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Il Senegal al voto, ma quanti diritti negati soprattutto alle donne

Le Monde l’ha chiamata “diplomazia dei montoni”. Prima la tregua che Ousmane Sonko, leader senegalese del partito di opposizione ha annunciato alla stampa il 30 giugno scorso, in virtù della festa religiosa della Tabaski e dello svolgimento degli esami scolastici, poi il regalo dei tre animali di razza che la Francia ha fatto recapitare il 6 luglio scorso al Ministro senegalese dell’allevamento. La festa del sacrificio è una delle più importanti ricorrenze della religione islamica e quest’anno è stata celebrata tra il 9 e il 10 luglio. In Senegal questa festa prende il nome di Tabaski. Le famiglie si riuniscono dopo la preghiera, il Paese si ferma per giorni.

Le manifestazioni rischiavano di rovinare una delle feste più sentite dell’anno, così come gli affari a essa collegati, vendita dei montoni in primis. Le tensioni però restano, il Paese è diviso. Le discussioni in strada e sui taxi sono ovunque animate e accese, in vista delle elezioni legislative del 31 luglio.

La coalizione di opposizione Yewwi askan wi, guidata dal leader del partito Pastef, Ousmane Sonko, ha indetto già diverse manifestazioni dopo che a maggio si è vista rigettare la richiesta di partecipare con la propria lista al turno elettorale, per non aver rispettato la legge sulla parità di genere negli organi elettivi e semi elettivi del 2010.
Il Paese, considerato un’isola di stabilità in Africa occidentale, aveva già conosciuto gravi tensioni nel marzo del 2021 quando, dopo l’arresto dello stesso Sonko per “disturbo dell’ordine pubblico” mentre si recava in tribunale per rispondere delle accuse di stupro, mosse contro di lui da una dipendente di un salone di bellezza, si sono contati quattro morti negli scontri con le forze di polizia.

«Se il governo deciderà di eliminare la lista di Yewwi askan wi dalle elezioni legislative, allora in Senegal non ci saranno elezioni» aveva tuonato Sonko durante la prima manifestazione del 8 giugno, a cui ne è seguita un’altra il 17 giugno, ancora più affollata. Molto rumorosa e partecipata anche l’iniziativa delle casseroles (“pentolata”), annunciata per tutti i mercoledì alle 20. Ci ritroviamo nelle vie di una delle periferie di Dakar più dense e problematiche, Guédiawaye, mentre è in corso la prima protesta. Moltissimi giovani scendono in strada, urlando e agitando coperchi e battendo con mestoli di legno su pentole. Per lo più maschi, alcuni giovanissimi, bloccano il traffico, accerchiano le auto e quando ci vedono riprendere si avvicinano per gridare la loro rabbia e determinazione urlando «siamo stanchi, vogliamo un cambiamento subito!».

Un ragazzo su un motorino arriva apparentemente non contento delle foto e delle riprese, ma poi ci ferma e intona rappando in wolof un canto di protesta. Yewwi askan wi, il nome scelto per la lista di coalizione significa “liberare il popolo” in wolof, ed è composta oltre che dal partito di Sonko anche da Wallu Sénégal, dell’ex presidente Abdoulaye Wade. Il malcontento è generale e, nonostante il Paese sia apparentemente in forte espansione (dal 2014 ha conosciuto tassi di crescita del 6%), le disuguaglianze aumentano e il livello dei servizi peggiora di anno in anno. La scuola e la sanità pubblica soffrono di una cronica mancanza di risorse, il personale è scarso e sottopagato e il settore privato in questi ambiti è invece in forte espansione.

Già prima dell’inizio della guerra in Ucraina, i prezzi del carburante così come di alcuni generi alimentari stavano aumentando. La pandemia, il conflitto in Mali e le infiltrazioni jihadiste nell’intera regione del Sahel stanno incidendo sulla situazione socio economica del Senegal. Le proteste si innescano quindi in risposta a una condizione di precarietà che colpisce soprattutto la popolazione giovanile. In Senegal due terzi della popolazione ha meno di 30 anni.

«La decisione di sospendere le manifestazioni non è dovuta ai divieti dei prefetti» ha dichiarato Sondò, che aveva annunciato che le manifestazioni si sarebbero tenute indipendentemente dal parere delle autorità. Numerosi gli appelli della società civile che denunciano i toni violenti del dibattito politico e chiedono al governo di «porre fine alle gravi violazioni del diritto di riunione pacifica».

Una società civile però messa sotto accusa da Hamidou Anne, opinionista e saggista, che nelle pagine di SenePlus ha parlato di «società civile delle elezioni» attiva soprattutto sui social e ha allertato del pericolo di estremismo. «Ogni schieramento ha i propri rampolli sul web, che sputano il loro veleno in barba alla decenza e alla legge. Poiché la maggior parte di loro non ha né istruzione né progetti, i politici senegalesi vogliono trasmettere la loro mediocrità ai giovani e alle prossime generazioni» denuncia l’intellettuale. Certo è che le accuse e contraccuse, le polemiche delle due parti, hanno messo in secondo piano la questione della parità di genere nelle liste, così come è accaduto per le accuse di stupro a carico di Sonko a suo tempo.

Se a questo si aggiunge che, sempre il leader dell’opposizione, si è messo alla testa della manifestazione per la criminalizzazione dell’omosessualità a febbraio 2022 e che non ha condannato l’aggressione omofoba ai danni di un cittadino statunitense avvenuta nei giorni della polemica tra Senegal e Francia sul calciatore del Paris Saint-Germain, il senegalese Idrissa Gana Gueye, accusato di essersi rifiutato di indossare una maglia arcobaleno durante una partita in Francia e di unirsi quindi unirsi alla lotta contro l’omofobia, capiamo come la parità di genere, i diritti civili e le istanze più progressiste restino fuori dal dibattito politico. Permane una visione molto maschile e patriarcale della politica e della società, mentre sui territori si fanno sempre più strada istanze femminili e femministe.

Il collettivo Dafa Doy che si è formato dopo lo stupro e l’omicidio, nel 2019, di Binta Camara, 23 anni, e di altri casi di violenza sessuale, ha organizzato proteste, sit-in, manifestazioni e insieme ad altre associazioni si è battuto per la legge che inasprisce le pene per i reati di stupro e pedofilia. «Dovremmo essere tutti femministi», affermava il Dottor Abdoulaye Diop, ginecologo senegalese e influencer, ospitato nella rubrica Adelphité, lanciata dall’Agenzia Italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics), ufficio di Dakar. Discutere di salute sessuale è un tabù nelle famiglie e il tasso di utilizzo dei servizi di salute sessuale e riproduttiva è ovunque molto basso, attorno al 30% nelle aree rurali. Il dottor Diop utilizza i social network per informare e sensibilizzare proprio sulla salute delle donne e per combattere le pratiche nefaste come le mutilazioni dei genitali femminili.

«C’è un grosso lavoro da fare in tema di conoscenza dei propri diritti e noi siamo qui per questo» afferma Josephine Ndao, avvocata della Boutique de droit di Sédhiou. L’Associazione delle giuriste senegalesi (Ajs) ha aperto cinque sportelli di ascolto e assistenza legale in tutto il Senegal. Sédhiou si estende tra l’enclave del Gambia e della Guinea Bissau ed è una delle regioni “rosse” e non per orientamento politico, ma rispetto al tasso di povertà, violenza sulla donne e basso tasso di scolarizzazione. Sono proprio la povertà, la mancanza di educazione sessuale e la promiscuità alcuni dei fattori che Josephine Ndao attribuisce all’alto tasso di gravidanze e matrimoni precoci e l’estensione della pratica delle mutilazioni genitali femminili nell’area. Insieme all’Associazione delle giuriste, Cospe lavora nella regione grazie al contributo dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo, e insieme alla Region médical e al Centro salute globale della regione Toscana, proprio sui diritti sessuali e riproduttivi delle donne dell’area. Tre i distretti interessati, più di 120 le donne già coinvolte in un processo di individuazione dei principali problemi legati alla riproduzione e ai diritti della salute delle donne, come la questione della pianificazione familiare, i parti a casa, la mancanza di autonomia decisionale e le violenze.

Le boutiques, così come le riunioni tra donne, facilitate dal progetto, sono luoghi protetti dove potersi confidare e apprendere dallo scambio. Le attiviste e i collettivi femministi che agiscono sul web sanno bene l’importanza di esprimersi in confidenza e talvolta nell’anonimato, in una società dove vige la sutura (discrezione). Un lavoro prezioso e costante quello di Josephine e delle altre avvocate dell’Ajs, che prendono in carico i casi fin dalle prime segnalazioni, valutano se sia meglio una mediazione familiare, nei casi meno gravi, mentre in quelli violenti procedono d’ufficio alla segnalazione al procuratore, oltre ad accompagnare all’ospedale e attivare la rete di sostegno psico sociale per le vittime. Certo in quest’area c’è un deficit sia d’infrastrutture che di attrezzature e di personale qualificato rispetto a quanto stabilito dalle norme nazionali e dell’OMS. Il personale medico non è numericamente sufficiente e alcune qualifiche non sono disponibili. Il deficit riguarda principalmente i profili specializzati, soprattutto in ambito pediatrico e ginecologico. Il sistema sanitario ha enorme difficoltà ad attirare a Sédhiou personale qualificato a causa dell’isolamento della regione e delle deboli opportunità economiche.

A maggio scorso le ostetriche sono scese in strada per protestare rispetto alle condizioni di lavoro dopo la morte in un ospedale pubblico di Louga di una donna incinta che aveva atteso invano con grande dolore un parto cesareo e la cui tragica sorte ha sconvolto il Paese. Tre ostetriche sono state condannate per negligenza e questo ha scatenato la protesta della categoria, che ha messo in luce tutte le carenze del sistema sanitario pubblico in Senegal. La salute delle donne sembra quindi essere la cartina di tornasole per capire lo stato di salute dell’intero Paese, attraversato da sempre maggiori contraddizioni, diseguaglianze, economiche e sociali, dove la rappresentanza femminile negli organi elettivi – diventata legge – fa fatica a diventare un diritto sostanziale oltre che formale. Nelle elezioni locali del 2014, le prime dopo l’adozione della legge sulla parità, la percentuale di donne elette è passata dal 15,9% del 2009 al 47% del 2015, ovvero 14.000 donne su 29.787 eletti. La legge sulla parità ha suscitato molte speranze quando è stata adottata nel 2010. A più di 10 anni dalla sua adozione, la legge fatica a essere applicata efficacemente.

Permangono forti disparità nella rappresentanza delle donne nei comitati dell’Assemblea nazionale, a livello regionale e di governo locale, e in altre sezioni della funzione pubblica e del sistema politico e amministrativo in generale. Secondo il Women’s leadership caucus (Wlc), fino a ottobre 2021 il 98% dei sindaci del Paese era guidato da uomini. Le elezioni amministrative di gennaio 2022 non hanno modificato sostanzialmente il quadro ma alcune novità importanti si sono registrate. Sempre nella regione di Sédhiou dai gruppi di donne con cui lavora COSPE ben due vice sindache sono state elette a riprova del riconoscimento del radicamento sul territorio di questi soggetti non formali. «Da quando ho iniziato a impegnarmi nei gruppi giovanili a quando ho guidato i groupement di donne della mia zona, mi sono sempre occupata dei bisogni delle persone. Non è questo far politica?» afferma la vice sindaca di Tanaff, villaggio al confine con la Guinea Bissau. La parità di genere è un imperativo economico oltre a un diritto fondamentale, scrivono sui social, i collettivi femministi. Purtroppo, dopo la tregua della Tabaski, e negli ultimi giorni prima delle elezioni del 31 luglio, la propaganda urlata è tornata a prevalere rispetto a un dibattito necessario sui cambiamenti profondi che sta vivendo il Paese e rispetto alle istanze portate dai movimenti femministi, dai collettivi contro la precarietà, dalle associazioni culturali, oscurati e invisibili costruttori di futuro.

*L’autrice: Anna Meli è cooperante di Cospe onlus e vice presidente della Carta di Roma

Un governo in carica solo per gli affari ricorrenti

20-07-2022 Roma (Italia) Politica Senato - Comunicazioni del Presidente del Consiglio Mario Draghi Nella foto Luigi Di Maio, Mario Draghi, Lorenzo Guerini 20-07-2022 Rome (Italy) - Government crisis - Senate - Communications from the Prime Minister Mario Draghi In the pic Luigi Di Maio, Mario Draghi, Lorenzo Guerini

Figurarsi se il ministro della guerra non rientra nell’ordinaria amministrazione di un governo che formalmente dovrebbe limitarsi solo agli “affari correnti”. O forse è una confessione: che Guerini aumenti le spese militari è una scena già vista così tante volte che ormai dalle parti del Parlamento (e della stampa) non ci fa più caso nessuno.

Così tra gli affari ricorrenti rientra anche un miliardo e duecento milioni in più che l’Italia spenderà per le sue Forze armate. Il Documento programmatico triennale firmato dal ministro Lorenzo Guerini porta la spesa per il 2022 a 18 miliardi, contro i 16,8 dello scorso anno. Come racconta Floriana Bulfon su Repubblica «la lista della spesa vede imporsi il futuro caccia Tempest, realizzato con la Gran Bretagna e la Svezia: un velivolo chiamato di sesta generazione a cui vengono destinati subito 200 milioni in più. C’è poi il piano per una serie di veicoli corazzati che vede crescere la dote di oltre un miliardo e mezzo: si prevede un investimento di 3,74 miliardi in tredici anni. Questo programma è presentato in chiave di collaborazione europea e influenzerà le trattative per la vendita di Oto Melara: nel Documento si specifica che le risorse serviranno pure per gli studi del nuovo “carro armato europeo”. Un altro elemento chiave è la task force navale per gli interventi dei “marines” italiani: la brigata San Marco della Marina e i Lagunari dell’Esercito. C’è uno stanziamento di 1.200 milioni per costruire due navi anfibie per le operazioni di sbarco. Le altre voci più rilevanti riguardano le quote annuali per i sottomarini U-212 (510 milioni), gli intercettori Eurofighter (1,4 miliardi) e i caccia invisibili F35 (1.270 milioni)».

Ma nel pieno della crisi climatica e di una guerra finanziata dai proventi di gas e petrolio, il governo italiano ha aumentato la spesa per le missioni militari a protezione delle fonti fossili. Lo denuncia Greenpeace: in un nuovo rapporto pubblicato ieri, Greenpeace Italia svela che nel 2022 la militarizzazione della nostra “sicurezza energetica” ci costerà 870 milioni di euro, il 9% in più rispetto al 2021 e ben il 65% in più  rispetto al 2019. Nel complesso, si tratta di una cifra pari al 71% dell’intero budget per le missioni militari del 2022.

La relazione governativa sulle missioni in corso, approvata ieri dalle commissioni Esteri e Difesa della Camera e ancora all’esame del Senato insieme alla delibera sulle nuove missioni, rimanda ripetutamente alla sicurezza dei nostri approvvigionamenti di fonti fossili. Anche i due ministri competenti, Lorenzo Guerini (Difesa) e Luigi Di Maio (Esteri), nella loro audizione davanti alle commissioni riunite del 26 luglio hanno citato più volte la questione energetica. In particolare, Guerini ha dichiarato che «l’impiego delle Forze armate nelle missioni internazionali» punta anche a prevenire e gestire «scenari di crisi conseguenti tanto alle minacce convenzionali, quanto a quelle ibride», come «le restrizioni all’approvvigionamento energetico».

Che l’Italia intendesse rispondere alla guerra in Ucraina puntando su una militarizzazione della diversificazione energetica era già stato anticipato da Guerini in occasione della sua comunicazione sul conflitto del 5 maggio: «Il dovere di rimodulare una situazione di dipendenza dalle forniture russe non può prescindere dal consolidamento delle condizioni di stabilità di quelle regioni che rappresentano una valida alternativa per l’approvvigionamento delle risorse energetiche a tutela della sicurezza energetica nazionale ed europea».

Oltre alle missioni militari che Greenpeace aveva già etichettato come “fossili” in un rapporto diffuso a dicembre (dallo Stretto di Hormuz all’Iraq, dalla Libia al Golfo di Guinea, fino al Mediterraneo orientale e al Corno d’Africa), quest’anno il governo ne ha aggiunte tre nuove, di cui due legate allo sfruttamento di fonti fossili: la missione bilaterale di supporto alle Forze armate del Qatar in occasione dei “Mondiali di calcio 2022” e la missione Eu in Mozambico. In audizione, Di Maio e Guerini hanno ricordato «gli importanti accordi in ambito energetico» stretti di recente con il Qatar. Già nel luglio scorso, inoltre, il ministro della Difesa aveva sottolineato che le violenze in corso nella provincia nord del Mozambico avevano causato «le interruzioni dell’attività estrattiva». Inoltre, le operazioni Gabinia nel Golfo di Guinea e Mare sicuro al largo della costa libica continuano ad avere come primo compito la «sorveglianza e protezione delle piattaforme ENI».

Mentre sempre più studi internazionali, compresi quelli dell’Onu e dell’Unione europea, segnalano che le disuguaglianze economiche e il deterioramento ambientale connessi all’attività estrattive sono tra le cause profonde di molte crisi che la comunità internazionale e l’Italia stanno tentando di risolvere con le loro missioni militari (dalla pirateria nel Golfo di Guinea all’instabilità dell’Iraq) il nostro governo continua a difendere asset fossili che alimentano quelle stesse crisi in un drammatico circolo vizioso che Greenpeace chiede di interrompere al più presto.

«Il nostro Paese deve smettere di proteggere militarmente gli asset e gli interessi dell’industria dei combustibili fossili, puntando con decisione sulle fonti rinnovabili e sul risparmio energetico. Solo così potremo assicurarci una maggiore indipendenza energetica e tutelare davvero l’ambiente e la pace», dichiara Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia.

Buon venerdì.

Nella foto: il ministro degli Esteri Di Maio, il presidente del Consiglio Draghi e il ministro della Difesa Guerini, Roma, 20 luglio 2022

Covid, se 1000 morti in una settimana vi sembran pochi

A metà estate Omicron5 abbassa solo parzialmente la guardia. Nella settimana 20-26 luglio, rispetto alla precedente, continuano a diminuire i nuovi casi (473.820 vs 631.693) a fronte di un aumento dei decessi (1.019 vs 823), calano i casi attualmente positivi (1.395.433 vs 1.452.941) e le persone in isolamento domiciliare (1.383.875 vs 1.441.553), mentre sono ancora in crescita i ricoveri con sintomi (11.124 vs 10.975) e le terapie intensive (434 vs 413). Sono questi i numeri più significativi del monitoraggio settimanale indipendente della Fondazione Gimbe, elaborato su dati del ministero della Salute e reso noto oggi, 28 luglio 2022.

 

In dettaglio, rispetto alla settimana precedente, Gimbe segnala le seguenti variazioni:

Decessi: 1.019 (+23,8%), di cui 75 riferiti a periodi precedenti
Terapia intensiva: +21 (+5,1%)
Ricoverati con sintomi: +149 (+1,4%)
Isolamento domiciliare: -57.678 (-4%)
Nuovi casi: 473.820 (-25%)
Casi attualmente positivi: -57.508 (-4%)

La diminuzione percentuale dei nuovi casi si segnala in tutte le Regioni (dal -11,1% della Calabria al -31,2% della Campania) ma l’incidenza supera i 500 casi per 100.000 abitanti in tutte le Province tranne Sondrio (495) e Cuneo (480), mentre in 16 Province si registrano oltre 1.000 casi per 100.000 abitanti.

Reinfezioni. Secondo l’ultimo report dell’Istituto Superiore di Sanità, nel periodo 24 agosto 2021-20 luglio 2022 sono state registrate in Italia oltre 813 mila reinfezioni, pari al 5,2% del totale dei casi. La loro incidenza nella settimana 13-20 luglio si è attestata al 12% (n. 75.060 reinfezioni), in leggero aumento rispetto alla settimana precedente (11,7%).
Testing. Gimbe segnala inoltre che si registra un calo del numero dei tamponi totali (-11,4%): da 2.560.557 della settimana 13-19 luglio a 2.269.242 della settimana 20-26 luglio. In particolare i tamponi rapidi sono diminuiti del 12,5% (-275.780), e quelli molecolari del 4,4% (-15.535). La media mobile a 7 giorni del tasso di positività si riduce dal 20,8% al 16,4% per i tamponi molecolari e dal 25,9% al 21,5% per gli antigenici rapidi.

Ospedalizzazioni. «Sul fronte degli ospedali – afferma Marco Mosti, direttore operativo della Fondazione – frena l’aumento dei ricoveri sia in area medica (+1,4%) che in terapia intensiva (+5,1%)». Complessivamente in sei settimane i ricoveri sono più che raddoppiati in area critica (da 183 il 12 giugno a 434 il 26 luglio) e quasi triplicati in area medica (da 4.076 il 11 giugno a 11.124 il 26 luglio). Al 24 luglio, ultimo aggiornamento disponibile sul sito Agenas, il tasso nazionale di occupazione da parte di pazienti Covid è del 17% in area medica (dal 9,2% del Piemonte al 42,4% dell’Umbria) e del 4,4% in area critica (dallo 0% di Molise e Valle D’Aosta all’8,5% della Calabria). «In lieve riduzione gli ingressi in terapia intensiva – puntualizza Mosti – con una media mobile a 7 giorni di 44 ingressi/die rispetto ai 49 della settimana precedente».

Decessi. Continua a crescere il numero dei decessi: 1.019 negli ultimi 7 giorni (di cui 75 riferiti a periodi precedenti), con una media di 146 al giorno rispetto ai 118 della settimana precedente.

Vaccini: somministrazioni. Al 27 luglio stando al monitoraggio Gimbe l’88,1% della platea (50.814.495 di persone) ha ricevuto almeno una dose di vaccino (+763 rispetto alla settimana precedente) e l’86,6% (n. 49.944.956) ha completato il ciclo vaccinale (+1.744 rispetto alla settimana precedente).
Vaccini: nuovi vaccinati. Nella settimana 20-26 luglio torna a scendere il numero dei nuovi vaccinati: 3.045 rispetto ai 3.640 della settimana precedente (-16,3%). Di questi il 27,6% è rappresentato dalla fascia 5-11: 841, con una riduzione del 26,7% rispetto alla settimana precedente. Sostanzialmente stabile tra gli over 50, più a rischio di malattia grave, il numero di nuovi vaccinati che si attesta a quota 1.159 (-2,4% rispetto alla settimana precedente).

Vaccini: persone non vaccinate. Al 27 luglio (aggiornamento ore 06.19) sono 6,84 milioni le persone di età superiore a 5 anni che non hanno ricevuto nemmeno una dose di vaccino (figure 11 e 12), di cui:
4,67 milioni attualmente vaccinabili, pari all’8,1% della platea con nette differenze regionali (dal 5,3% del Lazio all’11,6% della Valle D’Aosta);
2,17 milioni temporaneamente protette in quanto guarite da Covid-19 da meno di 180 giorni, pari al 3,8% della platea con nette differenze regionali (dal 2,6% della Lombardia al 7,5% della Provincia autonoma di Bolzano).
Vaccini: fascia 5-11 anni. Al 27 luglio, nella fascia 5-11 anni sono state somministrate 2.590.471 dosi: 1.399.530 hanno ricevuto almeno 1 dose di vaccino (di cui 1.278.745 hanno completato il ciclo vaccinale), con un tasso di copertura nazionale al 38,3% con nette differenze regionali: dal 20,9% della Provincia Autonoma di Bolzano al 53,8% della Puglia.

Vaccini: terza dose. Al 27 luglio sono state somministrate 39.943.311 terze dosi con una media mobile a 7 giorni di 8.461 somministrazioni al giorno. In base alla platea ufficiale (n. 47.703.593), aggiornata al 20 maggio, il tasso di copertura nazionale per le terze dosi è dell’83,7%: dal 78% della Provincia Autonoma di Bolzano all’87,6% della Valle D’Aosta. Sono 7,76 milioni le persone che non hanno ancora ricevuto la dose booster, di cui:
5,05 milioni possono riceverla subito, pari al 10,6% della platea con nette differenze regionali (dal 7,7% della Basilicata al 16,3% della Sicilia);
2,71 milioni non possono riceverla nell’immediato in quanto guarite da meno di 120 giorni, pari al 5,7% della platea con nette differenze regionali (dal 2,6% della Valle D’Aosta all’8,5% dell’Umbria).

Vaccini: quarta dose. Secondo quanto disposto dalla Circolare del Ministero della Salute dell’11 luglio 2022 la platea di persone candidate a ricevere il secondo richiamo (quarta dose) – da effettuare dopo almeno 120 giorni dalla terza dose (primo richiamo) o dall’infezione post terza dose – è di oltre 16,5 milioni di persone.
Al 27 luglio, segnala ancora Gimbe, sono state somministrate 2.139.397 quarte dosi, con una media mobile di 51.815 somministrazioni al giorno, in lieve aumento rispetto alle 44.169 della scorsa settimana (+17,3%), ma la campagna non decolla e rimane ancora molto lontano il target di 100 mila somministrazioni fissato dalle linee di indirizzo dell’Unità per il completamento della campagna vaccinale. In base alla platea ufficiale (n. 16.538.230 di cui 6.148.340 della fascia 60-69 anni, 5.053.186 della fascia 70-79 anni, 2.918.641 di over 80, 2.329.964 di pazienti fragili e persone immunocompromesse e 88.099 di ospiti delle Rsa che non ricadono nelle categorie precedenti), aggiornata al 13 luglio, il tasso di copertura nazionale per le quarte dosi è del 12,9% con nette differenze regionali: dal 5,9% della Calabria al 27,3% del Piemonte.


«Mentre la discesa dei nuovi casi prosegue sostenuta – osserva Nino Cartabellotta – i ricoveri in area medica e in terapia intensiva non hanno ancora raggiunto il picco e soprattutto i decessi continuano ad aumentare, documentando, indirettamente, che il numero reale di casi è molto più elevato di quelli noti alle statistiche ufficiali. Se da un lato è difficile prevedere gli scenari futuri, dall’altro è possibile definire alcune ragionevoli certezze».

Innanzitutto, prosegue il presidente della Fondazione Gimbe, con l’arrivo della stagione autunno-inverno assisteremo verosimilmente ad un nuovo aumento della circolazione virale che, in assenza di investimenti sui sistemi di aerazione e ventilazione nei locali al chiuso, potrà essere ridotta solo attraverso l’utilizzo di mascherine FFP2; in secondo luogo, la popolazione a rischio di malattia grave è molto numerosa e va aumentando man mano che ci si allontana dalla data di somministrazione della terza dose: al 27 luglio, prendendo in considerazione over 60 e fragili, si contano 896 mila non vaccinati, 1,94 milioni senza la terza dose, 14,4 milioni senza quarta dose; ancora, i trattamenti antivirali rimangono sotto-utilizzati rispetto alle indicazioni.

Ecco perché, secondo Cartabellotta, «è indispensabile predisporre adesso il piano di preparedness per l’autunno-inverno, perché la strumentalizzazione elettorale della gestione pandemica può compromettere la salute delle persone più fragili. In tal senso l’Oms Europa propone di puntare su 5 “stabilizzatori” della pandemia: aumentare le coperture vaccinali (con tre dosi) nella popolazione generale; offrire la quarta dose alle persone a rischio dopo 120 dalla somministrazione della terza; promuovere l’utilizzo delle mascherine al chiuso e sui mezzi pubblici; areare gli spazi pubblici affollati, quali scuole, uffici, bar e ristoranti, mezzi di trasporto pubblico; applicare rigorosi protocolli terapeutici per le persone a rischio di malattia grave».

In un tweet pubblicato questa mattina Nino Cartabellotta ha scritto: «Abbiamo superato i mille decessi settimanali. Qualche forza politica vuole sbilanciarsi a fissare una soglia di accettabilità?». Facciamo nostra questa domanda.

100 giorni d’arte a Pristina, è Manifesta14

Con Luz Broto, artista di Barcellona, che ti propone lo scambio delle chiavi che porti con te da casa con quelle degli abitanti della città di Pristina. È il primo scontrino di Manifesta 14 arrivata nel nuovo Kosovo per 100 giorni (dal 22 luglio al 30 ottobre).
Un souvenir radicale da conservare per sempre, fiducia reciproca nel prossimo smantellamento dei confini che ancora isolano, segno di un auspicabile impegno futuro. Fa parte di una delle tante performances disseminate nel luogo e nel tempo di questi giorni destinati all’arte. Simbolica e onirica, semantica e prossemica, come tutto in questo vecchio/nuovo mondo. Vera politica dell’arte. Proviamo a metterci l’uno al posto dell’altro, ad entrare nelle rispettive vite e aprire porte altre. E tu così, visitatore o turista che sei, prenotando il tuo scambio di chiavi anche tramite http://swapkeys.site/ potrai entrare anche idealmente nelle case distrutte e ricostruite, sui vecchi tram Iveco, penetrare persino nel piccolo quartiere finanziario della città con i suoi distonanti palazzi di vetro; perché tutto si svolge nell’arco di poche strade.

Ma loro, i pristinesi non potranno per il momento usare le tue chiavi a loro volta per farti visita. Perché fanno parte di quella gente che sta recuperando il tempo perduto e interrotto da una guerra sanguinaria e fratricida. Aspiranti d’Europa. E lo stanno portando avanti questo discorso in modo generoso e pieno di fiducia, attanti e spettatori al tempo stesso, in parte reinterpretando anche un retaggio del nostro recente passato di oltre un lustro fa; mettendoti a disposizione una città, la loro, a raggiera, come un asincronico gioco dell’oca, tra edifici incerti realizzati senza alcun canone e altri ancora abbandonati, ma anche consapevoli che il tempo moderno non sono più quei filari apparsi di bancarelle da paese, con dolciumi, popcorn e zucchero filato come una visione virata seppia. Popolazione che si tuffa con fiducia dentro un finto consumismo per sfruttare la ventata turistica di questi cento giorni di arte privata, ma in fondo pubblica. Arte che ha invaso la città come un polline di prima estate. Vendono le loro mercanzie di una civiltà azzoppata. E sono generosi e gentili. E nel mentre una folla di gente si riversa nelle strade, in cerca quasi di un nuovo consumo indisciplinato che arriva però come un’onda refrattaria di ritorno. Quel ritorno alle antiche radici ottomane che te lo ricorda ad ogni alba della città il canto del muezzin diffuso a raggiera come suono di campane di paese. Pristina quasi una città del sud Italia di trenta anni fa. Un cinema Paradiso che batte il primo ciak.

Ed è la festa che si tiene, a guisa di cerimonia ufficiale di apertura, presso il Palazzo dello sport e della gioventù, già Boro Ramirez, simbolo di identità e singolare esperimento di edilizia dove incubare talenti, edificato a furore di pubblico referendum in quel 1977, con le sue Red Hall e Atelier Hall e che oggi ospita nel suo plateau eventi moderni musicali e classici.

Come la performance di Astrit Ismaili, artista kosovaro, e quella che si presenta con la maschera di una Jungle by night; sorta di Pristina all stars, regalo della città di Amsterdam dove Manifesta nasce dopotutto nel 1990 con questo spirito di cambiare location ogni due anni in cerca delle vere e nuove pulsazioni, come modernissima manifestazione d’arte, che mira a trasformarsi in uno strumento di impegno civico ed estetico, desiderosa di intercettare i dna cangianti dei territori in nuovi imperativi etici ed estetici e che in questa occasione mira anche a definire il suono della città di Pristina, ricostruendo in poche ore 40 anni ed oltre di canzoni kosovare.

È tutto, dicono, un “being as becoming”, un essere e divenire. Restiamo così avvolti negli alter ego, nelle estensioni corporali e gli strumenti da indossare inventati da Ismaili che creano suoni e cercano nuovi contatti, che si espandono e forse anche eccedono. Le live performances dell’artista detto LYNX che inventa portali di trasformazione e lunghi e nuovi fili che uniscono gli esecutori a sculture di metallo e depositi di suoni: i frammenti di una memoria che sa di arte, cultura popolare, politica. Canzoni o lacerti delle stesse indagano temi di tradizione, ma anche la violenza; come poterne starne alla larga nel ricordo e nel presente della memoria. E così la restrizione, la resistenza, la paura, la tanto abusata resilienza. Gli artisti ed i performer tirano fili con i loro corpi, usano voci. E sanno perfettamente che dopo la performance quegli stessi strumenti e suoni prodotti si trasformeranno in permanente installazione. Resta in bocca quel sapore tipicamente berlinese di un rave asincronico, in un edificio ex brutalista, diroccato, nel bel mezzo di un campo che fu da gioco. Per questo underground eccellente, preciso, puntuale.

E mentre nella notte del Palazzo dello sport si libra sopra le teste il pallone ellissoide fluttuante di diciassette metri di Lee Bull, a ricordarci quello di Hinderburg che nel 1937 prese fuoco sotto la bandiera nazionalsocialista, ma anche a dirci che i sogni sono vulnerabili ed è tutto ancora da vedere quello che potremmo salvare dal passato e portare nel futuro, qualcosa spinge forsennatamente al moto. E non è per forza o a causa di questa grande rilucente installazione in volo se ci troviamo a passare per Korriku Street, dove emerge l’intervento di Carlo Ratti e del suo studio torinese che a Pristina ha lavorato interrogandosi sul senso comune della gente, così come anche riqualificando il Green Corridor, parte di un tracciato ferroviario già di fughe e disperazione nel remoto 1999, in un camminamento verde e di auspicabile piantumazione.

Manifesta 14 ovvero la scalata verso il Grand Hotel Pristhina, con le sue 350 camere distribuite in 13 piani. E tutto trasformato in decine di installazioni d’arte. Dove la fa da padrone l’arte kosovara e dei Balcani che occupa oltre i due terzi dell’intera manifestazione. Nessuna accusa di nazionalismo, ma comprensione piena per l’occasione irripetibile che si stanno giocando. Nel Grand Hotel ogni direzione è buona ed ognuno si gioca la sua partita dei destini incrociati dove puoi ritrovarti nell’intricato interrogatorio sul modernismo di Genti Korini, sul realismo e l’astrazione, sull’uomo nuovo socialista e la borghese controparte. Il labirinto del modernismo di Alfred Uci guida il passo. L’artista ragno, tessitore di illusioni. Ma chi la preda e chi il ragno? Lungo il corso di questa domanda continua il passo e il dubbio non ci molla mai, fino alla fine, mentre, di stanza in stanza, ogni tanto gli occhi si rivolgono alla sommità dell’Hotel Pristina per osservare il contributo di Petrit Halilaj che ha trasformato l’antica insegna gigantesca ed oscurata in un appello poetico alla cittadinanza che suona più o meno “quando il sole va via, dipingiamo il cielo”.

Ed è il vero slogan di questa Manifesta 14 che ambisce a creare una nuova costellazione di stelle proprie. Fatta anche di suoni, come nella singolare installazione di Lawrence Abu Handan, una sorta di orecchio privato che indaga sui modi in cui i suoni si sentono affidati alla memoria e sulle modalità in cui le memorie acustiche vengono strumentalizzate e così politicizzate. Testimonianze acustiche, atti di violenza: manchiamo, vuole dirci l’artista, di un vocabolario adeguato per descrivere i suoni. Oggetti che diventano straordinari surrogati di un linguaggio sonoro che non parliamo ancora. Ogni stanza, ogni installazione è un deposito di storia del Kosovo e dunque un microcosmo della stessa società. Vuole dirci l’artista Majilinda Hoxa in The Suite e con lei anche Emily Jacir, Šejla Kamerić, Argjirë Krasniqi, Luljeta Lleshanaku, Hana Miletić, Natasha Nedelkova, Tuan Andrew Nguyen, Lala Raščić, Abi Shehu, Vangjush Vellahu, Hana Zeqa…

Oltre il Palace colpisce la Brick Factory, ex manifattura di laterizi, il più importante sito post industriale di Pristina. Oggi restituito al pubblico come nuovo spazio per la città. Un eco urban learning center capace di rinvigorire la scena culturale del territorio e dove infatti cucina piselli Giulia Ficcarazzo, studentessa, progettista culturale, facente parte di una summer school e attiva oggi con il collettivo berlinese Room Labor che ci racconta «di una grossa cultura in essere di print making. In molti a Pristina sanno costruire mattoni. Hanno dovuto impararlo per ricostruire. Questo è uno spazio ridato alla municipalità quando fu creata la Repubblica del Kossovo. Noi lavoriamo a stretto contatto con il sindaco della città che è un ex architetto. Veniamo dai Balcani, dal Montenegro, da Milano».
E sono queste solo le prime giornate di un viaggio sulla carta lungo 100 giorni. Un viaggio nel quale l’arte sembra essere come salita al potere, per governargli accanto. Se possiamo davvero credere alle parole inaugurali rubate al discorso del primo Ministro Albim Kurti e della presidente Vjosa Osmani.

(un vivo ringraziamento per il supporto va ad Alessandro Fusco)

Foto di apertura: Objectification of senses, 2022, © Ilir Dalipi and Radio International, 2022, Susan Philipsz with Radio International Collective Photo at Zahir Pajaziti Square Photo © Manifesta 14 Prishtina, Majlinda Hoxha.JPG

Foto nel testo, dall’alto: performance di Astrit Ismaili; When the sun goes away we paint the sky, 2022, © Petrit Halilaj. Photo © Arton Krasniqi.png; Tell me your Story, 2022 , © Chiharu Shiota. Photo © Manifesta 14 Prishtina, Majlinda Hoxha.JPG

Manca la terra sotto i piedi

Foto Francesco Bozzo- LaPresse 30-06-2019 Milano ( Italia ) 11.00 Cantieri abbandonati Nella foto: cantiere abbandonato di Via Crispi a fianco della Feltrinelli

Tra il 2006 e il 2020 nell’Area metropolitana di Milano sono stati consumati 2153,2 ettari di territorio, mentre nell’area del Comune di Roma, il consumo di suolo ha riguardato 2023,66 ettari. Si tratta di una differenza di poco meno di 130 ettari quella che separa la capitale d’Italia dall’Area metropolitana di Milano. Sono i dati raccolti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) nell’ambito del progetto europeo Soil4life che vede coinvolti Legambiente, come capofila, Cia, Ccivs, Crea, Ersaf, Politecnico di Milano, Roma Capitale e Zelena Istra con l’obiettivo di promuovere l’uso sostenibile del suolo in quanto risorsa strategica e non rinnovabile.

In questi 14 anni, in cui il tema del consumo di suolo ha cominciato ad assumere una notevole importanza non solo sotto il profilo scientifico e ambientale, ma anche e soprattutto, sociale e politico, gli ettari di suolo consumati per far posto alla crescita delle aree edificate delle due principali città italiane non si è mai fermato, neanche con l’emergenza Covid. Oltre 123 gli ettari consumati nella Capitale tra il 2019 e il 2020, mentre nell’Area Metropolitana di Milano, nello stesso periodo, sono stati impermeabilizzati 93,54 ettari di suolo. Complessivamente la percentuale di suolo ormai perso nel Comune di Roma è pari al 24 per cento del totale con un consumo procapite di 108 metri quadrati per abitante. Nella Città Metropolitana di Milano la percentuale scende al 32%

Nel periodo 2012-2020 l’incremento di consumo di suolo a Roma è stato di 697 ettari. A Milano salgono a 978.

La scelta del confronto tra Comune di Roma e Area metropolitana nasce da due considerazioni di fondo: Roma e Milano sono due città molto diverse tra loro con una storia diversa e con confini amministrativi differenti. Il Comune di Milano è molto più piccolo di quello di Roma, sia in termini di superficie che di popolazione. Per avere un aggregato simile a quello del Comune di Roma, almeno in termini di dimensioni, occorre guardare all’Area Metropolitana di Milano, almeno così come è definita all’interno dei confini dell’ex Provincia di Milano. C’è poi un’altra considerazione da fare come spiega Michele Munafò, dirigente di ricerca e responsabile scientifico per Ispra del progetto Soil4Life: «Guardando i dati emerge chiaramente come la gran parte del consumo di suolo degli ultimi 15 anni si concentri, nel caso della Città metropolitana di Roma, all’interno dei limiti del comune centrale (quasi la metà, con una tendenza alla crescita negli ultimi anni), mentre la situazione opposta si verifica a Milano, dove il 90% del consumo dello stesso periodo avviene nei comuni di cintura e non nel comune capoluogo (che negli ultimi due anni ha un consumo di suolo bassissimo, con un’evidente tendenza alla riduzione). Nei due comuni le percentuali di superfici già consumate sono molto diverse (Milano 58%, Roma 23,5%). Per questo a Milano (Comune) il poco suolo naturale rimasto andrebbe tutelato con molta attenzione. Basti pensare che nella città lombarda ogni residente ha oggi a disposizione poco più di 50 mq di aree non consumate, a fronte dei 350 mq per abitante disponibili invece nella capitale».

«La legge contro il consumo di suolo è una riforma non rinviabile, prevista anche dal Pnrr – ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente di Legambiente che è capofila del progetto Soil4Life – e l’Italia la aspetta da troppi anni. Ora occorre impedire che la ripresa post-pandemica inneschi dina-miche speculative ai danni dei suoli liberi, cosa che stiamo già osservando nelle nostre campagne con la proliferazione di capannoni per la logistica e l’e-commerce. Il suolo è centrale per la transizione ecologica: occorre introdurre una speciale tutela per i suoli intatti, siano essi di foresta, di pascolo o zone umide, perché oggi sappiamo che questi sono i più preziosi giacimenti di carbonio organico e biodiversità del nostro Paese».

È un costo complessivo compreso tra gli 81 e i 99 miliardi di euro, in pratica la metà del Piano nazionale di ripresa e resilienza, quello che l’Italia potrebbe essere costretta a sostenere a causa della perdita dei servizi ecosistemici dovuta al consumo di suolo tra il 2012 e il 2030. Se la velocità di copertura artificiale rimanesse quella di 2 mq al secondo registrata nel 2020 i danni costerebbero cari e non solo in termini economici. Dal 2012 ad oggi il suolo non ha potuto garantire la fornitura di 4 milioni e 155 mila quintali di prodotti agricoli, l’infiltrazione di oltre 360 milioni di metri cubi di acqua piovana (che ora scorrono in superficie aumentando la pericolosità idraulica dei nostri territori) e lo stoccaggio di quasi tre milioni di tonnellate di carbonio, l’equivalente di oltre un milione di macchine in più circolanti nello stesso periodo per un totale di più di 90 miliardi di km. In altre parole due milioni di volte il giro della terra.

È la situazione attuale e quella futura analizzata dal Sistema nazionale per la protezione dell’Ambiente nell’edizione 2021 del Rapporto sul “Consumo di suolo in Italia”.

A livello nazionale le colate di cemento non rallentano neanche nel 2020, nonostante i mesi di blocco di gran parte delle attività durante il lockdown, e ricoprono quasi 60 chilometri quadrati, impermeabilizzando ormai il 7,11% del territorio nazionale. Ogni italiano ha a disposizione circa 360 mq di cemento (erano 160 negli anni 50).

L’incremento maggiore quest’anno è in Lombardia, che torna al primo posto tra le regioni con 765 ettari in più in 12 mesi, seguita da Veneto (+682 ettari), Puglia (+493), Piemonte (+439) e Lazio (+431).

Nelle aree a pericolosità idraulica la percentuale supera al 9% per quelle a pericolosità media e il 6 % per quelle a pericolosità elevata. Il confronto tra i dati 2019 e 2020 mostra che 767 ettari del consumo di suolo annuale si sono concentrati all’interno delle aree a pericolosità idraulica media e 285 in quelle a pericolosità da frana, di cui 20 ettari in aree a pericolosità molto elevata (P4) e 62 a pericolosità elevata. Le percentuali si confermano alte anche nei territori a pericolosità sismica alta dove il 7% del suolo risulta ormai cementificato.

Consumo di suolo e isole di calore. A livello nazionale superano i 2300 gli ettari consumati all’interno delle città e nelle aree produttive (il 46% del totale) negli ultimi 12 mesi. Per questo le nostre città sono sempre più calde, con temperature estive, già più alte di 2°C, che possono arrivare anche a 6°C in più rispetto alle aree limitrofe non urbanizzate.

Transizione ecologica e fotovoltaico, meglio sui tetti che a terra: solo in Sardegna ricoperti più di un milione di mq di suolo, il 58% del totale nazionale dell’ultimo anno. E si prevede un aumento al 2030 compreso tra i 200 e i 400 kmq di nuove installazioni a terra che invece potrebbero essere realizzate su edifici esistenti. Il suolo perso in un anno a causa dell’installazione di questa tipologia di impianti sfiora i 180 ettari. Dopo la Sardegna è la Puglia la regione italiana che consuma di più con tale modalità, con 66 ettari (circa il 37%).

E con la logistica l’Italia perde ancora più terreno. Invece di rigenerare e riqualificare spazi già edificati, sono stati consumati in sette anni 700 ettari di suolo agricolo e il trend è in crescita. In Veneto le maggiori trasformazioni (181 ettari dal 2012 al 2019, di cui il 95% negli ultimi 3 anni) dovute alla logistica, seguita da Lombardia (131 ettari) ed Emilia- Romagna (119).

Buon giovedì.

Sul consumo di suolo e la politica europea in materia, vedi articolo di Roberto Musacchio, su Left del 3 luglio 2020

Milano dai due volti

Nella città di Milano si fa sempre più veloce e drammatica l’espulsione delle classi popolari, ma anche quella di una parte del ceto medio. Una Milano esclusiva, dove i contrasti tra la città del lusso e delle cosiddette eccellenze da una parte e la città delle periferie dall’altra continuano a inasprirsi. Alcune settimane fa si è chiusa la Design week, la manifestazione, insieme ad Expo, su cui Milano ha modellato la sua identità di città internazionale e attrattiva. Una manifestazione che non ammette critiche, espressione per eccellenza del “modello Milano”: eventi, affari, turisti. Ma anche dj set e aperitivi, che per l’occasione hanno colonizzato l’area dell’ex macello pubblico, zona della città dalla storia emblematica: per anni abbandonata, poi, in parte, rivitalizzata culturalmente da un’occupazione, oggi di nuovo vuota, ma oggetto di un prossimo imponente progetto di rigenerazione urbana.

La simbiosi perfetta tra le due anime più distintive della città e della sua politica, cioè eventi e sviluppi immobiliari, vedi Olimpiadi 2026. In quest’ultimo ambito possiamo individuare due strategie, una già ampiamente battuta e l’altra in via di consolidamento. La prima è costituita dai grandi progetti privati che – approfittando della deregolamentazione in ambito urbanistico, del favorevole regime fiscale e del costante aumento degli indici edificatori – costruiscono edilizia residenziale, commerciale o turistica di lusso in una corsa senza fine al rialzo dei valori immobiliari. La seconda è invece …

L’articolo prosegue su Left del 22-28 luglio 2022 

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SOMMARIO

Lascia stare i santi (ovvero, vietato fare inchieste sulla pedofilia nel mondo cattolico)

Prologo. Succede che Federica Tourn, una bravissima giornalista (non a caso collaboratrice anche di Left), pubblica sul quotidiano Domani un’inchiesta su alcuni sconcertanti casi di pedofilia all’interno del Movimento dei focolarini. Casi documentati che restituiscono un’immagine molto diversa da quella luccicante proposta dalla Rai all’inizio dello scorso anno nella fiction in prima serata sulla figura di Chiara Lubich, la fondatrice di questa controversa comunità ecclesiale di laici cattolici.

Trama. «Nessuna ombra, neanche una nota dissonante» nella fiction della Rai, scrive Tourn. Eppure in quegli stessi giorni di gennaio 2021 la Gcps Consulting, incaricata dai vertici del movimento, cominciava a investigare sulle denunce di violenza sessuale «a carico di Jean-Michel Merlin, un membro con ruoli apicali in Francia e che, con 37 vittime accertate, verrà definito un “abusatore seriale di minori” che ha goduto della copertura del movimento». Merlin non è l’unico, prosegue l’articolo: «Pur avendo il mandato di occuparsi solo del caso specifico, la Gcps Consulting ha ricevuto in meno di un anno molte segnalazioni, tanto da evidenziare, si legge nel report, “situazioni di abuso sistematiche note ai responsabili fin dai primi tempi del movimento, ma che non sono state affrontate e che è probabile continuino tuttora”».

Ed è molto probabile anche che riguardino pure l’Italia. «Un ex focolarino – riporta Tourn – ha denunciato nel 2020 al cardinale Kevin Farrell, prefetto responsabile per le comunità ecclesiali, la presenza di un “predatore” pedofilo in un centro del movimento, che però non è stato rimosso o denunciato ma soltanto spostato, sempre a contatto con i minori». Come i lettori di Left sanno bene, la prassi di affrontare il crimine pedofilo in questo modo è una sorta di marchio di fabbrica all’interno della Chiesa cattolica. Pur di evitare lo scandalo pubblico si evita di denunciare il presunto violentatore di bambini alla magistratura e non si esita nemmeno un istante di fronte al rischio che il pedofilo faccia nuove vittime altrove, spostandolo da un luogo all’altro quando le “voci” sul suo conto non possono più essere controllate. Rischio probabilissimo poiché si tratta di un crimine seriale. Tuttavia l’apposita commissione interna dei focolarini minimizza. «Dal 2014 abbiamo ricevuto circa 40 segnalazioni in tutto il mondo, di cui 12 in Italia. La commissione ha accertato la verosimiglianza dei fatti segnalati in 6 casi».

Insomma stando alle testimonianze riportate da Tourn, il Movimento dei focolari (così come la Conferenza episcopale italiana, v. Left del 10 giugno 2022) preferisce lavare i panni sporchi in famiglia. Cosa che agli occhi di chi scrive, e non solo di chi scrive, equivale a non affrontare il “problema”, diversamente da quello che è accaduto nei Paesi in cui la Chiesa ha deciso di dare a una vera commissione indipendente l’incarico di indagare su «situazioni di abuso sistematiche note ai vertici» identiche a quelle che hanno riguardato il Movimento in Francia. E cosa comporta non affrontare alla radice un “problema” di questo tipo? Cosa comporta negare, minimizzare, tentare di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica? Le vittime lo sanno molto bene, e queste domande non sono rivolte a loro.

Le girerei infatti al professor Luigino Bruni, economista della Lumsa ed editorialista dell’Avvenire (nonché, mi dicono, adepto dei focolarini, ma se così non fosse rettificherei immediatamente), che ha avuto il “buon senso” (si fa per dire) di attaccare pubblicamente Federica Tourn, mettendone in dubbio la professionalità, rea – secondo Bruni (e il manipolo di persone che gli sono andate appresso nei commenti al suo post su Facebook) di aver ricostruito alcune vicende di pedofilia e pedopornografia “interne” al Movimento e di aver dato voce a una ex focolarina, Renata Patti, che di storie come queste ne ha denunciate diverse, inascoltata.

Ma il “peccato” più grave di Tourn, secondo Bruni – che accusa la giornalista di aver «calunniato il Movimento» – consiste nell’aver raccontato anche un’altra verità: «Continuano ad uscire articoli su giornali che dovrebbero essere seri che, nella sostanza, calunniano il movimento dei focolari con frasi del genere: “Immaginate di vivere in piccole comuni dove non ci sono giornali e tv, dove la visione dei film è purgata da ogni riferimento al sesso, dove ogni azione quotidiana viene monitorata ed è vietato leggere libri che non siano quelli della fondatrice, seguaci bambini che hanno annullato la propria personalità per riconoscersi totalmente in lei”». Il riferimento indiretto di Federica Tourn è soprattutto agli “schemetti” inventati da Chiara Lubich per controllare che la vita degli adepti corrispondesse a dettami prestabiliti.

Ricordate? Di questi schemetti (dategli un’occhiata qui) e di certe dinamiche interne al Movimento dei focolari ne abbiamo parlato su Left lo scorso 15 luglio con il magistrato Francesco dall’Olio e con lo psichiatra e psicoterapeuta Andrea Masini nel commentare una testimonianza di un uomo irlandese rimasto «prigioniero» per 20 anni di questo Movimento.

Ecco cosa ci avevano detto Dall’Olio e Masini: «Quello che penso avendo letto queste testimonianze e altre fonti aperte molto ben documentate, come il libro di Ferruccio Pinotti “La setta divina” – osserva Dall’Olio – è che in certi casi si potrebbero configurare due tipi di reato: la truffa o la circonvenzione di incapace. Il confine è molto labile. Nella circonvenzione di incapace va dimostrata la fragilità del soggetto che viene danneggiato ad esempio “convincendolo” a lavorare per anni devolvendo lo stipendio al movimento. La truffa si configura per es. laddove mi hai fatto credere di essere mandato da Dio approfittando della mia fede più o meno cieca e questo lo hai fatto per poterti impossessare dei miei beni etc. In entrambi i casi – prosegue Dall’Olio – siamo in presenza di un abuso psicologico». (Si legga a tal proposito la circostanziata testimonianza di Renata Patti nell’articolo di Federica Tourn, ndr)

Vale a dire? «Attraverso l’abuso psicologico si induce una persona a fare una cosa che è contro i suoi interessi e a favore dei propri. Si approfitta di una situazione di inferiorità psicologica di un’altra persona per ottenere un vantaggio personale. Per es. nel caso della truffa in gergo si dice che prima di farla ci vuole il soggetto. Prima di escogitare il meccanismo si va a cercare la persona che può “credere” a quello che gli viene raccontato. E questo è ciò che sembra essere il concetto fondante del Movimento dei Focolari». C’è chi la definisce una setta. «Nella differenza tra movimento e setta c’è ovviamente il discrimine tra lecito e illecito» dice Dall’Olio. «Un “movimento” è un gruppo che si rivolge all’esterno, pensiamo alle Sardine o agli stessi 5Stelle. In una setta, questo scambio non c’è e non c’è dialogo interno, non c’è dibattito, c’è un annientamento dell’individuo all’interno del gruppo e c’è un’organizzazione estremamente verticistica che detta le regole agli altri che stanno “sotto” e le eseguono. Il Movimento dei focolarini sembra tendere più verso questa direzione, anche perché ho il sospetto che oltre all’aspetto economico, che pure non deve essere del tutto indifferente, c’è quello della prassi di soggiogare, di mettere in soggezione chi vi aderisce».

E qui entriamo ancor più nello specifico delle dinamiche di carattere psicologico descritte nelle testimonianze. «Ricordo – dice lo psichiatra Masini – che il presidente Napolitano quando nel 2008 morì Chiara Lubich inviò un messaggio di cordoglio a tutto il Movimento dei focolarini, a testimonianza del livello di rispettabilità che questo pubblicamente si è ritagliato. Ma tutto ciò nasconde una realtà che è molto diversa. E questo “gioco” di sembrare un movimento e invece essere una setta fa molto pensare». Una setta. Come altro definire un “movimento” che ai suoi aderenti fa compilare dei questionari – da consegnare ai loro referenti – nei quali devono essere elencate pedissequamente tutte le attività, non solo spirituali, quotidiane? “Con chi sei uscito, come ti sei vestita, qual è il tuo stato di salute etc” sono alcune delle domande imposte agli adepti; si tratta di palesi violazioni della privacy perpetrate impunemente per anni e decenni. Stiamo parlando dei famigerati “schemetti” ideati da Chiara Lubich, che nel 2020 persino il Vaticano ha dichiarato “illegali” (ma solo perché si sovrappongono al sacramento della confessione, il che peraltro rende ancor più l’idea del livello di violazione dell’intimità altrui).

«Quello che colpisce delle testimonianze degli adepti, compresa quella di William – prosegue Masini – è il racconto preciso di un periodo di smarrimento personale, che è stato colto, intercettato, da quella comunità religiosa. Il movimento li ha “accolti” facendoli sentire parte di un gruppo, dando loro un’identità, un ruolo. C’è però da dire che si tratta di una finta identità. Un’identità falsa che non corrispondeva e non corrisponde nemmeno alla realtà di quello che professa la comunità. Io penso – aggiunge lo psichiatra – che in questo abbia sempre avuto buon gioco e che si tratti di una violenza psicologica potentissima».

Come ci si può “difendere”? «La psicoterapia è la strada maestra. Però va considerato anche che intorno alla vittima c’è il vuoto. Non ha più amici, né soldi. Di suo non c’è più nulla, si è spogliato di tutto. È tutto dentro il mondo da cui si vuole separare». Anche la casa in cui vive è dentro la comunità ed è della comunità. «Esattamente. Qui emerge il “progetto” feroce della religione, e di questo tipo di religione in particolare, tutto basato sul sottrarre alla persona, all’individuo, le sue capacità di vivere e di leggere il mondo. Quindi per “liberarsi” si tratta di riconquistare questa sicurezza. Dentro ciascun essere umano – conclude Masini – c’è tutto quello che serve per vivere bene nel mondo e non c’è bisogno di qualcosa che dall’alto ti sostenga o ti valorizzi o ti dia un’identità. Questo vale per tutte le religioni ma in casi come quelli riportati dalle testimonianze di ex focolarini assume dei connotati particolarmente violenti, ci tengo a ribadirlo. C’è il palese tentativo di dimostrare e far credere all’essere umano che senza una forza superiore, una guida dall’alto, non ce la può fare».

Epilogo. Esimio prof. Bruni, disse una volta uno che di inchieste giornalistiche se ne intendeva: «Il problema non è lo specchio ma chi ci sta davanti». Le risparmio il disturbo di cercare su google: la frase è di Enzo Biagi, “vittima” di un epuratore.

Il punto di questa bislacca campagna elettorale

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 26-07-2022 Roma (Italia) Politica Direzione nazionale del Partito Democratico Nella foto Enrico Letta durante l’intervento che ha aperto i lavori 26-07-2022 Rome (Italy) Meeting of the National directory of the Democratic Party In the pic Enrico Letta

Questa legge elettorale è un disastro. Questa cosa va chiarita subito perché non è ben chiara: un partito deve avere almeno il 3% dei voti oppure presentarsi in una coalizione di partiti che ottengono insieme il 10% per eleggere i suoi in Parlamento. Ecco perché ieri Enrico Letta ha parlato di “alleanza elettorale” e non di “coalizione” ed ecco perché ha puntualizzato che gli eletti del Partito Democratico risponderanno al programma del Pd e non a un indefinito programma di coalizione.

Chiarito questo ieri il segretario del Pd ha illustrato la sua strategia: fingersi di centrodestra per prendere i voti del centrodestra e riuscire a battere la destra. Qualcuno dei suoi giustamente ha posto il tema dei voti che così si perderebbero a sinistra (quella che Calenda chiama amichevolmente “frattaglie”) ma il tema non sembra per ora molto sentito. Così sembra davvero probabile (a oggi, ma sono giorni convulsi in cui potrebbe cambiare il quadro) che Letta miri a una coalizione con Fratoianni e Bonelli a sinistra e Calenda a destra, compresi Gelmini e Brunetta e compagnia cantante. Fratoianni e Calenda si faranno la guerra fino all’ultimo ma poi in nome della “responsabilità” potrebbero decidere di andare fino in fondo, questa è la sensazione diffusa. Renzi, per ora, è fuori. Ma nei prossimi giorni ci sarà da preparare le liste e gli animi si scalderanno.

A sinistra Luigi De Magistris, Potere al Popolo e Rifondazione si avvicinano all’assemblea che darà il via a “Unione Popolare”. De Magistris vorrebbe coinvolgere il M5S (i contatti sono continui) ma Potere al Popolo non vede di buon occhio l’ingresso del partito che firmò i decreti sicurezza con Salvini (solo per citare uno dei tanti punti critici). Anche in questo caso la sensazione, a oggi, è che l’alleanza elettorale dovrebbe rimanere così. In attesa degli eventi.

Si fa strada l’ipotesi che il Movimento 5 Stelle corra da solo. L’idea è di far rientrare Di Battista, Raggi e Appendino. Tra le condizioni poste c’è quella di “tornare alle origini” e non allearsi con nessuno.

A destra invece si stanno scornando per la leadership. Giorgia Meloni sa di avere più voti ma teme l’asse Berlusconi-Salvini (immaginatevi tra l’altro lo scorno di essere comandati da una donna). Meloni ha chiesto che si chiarissero le modalità con cui il centrodestra sceglie il presidente del Consiglio. Berlusconi ha risposto senza rispondere. Tra l’altro da quelle parti c’è già profumo di festa e champagne. Ed è una leggerezza che potrebbero pagare cara.

Non male come inizio.

Buon mercoledì.

L’Italia perde il treno della sostenibilità ambientale

Il periodo delle vacanze estive e dei viaggi è ormai arrivato e secondo un’indagine dell’Istituto Demoskopika in Italia si conteranno 343 milioni di presenze e 92 milioni di arrivi. Una moltitudine di turisti che utilizzerà ogni tipo di mezzo di locomozione per muoversi fra le nostre mete turistiche: macchine, aerei, navi, treni. Ma quale tra questi vettori è il più ecologico per affrontare una vacanza sostenibile? Presto detto: secondo un report del 2021 dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea), il treno emette, per passeggero ospitato, quasi cinque volte meno CO2 rispetto al trasporto aereo, 4,3 volte meno rispetto a un’autovettura privata e 2,4 meno volte rispetto agli autobus. Stando al dossier Transport and environment 2020, sempre pubblicato da Aea, nel 2018 i trasporti hanno rappresentato 25% delle emissioni di gas a effetto serra dell’Unione europea. Di questo 25% poco meno di tre quarti è causato dal trasporto su strada, mentre il restante quarto viene diviso tra il trasporto marittimo e aereo con rispettivamente la quota del 14% e del 13% delle emissioni di CO2. Quello su rotaia invece copre solo lo 0,4% del totale della CO2 emessa da tutti i trasporti.

Potenziando la locomotiva ai danni dei restanti mezzi di trasporto, dunque, il guadagno ecologico sarebbe notevole. In questa direzione si sta muovendo già da un anno un Paese europeo a noi vicino, la Francia, che ha presentato e approvato un disegno di legge per abolire alcuni collegamenti aerei sulle rotte domestiche brevi, a favore dei collegamenti ferroviari. Mentre la Spagna rimborserà il 100% dell’importo degli abbonamenti ferroviari relativi a linee controllate dallo Stato acquistati fino a dicembre 2022 e la Germania ha calmierato i prezzi degli abbonamenti per i treni a 9 euro mensili fino ad agosto. Una scelta pragmatica visto i costi dell’energia causati dalle speculazioni e dall’invasione russa ai danni dell’Ucraina e gli evidenti effetti del cambiamento climatico sui territori dell’Unione europea.

E l’Italia? A che punto è in questa transizione verso un trasporto più sostenibile? Per Edoardo Zanchini, curatore per Legambiente di Pendolaria, la storica campagna della associazione ambientalista dedicata ai treni, siamo a un punto di svolta anche grazie ai soldi messi in campo dall’Europa. Nell’ultimo report annuale di Pendolaria si sviscerano gli investimenti proposti.

L’Europa, con il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e la Terza missione del suo statuto “Infrastrutture per una mobilità sostenibile” impegna risorse pari a circa 26 miliardi di euro nel rafforzamento e nell’ammodernamento della nostra rete ferroviaria. Di questi soldi, 13 miliardi sono destinati all’apertura di nuovi collegamenti ad alta velocità, quasi un miliardo per il potenziamento di alcune linee regionali, 2,4 miliardi per il potenziamento e l’elettrificazione delle linee ferroviarie al Sud e un miliardo per la sperimentazione dei treni ad idrogeno e la sostituzione dei treni diesel con treni ad emissioni zero.

Il problema per Zanchini però non è il futuro, ma il passato. «Tra il 2011 e 2012 c’è stato un taglio del 40% delle risorse per le tratte ferroviarie. Oggi, e parlo soprattutto dei treni intercity e regionali nel sud Italia, i treni sono meno di dieci anni fa. Questo è un grosso problema non solo per i cittadini, ma anche per il turismo di queste zone».

Nel report si denuncia il drammatico divario fra Nord e Sud e isole del nostro Paese (con l’unica eccezione della regione Puglia) in fatto di trasporti su rotaia. Per dare un’idea delle differenze che esistono, le corse dei treni regionali in tutta la Sicilia sono, ogni giorno, 494 contro le 2.150 della Lombardia. Muoversi al Sud con un treno da una città all’altra, su percorsi sia brevi che lunghi, può portare a viaggi di ore, in vagoni carichi come carri bestiame e all’interno di treni vecchi e soggetti a guasti frequenti.

Una condizione di progressivo abbandono che determina gravi conseguenze sull’economia e il turismo. All’interno del report Pendolaria si fanno anche alcuni esempi: la tratta Napoli-Bari che ancora non possiede un collegamento diretto, o la Cosenza-Crotone dove si impiegano 2 ore 39 minuti per percorrere soli 115 chilometri. In Sicilia la situazione pare ancora più critica con solo tre collegamenti al giorno garantiti sulla tratta Ragusa-Palermo con 4 ore e 23 minuti di percorrenza media. È evidente che un qualsiasi turista, anche il più accorto in termini di sostenibilità ambientale, viene scoraggiato da simili difficoltà di movimento. Proprio per questo, la maggior parte dei viaggiatori stranieri prediligono come mete le città d’arte o le regioni come il Veneto, iper collegate con treni, aeroporti e tranvie.

Che impatto potrebbero avere, in questo scenario, gli investimenti del Pnrr, anche nell’ottica di dare una spinta al turismo nel Sud Italia? Secondo Zanchini potrebbero non bastare. «Per valorizzare le ricchezze turistiche del nostro meridione non serve solo colmare il vuoto infrastrutturale, ma serve un’offerta di servizio. Si ragiona sulle ferrovie solo come cantieri e infrastrutture, ma si deve pensare più in grande. Ci vorrebbe un piano ragionato per collegare le varie mete tra loro. Quanti treni mettere, come collegare le stazioni alle spiagge e ai siti archeologici, o aggiungere delle piste ciclabili per facilitare gli spostamenti».

Questa scarsa attenzione nella progettazione denunciata da Zanchini ha portato dal 2009 ad una diminuzione del 47% dei passeggeri dei treni intercity, nonostante l’incremento complessivo dei passeggeri sulle tratte nazionali. Nel frattempo aumentavano invece gli investimenti su strade e autostrade, tanto da intercettare, secondo il Conto nazionale dei trasporti (redatto dal governo, ndr) il 60% del totale speso per le infrastrutture. Nelle regioni meridionali economicamente dissestate i treni intercity e regionali, che sono finanziati in larga parte dallo Stato, hanno infatti finora pagato lo scotto della spending review e di una cultura del mercato che ha reso la gomma e l’alta velocità le uniche pratiche di movimento possibili.

Un’idea sbagliata per Anna Donati, esperta di tutela del territorio e dei sistemi urbani di mobilità: «Esiste tutta una gamma di fruitori dei mezzi su rotaia che si spalma, qualora messa in condizione, su tutte le tipologie di treni esistenti. I nostri cittadini e i nostri turisti per vari motivi possono prediligere la velocità, la convenienza o la bellezza del paesaggio che il viaggio in treno propone. Basterebbe fare delle politiche tariffarie e dei servizi adeguati e automaticamente l’utente si muoverebbe in quella direzione».

Una fotografia di questa situazione ce la possono dare i dati estrapolati dal rapporto Pendolaria, che certificano una sostanziale diminuzione (registrata nel periodo dal 2011 al 2019) dei passeggeri nei treni nelle regioni fuori dalle grandi rotte dell’alta velocità e con redditi procapite inferiori, come la Campania (-43,9%), il Molise (-11%), l’Abruzzo (-19%), la Calabria (quasi -25%) e la Basilicata (-35%). Questo perché, dopo i tagli delle risorse alle regioni per il servizio di trasporto, le aziende che lo erogano hanno deciso di ridurre gli investimenti o rinviarli.

Secondo Anna Donati il nostro Paese non paga solo un ritardo negli investimenti rispetto agli altri Stati europei, ma anche un’arretratezza di pensiero. «In Italia non si è mai superato il concetto di grande opera con un grande investimento e un colossale impatto sulla popolazione. La verità è che queste opere, senza una rete infrastrutturale fatta da tutta una serie di piccoli interventi, sono cattedrali nel deserto».

Kwestan Akram: «Contro noi curdi, ieri le bombe di Saddam Hussein oggi quelle di Erdoğan»

Nonostante siano passati 34 anni da quel massacro, il ricordo è ancora molto vivo nel popolo curdo. Per noi il Nord dell’Iraq si chiama Basur, ed è Kurdistan in tutto e per tutto, curda è la sua popolazione, come la lingua parlata. Durante la dittatura sanguinaria e tirannica di Saddam Hussein, era già capitato di subire attacchi ma il 16 marzo 1988, durante la guerra Iraq-Iran, intorno a mezzogiorno, la cittadina di Halabja, 70mila abitanti, nella provincia di Sulaymaniyya, a circa 15 km dal confine con l’Iran, venne improvvisamente avvolta in un velo verde. I bombardieri iracheni di fabbricazione francese invasero il cielo con un attacco mediante armi chimiche illegali.

Il giorno prima i partigiani dell’Unione patriottica del Kurdistan di Jalal Talabani avevano liberato la città. Abituata alle alterne offensive e controffensive nel conflitto Iraq-Iran che devastavano la regione dal settembre del 1980, la popolazione credette sulle prime che si trattasse di una classica operazione di rappresaglia. Un odore nauseante di mele imputridite riempì Halabja. Al calar della notte le incursioni aeree cessarono e cominciò a piovere. Poiché le truppe irachene avevano distrutto la centrale elettrica, gli abitanti partirono alla ricerca dei loro morti nel fango, alla luce delle torce. L’indomani si trovarono di fronte a uno spettacolo spaventoso: strade lastricate di cadaveri, persone sorprese dalla morte chimica nei loro gesti quotidiani: bambini tenuti per mano dal padre, neonati ancora attaccati al seno materno, gli anziani che pensavano di passare una giornata serena e i malati che speravano di guarire. In poche ore si contarono 5mila morti di cui 3.200 vennero tumulati in una fossa comune perché nessuno poté reclamarli.

La città di Halabja vive ancora oggi con i terribili ricordi di quella tragedia, nel suo territorio e in quello circostante non cresce più un filo di erba, le donne che erano state colpite dai gas non riescono avere più i figli e se possono averne, nascono deformi. Ora la speranza di migliaia dei parenti delle vittime di quella tragedia in particolare e del popolo curdo tutto è che, quanto accaduto non debba più ripetersi. Incontriamo l’attuale sindaca di Halabja, Kwestan Akram, durante un tour di incontri e visite in Italia. Femminista, esponente del Partito dell’Unione patriottica, è figlia di quella città martire.

 Nel 1988 lei aveva 21 anni e conserva un ricordo di quei giorni molto lucido: «Il giorno prima dell’attacco avevo sentito che i partigiani curdi erano entrati in città, ma gli aerei del regime continuavano a circolare sopra di noi. Avevamo in casa un rifugio sotterraneo. Appena si avvertirono i primi bombardamenti, mia madre lasciò il cibo che cucinava, gridò per chiamare noi figli e ci rifugiammo nel sotterraneo. Il giorno dopo ci fu una calma incredibile, l’unico rumore che sentimmo fu quello del trattore del nostro vicino di casa. Mio padre usci, ci caricò sul rimorchio del trattore e ci avviammo verso l’Iran. Durante il viaggio mio padre ci diceva di tenere gli occhi chiusi ma io non ci riuscivo. In quel momento ho visto i morti per le strade e i feriti. Raggiungemmo poi il confine dell’Iran. Dopo l’amnistia dichiarata dal regime, tornammo in Iraq verso le montagne di Qandil. Provammo ad andare a Sulaymaniyya. Al controllo di un checkpoint i soldati iracheni ci trattarono bene, noi pensavamo che tutto fosse finito. Invece ci fecero salire su una macchina e ci portarono nel grande carcere di Sulaymaniyya dove gli uomini e le donne furono separati. Poco tempo dopo fummo trasferiti nel carcere di Kirkuk dove fummo di nuovo divisi e lì ho conosciuto la fame, i bambini morivano per malnutrizione. Dopo mesi venne dichiarata una nuova amnistia e fummo liberati. Uscì anche quello che sarebbe divenuto mio marito e che era stato condannato all’ergastolo».

Qui il racconto di Kwestan Akram si fa doloroso e intenso: «L’anno successivo ci sposammo. Abbiamo avuto una figlia e un figlio, ma purtroppo mio marito morì per una malattia aggravata dalle torture subite. Oggi sono la sindaca di questa città, e sebbene l’uguaglianza possa essere una realtà lontana per molte donne in Iraq, ad Halabja le donne hanno raggiunto i vertici del governo locale. Un cambio radicale che ha segnato quasi una ripartenza nel Kurdistan iracheno, dove gli affari pubblici sono stati a lungo dominati dal potere di una manciata di uomini. Quando si è donna i sacrifici sono molti di più. Quanto alla città, Halabja sta cercando di riprendersi anche dopo la pandemia mondiale che oggi è sotto controllo, ma le difficoltà sono tante, dalla guerra permanente alla mancanza di budget».

La sindaca è estremamente preoccupata di quanto sta accadendo in questi mesi, a partire dall’attacco turco del 18 aprile: «In questi mesi il governo della repubblica turca attacca il Kurdistan dell’Iraq dove la guerriglia curda sta rappresentando una forte resistenza. Abbiamo avuto un incontro e siamo in dialogo con il sindaco di Qandil, città sotto bombardamenti turchi, abbiamo ricevuto notizie relative a nuovi attacchi con armi chimiche. Nessuno vuole che ci sia un Kurdistan, la Turchia, con la scusante del terrorismo, sta occupando e attaccando il Kurdistan iracheno (è di pochi giorni fa l’attacco aereo turco nell’area turistica di Barakh ndr). Ormai sono sempre più convinta che gli unici amici su cui i curdi possono contare sono le nostre montagne che ci proteggono, e che i curdi devono riuscire ad unire le loro forze». Il suo è un appello accorato all’unità mentre si preparano momenti bui, anche se, pensandoci bene, sono stati ben pochi nella storia curda gli sprazzi di luce: «Sappiamo che le grandi potenze del Medio Oriente sono spietate nei confronti delle altre etnie, che saranno massacrate oppure arabizzate o turchizzate, come accaduto per gli antenati dei loro nemici. Dico e scrivo queste parole mentre una brezza fredda mi avvolge le dita e un destino ignoto mi attende. Vivo attraverso i sogni di una terra libera».

L’autrice: Hazal Koyuncuer è attivista, sindacalista Cub e rappresentante della comunità curda milanese

Nelle foto: nel testo Kwestan Akram (frame dell’intervista  a Radio Mir a cura di Fabio Sebastiani e Lucia Vastano) e in apertura donne curde vicino alle rovine di Halabja dopo l’attacco iracheno