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La distopia elettorale

Salvini e Meloni ieri non hanno parlato. Hanno capito probabilmente che con un campo di centrosinistra così convulso conviene quasi stare zitti, visto che ogni volta che aprono bocca infilano qualche figura barbina. Silvio Berlusconi, rintanato nel suo berlusconissimo silenzio, fa la conta dell’emorragia di parlamentari che ora lo dipingono come un despota. Del resto non c’è niente di peggio dell’acredine di un servitore che ha trovato un padrone più conveniente.

Dall’altra parte succede di tutto. Gli uomini di centrodestra che ora magicamente verranno rivenduti sul banco del centrosinistra si presentano subito magnificamente. Andrea Cangini (uno dei nuovi idoli del centrosinistra dopo avere mollato Berlusconi) dice: «Carfagna, Brunetta o Gelmini potrebbero essere i candidati premier del centrosinistra». Sembra uno scherzo ma non lo è: il campo largo di Enrico Letta rischia serenamente di essere l’incubatore del prossimo centrodestra. Quando accadrà molti fingeranno di non essersene accorti.

A proposito di candidato presidente del Consiglio, Carlo Calenda (ormai ufficialmente nel campo del Pd) appena arrivato detta già le sue regole e propone Draghi come presidente del Consiglio. Ci sono due piccoli particolari non trascurabili: Draghi non è disponibile (ma per Calenda l’importante è l’effetto che fa, come tutti i populisti che si rispettino) e lo statuto del Pd all’articolo 5 dice: «Il Segretario nazionale rappresenta il partito, ne esprime la leadership elettorale ed istituzionale, l’indirizzo politico sulla base della piattaforma approvata al momento della sua elezione ed è proposto dal partito come candidato all’incarico di presidente del Consiglio dei ministri».

Renzi è sempre più solo. Avrà avuto una nottata difficile leggendo che Di Maio vale più della sua creatura politica. Il leader di Italia viva continua a ripetere “noi corriamo da soli” e intanto bussa a tutte le porte, come un vero e proprio stalker di Enrico Letta. Intanto Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli cominciano ad avere più di un problema con i loro elettori non proprio entusiasti della prospettiva di correre in coalizione con Calenda (che è per la distruzione dello Stato sociale e per le centrali nucleari) e con Brunetta, Gelmini e compagnia. Calenda intanto ieri ha proposto di risolvere il tema dell’immigrazione «aumentando i rimpatri»: un’ottima soluzione di destra (politicamente è la stessa posizione di Meloni e Salvini) tra l’altro inattuabile, come un vero populista.

La cosa più incredibile sono i veti che stanno per cadere. Ne ha fatto un riassunto perfetto il giornalista di Repubblica Matteo Pucciarelli: «Il #vetometro del 25 luglio. Calenda: mai con M5s, rossoverdi e Di Maio. Di Maio: mai con M5s. Rossoverdi: mai con Calenda e Renzi. M5s: non ci vogliono più, cattivi! Pd: tutti insieme tranne che con il M5s. Renzi: candidatemi. La destra naturalmente trema».

Siamo in piena distopia.

Buon martedì.

Omicidio della piccola Diana: perché non è stata richiesta la perizia psichiatrica?

«La morte della piccola Diana ci ha lasciati tutti attoniti, scioccati ed increduli per la “ferocia” del comportamento della madre Alessia, 37 anni. Virgolo la parola ferocia perché in realtà non si può parlare di un gesto efferato o di un omicidio violento a livello di agito fisico. Ma è feroce la lucidità e la freddezza con la quale questa donna ha agito». Con Marzia Fabi, psicologa e psicoterapeuta, coautrice di diversi saggi per la collana di psichiatria e psicoterapia  Bios Psychè de L’Asino d’oro edizioni, torniamo a parlare del caso di Milano. Per tentare di capire.

È un omicidio molto diverso dagli altri figlicidi accaduti in Italia negli ultimi decenni» aggiunge Fabi. «Penso al delitto di Cogne oppure alla mamma che anni fa aveva messo la bambina nella lavatrice. Quello che è avvenuto la scorsa settimana – lasciare sola in casa per 6 giorni una bimba di 18 mesi, sola, senza cibo (se non con un biberon di latte accanto) per raggiungere il compagno a Bergamo – è di gran lunga molto più grave a livello psicopatologico e più inquietante a livello umano, anche di molti casi che più hanno scosso l’opinione pubblica negli ultimi anni».  

Non a caso questo fatto, a distanza di diversi giorni, è ancora molto presente sulle pagine dei principali giornali e, dice Fabi: è difficile districarsi tra i numerosi articoli di giornale pieni di notizie e di ipotesi tra le più varie. «Difficile è ancora farsi un’idea chiara su chi sia Alessia Pifferi o anche tentare di delineare un profilo psicologico di questa donna descritta come schiva, irascibile, bugiarda, solitaria, da tre anni disoccupata. Quello che secondo me è stato riportato in maniera molto chiara sono, invece, le dichiarazioni della madre nell’ambito dell’interrogatorio avvenuto in carcere. Sicuramente la frase che colpisce di più è: “Sapevo che poteva andare così” cioè la donna sapeva che sarebbe potuta accadere qualsiasi cosa lasciando Diana sola: poteva cadere dal lettino, poteva avere sete, fame, poteva sentirsi male, poteva avere il terrore di ritrovarsi sola giorno e notte, poteva piangere a squarciagola senza che ci fosse nessuno ad ascoltarla…poteva morire!!! E alla donna non è servito neanche questo pensiero per non andare, per fermarsi lì con sua figlia. Ha chiuso la porta ed è andata via, dal suo compagno con il quale voleva a tutti costi portare avanti una relazione già difficile».

E, da quanto raccontato dalla donna stessa durante l’interrogatorio, negli ultimi week end di giugno e di luglio, l’aveva  sempre lasciata sola per due/tre giorni… raccontando a tutti tante, troppe bugie, alla madre, alla sorella, al compagno da cui si recava. «Avrebbe potuto lasciarla davvero a qualcuno ma aveva paura del giudizio, del compagno e della sorella». Un’altra cosa che ci colpisce è anche come i suoi familiari e il compagno non si siano mai stupiti quantomeno del fatto che, lasciare tutti i week end una bambina di 18 mesi con qualcun altro (secondo quanto lei raccontava) può sembrare quantomeno prematuro e forse eccessivo. A quell’età, come chiunque sa, i bambini sono ancora molto piccoli per stare troppo lontani dalla mamma, troppo spesso.

«Tornando alla frase  “sapevo che poteva succedere”,  a livello umano, ma anche psicologico e psichiatrico, è una frase agghiacciante che ci deve far pensare» osserva la psicologa e psicoterapeuta. «Dietro questa lucidità – riconosciuta anche dal gip – si nasconde un orrore che rende questo caso diverso da tanti altri. L’orrore di una freddezza emotiva, di una assenza di emozioni, di assenza di preoccupazione e, soprattutto di rapporto con la realtà. La realtà di una bambina di 18 mesi che dipende totalmente dalla madre. Lei è andata via  pur sapendo che avrebbe rischiato di farla morire». La madre si è assunta consapevolmente questo rischio perché? Non le importava? Voleva che Diana morisse? «Quello che sappiamo è che tutti i gesti fatti dalla madre sono stati dettati da lucidità e consapevolezza, la lucidità che le viene imputata dal giudice: omicidio volontario aggravato da futili motivi». Tutto ciò, prosegue Marzia Fabi, rende il quadro in cui è maturata la morte di Diana diverso per esempio da quello in cui un genitore “dimentica” il bambino in auto sotto il sole.

«Quanti casi abbiamo sentito di questo genere? Il genitore scende dall’auto e non “ricorda” che sul sedile posteriore, nel seggiolino c’è suo figlio. Anche qui usiamo le virgolette perché in realtà non è una dimenticanza ma un sintomo gravissimo di malattia, una pulsione di annullamento che scatta, in maniera del tutto inconsapevole solo in persone con una determinata realtà psichica. La persona non “vede” più il bambino come se lì non ci fosse e non ci fosse mai stato. La pulsione di annullamento, teorizzata dallo psichiatra Massimo Fagioli già 50 anni fa nel libro Istinto di morte e conoscenza, fa sparire l’altro e il rapporto con l’altro». Di cosa si tratta? È una pulsione inconscia che, potremmo dire, arriva ad intaccare la coscienza per cui il genitore non “sa” più che con lui c’è il bambino».

Di conseguenza lo lascia in macchina e va a lavorare, va a fare le sue cose e quando torna, dopo ore, lo trova morto e improvvisamente realizza quello che è successo. «Questi genitori, poi, sono disperati – precisa Fabi – perché si rendono conto di aver avuto una sorta di black out: il bambino sparisce, non esiste più nella loro mente. Mentre nel caso di Milano la bambina c’è. La madre racconta che Diana è da sua sorella al mare, è perfettamente lucida, c’è un’intenzione di lasciarla a casa da sola, sapendo perfettamente cosa sta facendo o comunque sapendo di andare incontro a questo rischio».

L’altra cosa che colpisce nei racconti riportati dai giornali è che lei dice di non essersi accorta di essere incinta, se ne è accorta solo quando ha partorito, in casa del compagno, in bagno! Come è possibile? «O è una bugia oppure è vero – dice Fabi -. Se davvero non se ne è accorta (e non se ne è accorto nessuno intorno a lei) sarebbe una sorta di annullamento della gravidanza simile a quello fatto da chi abbandona il bambino in auto? Ma poi dal momento in cui la bambina nasce, stando a quello che riportano i giornali, lei ha sempre cercato di far finta che la figlia non esistesse…». E il compagno? Possibile che anche lui non si sia accorto che la donna era incinta?

Su alcuni giornali si è parlato di un forte stato depressivo, lei cosa ne pensa?

«In base agli elementi che emergono dico con certezza che non si tratta di depressione, assolutamente, ma di un quadro clinico molto diverso e più grave. Ed è difficile fare un’ipotesi diagnostica e forse è anche fuori luogo in questo contesto. Questi sono discorsi e confronti da fare tra colleghi non sui giornali. Anche perché non conosciamo direttamente la signora e la sua storia». Forse nelle prossime settimane emergeranno altri elementi su cui poter discutere. «Ho letto però un articolo molto interessante – prosegue Fabi – in cui la ginecologa Alessandra Kustermann, che lavora da anni in un centro antiviolenza, parla di “impermeabilità emotiva”. Mi ha colpito molto questa definizione. Noi psicoterapeuti fagioliani, parliamo di anaffettività, di freddezza, di lucidità razionale, calcolatrice, dietro cui si cela il totale disinteresse per le sorti della  bambina; dove prevale solo la necessità di soddisfare le sue esigenze o i suoi bisogni. E dentro questa anaffettività, in questa intenzionalità esplicita di “cercare di far finta che la bambina non esista” (come lei stessa ha dichiarato), possiamo dire che c’è in fondo la volontà di liberarsene? Di lasciarla morire. Questa per noi psicoterapeuti è chiaramente e palesemente malattia mentale». Ma il giudice non ha richiesto la perizia psichiatrica. «Dobbiamo chiederci perché, questa cosa è inquietante».

Possiamo pensare che un bambino piccolo possa resistere un giorno da solo? «Certo che no ma neanche un’ora. Non esiste! Non è una cosa “normale, sana”, non si lascia un bambino solo neanche per cinque minuti. Non è possibile che un giudice pensi che questo sia normale. Che vorrebbe dire? Che tutte le donne potrebbero avere rapporti simili con i bambini? Mettere davanti al neonato altre priorità…con il rischio che muoia? Questa non è sanità mentale, anche se la signora appare capace di intendere e di volere. C’è qualcos’altro dietro la razionalità, ci deve essere un amore, un affetto, un interesse profondo e se non c’è, è malattia, malattia della mente non cosciente, il cui sintomo più grave è proprio l’impermeabilità emotiva descritta dalla ginecologa Kusterman parlando di queste madri che, sembrando normali nei comportamenti quotidiani, non vengono segnalate ai servizi territoriali o comunque non arrivano a chiedere aiuto. E questa anaffettività è ciò che l’ha portata a lasciare che la figlia morisse di stenti».

In altri casi di figlicidi, quello che è emerso dalle cronache dei giornali era l’angoscia, un delirio più o meno franco, l’odio, la rabbia del genitore omicida. «Qui – torno a dire – non sembra esserci nessuna emozione. Chi l’ha interrogata ha riferito che la donna non ha pianto, non si è angosciata, non ha avuto reazioni. L’ha lasciata morire senza toccarla, senza “sporcarsi le mani”, a testimonianza, forse, di un’assenza totale di coinvolgimento sia fisico che psichico. E qui mi chiedo – conclude Fabi-,ho letto sui giornali le dichiarazioni di vicini, ho ascoltato la loro angoscia e il senso di colpa che dicono di provare per “non essersi accorti” di nulla. Ma il compagno, la sorella, la madre, il pediatra della bambina o chi, ad esempio le ha dato il flacone di Benzodiazepine (potente ansiolitico che necessita di prescrizione medica), possibile che non abbia avuto un po’ di amore in più per rendersi conto che questa donna non stava bene e andava aiutata? Credo e ribadisco che una perizia psichiatrica andrebbe assolutamente chiesta».

Cristina Zavalloni: «Mi sono immersa nella melodia di Nino Rota, poesia pura»

L’arte cinematografica, fin dai suoi esordi, ha esercitato un grande fascino su artisti e compositori e così è stato per Nino Rota che, a dispetto della sua solida formazione accademica, si è pienamente espresso nella composizione di colonne sonore, collaborando con alcuni dei più grandi registi contemporanei nella realizzazione di veri e propri capolavori del cinema, in particolare con Federico Fellini e Francis Ford Coppola. Grazie alla sua apparente semplicità e alla grande vena melodica, la musica di Rota ha ispirato, e continua a farlo, tanti musicisti dalle estrazioni più disparate, sia in Italia che all’estero. Tra coloro che hanno dedicato al compositore un intero album ricordiamo Enrico Pieranunzi, Fabrizio Bosso con la London Symphony Orchestra, Salvatore Bonafede, Gianluca Petrella, Richard Galliano, Ekkehard Wölk, i Sex Mob e gli Avion Travel. A questa produzione discografica, da qualche mese, si è aggiunto il bel lavoro di Cristina Zavalloni & ClaraEnsemble, Parlami di me – Le canzoni di Nino Rota, prodotto da Egea Records. Cantante e compositrice bolognese, Zavalloni è un’artista affermata a livello internazionale che si è espressa nella danza, nel grande teatro contemporaneo, nella pura sperimentazione e nel jazz. Per oltre venti anni ha ispirato il compositore olandese Louis Andriessen e si è dedicata con amore ai repertori di Berio, Schönberg e Poulenc. In questo ultimo cd, realizzato insieme ai ClaraEnsemble, Cristina ha scelto il colore e i brani che lo compongono mentre Cristiano Arcelli ne ha scritto gli arrangiamenti.

Cristina Zavalloni, cosa ti ha spinto a dedicarti a questo lavoro? Condividi l’affermazione che la musica di Rota sia “non catalogabile”, ragion per cui sarebbe un autore sempre attuale?
Meno male che non possiamo incasellare alcuni musicisti: Rota è talmente “non catalogabile” che io non ci avevo mai pensato, a un certo punto mi è risuonata una fascinazione per una musica semplicemente bella. Se poi vogliamo fare un’analisi razionale e ci chiediamo il perché di questa bellezza oggettiva, possiamo dire che la ragione si trova nella felicità della sua intuizione melodica, poesia pura direi, accompagnata come nel nostro caso, da testi geniali che vanno dritti al cuore, mai banali, che infatti sono il frutto della penna di grandi menti. Più le menti sono grandi, io penso, e più riescono a mettersi al servizio della semplicità più assoluta. Il segreto di una bella canzone che resta immutato nel tempo risiede in poche note felici e poche parole che toccano il cuore, che la rendono di conseguenza facilmente traducibile in moltissime lingue, che diventa un ponte tra le diverse culture, come è successo per Rota. Andando più in profondità nell’analisi musicale, si può dire che ci troviamo davanti a un vero compositore che ha una grande scuola alle spalle, con basi accademiche profonde ma anche con tanto mestiere.

Possiamo dire che Rota sia stato un musicista che ha introdotto molte novità nelle sue orchestrazioni in ambito cinematografico, soprattutto nelle timbriche e tipologie strumentali, come chi è avanti rispetto ai suoi tempi?
Sì, certamente, è stato uno dei primi compositori a portare tutta questa sapienza classica, accademica, al servizio di un’arte popolarissima. Direi una persona risolta, che non aveva bisogno di dimostrare niente. Non si sentiva certo depauperato nel mettersi al servizio dell’immagine, non ha avuto un ego che interferisse ed è stato forse questo il segreto del lungo rapporto con il grande Federico Fellini, che in quanto ad ego…

Il mio amico magico, come amava dire Fellini…
Sì (ride) Nino Rota, l’amico magico, come tra l’altro è intitolato l’omaggio degli Avion Travel a Rota, uno dei miei riferimenti nella preparazione di questo lavoro.

Ascoltando il tuo disco, stupisce il passo lieve che conduce, un movimento rispettoso e onesto, sobrio.
Mi sono tenuta un passo indietro? In effetti l’ho sentito molto naturale, così come quando mi rapporto, come interprete, alla musica di un grande compositore, vivente o no, a differenza di quando sono leader di un mio progetto jazz, terreno in cui mi do carta bianca. In questi casi mi sbizzarrisco a introdurre colori diversi, anche teatrali ed emotivi. Ma negli ultimi tre lavori discografici realizzati a partire dal 2020, un periodo speciale e molto raccolto per tutta l’umanità, si può dire che il mio atteggiamento sia stato lo stesso. Parlo di For the Living con Jan Bang, Parlami di me dedicato a Rota e di PopOFF!, il lavoro con Paolo Fresu dedicato alle canzoni dello Zecchino d’Oro. Tre lavori in ambiti molto diversi in cui ho cantato mettendomi al servizio della musica di altri, con la stessa onestà espressiva. E mantengo questo atteggiamento sacrale anche nel mio brano “Prova tu”, perché questo è il mio tempo, più intimo che estroverso.

Il brano “Prova tu” è l’unica composizione originale contenuta nell’omaggio a Rota. Molto intenso e ispirato, si mescola con gli altri brani senza soluzione di continuità, sia per ricerca melodica che per poesia, affiancandosi a testi come quelli di Lina Wertmüller, Elsa Morante, Antonio Amurri, Michele Galdieri.
Senza falsa modestia o finta umiltà, sono d’accordo. Non che sia un capolavoro, ma sento anch’io questa fusione di tutto il lavoro, il mio rapporto con la scrittura è sempre stato buono, ma questo parto è stato proprio naturale e felice, tanto che sono tornata a casa da una breve passeggiata scoprendo di aver scritto un ottimo brano.

Ti sei fatta delle domande?
Certo, e ho trovate le risposte nella semplicità del contesto in cui mi andavo a inserire, questa chiarezza melodica, armonica e testuale in cui ero immersa. Forse una delle difficoltà in cui invece ci troviamo oggi noi musicisti jazz o di musica contemporanea è di vivere una fase di frammentazione, non essendoci una direzione, una comunità di riferimento o una grande scuola. Pensiamo agli artisti fiamminghi o ai movimenti artistici dell’Ottocento; quando ci sono le grandi scuole è più facile che si affermi il grande genio, che non viene mai dal nulla ma che si situa nel solco di una scuola di pensiero, dalla quale prende stimolo e dalla quale si separa criticamente.

In assenza di un simile contesto tutto diventa più difficile?
Sì, perché l’essere umano ha bisogno di sentirsi parte di un tutto. Per ritornare a “Prova tu”, avevo molto chiaro il contesto in cui dovevo collocare il mio brano, una musica tanto bella e così ben congegnata da farmi sentire guidata. Mi sono lasciata andare, sfruttando la corrente e non cercando di contrastarla, risalendo il fiume come il salmone.

La tua è una ricerca sull’identità umana prima che artistica? Come se gli stili o i progetti che crei per poterti esprimere partissero da un nucleo originario di cui ti prendi cura e che difendi?
Sì, certo, e la cura e la difesa di noi donne non finirà mai. Forse oggi sento addosso il peso di un vissuto passato a dover dimostrare, convincere che ciò che facevo non era una scelta, ma l’unica possibilità di essere. Il trascorrere del tempo, poi, ha rafforzato la mia identità umana e artistica e non mi sfiorano più questi pensieri, ma a vent’anni, alle audizioni, sentirsi dire spesso “tu non riuscirai, non sei la moglie di Berio” richiedeva tanta resistenza. E poi Cathy Berberian, la moglie di Berio, è stata il faro della mia vita… Non è stato facile, ogni tanto mi sono dovuta fermare a riflettere, mi sono messa in ascolto e ho capito che quella ero io, sono io, con quel modo curioso di incedere ma sempre onesta, con la mia anima che a volte può essere dolente (e allora ho realizzato un disco come For the Living), ma che è stata per anni anche esplosiva e quindi ha dato vita a sperimentazioni estreme, oppure come in questa fase della vita in cui mi sento più pacificata, mi scopro felice a cantare belle canzoni in italiano. Non riesco ad ascoltare niente che non sia nella mia lingua, non mi interessa nessun mascheramento, niente che non mi parli di quello che sono e dove sono. Forse la maternità ha cambiato le mie esigenze, ma non la libertà dell’espressione artistica.

Come si realizza nelle scelte artistiche questa libertà?
Io vado avanti dritta, se sento che una cosa è giusta non mi fermo davanti a niente. E perché sia giusta mi deve emozionare, la devo sentire nel profondo, qualcosa mi deve commuovere perché io accetti un lavoro. In caso contrario sarei un disastro, non riuscirei.

Interpreti, componi musica, sei autrice di testi, improvvisi, qual è il peso della scrittura in tutto ciò e come hai vissuto la formazione teorica fatta a suo tempo?
Il peso della scrittura è enorme per me, soprattutto oggi. Ho studiato composizione ed è stato un percorso bellissimo, poi mi sono fermata, ho lasciato il conservatorio perché mi si è aperta la possibilità di fare esperienza sul campo con Andriessen e non era un treno che potevo perdere e quindi sono partita.

Un lungo sodalizio artistico quello con il compositore olandese Louis Andriessen, che ha scritto per te dei veri capolavori.
Si, ho lavorato per più di venti anni con uno dei più grandi maestri, sono stata la sua musa, come lui mi diceva, che è una cosa molto lusinghiera ma la verità è che, come musa, sono stata un po’ una schiava, di lusso, ma una schiava. Sì, perché ero totalmente al servizio della sua creatività, del suo estro. Riuscivo a liberarmi dalla sua gabbia di platino proprio attraverso i miei progetti di musica jazz che mi proiettavano in una dimensione diametralmente opposta. La gabbia non era solo interpretativa, dell’esecutore di musica classica, ma anche data dalla particolare vocalità che mi richiedeva e che mi costringeva a un colore solo. Dopo qualche anno dalla nascita di mia figlia è stato chiaro a tutti e due, d’amore e d’accordo, che il nostro rapporto sarebbe diventato altro, una grande trasformazione che richiedeva una fase nuova. Ritengo comunque di aver avuto una fortuna sfacciata per aver potuto vivere questa enorme esperienza.

Non più un colore solo della voce, ma la libertà di poter cercare, di volta in volta, dentro di sé.
Ora non ho più bisogno di urlare per farmi sentire o di agitarmi per farmi vedere. Sono cambiate le mie motivazioni del fare musica e viene fuori quello che c’è, quando c’è… è tutto più naturale. Lavoro tantissimo sul respiro, cerco il fluire libero e mi godo anche il silenzio.

Cosa ci racconti del nuovo duo con il tubista Michel Godard?
Stiamo lavorando ad un nuovo disco che sarà pubblicato con calma. Il nostro rapporto è emblematico, ci siamo conosciuti quando avevo diciotto anni ed è stato il primo ospite del mio primo disco di jazz. Ci siamo frequentati e poi persi negli anni, poi un incontro di una sera e una improvvisazione insieme… dapprima mi sono schernita ma poi lui ha insistito e da quel momento il filo si è tenuto ben saldo. Ho capito che sto bene solo quando improvviso in totale libertà, dire “free” non vuole dire niente di questi tempi se non un esercizio di stile, mi riferisco alla libertà da qualsiasi costrizione armonica, che è invece la prerogativa di tanto jazz. Insegno ai miei studenti tutte le regole per poter improvvisare jazz ma poi io la pratico fuori da ogni schema, come ricerca di un colore, di un’espressività teatrale, di effetti. L’improvvisazione per me è l’estemporaneità del vissuto sul palco, è l’avventura con gli altri musicisti con cui ci si intende al volo, è riuscire a stupire con qualcosa di insolito, non programmato. Con Michel ci vogliamo bene, sai è una cosa seria volersi bene e se non sento questa cosa qui io non riesco a fare più la musica, anzi non mi interessa più farla. In poche parole… ci deve essere amore.

In apertura Cristina Zavalloni nella foto di Marcella Fierro. Nel testo la cover dell’album

In tour

5 agosto: Cristina Zavalloni “For the Living + Eivind Aarset” (Valsamoggia) https://www.frb.valsamoggia.bo.it/cortichiesecortili/eventi/ccc36-18/

6 settembre: Cristina Zavalloni – Manuel Magrini “Parlami di me”(Legnago)

 

Dei punti da cui partire

Anche io come molti altri – Fabrizio Barca l’ha spiegato benissimo in un’intervista ieri su La Stampa – sono rimasto più che disorientato nel vedere che la campagna elettorale di quel campo che dovrebbe essere il centrosinistra sia partita dalla cosiddetta “agenda Draghi”. Al di là del fatto che usare l’agenda di un governo tecnico come bussola politica è una cretinata enorme sono abbastanza vecchio per ricordare che con l’agenda Monti finì male, malissimo.

Quando poi ho cominciato a vedere i nuovi ingressi nel “campo largo” ho avuto ancora più dubbi: l’agenda Draghi ha tutta l’aria di essere un perimetro politico, ovviamente spostato a destra. Anche perché per l’ennesima volta assisteremo alla truffa del “voto utile”, del “meno peggio”, e della “destra da battere” con cui poi questi hanno governato per tutti questi anni.

C’è un documento, che è di un’associazione quindi non ne avranno male i partiti, che mentre tutti parlano di alleanze mette nero su bianco un’idea che forse sarebbe la pena percorrere. L’ha scritto la rete di attivisti Up – Su la testa!:

«Una delle più strane crisi di governo che si sia mai vista, apertasi nonostante la maggioranza bulgara di cui godeva il governo Draghi in Parlamento, si è chiusa col colpo di grazia finale delle destre di governo. Si tornerà alle urne dunque, le cittadine e i cittadini italiani sono chiamati al voto il prossimo 25 settembre.

Draghi e una parte dell’establishment hanno provato a spaccare sia la destra sia il centrosinistra per costruire un blocco di centro neoliberista che portasse avanti l’agenda del governo (privatizzazioni, smantellamento del reddito di cittadinanza, riforma fiscale a vantaggio dei redditi alti, politica di riarmo, investimento sulle fonti fossili) anche dopo le elezioni.

La destra, come sempre accade quando c’è l’obiettivo della conquista del potere, si è mantenuta unita ed è ora in pole position verso le elezioni. Il centrosinistra, invece, si è diviso, con il Pd che ha deciso di rompere con il Movimento Cinque Stelle e di presentarsi alle elezioni come l’erede della continuità con “l’agenda Draghi”, magari abbracciando il centro liberista di Renzi, Calenda, del neo arrivato Di Maio e addirittura dei fuoriusciti da Forza Italia come Mariastella Gelmini e Renato Brunetta, tra i principali responsabili dello smantellamento della scuola e dell’università pubblica e dei diritti di lavoratori e lavoratrici dei servizi pubblici.

Il rischio è che le elezioni di settembre si riducano allo scontro tra una destra reazionaria, razzista e omofoba, guidata da Giorgia Meloni, e un centro liberista e tecnocratico guidato da Enrico Letta, se non da Draghi stesso. Un quadro che porterebbe con ogni probabilità all’insediamento di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi: il ritorno della stessa destra berlusconiana di sempre, che già troppi danni ha fatto al nostro paese, per di più ora guidata da una persona e da un partito eredi diretti del fascismo ed espressione della destra più radicale e pericolosa.

La scelta del Pd di rincorrere Draghi rischia di regalare tutti i collegi uninominali alla destra: l’unico modo per impedire questo scenario, dati alla mano, è che il blocco centrista non sia l’unico ad opporsi alla destra ottenendo un risultato significativo.

In questo scenario di campagna elettorale scomparirebbero completamente — o peggio ancora verrebbero assorbite da una destra che in campagna elettorale è sempre pronta a definirsi “sociale” — le questioni che stanno a cuore alla maggioranza degli italiani: salari insufficienti a reggere l’aumento dell’inflazione, un sistema di welfare sotto attacco, la povertà energetica crescente, il riscaldamento globale che minaccia la stessa esistenza della nostra specie.

Eppure non partiamo da zero: questi anni hanno visto emergere nella società proposte utili e unificanti: un salario minimo che assicuri una retribuzione dignitosa a tutti i lavoratori; la difesa e il potenziamento del reddito di cittadinanza come strumento di lotta alla povertà e di liberazione dal ricatto del lavoro sottopagato; una transizione ecologica giusta che metta al centro le energie rinnovabili e la trasformazione della nostra economia, facendone pagare i costi a chi inquina. Chi porterà avanti questi temi? Due liste di sinistra contrapposte? Il Movimento Cinque Stelle?

Le forze politiche che condividono queste proposte hanno la responsabilità di portarle avanti, e di costruire a partire da esse un fronte comune di alternativa, come avviene del resto in tutti i paesi europei.

Ci rivolgiamo alla alleanza tra Sinistra Italiana e Verdi, al Movimento Cinque Stelle, all’Unione Popolare lanciata da Luigi De Magistris a tutte le forze di sinistra, civiche, ecologiste: serve un’alleanza per il salario minimo, un vero reddito di cittadinanza, la pace, il disarmo e la transizione ecologica: un’alleanza per la pace, il pane, il pianeta.

Una proposta politica che abbia l’ambizione di rappresentare la maggioranza delle persone alle prossime elezioni, e che poi in Parlamento si misuri alla luce del sole con la capacità di costruire accordi programmatici chiari per avere finalmente un governo che lavori nell’interesse della maggioranza sociale del Paese.

In questi giorni abbiamo sentito parlare troppo a sproposito di “responsabilità”, come fattore che avrebbe dovuto unire tutti intorno all’agenda Draghi.

Crediamo invece che la responsabilità di tutti e tutte, oggi, sia di rivolgersi alla maggioranza delle persone, prendersi carico dei temi che stanno loro a cuore e farne proposta politica e di governo. Non c’è alternativa al discredito della politica, all’astensione, al rifugiarsi nella peggiore destra da parte delle classi popolari, se non in una politica che metta al centro gli interessi concreti delle persone. Salario, reddito, clima, pace: ripartiamo da qui».

Non sembra così difficile.

Buon lunedì.

Nella foto dalla pagina fb di Up-Su la testa, sciopero del 16 dicembre 2021

Figlicidio, perché “lucidità” non può mai essere sinonimo di “normalità”

In vent’anni – dal “delitto di Cogne”, 30 gennaio 2002 – oltre 480 bambini in Italia sono stati uccisi dai genitori, in sei casi su dieci dalla madre. In pratica mediamente due volte al mese le cronache ci riportano la notizia agghiacciante di un figlicidio. Tra giugno e luglio questo andamento sembra essere stato tristemente rispettato. Non si era ancora spento l’eco della morte della piccola Elena Del Pozzo assassinata a Catania dalla madre, Martina Patti, che da Milano è arrivata la notizia della morte di Diana una bimba di appena 16 mesi abbandonata da sola per 6 giorni dalla madre, Alessia Pifferi.

Diana probabilmente è morta di sete ma mentre scriviamo c’è attesa per gli esami tossicologici sul sangue della piccola e sui residui di latte nel biberon. Si vuole capire se sia stata sedata per evitare che piangesse e se l’eventuale dose di benzodiazepine abbia in qualche modo inciso sul decesso. Si fa molta fatica a scrivere queste cose ma è necessario farlo perché come tutti vogliamo capire quali possono essere le cause di azioni così efferate e cosa può e deve fare la società per arginare o prevenire tragedie del genere. Per orientarci abbiamo rivolto alcune domande alla psichiatra e psicoterapeuta Barbara Pelletti (nella foto), presidente dell’associazione Cassandra impegnata nella difesa delle vittime di violenza e stalking. 

Dottoressa Pelletti quali riflessioni si possono ricavare da quello che riportano i giornali in questi giorni sul caso di Milano? Colpiscono alcune delle frasi della madre: «Sono una buona mamma, non sono una delinquente»; «Sapevo che poteva andare così»…
Una prima riflessione che si può fare è che la “matrice” di quello che è successo non è sicuramente rara – sto parlando dell’anaffettività, ed è questo il problema centrale – mentre casi simili a questo di Diana, così atroci, sono davvero rari. Negli ultimi anni ne sono accaduti alcuni negli Stati Uniti, in Giappone, e speriamo che restino così rari. Leggendo le frasi che la madre avrebbe pronunciato dopo l’arresto, la prima cosa che balza agli occhi è la contraddizione tra l’affermazione di essere “una buona madre” e il fatto di essere consapevole che il suo comportamento avrebbe potuto provocare la morte della bimba. Questo dovrebbe far pensare a chiunque che c’è una dissociazione, che manca completamente il rapporto con la realtà.

Secondo lei è corretto parlare di “premeditazione” come si legge nel capo d’imputazione?
La procura dovrebbe aver ipotizzato il reato di omicidio volontario pluriaggravato con premeditazione, per futili motivi. Da un certo punto di vista sono d’accordo, c’è premeditazione. Lo afferma lei stessa dicendo di essere stata consapevole che abbandonando sola in casa la figlia questa sarebbe potuta morire di stenti. Qui la donna sta dicendo la verità perché chiunque sa che una bimba così piccola non avrebbe potuto resistere. Ma c’è un confine sottile tra la premeditazione – cioè un pensiero cosciente – e quello che è stato notato su un articolo del quotidiano Avvenire.

Vale a dire?
Che questa donna si è comportata sempre come se la bambina non fosse mai esistita. E precisamente questo è l’effetto della “pulsione di annullamento” teorizzata da Massimo Fagioli, al tempo stesso origine e conseguenza della anaffettività in una sorta di circolo vizioso. 

C’è chi ha scritto che parlare di “anaffettività totale” è un generoso alibi.
Ecco, su questo dissento. Il punto è che nella maggior parte dei casi – compreso quello recentissimo di Catania – emergono motivazioni coscienti, ovviamente agghiaccianti, che fanno pensare alla vendetta. Questo caso è diverso. Quando il gip parla di “Premeditazione per futili motivi” per la moderna psichiatria questo “significa” assenza di rapporto con la realtà, fatuità, anaffettività. Tutto ciò si ricava dalla ripetitività dei comportamenti di abbandono da parte della donna come pure dalle sue parole pubblicate su tanti giornali praticamente allo stesso modo. Quindi verosimilmente si tratta di virgolettati corretti.

Il gip ha parlato di “lucidità” della mamma di Diana nel compiere le azioni che hanno portato alla sua morte, e per questo ha deciso che non dovesse essere eseguita una perizia psichiatrica. Cosa si può dire su questo?
La freddezza che ha colto il gip corrisponde a quella che è stata riferita da tutti i conoscenti intervistati in questi giorni. “Non giocava mai con la bimba”, “la teneva sempre nel passeggino” e altre cose. Ma qui mi chiedo: Come fanno a stare insieme la lucidità – cioè l’assenza di disturbo del pensiero – e un’affermazione palesemente in contrasto? Dovrebbe venire quanto meno un sospetto…

Come se ne esce da questo loop?
Bisogna fare un passo avanti e considerare che questo elemento di freddezza emerge sempre in omicidi del genere, che ovviamente sconvolgono tutti. Alla radice di questi fatti, occorre ribadirlo, c’è sempre l’anaffettività e cioè la malattia mentale. Non si può pensare che uccidere un bambino con freddezza non sia malattia mentale e che ci sia la malattia solo laddove per es. il delitto avviene con un certo impeto. Quando si arriva a uccidere un bambino dietro c’è sempre una grave patologia mentale. La freddezza non deve essere considerata prova del contrario, cioè di sanità. Non è solo la moderna psichiatria ad affermarlo e ad averlo dimostrato sulla base della Teoria della nascita di Fagioli. Va recuperata la storia della psichiatria che considerava l’anaffettività la base delle psicosi più gravi.

Anche sui giornali è stato scritto che Alessia Pifferi non soffriva di problemi psichici.
Ma questo chi lo dice? Proprio in base a quello che riportano i giornali sappiamo che c’erano tanti segni di patologia. Evidentemente anche nei media prevale l’idea che la freddezza totale – e in questo caso lo è – escluda la malattia mentale e che questa sia presente solo negli affetti manifestamente violenti. Questa idea va ribaltata. Va ribaltata la convinzione che la freddezza sia “normalità”. E questo spiega anche perché solo a posteriori ci si allarma, solo a tragedia già avvenuta. Perché a livello di cultura dominante la freddezza non è considerata malattia e solo quando la violenza è manifesta si pensa a un problema psichico. Va peraltro detto che la percezione dell’opinione pubblica è diversa da quella proposta dai mezzi di informazione o del giudice. Basta leggere i commenti sui social. Che ci sia malattia mentale in casi del genere è evidente a tanti. 

Forse uno degli elementi più inquietanti è che probabilmente l’aveva già lasciata sola altre volte…
Ecco, a questo proposito mi ha colpito un articolo in cui si scrive giustamente che  bisogna aspettare l’autopsia per capire realmente come è morta la bimba. Si ipotizza che sia morta di stenti, ma visto che accanto a lei c’era una boccetta di sedativo è doveroso approfondire. Questo mi porta a ribadire che dietro l’intenzionalità cosciente c’è una intenzionalità non cosciente di eliminare questa bambina. E questa è l’anaffettività. 

La madre, i vicini, la sorella, il compagno, l’ex marito che vive nello stesso palazzo… possibile che nessuno si sia accorto di questi abbandoni ripetuti e della gravità di quello che stava accadendo?
Oltre a quello che abbiamo già detto, una donna che partorisce in casa, che , come riferiscono molti giornali, non si accorge di essere incinta fino al settimo mese di gravidanza, oggi come oggi è impensabile. Anche questo è inquietante e sintomatico di assenza di rapporto con la realtà e dunque di malattia. Spero che casi come questo almeno “servano” per alzare il livello di attenzione diffusa nella società.

Sì ma come è possibile che nessuno abbia mai colto i problemi di questa donna? Certamente non sono emersi all’improvviso. C’è modo di prevenire fatti del genere?
Va detto che l’Italia da questo punto di vista è ancora molto indietro. Ci sono Paesi europei che affidano una nurse alla donna che ha partorito, fornendo per giorni o settimane un servizio di assistenza a carico dello Stato. Qui da noi ancora non si accetta l’idea che l’istinto materno non esiste e che la maternità, la nascita di un figlio per l’essere umano, sia una situazione complessa sulla quale va alzato il livello massimo di attenzione sia nei confronti della madre che del contesto familiare e sociale. Dobbiamo aspettare che casi del genere diventino sempre più frequenti per farlo? Io spero di no. 

Peraltro due figlicidi al mese non è che siano pochi…
Le statistiche che si leggono probabilmente sono anche al ribasso perché chissà quanti casi di morti in culla rientrano nell’ambito dei figlicidi. All’estero le morti da soffocamento dei neonati sono oggetto di studio in diverse università e non c’è ancora certezza che non siano conseguenza di un omicidio. 

Quello che traspare dalle sue parole è che si tratti di un problema di ordine culturale. Quale considerazione si ha in Italia nei confronti della realtà umana del bambino?
Per farsi un’idea basti pensare che lo ius corrigendi – cioè il diritto del padre di usare mezzi di correzione e di limitare in vario modo la libertà dei figli anche ricorrendo alla forza fisica – è ancora in vigore per i figli fino alla maggiore età. Cioè è stato abolito per la moglie ma non per i figli minori. E nel caso in cui ci si trovi di fronte a incidenti, il reato che viene riconosciuto è molto spesso l’eccesso di mezzi correttivi. E questo è assurdo. Si giustifica la violenza nei confronti del bambino. C’è da fare un grande lavoro soprattutto culturale è impressionante quanto siano poco tutelati.

Shirin Neshat e il sogno di Simin

Videoartista, regista, fotografa, talento poliedrico, Shirin Neshat da anni porta avanti una sua originalissima ricerca visiva sui temi dell’esilio, dello sradicamento, dell’identità femminile, creando immagini poetiche di «una bellezza che non lascia scampo».

Basta pensare al potente bianco e nero e ai versi della poetessa iraniana Forough Farrokhzad, scritti a mano sulla pelle che contrassegnano il progetto Le donne di Allah (1993-1997) che l’ha fatta conoscere in tutto il mondo.

Pensiamo anche a film visionari come Uomini senza donne e, soprattutto, al recente The land of dreams – capolavoro cinematografico scritto con Jean-Claude Carrière e Shoja Azari – in cui racconta di una giovane donna, come lei di origini iraniane, che il Census spedisce a casa della gente per registrare i loro sogni come forma di controllo sociale; compito che Simin svolge in maniera silenziosamente eversiva.

Ma prima di parlare di questa affascinante protagonista dell’ultimo lungometraggio di Shirin Neshat, che abbiamo raggiunto per telefono a Strasburgo dove sta ultimando le prove di Aida, parliamo di un’altra importante figura femminile: quella della protagonista dell’omonima opera di Giuseppe Verdi.

Aida è un’opera che parla di guerra, di esilio. Shirin Neshat, lei ha approfondito molto questi aspetti nell’allestimento che ha debuttato nel 2017 con Muti sul podio. Possiamo dire che la sua è una lettura fortemente politica di questo classico verdiano?
Aida è un’opera molto interessante e complicata. In un certo senso è una celebrazione delle guerre, della brutalità. Ma al tempo stesso è un’opera che parla di amore. Mi colpiscono molto il dilemma dei protagonisti, le questioni esistenziali sottese alla trama, ma anche il peso della religione, della dittatura, delle armi, dell’invasione e la sofferenza che genera. Nel mio lavoro mi sono spesso occupata di tematiche simili. Specialmente da un punto di vista femminile. E Aida ci parla di una donna intrappolata in più mondi. Sì, è vero, la mia lettura è molto politica. Si parla di un tema purtroppo attuale, la guerra, ma è molto importante per me leggere tutto questo dal punto di vista della vita delle persone. Aida è un’opera che ci interroga anche su questo. Come possiamo sopravvivere in tempo di guerra e violenza come esseri umani?

Si rivede in Aida in un certo modo?
Tutti i protagonisti qui sono importanti e davvero tragici. Aida è una donna costretta all’esilio, è dilaniata, divisa fra l’amore per uomo che ha invaso il suo Paese e l’amore per la terra natia. Ovviamente io non mi trovo in quella situazione. Però sono una donna che vive in esilio, divisa fra l’appartenenza al mio Paese di nascita, l’Iran, e un nuovo Paese, gli Usa, che mi ha dato una possibilità, ma che è anche ingabbiato nelle contraddizioni del suo presente e del suo passato, indelebilmente segnato dall’aggressione dei coloni ai nativi americani.

Veniamo a Simin, l’esile e magnetica protagonista di The land of dreams, (presentato a Firenze da Lo schermo dell’arte 2021). Nel film la ragazza dice di essere nata a Cincinnati, ma è un’immigrata. Come molti immigrati in America è il sangue della nazione, ma non viene riconosciuta. Colpisce che negli States gli immigrati siano chiamati dreamers, ma poi…

Il mio film è un po’ una parodia, una satira proprio di tutto questo, fin dal titolo, Land of dreams, terra dei sogni.  In un certo senso l’identità degli Stati Uniti è sempre stata quella di dare una chance a tutti i dreamers per un nuovo inizio. Io stessa ne sono stata un esempio tipico. Sono un “prodotto” della rivoluzione iraniana, ho tagliato i ponti con il mio Paese, con i miei familiari, per sfuggire alla dittatura. Ho dovuto cercare di farmi strada come giovane donna in un Paese straniero. Ti puoi realizzare come individuo, questo gli Usa lo permettono. Simin è un po’ come Aida combattuta internamente fra passato e presente. Il suo passato e la violenza la inseguono.

Il padre di Simin che vediamo all’inizio del film in una terra desolata, è stato giustiziato.

Il passato di Simin è molto duro e pesante, lei è come disconnessa dal presente. Vive in un Paese adottivo ma fa fatica a integrarsi nella vita americana. Per molti versi vive solo nella sua immaginazione. Quando ti trovi a crescere fra due culture hai il vantaggio di svilupparne una terza. Simin, come molti di noi, non è “pura”, è un ibrido, così appare agli occhi degli altri. Lei stessa si sente divisa fra memorie del passato e la realtà presente in cui vive, ma a cui non riesce del tutto a rapportarsi.

Ma proprio per questo suo vivere di spigolo riesce a gettare uno sguardo nuovo sugli Stati Uniti denunciando uno Stato paranoico che attraverso un censimento cerca di controllare i sogni dei suoi cittadini. Perché lo Stato americano ha così paura delle minoranze, delle donne, degli artisti?

Come nel caso di Aida, anche questo personaggio deve affrontare un intero mondo di istituzioni politiche e religiose soverchianti. The land of dreams racconta la storia di Simin, ma anche una storia molto più grande che va al di là di lei. Il film è ovviamente una favola distopica, ma illumina un’America che diventa sempre più sospettosa verso i cittadini, che si sente minacciata dal loro inconscio, dalla loro immaginazione. Per questo impone un regime di sorveglianza e controllo. Certo non ce lo saremmo aspettati dagli Usa, che nell’immaginario sono sempre stati il Paese della democrazia. Ma gli States si stanno trasformando in uno Stato autoritario, governato da dittatori. Lo racconto come licenza artistica. Ma non possiamo non pensare a quanto è successo con Trump. Non possiamo non pensare a quanto deliberato dalla Corte suprema contro l’aborto e sul climate change in chiave negazionista. In questa prospettiva, le persone hanno sempre meno potere sulla propria vita e l’istituzione ne ha sempre di più. The land of dreams è una black comedy ma ci racconta cosa potrebbe accadere in futuro in America.

Con Women of Allah lei ha espresso una forte critica al fondamentalismo religioso che è diventato di Stato dopo la rivoluzione in Iran, cancellando l’identità delle donne. Qualcosa di simile rischia di accadere negli Usa, con l’avanzata delle Chiese evangeliche? Uno spezzone di The land of dreams mostra giovani donne asservite a un grottesco predicatore.

Si è vero, ai miei esordi con Le donne di Allah volevo raccontare l’oppressione religiosa che d’un tratto incombeva sulla società iraniana. Raccontavo come il regime degli ayatollah controllasse i cittadini cercando di forzarli ad essere religiosi osservanti, spazzando via i valori laici della società persiana, opprimendo le persone. Ciò che oggi dovrebbe spaventare è che gli Usa assomigliano sempre di più all’Iran. Mi sembra ogni giorno più chiaro. Il fondamentalismo è arrivato fino alla Corte suprema. La sentenza che rende illegale l’aborto a livello federale è frutto di una ideologia religiosa molto pervasiva negli Usa. Dopo molti anni di vita negli Usa, penso di aver acquisito il diritto di poter esprimere una critica, anche perché ho passato più anni della mia vita negli Usa che in Iran. Penso che sia importante vedere gli Stati Uniti per quello che sono, non solo attraverso il filtro del mito che li rappresenta come regno della libertà, della democrazia, dell’autodeterminazione. Come in Iran, purtroppo le persone non hanno più la possibilità di scelta e questo è spaventoso.

«I sogni sono innocenti», dice Mark nel film. Tutti gli esseri umani sognano. Il linguaggio per immagini dei sogni è universale. È questa capacità di immaginare e di sognare che ci rende uguali dalla nascita?

È molto interessante questa prospettiva. Quello che penso è che di notte riusciamo ad esprimere ciò che ci muove più nel profondo, anche ciò che ci mette in ansia, ciò che ci agita, ciò che temiamo. Le persone hanno paura della violenza, della morte, della separazione, dell’abbandono, e non importa se sei italiano, iraniano, statunitense, ucraino, quando dormiamo affiorano anche le nostre ansie, le preoccupazioni a cui cerchiamo di non pensare durante il giorno. Raramente faccio bei sogni! Ma il bello dei sogni è che rappresentano dimensioni umane universali, non specifiche di una cultura o di una determinata epoca. Io sono una iraniana che lavora in Occidente e cerco di comunicare sia all’Oriente che all’Occidente. Quando tocco il tema del sogni mi accorgo che è un tema che valica le barriere, i confini. I sogni non hanno bisogno di traduzione, attraversano il tempo.

Nel libro Il terzo Reich dei sogni (Mimesis) Charlotte Beradt narra che persone rinchiuse in un lager si raccontavano sogni per restare vivi, per non perdere la propria identità umana. Su Left ne ha scritto lo psichiatra Domenico Fargnoli, che ha studiato a fondo questo tema.

È meraviglioso, non sapevo nulla di questa storia, cercherò il libro di Beradt!

Ancor più l’arte è un linguaggio universale fatto di immagini che superano le barriere?

Esattamente! E il vantaggio che ho come artista nomade fra varie culture è che io non parlo solo a un certo tipo di persone. Parlo dell’Iran, ma parlo del mondo. Questa è la differenza fra un artista nomade come me e persone che vivono sempre nel loro Paese, che non si spostano mai da lì non solo fisicamente, ma neanche mentalmente.

L’arte può svolgere un ruolo nel superare la crisi che stiamo vivendo?

Viviamo in tempi molti difficili, la pandemia, la guerra, il dramma dei rifugiati, la fame e la carestia che incombono nei Paesi africani. Penso che l’arte sia più importante di sempre, comunica e dà un significato alla nostra lotta. Come artista penso che non abbia senso pensare l’arte oggi come un fatto meramente estetico. Le persone cercano contenuti. È un momento duro, carico di pessimismo, io penso che l’arte possa offrire una visione, una apertura “ottimista”. Penso che sia un momento importante per esprimersi come artista. Cerco di dare il mio contributo, non sempre riesco a raggiungere il massimo dell’espressione, but I dream my best.


*
In foto, un fotogramma del film “The land of dreams” di Shirin Neshat

L’intervista prosegue su Left del 22-28 luglio 2022 

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Brasile, la carica delle candidate di sinistra

Indigenous women of the Xingu tribe sing ritual songs during the big march of the annual three-day campout protest known as The Free Land Encampment, to protest what they see as rollbacks of indigenous rights under President Jair Bolsonaro, in Brasilia, Brazil, Friday, April 26, 2019. Before becoming president, Bolsonaro promised that if he were elected, "not one more centimeter" of land would be given to indigenous groups and likened indigenous people living in reserves to caged animals in zoos. (AP Photo/Eraldo Peres)

Secondo l’Istituto brasiliano di geografia e statistica (Ibge), più della metà della popolazione brasiliana (51,13%) è costituita da donne che rappresentano il 53% dell’elettorato ma che, tuttavia, oggi occupano meno del 15% delle cariche elettive. Per trovare il Brasile nel Global gender gap report 2021 (rapporto del World economic forum), si devono scorrere 107 paesi su 156, a dimostrazione di un retrocesso storico che impedì, stroncò o sminuì la traiettoria politica di donne brillanti. 

Gran parte di questa arretratezza si deve al rifiuto e all’incapacità dei partiti di schierare o sostenere le candidature femminili. La politica ha messo in campo modalità a volte fantasiose nel tentivo di minare ogni sforzo istituzionale volto a colmare il divario tra uomini e donne nella rappresentanza politica.

Per legge i partiti dovrebbero schierare almeno il 30% di candidature femminili e a loro destinare un’identica proporzione di finanziamento pubblico (Fundo eleitoral). Ad esempio, se una sigla di uno schieramento candida il 50% di donne, queste avranno diritto a 50% del finanziamento statale per promuovere la loro piattaforma politica. Benché questo meccanismo sia regolato dalla legge, secondo i dati pubblicati dal Tribunal superior eleitoral (Tse), nelle presidenziali del 2018, in cui l’intero parlamento venne rinnovato, oltre la metà dei partiti del Paese erogò…

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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Umano, non umano e disumano

Senza alcuna intenzione didattica, un film degli anni Cinquanta del secolo scorso, La fontana della vergine di Ingmar Bergman, presenta una specie di compendio sul tema dell’umano-troppo umano-disumano. Ci porta nel primo Medioevo scandinavo, semi pagano, e nel podere di un signorotto feudale che ha una bella figlia adolescente. Umanissima e toccante è la gioia di vivere di questa ragazza spensierata; “troppo umana” forse la sua insensibilità nel descrivere il proprio futuro radioso alla giovane serva, per nulla fortunata e presa da una invidia feroce che il film racconta in modo magistrale. Lasciamo definitivamente l’ambito del “troppo umano” per entrare in quello del disumano quando la ragazza, viaggiando da sola nel bosco, s’imbatte in un gruppetto di delinquenti. Essi la uccideranno dopo averla stuprata e il loro fratello più piccolo, ancora un bambino, assisterà sconvolto e terrorizzato al crimine.

Nel secondo atto del racconto domina il padre della ragazza che per circostanze fortuite si trova con gli assassini della figlia in casa. La vendetta, come forma arcaica di giustizia, prenderà il suo corso ritualizzato: il padre li ucciderà nel sonno. Ma anche lui arriverà alla disumanità manifesta quando, nel suo furore gelido, non risparmierà neppure il fratellino innocente. Un’umanità conservata invece dalla moglie che invano implora il marito di risparmiare il bambino.

Prima di cercare di circoscrivere meglio questi termini intuitivi ma vaghi – umanità, negatività umana, disumanità – vorrei riassumere un’obiezione avanzata qualche tempo fa da uno studente liceale. In una discussione a scuola, con notevole acume egli rilevò la natura paradossale del termine “disumano” aggiungendo che il concetto non aveva alcun senso. Come si può chiamare un’azione dis-umana, disse, se è stata compiuta da un essere umano? Quando un cavallo si comporta in modo strano, lo consideriamo un animale difficile, pazzo, pericoloso, quello che volete, ma mai come un cavallo disequino! In analogia, per quanto atroce possa essere quel che una persona ha fatto, sarà sempre un’azione umana, appartiene alle possibilità comportamentali della nostra specie. Perciò, concluse lo studente, parlare di disumano è solo una manovra difensiva di noialtri per sentirci al riparo da crimini terribili – perché essi non sarebbero proprio nelle nostre corde.
Eccoci serviti, con una logica cristallina. Tuttavia forse c’è qualche possibilità di replica. Le lingue hanno una loro saggezza e difficilmente è un caso che molte lingue europee – non posso parlare delle altre – differenzino tra non-umano e disumano. Un cane o un gatto sono non-umani, ma solo un essere umano può essere disumano. Può mettere in atto qualcosa che esprime quella stortura grave, quel fallimento nell’essere veramente essere umani che…

*L’autrice: Annelore Homberg è psichiatra e psicoterapeuta, presidente del Network europeo per la psichiatria psicodinamica Netforpp Europa-Ets.

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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Non sono fascisti ma

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 18-02-2014 Roma Politica Camera dei Deputati - Consultazioni del Presidente del Consiglio incaricato Matteo Renzi Nella foto Ignazio La Russa, Giorgia Meloni, Guido Crosetto Photo Roberto Monaldo / LaPresse 18-02-2014 Rome (Italy) Chamber of Deputies - Matteo Renzi start the consultations to form a government In the photo Ignazio La Russa, Giorgia Meloni, Guido Crosetto

Da quando si è costituito, nel 2012 – potremmo dunque dire fin dall’inizio – il partito Fratelli d’Italia, fondato da Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto, in uscita dal Popolo della libertà guidato da Silvio Berlusconi, ha intrattenuto rapporti non occasionali e alla luce del sole con formazioni neofasciste. Si pensi ad alcuni eventi nei suoi primi anni di vita, pressoché ignorati, anche visti i modesti risultati elettorali che la nuova formazione conseguiva. Nelle elezioni politiche del 2018 FdI poteva contare sul 4,3% delle preferenze alla Camera e sul 4,26% al Senato, ben lontano dai fasti attuali e dai sondaggi di questi giorni che ormai lo indicano stabilmente come il primo partito nelle preferenze degli italiani. Durante la festa del partito che si è tenuta nell’ottobre dello stesso 2018, a Milano, furono invitati come relatori il segretario nazionale di Forza nuova, Roberto Fiore, e un esponente dell’associazione Memento, impegnata nel far rivivere il ricordo degli squadristi fascisti degli anni Venti, nonché quello dei caduti repubblichini nel Secondo conflitto mondiale. Un’associazione legata a Lealtà azione, il raggruppamento nato da una costola del circuito neonazista degli Hammerskins, che tra i propri riferimenti “ideali” annovera Léon Degrelle, ex generale delle Waffen-Ss, giudicato nel dopoguerra come criminale di guerra, e Corneliu Codreanu, il fondatore della Guardia di ferro rumena, distintasi tra gli anni Trenta e Quaranta per i suoi spaventosi pogrom antiebraici e la sua collaborazione con i nazisti. 

Nelle viscere del partito

Da allora è stato un continuo crescendo, fino ai giorni nostri, non solo di relazioni intrattenute con esponenti della destra neofascista, su cui torneremo, ma di episodi in cui a manifestare il proprio credo estremista sono stati gli stessi dirigenti e militanti del partito. Ne citiamo tre emblematici assai recenti: l’omaggio pubblico a Verona (marzo 2021) da parte di Gioventù nazionale, ovvero i giovani di FdI, proprio a Léon Degrelle; la presentazione da parte della sezione locale di FdI a Civitavecchia (novembre 2021) di un libro apologetico in favore di Rodolfo Graziani, il generale italiano massacratore di migliaia di etiopi nel 1937, poi comandante dell’esercito di Salò; il voto decisivo in Consiglio comunale a Carpi, in provincia di Modena (aprile 2022), per impedire la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Fatto in verità non unico e isolato. Ma soprattutto sono state le esternazioni di diversi candidati nelle elezioni parziali amministrative del 2021 ad aver mostrato ciò che vive nelle file di questo partito in termini di nostalgia del Ventennio. Candidati, come hanno riportato le cronache dei giornali, che…

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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Il governo dei Migliori non è stato il migliore dei governi

Foto Mauro Scrobogna /LaPresse 23-03-2022 Roma, Italy Politica Camera Deputati - Comunicazioni del Presidente del Consiglio dei ministri in vista della riunione del Consiglio europeo del 24 e del 25 marzo 2022 Nella foto: Il Presidente del Consiglio Mario Draghi Photo Mauro Scrobogna / LaPresse March 23, 2022 Rome, Italy Politics Chamber of Deputies - Communications from the President of the Council of Ministers in view of the European Council meeting on 24 and 25 March 2022. In the photo: Prime Minister Mario Draghi

Qualunque sia l’esito della crisi dell’esecutivo, non ancora definita mentre scriviamo, credo che non ci sia migliore occasione di questa per una riflessione non superficiale sul presidente Mario Draghi e il suo governo. Ma prima di entrare nel merito delle scelte dell’esecutivo, non si può sfuggire a una considerazione di carattere generale. L’ex presidente della Bce alla guida del Paese mostra una tendenza allarmante di subordinazione diretta della democrazia ai poteri della grande finanza. L’Italia, il più fragile degli Stati europei sul piano degli assetti politici, è da sempre un laboratorio sperimentale delle degenerazioni istituzionali delle società capitalistiche. Con Berlusconi abbiamo assistito, primo caso al mondo, al governo diretto dell’esecutivo da parte di un imprenditore mediatico. Con Mario Monti il potere finanziario è venuto a imporci le condizioni della politica di austerità di Bruxelles e ora, con esemplare tempismo, appena ottenuto dal governo Conte l’ingente finanziamento del Pnrr, lo stesso e più autorevole potere – con l’aiuto interno di Matteo Renzi e del presidente della Repubblica – lo strappa a quello legittimo per assicurarlo nelle mani che, secondo gli interessi egemoni, devono dominarlo.

La rappresentanza politica, il governo, il Parlamento, il volere dei cittadini italiani vengono umiliati da una manovra di palazzo e in tanti plaudono, attenti alla loro borsa e senza un’ombra di perplessità per ciò che accade alla democrazia, alle istituzioni della Repubblica.
Credo che non ci sia viatico migliore per un bilancio dei 516 giorni del governo di Mario Draghi (dall’insediamento alle dimissioni respinte, ndr) del saggio di Tomaso Montanari, Eclissi di Costituzione. Il governo Draghi e la democrazia, pubblicato di recente da Chiarelettere. Un libretto di analisi circostanziata, tersa, implacabile, una vera lezione di pensiero critico, che mostra errori e miserie dove la grande massa dei commentatori vede mirabilia e ragioni di fervoroso giubilo. Montanari prende in considerazione gran parte delle scelte effettuate dal presidente del Consiglio e sottopone ad esame le varie riforme varate dal governo in questi mesi.

Per brevità non mi soffermo sulle scelte di fedeltà atlantica espresse da Draghi, in merito all’invasione dell’Ucraina da parte di Putin. Posture belliciste che mostrano un finanziere così pronto alla guerra da svelare con quale sollecitudine il potere dei soldi è disposto a trasformarsi in potere bellico per difendere gli interessi che incarna e che rappresenta. Sono invece rilevanti e da rammentare le critiche che l’autore mostra alle varie riforme. Esaminiamo i prodigi realizzati dal governo dei Migliori nel campo della sanità, il settore più debole e travagliato, sconvolto da due anni da una pandemia nel cui vortice stiamo di nuovo rientrando. Ebbene, tutti ci saremmo aspettati, considerate le imponenti risorse messe a disposizione dal Pnrr, un…

L’articolo è tratto da Left del 22-28 luglio 2022 

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