa cresce senza sosta e senza limiti ogni qualvolta rubo la vita. Oggi, posseggo un’infinità di armi di tutti i tipi per conquistare, sottomettere, dirigere, controllare, sfruttare, distruggere, uccidere. Io sono, il dominante.
Sono poi diventato anche intelligenza, in particolare capacità di valutare e di misurare le cose in funzione della mia esistenza, e soprattutto della mia potenza. Quel che ha valore per me è il mio interesse, la mia utilità, la mia potenza di dominare perché “posso comprare tutto“, sono ed ho il denaro, posso ”essere proprietario esclusivo di tutto”, di tutte le cose materiali ed immateriali, e sottometterle ai miei voleri, desideri… Oggi Il denaro impera su tutto. Io sono, il padrone.
Il mio nome è bello, dice quello che sono: Armfin.

La mia potenza
Il mio codice identitario è Tuc. Significa Teologia universale capitalista, la concezione della vita alla base del mio culto e che dà senso e legittimità all’esistenza di ogni cosa. È una teologia perché parlo di me stesso, di Dio. È universale, perché non può essere altrimenti. La teologia non ha frontiere di tempo e di spazio. Essa è “ una”, e la storia umana tende “verso l’uno” (universale). E, infine, capitalista, perché i mezzi (il capitale) sono necessariamente appropriabili a titolo individuale per tradursi nella forza (violenza) conquistatrice e dominante della vita.

Le tavole della legge della Tuc sono semplici e inequivoche. Il fondamento di base è la proprietà privata di tutto ciò che è considerato utile, incluso ciò che è indispensabile per la vita. Secondo, tutto è merce, oggetto di scambio ed il suo valore è determinato dallo scambio sui mercati dei beni e dei servizi in funzione della loro utilità, soprattutto sui mercati finanziari, in particolare dei mercati borsistici speculativi (dove il denaro si ricava dal denaro e non dai beni e dai servizi). Da qui il terzo principio: le relazioni tra le persone sono per natura competitive, all’insegna della massimizzazione dell’utilità individuale o di gruppo e della sopravvivenza a scapito degli altri. Per essere competitivi, quarto principio, occorre essere innovatore più degli altri concorrenti, sul piano dei prezzi e della qualità dei beni e e dei servizi, grazie alle nuove tecnologie in continua e rapida mutazione.

Cosi, il conquistatore/dominante è colui che possiede la proprietà e controlla la produzione e l’uso delle tecnologie chiave sui mercati finanziari. Il quinto principio afferma, pertanto, che le attività economiche, in particolare quelle tecnoscientifiche e finanziarie devono essere liberate dai controlli degli Stati e dei poteri pubblici, devono essere, si dice, de-regolate e consentire, cosi, la realizzazione dell’ultimo principio fondamentale: formare una grande unica economia mondiale, attraverso mercati mondiali guidati da una finanza mondiale.
Solo coloro che professano e applicano il codice Tuc compiono l’indispensabile atto di fede e di credenza nella sudditanza e fedeltà alla mia potenza. Entrano nella mia grazia e meritano il mio riconoscimento e sostegno. Sono i miei amati sudditi. Gli altri sono i ribelli, i malefici, i miei nemici e non tollero la loro esistenza. Uso la mia potenza per fare loro la guerra, sterminarli, cancellarli dal mondo. Per quanto riguarda i sudditi deboli, ammalati, incapaci di contribuire alla mia potenza secondo le regole della Tuc, li abbandono alla loro sorte, anche se di tanto in tanto mando qualche aiuto al solo scopo di non mettere in difficoltà la riproduzione di un adeguato esercito di “risorse umane” necessario per la continua creazione dei mezzi indispensabili alla perennità della mia potenza.

Il mio figlio prediletto
Fra i sudditi della Terra, quello che preferisco, da più di un secolo, è uno Stato chiamato Usa (United States of America), la cui popolazione in stragrande maggioranza è fedele praticante dei principi, dei precetti e delle regole di vita secondo la Tuc.
È il Paese più armato al mondo. All’interno: malgrado alcuni limiti introdotti con la recente legge sulla vendita ed il possesso di armi da fuoco, è l’unico Paese che consente ai cittadini Usa, già dall’età di 18 anni, il diritto di possederle a titolo personale… Gli Usa dispongono del più potente arsenale di armi al mondo. Hanno 12 portaerei a trazione nucleare in attività in tutti mari del mondo, più del totale di portaerei degli altri Paesi messi insieme. Spendono, da soli, più del 40% dei 2,1 trilioni di dollari di spese militari mondiali nel 2021. Hanno circa 900 basi militari all’estero allorché la Russia ne ha tre e la Cina solo una. Da 70 anni sono in guerra continua in tutti i continenti. Fra i più importanti interventi nel corso degli ultimi anni figurano: Serbia (1999), Afghanistan (2001), Iraq (2003), Siria (2011), Libia (2011), Credono fermamente nella forza, perché, dicono, “only the strong will survive”. Sono convinti di essere i più forti per natura e di meritare di governare, dominare il mondo. Mi rassomigliano molto.

È il Paese più capitalizzato al mondo. Sulle 100 prime imprese al mondo in termini di capitalizzazione borsistica nel 2021, 59 sono statunitensi, 14 cinesi (fonte PwC). Sulle 30 più importanti imprese tecnologiche al mondo 22 sono Usa (fonte Wired). Lo stesso dicasi delle 9 su 15 più potenti imprese farmaceutiche mondiali. Gli Usa sono in testa alla classifica mondiale dei brevetti in vigore (diritti di proprietà intellettuale) con 3,5 milioni sui 15,9 milioni mondiali, seguiti dalla Cina, il Giappone, la Repubblica della Corea e dalla Germania, specie nel settore dell’intelligenza artificiale e nel settore militare (World intellectual property index 2020). I tre più potenti fondi d’investimento privati in Borsa sono americani: Black rock, Vanguard e State street Da solo, Black rock gestisce (2021) 9,5 trilioni di dollari, superiori al Pil della Germania e della Francia insieme. Possiede partecipazioni in più di 18mila imprese importanti al mondo. I tre costituiscono una terribile armata finanziaria di comando del mondo.

La principale Borsa al mondo è americana, la New York stock exchange (Nyse) alias “Wall street”. La principale borsa mondiale nel settore delle materie prime è americana, la Chicago mercantile exchange (Cme) che possiede, tra l’altro, il controllo azionario delle Borse di Parigi, Bruxelles, Milano… Gli Usa sono l’espressione umana più avanzata attuale del dominio del denaro.
Essi sono il simbolo della potenza in quanto forza/violenza. Nel solo 2021, sono state registrate negli Usa 45.010 morti e centinaia di migliaia di feriti da arma da fuoco (fonte: Everytown For Gun Safety ). Non v’è alcun dubbio, io sono il loro Dio. Non è per pura coincidenza che dal 1956 hanno scritto sulle loro monete e poi dal 1964 sulle loro banconote il motto ”In God we trust”.

PS Gli Stati Uniti non sono né il primo né il solo fedele suddito. Per limitarci al presente, la Russia è anche un buon esempio con qualche limite maggiore. I Paesi dell’Unione europea non sono male, stanno diventando sempre più rispettosi e promotori della Tuc, come anche l’India, la Turchia. Gli Usa sono convinti che il loro nuovo nemico sistemico è la Cina e faranno di tutto, con la guerra, per impedire di perdere il loro attuale dominio mondiale.

*L’autore: Riccardo Petrella è professore emerito dell’Università Cattolica di Lovanio, Belgio

In Italia black lives don’t matter

Lives black matters. Ci siamo mobilitati tutti nel 2020 per George Floyd ucciso senza pietà da un agente di polizia a Minneapolis, che lo aveva soffocato con un ginocchio sul collo. Nonostante Floyd gridasse «non posso respirare», nessuno è intervenuto. Sappiamo di lui per un video, tragico, che è diventato virale e ha suscitato indignazione internazionale. Un crimine inaccettabile, che negli Stati Uniti purtroppo non è raro: uccisioni simili si susseguono oltreoceano, dove il pregiudizio razzista è strutturale, è istituzionale, intrinseco alle forze di polizia. Ne abbiamo scritto molto su Left.

Ma anche da noi in Italia non è poi così diverso. Pochi giorni fa Alika Ogochukwu, 39 anni, è stato ucciso sulla pubblica piazza di Civitanova Marche senza che nessuno, di fatto, intervenisse. Per quattro interminabili minuti l’aggressore lo ha colpito con la stampella di Aika che era disabile e poi l’ha finito a mani nude.

I media in un primo momento hanno parlato di apprezzamenti di Alika rivolti alla ragazza dell’aggressore, alimentando l’idea razzista che “i neri vengono qua e si prendono le nostre donne”, come tante volte hanno scritto i quotidiani di destra.

Più probabilmente Alika si era avvicinato al suo killer come venditore ambulante e lui l’avrebbe ucciso per futili motivi, perché “insistente”. «Una reazione abnorme» ha detto il capo della Mobile di Macerata Matteo Luconi che sta conducendo le indagini coordinate dal procuratore Claudio Rastrelli. L’aggressore – emerge ora – aveva problemi psichiatrici e giustamente i familiari di Alika attraverso il loro legale si chiedono: «Se aveva un amministratore di sostegno, pare fosse la madre, perché non era vigilato?». Cercheremo di capire perché. Ma ci chiediamo anche se un determinato clima “culturale” possa contribuire a slatentizzare gravi patologie di singoli individui.

Siamo nelle Marche oggi governate da Fratelli d’Italia. La propaganda delle destre contro gli immigrati potrebbe aver armato la mano di uno squilibrato? Se così fosse non sarebbe la prima volta che accade, purtroppo.

A Fermo, nel 2016, ricordiamo il caso del nigeriano Emmanuel Chidi Nnamdi, ammazzato di botte perché aveva osato difendere la compagna apostrofata come “scimmia”.
A Macerata, nel 2018, l’esponente della Lega Luca Traini, simpatizzante di Forza Nuova,  aveva sparato su cittadini marchigiani dalla pelle nera ferendone 6.
Anni di fomentazione dell’odio verso gli stranieri, di decreti sicurezza firmati da Salvini, “giustificati” da invasioni inesistenti, di pregiudizio razziale, di proclami di Meloni che invoca blocchi navali contro i migranti. Ne abbiamo raccolto tragicamente i frutti. Nelle Marche, Regione a guida Fratelli d’Italia, la vita di un uomo nero vale zero, al massimo un video con il cellulare. Se l’uomo nero è per giunta disabile come Alika Ogochukwu, e chiede l’elemosina, viene preso a botte come se fosse un oggetto, fino alla morte, come se non fosse un essere umano.

Quel che colpisce di più al fondo non è solo la violenza di chi l’ha colpito, ma l’indifferenza generale dei più che non hanno reagito, se non girando un video, scattando una foto. Mi si dice giustamente, è normale aver paura. Certamente è così. Ma così come non può capitare a tutti gli esseri umani di uccidere. Non capita a tutti gli esseri umani di non reagire di fronte a una violenza, di fronte a 4 lunghissimi minuti durante i quali si poteva agire, eccome. Era uno bianco, violento, contro un uomo nero, disabile steso a terra inerme. Tocca un tasto doloroso e di verità Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International, quando scrive su Twitter: «Nella mente degli spettatori cineoperatori, nessuno dei quali intervenuto, pronta la giustificazione: Qualcosa avrà fatto. Appunto, perché nero».

Il razzismo strutturale, sistematico, è ben presente in Italia dove la destra fascistoide rischia di tornare al governo, rafforzando e giustificando questa tendenza, che già in passato ha prodotto eventi drammatici. Non solo nelle Regioni a guida leghista ma anche in Regioni a guida di centrosinistra come la Toscana dove la Lega e Fratelli d’Italia, strizzando l’occhio a forze di estrema destra come Foza Nuova e Casa Pound, si sono infiltrati nei quartieri: come non ricordare lo scioccante eccidio a Firenze di due cittadini senegalesi, Samb Modou e Diop Mor, avvenuto in piazza Dalmazia nel 2011 per mano dell’estremista di destra Gianluca Casseri? Come non ricordare Idy Diene, l’ambulante senegalese ucciso nel 2018 da Roberto Pirrone con sei colpi di pistola sul ponte Vespucci, sempre nella “pacifica” Firenze, dove il sindaco si preoccupò solo delle fioriere divelte, del decoro urbano scompigliato dalla comunità senegalese giustamente in rivolta?

La giustizia sociale non abita qui

Naples, Italy The Vele di Scampia, a large urban housing project built between 1962 and 1975 in the Scampia neighbourhood of Naples. Today the buildings are in a state of decay, although still occupied by poor residents. The Vele are a major centre for drug trafficking and illegal activities of the Camorra, the Napolitan maffia. © Reporters LaPresse -- Only Italy

L’ultimo rapporto Istat sulla povertà in Italia, pubblicato a giugno, ha riportato d’attualità il problema della casa che per lunghi anni è stato ignorato. In esso si stima che circa il 10% della popolazione sia in condizione di povertà assoluta non disponendo di un reddito adeguato, ma la condizione si aggrava fortemente per le famiglie in affitto in cui la povertà assoluta è oltre il 45%.
Recente è anche il convegno “Rilanciare le politiche pubbliche per l’abitare. Un impegno non più rinviabile” che si è tenuto il 14 luglio presso il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro, il Cnel, ed ha avuto tra i promotori il Forum Disuguaglianze diversità, diversi atenei, i tre sindacati confederali, organizzazioni di cittadinanza attiva e associazioni di inquilini (il video del convegno sarà disponibile sul sito del Cnel, nda).

Nel corso dell’incontro è stato presentato l’Osservatorio nazionale della condizione abitativa (Osca), recentemente istituito presso il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims), che – previsto dalla legge 431 del 1998 di riforma delle locazioni – doveva costituire una sede di confronto permanente tra tutti i soggetti interessati alle politiche abitative da cui far scaturire proposte condivise e che da ventidue anni attendeva di essere attivato.
Molti sono stati gli interventi interessanti che hanno proposto i vari aspetti del tema dell’abitazione pubblica. Aspetti umani e strutturali che per troppo tempo sono stati ignorati anche per la mancanza di un quadro di riferimento nazionale, che se conosciuti avrebbero rivelato tutta l’urgenza e la gravità del problema. Tra gli interventi, particolarmente significativo quello di Fabrizio Barca che ha legato situazione attuale e possibili ipotesi di intervento.

Questa ripresa di interesse interrompe un lungo periodo di abbandono del problema in cui è stata trascurata anche la gestione del patrimonio esistente, si sono aggravate le condizioni sociali, si è ridotta la disponibilità di reddito della popolazione ed è cambiata la composizione dei nuclei familiari sempre più costituiti da un solo individuo, fattori ignorati dalle normative che invece rispecchiano ancora la composizione delle famiglie del secondo dopoguerra, prevedendo ad esempio anche appartamenti per sei persone.
La questione delle abitazioni è un tema che ha legato, dall’Ottocento in poi, lo sviluppo industriale alle dinamiche economiche, sociali e urbanistiche di tante città in Europa e nel mondo. Per un lungo periodo per molti la possibilità di avere una casa è stata legata agli interventi di edilizia residenziale pubblica e tanta parte delle città moderne è costituita da case per i lavoratori.
Su questo tema è da poco uscito un racconto o un saggio, o forse tutte e due le cose assieme, Abitare stanca – La casa: un racconto politico di Sarah Gainsforth, per l’editore Effequ, che appare particolarmente interessante perché ripercorre la questione delle abitazioni fin dalle origini, legando la storia, l’economia, la politica, l’urbanistica con la…

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Ritratto del colonialismo in tutta la sua barbarie

Se Firenze avesse davvero voluto farci riflettere per immagini sui grandi processi del nostro tempo non avrebbe messo in vetrina, a Palazzo Vecchio, Il quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo e La pace di Antonio Canova. Con il pretesto di rappresentare i diritti dei lavoratori e il conflitto in Ucraina (il marmo originale di Canova è infatti a Kiev; il gesso a Possagno, dove comunque potevamo andarcelo a vedere senza problemi), è andata infatti in scena l’ennesima strumentalizzazione di capolavori sviliti della potenza eversiva del loro linguaggio e degradati a pretesti di merchandising da una politica incapace di affrontare le crisi con la cognizione che esse richiedono. Eppure tutti sappiamo quanto ci sia bisogno di immagini forti, in questi momenti. Ma soprattutto abbiamo bisogno di capire quel che stiamo guardando, e poi di capire il mondo attraverso quelle opere. Soprattutto se sono opere pubbliche, condivise, inclusive. Se stanno nelle piazze come nei musei. E ci permettono di coltivare cittadinanza e civiltà. Se davvero avesse voluto, Firenze avrebbe costruito un’altra narrazione intorno a quelle opere. Oppure ne avrebbe scelta un’altra, per giunta di un artista toscano, Giovanni Fattori. Un dipinto problematico, difficile, anche misterioso. Che però denuncia le contraddizioni del colonialismo italiano e la presunzione dell’Occidente nel momento stesso del loro farsi: l’Episodio della battaglia di Kassala (1906), ora alla Galleria d’arte moderna di Novara. E per questo ci offre uno sguardo alternativo su scontri di civiltà e superiorità di modelli culturali. Ma per guadagnarlo ci serve la ricerca, non la vetrina.

Per ragionare su questi temi (tanto che il dipinto di Fattori ne è punto d’arrivo) molti stimoli vengono ora da un volume di Carmen Belmonte, Arte e colonialismo in Italia, ottimamente illustrato e montato da Marsilio per la collana di saggi del Kunsthistorisches Institut di Firenze. Belmonte lavora da anni sull’argomento, tanto da essere diventata, malgrado la giovane età, una specialista internazionale delle ricadute figurative del colonialismo. La sua acribia metodologica, abile a leggere storicamente i documenti figurativi, restituisce alla storia dell’arte un profilo propositivo e non certo ancillare della storia politica. La chiave di lettura è tutta nel sottotitolo, che inquadra quel che nel titolo potrebbe sembrare temerario: Oggetti, immagini, migrazioni (1882-1906). Sotto la lente sono infatti gli anni in cui si costruisce un’immagine dell’avventura coloniale italiana, fitta di stereotipi razzisti da un lato ed eroici dall’altro, che frutterà in seguito alimentando dapprima il discorso pubblico sull’invasione della Libia e la sua successiva riconquista, e poi la guerra di aggressione fascista in Etiopia con i suoi strascichi, che ancora non si…

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SOMMARIO

Breve guida al voto per l’elettore di sinistra

La topologia politica della sinistra in vista delle elezioni del 25 settembre appare più che mai complessa. Il perimetro delle varie alleanze e delle coalizioni deve essere fissato entro il 22 agosto, ossia il termine in cui andranno consegnate le liste dei candidati. In attesa di questa scadenza abbiamo fatto una ricognizione sugli attuali equilibri, per provare a orientarci – insieme a chi legge – nel dedalo degli schieramenti.

Il Pd “argine alla Meloni” e le porte sbarrate al M5s
Il Partito democratico si presenta alle elezioni con uno schema di gioco piuttosto chiaro: comporre un grande rassemblement repubblicano capace di presentarsi come argine anti-Meloni. Ciò che è molto meno definita, però, è la formazione pronta a scendere nel cosiddetto Campo largo. Partiamo dall’unica certezza: il Movimento cinque stelle, a meno di svolte a questo punto piuttosto clamorose (ma comunque non impossibili), non ne farà parte. Il segretario del Pd Letta – il cui partito può contare secondo le ultime rilevazioni Agi YouTrend sul 23% circa dei consensi – è stato chiaro: la rottura con i 5S è «irreversibile», concetto ribadito a più riprese nei giorni scorsi. Per Letta la scelta dei pentastellati del 20 luglio scorso di non votare la fiducia al governo Draghi rappresenta una cesura netta nella storia di quello che è stato l’asse principale dell’alleanza giallorossa. Dal canto suo, in un’intervista rilasciata a Tpi, il presidente del M5s ha dichiarato che «un dialogo col Pd non lo escludiamo», precisando che «ci saranno le premesse solo se il Pd vorrà schierarsi a favore dei più deboli, del lavoro, dei più giovani, delle donne». Con una nota, il movimento ha però chiarito a stretto giro che non intendeva «riaprire alla possibilità di un’alleanza col Pd in questa campagna elettorale». Insomma le porte ai 5Stelle – quotati attualmente al 10% circa secondo i sondaggi – restano sbarrate e Conte ormai non vi bussa più con grande convinzione.

Calenda-Bonino, la calamita per i delusi del centrodestra
Se si guarda verso il centro, il percorso verso l’alleanza tra Pd e Azione / +Europa, due partiti alleati da alcuni mesi e guidati rispettivamente da Carlo Calenda ed Emma Bonino, sembra piuttosto in discesa. Calenda – che nel frattempo ha arruolato tra le sue fila le ministre Maria Stella Gelmini e Mara Carfagna, in uscita dal Forza Italia – dovrebbe sciogliere la riserva sull’intesa coi dem entro l’inizio della prossima settimana. Secondo un retroscena del Corriere, il leader di Azione avrebbe commissionato un sondaggio che premia la scelta dell’unità coi dem. Una scelta su cui i quadri di +Europa sembra non abbiano dubbi. A differenza dell’ala sinistra dei vertici del Nazareno, che sottolineano – senza però dirlo a voce troppo alta – la difficoltà di amalgamare le posizioni liberiste di Calenda con l’urgenza di proteggere le classi più vulnerabili e di mettere al centro delle politiche della nuova legislatura il lavoro e i servizi pubblici. Un altro ostacolo all’intesa tra Calenda e i dem è poi rappresentato dal ruolo che il leader di Azione avrà in questa campagna elettorale e poi nel futuro politico del Campo largo: uno da comprimario, al pari di Fratoianni di Sinistra italiana o di Di Maio di Insieme per il futuro, potrebbe stargli stretto, vista la dote di preferenze per il cartello Azione / +Europa – non certo straripante ma comunque importante in questo scenario – che si aggira intorno al 5% e soprattutto la capacità di Calenda di calamitare il voto dei moderati delusi dalla torsione populista e destrorsa di Forza Italia, una capacità che ingolosisce i dem.

Di Maio e le truppe dei “civici” a difesa del Campo largo
Certamente più sicuro pare essere il patto tra il Partito democratico e la nuova compagine capitanata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, Insieme per il futuro, nata in seguito alla scissione con i 5Stelle alla vigilia della caduta del governo Draghi. A sostenere la lista di Di Maio, una rete di sindaci e liste civiche dem di tutto il Paese. Tra i primi cittadini, in testa, ci sarebbero dovuti essere quello di Milano Beppe Sala e l’ex sindaco di Parma – e pure ex M5s come Di Maio – Federico Pizzarotti. Mentre il primo dei due sembra, pur senza particolare entusiasmo, aver concesso la sua benedizione alla lista, Pizzarotti ha invece deciso di dare vita ad una propria lista di “civici”. Si chiamerà “Lista civica nazionale” e sarà composta da «sindaci, amministratori locali, associazioni e promotori dei più vivaci e liberi progetti del territorio».

Il partito (sempre più) di Renzi corre da solo
E Renzi? Sebbene il leader di Italia viva abbia già annunciato che «correrà da solo» – «al momento assolutamente sì» ha dichiarato ai microfoni del Tg5 – Letta starebbe spingendo affinché il partito si allei con Azione. Tra le posizioni delle due forze politiche, d’altronde, sono molti i punti di convergenza. Ma, ad oltre otto anni dallo «stai sereno» con cui Renzi dissimulava le intenzioni poi realizzate di spodestare Letta da Palazzo Chigi, l’intesa tra i due leader sembra ancora complessa. Per ora, Renzi e i suoi puntano ad ottenere il 5% da soli, non a caso il titolo della prossima Leopolda che si terrà ad inizio settembre sarà “Dammi il cinque”. Una percentuale dalla quale, stando i sondaggi, Italia viva è ancora distante. I voti dei renziani, però, fanno comunque gola ai dem, specie quelli in regioni in cui Italia viva è particolarmente radicata, vedi la Toscana. Nel frattempo, Renzi ha presentato un nuovo simbolo per il partito in vista delle elezioni: una R rovesciata che sovrasta la scritta “Renzi” (grande) e “Italia viva” (piccola).

I rossoverdi che vorrebbero spostare a sinistra i dem
Se volgiamo lo sguardo a sinistra, Articolo uno, il partito guidato dal ministro della Salute Roberto Speranza, ha accettato senza esitazione di aderire al Campo largo. Mentre è ancora in corso una trattativa, che pare comunque abbia buone possibilità di andare a buon fine, con Nuove energie, il ticket tra Sinistra italiana di Nicola Fratoianni ed Europa verde di Angelo Bonelli ed Eleonora Evi. L’alleanza rosso-verde, presentatasi ad inizio luglio con una foto di gruppo dei partecipanti al lancio con una anguria in mano (che rappresenta il mix dei due colori simbolo dell’intesa), si è posta sin da subito come obiettivo un riequilibrio del futuro programma del Campo largo verso sinistra, mettendo al centro ecologismo, pacifismo e lotta alle disuguaglianze. Entrambe le forze, Sinistra italiana e Europa verde, avevano scelto di non sostenere il governo Draghi. Secondo i sondaggi potrebbero raccogliere il 4% circa dei consensi. «L’agenda di Calenda è assolutamente incompatibile con la storia politica democratica e verde di sinistra» ha dichiarato Angelo Bonelli nei giorni scorsi. «Col programma di Calenda non ho nulla a cui vedere», ha aggiunto Nicola Fratoianni, che ha insistito nel rivolgersi ai «principali protagonisti, Enrico Letta e Giuseppe Conte» perché «perché si ricostruisca un filo del dialogo». Filo che ormai, però, sembra spezzato. Da parte sua, Conte non sarebbe indifferente all’ipotesi di una alleanza coi rossoverdi, al fine di correre insieme a loro in proprio, all’esterno del Campo largo. Tra Conte e Fratoianni in questi giorni i contatti sarebbero stati serrati, e tutto ancora potrebbe succedere, ma al momento l’ipotesi di una coalizione “semaforo” rosso-giallo-verde sembra ancora complicata.

L’alternativa “à la francese” dell’Unione popolare
Con un chiaro riferimento al progetto politico di Jean-Luc Melenchon, che in Francia è riuscito a mettere in difficoltà il partito del presidente Macron alle scorse legislative, ad inizio luglio Rifondazione comunista, Potere al popolo e DeMa – guidati rispettivamente da Maurizio Acerbo, Giuliano Granato e Marta Collot, e Luigi De Magistris – si sono alleati nel progetto Unione popolare, in vista delle prossime politiche. “Mai col Pd” è stato sin da subito uno degli slogan della coalizione. «Vogliamo arruolare i non allineati, quelli che non stanno nel sistema, i rassegnati, gli arrabbiati, entusiasmare chi non ci crede più» aveva detto l’ex sindaco di Napoli ed ex magistrato De Magistris al lancio dell’iniziativa. Il progetto di Unione popolare si incardina in una prospettiva di sinistra radicale, che rinuncia agli inevitabili compromessi dei “rossoverdi”. La platea a cui Unione popolare si rivolge è «il fronte dei non allineati», ha dichiarato De Magistris a Repubblica: «Ci sono i pacifisti non rappresentati, gli ambientalisti non rappresentati, la sinistra non rappresentata, i delusi delle involuzioni dei 5 stelle, gli astenuti». Sebbene il progetto si rivolga dichiaratamente a chi non ha apprezzato le giravolte del M5s, lo stesso movimento di Conte è stato corteggiato da Rifondazione e da De Magistris, la cui elezione all’Europarlamento nel 2009 nelle liste dell’Italia dei valori ebbe peraltro la benedizione di Beppe Grillo. «Il punto di contatto è quello che ha detto Di Battista – ha detto ancora l’ex magistrato a Repubblica – cioè vedere se ci sono le condizioni per riportare l’M5s alle origini. A me questa operazione può interessare». Sembra però interessare meno a Potere al popolo, più scettica nell’aprire le porte al partito che ha governato con Salvini e Draghi e approvato i decreti Sicurezza.

La proposta di coalizione tra gli anticapitalisti radicali
Nel frattempo, il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando ha lanciato una proposta, intitolata “Per una presenza di classe, anticapitalista e internazionalista alle elezioni politiche” e indirizzata a: Fronte della gioventù comunista, Sinistra anticapitalista, Sinistra classe Rivoluzione, Tendenza internazionalista rivoluzionaria. Nel documento si tiene conto delle differenze tra queste forze politiche, ma si sottolinea che esse convivono «con alcuni elementi comuni: la centralità del riferimento di classe, l’anticapitalismo e non il semplice “antiliberismo”, il richiamo all’internazionalismo contro ogni forma di sovranismo». Nei confronti dell’Unione popolare il documento non risparmia critiche: «Prc e Pap – si legge – si prostrano ai piedi di De Magistris, che cerca di costruire il proprio partito personale usando la loro manovalanza. L’Unione popolare è il vecchio canovaccio delle liste civiche di tradizione Ingroia».

Ingroia e l’ammucchiata poco “rossa” e molto “bruna”
Nel frattempo proprio Antonio Ingroia – ex magistrato e leader della sinistra alle politiche del 2013 – con la sua Azione civile ha deciso di correre per le politiche all’interno di una coalizione composta da Partito comunista (la formazione di Marco Rizzo), Patria socialista, Ancora Italia, Riconquistare l’Italia e molti altri soggetti cosiddetti antisistema. Il contenitore si chiamerà “Italia sovrana e popolare” e unisce lotte diverse tra loro, da quella contro l’Euro a quella contro il green pass e l’obbligo vaccinale. Trait d’union, una lettura rossobruna del mondo, che unisce elementi di “sinistra” ad altri di destra anche estrema. A loro potrebbero unirsi forse i transfughi dal 5S di Alternativa e Italexit di Gianluigi Paragone, quotata intorno al 2,8%. Tra i sostenitori della lista anche Francesca Donato, ex leghista nota per le sue sparate contro i migranti, contro la “dittatura sanitaria” e contro le sanzioni a Vladimir Putin.